Narciso in vinculis
Ho messo il mio genio nella mia vita, solo il talento nelle mie opere.
Oscar Wilde in una conversazione
con André Gide
Leggendo e rileggendo Wilde di anno in anno, noto un fatto di cui i suoi panegiristi non hanno forse avuto nemmeno il sospetto: il fatto elementare e facilmente verificabile che Wilde ha quasi sempre ragione.
Jorge Louis Borges
Il 3 aprile 1895, lo scrittore Oscar Wilde (l’altisonante nome completo, a dire il vero, suonerebbe Oscar Fingal O’Flahertie Wills Wilde, ma fin dai tempi dei suoi studi a Oxford ha imparato che tutti quei patronimici hanno un che di parvenu) scende davanti al Palazzo di Giustizia dell’Old Bailey da un incredibile brougham a due cavalli con un cocchiere in livrea e un valletto incipriato: indossa un lungo soprabito nero che snellisce la sua imponente figura ormai troppo massiccia e tiene fra le mani (curatissime, quasi femminili) uno strano, “impossibile” cappello a cilindro alto più di quaranta centimetri, di forma quasi conica. L’atteggiamento è – o vorrebbe essere – quello di chi è abituato a sentirsi ovunque e sempre al centro dell’attenzione, ma la faccia, di un pallore quasi cadaverico, è la stessa che ci ha tramandato il ritratto eseguito da Toulouse-Lautrec (il quale in quei giorni si trovava a Londra con il suo amico Joyant): «l’immagine livida e inquieta di un attore che non si sente a suo agio in una parte troppo giovanile e in cui la tristezza dello sguardo smentisce la boccuccia a cuore e i capelli tinti» 1.
Da qualche mese Oscar è al colmo della notorietà: acclamato, discusso, calunniato, sommerso da troppi complimenti (non tutti sinceri) e da troppi pettegolezzi (non tutti fondati): nella capitale si stanno addirittura rappresentando simultaneamente due sue commedie – An Ideal Husband e The Importance of Being Earnest, rispettivamente all’Haymarket e al Saint James Theatre, ambedue ogni sera con il “tutto esaurito” –, successo che da molti anni non è toccato a nessun autore; la sua conversazione melodiosa, le sue affascinanti favole, le sue perfide arguzie, i suoi scintillanti aforismi, le sue caustiche impertinenze sono da anni la settima meraviglia della high society londinese... Adesso, evidentemente fedele al suo motto «only the extraordinary survives» 2, ha denunciato per diffamazione l’ottavo marchese di Queensberry (il padre del suo inseparabile amico “Bosie”, ovvero il giovane Lord Alfred Douglas), il quale circa due mesi prima gli ha fatto recapitare all’Albermarle Club uno strano biglietto: la propria carta da visita con scritte dietro queste parole: «To Oscar Wilde posing as a sondomite» 3. Una provocazione intollerabile, anche perché le parole “posing as a” sono state palesemente aggiunte, come per un secondo pensiero, il che ne diminuisce la responsabilità legale senza nulla togliere all’insulto. E con un tale incredibile errore di ortografia, poi, spiegabile (se davvero di errore si tratta...) soltanto con uno di quegli accessi di pazzia furiosa che nel 1887 hanno fatto chiedere il divorzio alla povera Lady Queensberry...
Incurante di brusii e brandelli di frasi che gli giungono all’orecchio, Oscar avanza maestoso e disinvolto nella sua mirabolante tenuta: è la prima scena della grande rappresentazione. Pochi giorni prima, durante il recentissimo soggiorno sulla Costa Azzurra con Bosie (un calvario che non ha giovato né ai suoi nervi né alle sue finanze) deve aver di sicuro previsto anche l’eventualità di una disfatta, ma senz’altro come «un’abbagliante catastrofe», cominciando «a immaginare se stesso nel più gran ruolo della sua carriera» 4. Ruolo, certamente: «attore non nel senso professionale, ma nel senso più irreparabile di una diàtesi» 5, in fondo in fondo ce l’ha a morte con chi vuole privarlo di quella splendida parte: salvare il suo bellissimo dear boy dalla brutalità e dalla perfidia di un padre mediocre, odioso e indegno, pessimo genitore e pessimo marito... Ne vale davvero la pena? Bosie è un ragazzo capriccioso, viziato, incosciente, che dietro un viso incantevole e due ingannevoli occhi azzurri nasconde un carattere egoista e irascibile che a volte lo fa diventare cattivo, spesso volgare; ma Oscar sa che gli è indispensabile: è il suo Dorian Gray, colui che permette alla sua vita di contemplarsi nello specchio dell’arte appagandosi del proprio capolavoro: «anche se non si sente più affatto sicuro di sbarazzarlo del padre grazie al processo, immagina una felicità nella vergogna che li stringerà l’uno all’altro più di quanto non abbia fatto la prosperità» 6. Si sta comportando da imprudente? O, peggio ancora, da illuso?... Forse, ma un simile epilogo, comunque, prima o poi sarebbe stato inevitabile. Da grande equilibrista, adesso nel suo intimo saggia con un brivido di voluttà l’ampiezza del baratro. Alcuni giorni prima, a chi gli consigliava di andarsene all’estero per evitare quel processo che poteva rivelarsi una trappola, ha risposto: «Tutti vogliono che io vada all’estero. All’estero ci sono appena stato, e ora sono tornato di nuovo in patria. Non si può continuare ad andare all’estero, a meno che uno non sia un missionario oppure un commesso viaggiatore, che più o meno è la stessa cosa»... 7Probabilmente, se al club avesse avuto a fianco un amico, avrebbe stracciato quel biglietto ridicolo con una battuta di spirito; invece aveva convocato Bosie e il fedelissimo Robert Ross, e scortato dai due amici si era recato dall’avvocato Sir Edward Clark, il quale gli aveva subito chiesto: «Prima di rappresentarvi in questo processo, Mister Wilde, devo avere la vostra parola che siete del tutto innocente dell’accusa che vi viene mossa». «Lo giuro», era stata la pronta risposta dello scrittore, prigioniero suo malgrado, forse, dei pregiudizi di cui aveva riso fino a quel momento, o, più probabilmente, già annoiato e demoralizzato dalla maniera così poco “artistica” in cui viene amministrata la giustizia. Possibile che si debbano passare ore e ore nel grigiore di uno studio legale a dire «con la faccia seria menzogne serie a un uomo calvo, fino a sbadigliarne di noia»?... Quando, nel corso del processo, per divertire gli amici presenti in sala o per farsi un po’di coraggio nel momento in cui le cose cominceranno a prendere una piega spiacevole, infilerà qualche bella battuta di spirito, rimarrà seriamente stupito di trovarsi di fronte a dei giudici severi e a una giuria di borghesucci scandalizzati.
Ritratto di Lord Alfred Douglas a vent’anni (in alto) e una sua foto negli anni della maturità (in basso).
L’aula del tribunale è angusta e letteralmente gremita di pubblico, al punto che manca l’aria: l’unica cosa spaziosa sembra essere il massiccio banco degli imputati, su cui possono trovare posto una trentina di persone. La gente, eccitata da quello scandalo di cui mezza Londra fa una festa (siamo nell’Inghilterra vittoriana dove le signore svengono per una parola sconveniente ma dove non è poi troppo difficile trovare sottobanco libri come My secret life o qualche rivista come «The pearl») 8, bisbiglia, spettegola, commenta, sventolandosi con qualsiasi cosa per procurarsi un minimo di refrigerio. Wilde arriva seguito da Bosie, e quando è il suo turno di deporre sale tranquillo al banco dei testimoni, guardando con un indecifrabile sorriso il difensore di Queensberry, che per uno strano gioco del destino è Edward Carson, suo ex compagno di studi al Trinity College. Alcuni giorni prima, alla notizia che sarebbe stato Carson a interrogarlo, Oscar aveva commentato: «Senza dubbio eseguirà il suo compito con tutto quell’in più di acredine di un vecchio amico», ma in realtà quell’idea lo rende fiducioso perché ha sempre disprezzato quell’adolescente goffo e un po’ curvo che è diventato un uomo tutto naso e labbra, la cui voce conserva ancora lo stesso spiccato accento irlandese dei vecchi tempi... Oscar Wilde è rinato al Magdalen College di Oxford, cosa vuole da lui questo irishman?... 9A dire il vero, in un primo momento Carson aveva rifiutato d’impulso la causa: l’idea di doversi trovare contro una sua vecchia conoscenza dei tempi di Dublino gli ripugnava, ma Queensberry, sguinzagliando investigatori per tutti i bassifondi della galanteria prezzolata di Londra, era riuscito a stanare un’equivoca e sordida fauna composta da operai, lustrascarpe, mozzi di stalla e fattorini d’albergo ai quali Wilde ha offerto cene con champagne nei salotti riservati dei ristoranti alla moda. A questi renter (come vengono chiamati in gergo dai loro clienti abituali) 10viene chiesto di presentarsi al processo come “testimoni della regina”, il che significa che riceveranno il totale perdono di ogni reato purché rivelino le colpe dei loro complici, in questo caso quelle di Wilde e del loro lenone, tale Alfred Taylor, un figlio di famiglia completamente rovinato che a due passi da Westminster gestisce una casa piuttosto confortevole e molto compiacente... Tramite un attorucolo, tale Brookfield, saltano fuori anche lettere e biglietti compromettenti. L’accusa oggetto della diffamazione si basa dunque su precisi elementi di verità e, soprattutto, «è fatta nel pubblico interesse»: Carson, insomma, ha finito per accettare, e ora eccolo davanti a quell’uomo non più giovane, imbolsito, troppo tinto e troppo agghindato per il quale non ha mai provato un’eccessiva simpatia (e poi è quasi impossibile ravvisare in quella maschera il ragazzo di tanti anni prima), pronto a formulare la prima domanda.
Wilde esordisce brillantemente, ma con il piede sbagliato: declinando l’età, commette (per civetteria?...) la bambinata di ringiovanirsi di quasi tre anni. Carson lo guarda fisso negli occhi e poi chiede con calma11:
«Avete dichiarato di avere trentasette anni. Non siete nato il 16 ottobre 1856? Posate a essere giovane?»
«No».
«Non avete quasi quarant’anni?»
Oscar sospira, inarca leggermente le sopracciglia, fa un gesto vago con la mano: sembra voler rimproverare il suo interlocutore per l’eccessiva pignoleria e al tempo stesso rimpiangere con una punta di malinconia la passata gioventù. È l’inizio di una battaglia verbale memorabile: Wilde, da vero mattatore padrone della scena, con voce melodiosa, con parole squisite, ribatte punto per punto alle domande che l’altro gli pone con malevolenza sempre più palese. Pubblico e giurati vanno letteralmente in visibilio: nessuno ricorda di avere mai assistito a nulla di simile; è una situazione paradossale, incredibile, esilarante. Il grande commediografo alla moda sta recitando lui stesso, in modo incomparabile, il più arguto e scoppiettante dei suoi dialoghi. L’unico a rimanere freddo e impassibile senza apprezzare questo fuoco d’artificio è proprio Carson, che prosegue imperterrito con la sua voce un po’ nasale:
«...Cito dall’introduzione a Dorian Gray: “Non esistono libri morali o immorali. I libri o sono scritti bene o sono scritti male”. Rispecchia il vostro pensiero?»
«Il mio pensiero sull’arte, sì».
«Allora ne deduco che per quanto un libro possa essere immorale, se è scritto bene a vostro avviso è un buon libro?»
«Sì, se fosse scritto tanto bene da produrre un senso di bellezza, che è il senso più elevato di cui un essere umano sia capace. Se fosse scritto male, produrrebbe un senso di disgusto».
«Dunque un libro ben scritto che avanzi opinioni degenerate potrebbe essere un buon libro?»
«Nessuna opera d’arte avanza mai opinioni. Le opinioni appartengono a persone che non sono artisti».
«Un romanzo degenerato potrebbe essere un buon libro?»
«Non so cosa intendete per romanzo “degenerato”».
«Allora le suggerisco Dorian Gray come suscettibile di rientrare in tale definizione».
«Soltanto per dei bruti o degli illetterati. Le opinioni dei filistei sull’arte sono incalcolabilmente stupide».
«Un illetterato che leggesse Dorian Gray potrebbe ritenerlo un romanzo del genere?»
«Le opinioni degli illetterati sull’arte sono imprevedibili. Io mi occupo soltanto della mia opinione sull’arte. Me ne infischio di quello che pensano gli altri».
«La maggior parte delle persone rientrerebbe nella vostra definizione di filistei e illetterati?»
«Ho trovato meravigliose eccezioni».
«Ritenete che la maggior parte delle persone sia all’altezza del ruolo che ci state illustrando?»
«Temo che il loro grado di cultura sia insufficiente».
«Insufficiente per poter distinguere tra un buon libro e un cattivo libro?»
«Certo».
«Una persona comune potrebbe essere indotta a credere che l’affetto e l’amore dell’artista del Dorian Gray abbiano una certa tendenza?»
«Non ho alcuna conoscenza delle opinioni delle persone comuni».
«E voi non avete impedito alle persone comuni di acquistare il vostro libro?»
«Non le ho mai scoraggiate».
Insomma, Oscar Wilde è di scena, e dà un’incomparabile rappresentazione senza bisogno (non glielo aveva già detto Sarah Bernhardt?) di quei noiosi intermediari che sono gli attori: anche Bosie ha lo stesso sguardo sbalordito ed entusiasta dei loro primi incontri, di quando le loro serate al Savoy o al Café Royal altro non erano che il naturale proseguimento delle commedie di Oscar...
È Lionel Johnson (uno dei giovani poeti decadenti che in quegli anni intendono plasmare la propria vita sul modello di Marius, the Epicurean di Walter Pater, di cui è uno degli allievi prediletti) 12a condurre nel 1891 Alfred Douglas13 – suo compagno di studi prima a Winchester, poi a Oxford – nell’elegante casa in Tite Street dove Wilde abita con la moglie Constance e i figli Cyril e Vyvyan. La vita imita l’arte: The Picture of Dorian Gray è appena stato pubblicato, ed entrando nel suo «studio rosso e giallo» per ricevere gli ospiti (l’arredamento è stato curato da Godwin) 14lo scrittore vede davanti a sé, vivo e vero, il protagonista del suo romanzo che gli sorride con un misto di ammirazione e timidezza nello sguardo ceruleo. Osserva Philippe Jullian: «Per un grande artista, Nemesi lavora con un orario impeccabile, non uno scarto, non perdite di tempo, non esitazioni. La catastrofe avviene nella forma che spesso il poeta ha esorcizzato nei suoi racconti, tutto accade senza che intervenga il volere degli interessati. Fin dal primo giorno, Oscar-Amleto ci sembra spettatore più che attore della sua tragedia. La presentazione del ragazzo non deve nulla al caso, è concertata, inevitabile: necessità vuole che lo studente più in vista di Oxford incontri lo scrittore più famoso di Londra» 15. Bosie (chiederà subito a Wilde di chiamarlo così) è cresciuto circondato da un vero e proprio stuolo di bambinaie, governanti, cameriere, tra l’esagerata tenerezza della madre, le sregolatezze e l’assenza del padre, la severità eccessiva dei collegi; ora ha ventun anni ed è un adolescente flessuoso e apollineo dai grandi occhi azzurri e i capelli color miele: ha già pubblicato qualche poesia dove fa mostra di un gusto ricercato e prezioso che è la nuova veste degli esteti. È intelligente, capriccioso, esuberante, insolente: porta uno dei nomi più illustri d’Inghilterra e si comporta come un semidio al quale ogni cosa è dovuta16. Sa di poter ottenere tutto con un sorriso, e se questo non dovesse bastare alle sue bizze e alla sua civetteria, a volte è disposto a concedere anche altre “familiarità”, purché non si superino certi limiti e non se ne parli troppo in giro. Oscar-Narciso per il quale nessun cosmetico è troppo fine e nessun profumo troppo acuto, Oscar-Cristo dalle mille strabilianti parabole, Oscar-diva di equivoci boys che ha sempre saputo «di poter incantare i torpidi inglesi con la sua parlantina» 17stringe il ragazzo in un assedio abile e paziente: ne è indubbiamente attratto e vuole, sì, divenire l’amante di Bosie, ma al tempo stesso anche l’amante di Lord Alfred Douglas, figlio dell’ottavo marchese di Queensberry, perché nel suo intimo, nonostante lo spirito mordace e gli sfolgoranti aforismi, è rimasto un provinciale e uno snob... Si frequentano da sei mesi quando una sera, dopo una replica di Lady Windermere’s Fan e la solita cena al Café Royal, Oscar porge all’amato un foglio su cui è vergato un sonetto che inizia con il verso «The sin was mine; I did not understand»... 18. Quella sera Bosie resterà a dormire dal suo amico, e fin dal giorno seguente Wilde ostenterà la loro relazione al di là di ogni più elementare prudenza, con un’incontrollata, vertiginosa attrattiva del rischio; quello stesso rischio che sfiora di continuo, sempre più temerariamente, nelle sue commedie, da cui sorridono e civettano irresistibili dear boys che corteggiano distrattamente pupattole agghindate come stupidi ornamenti da salotto mentre vecchie rispettabili dame che «hanno la comicità sghignazzante dei travestiti» 19snocciolano idiozie irresistibili tra un confident e un abat-jour... Commedie che possono ricordare Marivaux (Wilde commediografo è un uomo del Settecento), dove le “convenienze” sono rispettate così bene che si dovrà attendere André Gide per avere il dubbio di una qualche figure in the carpet che potrebbe esserci sfuggita, il sospetto che un certo “estetismo d’accatto” dello scrittore altro non sia che «un rivestimento ingegnoso al fine di nascondere, rivelandolo soltanto a metà, ciò che non poteva esporre alla piena luce del sole, per scusare, celare sotto un pretesto, anche motivare in apparenza, ma che poi anche questa stessa apparenza non sia che una finta. Considerate da questa angolatura, illuminate per così dire dal di sotto, le commedie wildiane lasciano apparire, accanto a sprazzi verbali scintillanti come gioielli falsi, una quantità di frasi stranamente rivelatrici. Per queste ultime, di sicuro, Wilde scrisse l’intera commedia» 20. In altri termini, «cercando di far capire a qualcuno cose che si ha interesse di nascondere a tutti», Oscar, più che fare confidenze a mezza bocca sui propri gusti, rivela, inconsciamente, ciò che turba nel profondo la sua vita: la paura (che a volte si identifica con il desiderio) dello scandalo... Ha ragione Franco Buffoni: «sbalordire i borghesi, frastornarli, sfidarli disprezzandoli esplicitamente, ma sapendo di non poter fare a meno della loro curiosità, del loro avido interesse» 21: questa è la sua grande forza e, insieme, la suprema debolezza che lo perderà.
Carson non demorde; anzi, più passano i giorni più sembra accanirsi, come se i fatti lo riguardassero personalmente. Wilde adesso gli sta rispondendo con l’aria leggermente stupita di chi non riesce a capire bene di cosa si stia parlando e soltanto per educazione, per good breeding, si trattiene dal dare all’altro dell’imbecille. Com’è zelante quel piccolo leguleio, come prende tutto pedestremente sul serio! Poco fa è andato a riesumare quelle quattro sciocchezze che sono apparse su The Chameleon, quella rivistina di studenti, dove è uscito anche un racconto men che mediocre, The Priest and the Acolyte, che alcuni sono tanto pazzi da credere suo... Figurarsi!... E ora, come se non bastasse, Carson si è messo a rovistare in Dorian Gray riga per riga, simile a un cenciaiolo che fruga tra le immondizie. Ha appena finito di leggere alcuni passi dal romanzo e chiede:
«Vi sembra che questo brano descriva il naturale sentimento di un uomo verso un altro uomo?»
«Vuol essere l’effetto di una bellissima personalità».
«Una bellissima persona?»
«Ho detto “bellissima personalità”. Potete descriverla come vi pare, ma quella di Dorian Gray era una personalità davvero straordinaria».
«Posso ritenere che voi, come artista, non avete mai conosciuto il sentimento che viene qui descritto?»
«Non ho mai permesso ad alcuna personalità di dominare la mia arte».
«Ma analizziamo ogni singola frase: “Confesso pienamente che ti adoravo alla follia”. Come commentare parole del genere? Avete mai adorato un giovane alla follia?»
«No, non alla follia. Preferisco l’amore – è una forma più alta».
«Lasciamo perdere certe cose. Limitiamoci al livello dove siamo ora».
«Non ho mai adorato nessuno tranne me stesso».
«Suppongo lo riteniate una cosa molto intelligente».
«Niente affatto».
«Quindi non avete mai provato un sentimento del genere?»
«No. Il concetto, mi rincresce dirlo, è ripreso da Shakespeare... sì, dai sonetti di Shakespeare».
«Non avete scritto un articolo, mi sembra, per dimostrare che dai sonetti di Shakespeare traspare un vizio innaturale?»
«Al contrario, ho scritto un articolo per dimostrare che non è così».
«“Ti ho adorato in modo esorbitante”. Intendete dal punto di vista finanziario?»
«Oh, sì, finanziario».
«Vi pare che stiamo parlando di finanza?»
«Non lo so di cosa state parlando».
Il pubblico rumoreggia in preda alle risa: trovarsì lì è meglio di qualsiasi serata a teatro. Quale attore ha mai posseduto un talento del genere? Chiunque altro, ad esempio, vestito così sembrerebbe un pagliaccio, ma quell’imponente, pazzesco signore riesce a incutere un curioso rispetto: di certo, non è un uomo qualunque, anche se basta guardarlo per dubitare fortemente della sua innocenza.
Ora Carson sta leggendo con aria inorridita, typically victorian, una lettera indirizzata a Lord Douglas. Torce la bocca con una smorfia schifata e domanda:
«Perché mai un uomo della vostra età si rivolgerebbe a un ragazzo di quasi vent’anni più giovane chiamandolo “my dear boy”?»
«Gli volevo bene. Gli ho sempre voluto bene».
«Lo adorate?»
«No, ma mi è sempre piaciuto. È una bella lettera, credo, è una poesia. Non intendevo scrivere una comune lettera. Tanto varrebbe che mi interrogaste sulla decenza del Re Lear o di un sonetto di Shakespeare».
«E al di fuori dell’arte, Mister Wilde?»
«Non posso rispondere al di fuori dell’arte».
«Supponiamo che un uomo che non fosse un artista avesse scritto quella lettera, direste che era una lettera decorosa?»
«Un uomo che non fosse un artista non avrebbe potuto scrivere quella lettera».
«Perché?»
«Perché solo un artista potrebbe scriverla. Di certo, nessuno che non fosse un uomo di lettere potrebbe usare quel linguaggio».
«Posso osservare, giusto ai fini della vostra reputazione, che non c’è niente di mirabile in questo “rossi petali di rosa le tue labbra”?»
«Dipende molto da come lo si legge».
«“La tua sottile anima dorata oscilla tra passione e poesia”. È una bella frase, questa?»
«Non come la leggete voi, Mister Carson. La leggete molto male».
«Vi sembra questa una lettera normale?»
«Mi sembra una lettera bella e poetica».
«Siete solito scrivere lettere simili ai vostri amici?»
«Non ho mai scritto ad altri nello stesso tono, e nemmeno a Lord Alfred, perché non sono solito ripetermi».
«Ammetterete almeno che è una lettera fuori dell’ordinario?»
«Ma tutto quello che io scrivo è fuori dell’ordinario! Io non mi sono mai dato arie da uomo ordinario, santo cielo!»
Con questa ammissione di Wilde – pronunciata in tono roboante – si chiude la prima udienza. Sipario. Intervallo. Oscar esce dal tribunale circondato dagli amici sorridenti che gli stringono la mano e si felicitano con lui come a una première. Nessuno immagina che stavolta, contrariamente alle regole, il primo atto sarà il solo a essere così divertente.
Oscar, dunque, trionfa. Si sente tranquillo e sicuro: tutto proseguirà come sempre: i tavoli del Café Royal, tra specchi, cariatidi dorate, lampadari di Boemia, divani ricoperti di velluto rosso “molto Secondo Impero” continueranno a essere il suo quartier generale, ideale cornice per il profeta dell’estetismo e per i suoi disciples of the green carnation22, attenti lettori di Dorian Gray come pure, c’è da crederlo, del rarissimo e clandestino Teleny (duecento copie distribuite “confidenzialmente”), tanto più esplicito ed eccitante, di cui il Maestro parla con un sorriso ambiguo (c’è chi sostiene che il libro sia stato ideato da lui e composto a più mani, una specie di audace gioco tra iniziati, depositando a turno il manoscritto presso la Librairie Parisienne di Charles Hirsh), negando senza nulla smentire, anche se da un po’ alcune voci circolano con sempre maggiore insistenza, accusandolo di esperienze ben più turpi di quelle descritte nel romanzo... Oscar non se ne cura. Anzi, si diverte e alimenta i pettegolezzi, al di là di ogni elementare prudenza. Ma tutto questo non deve stupire. Come osserva Franco Cuomo, «Wilde era solito lasciare tracce vistose dei propri “peccati”, godendo più nel rendere evidenti le sue trasgressioni che nell’atto stesso del trasgredire» 23. Lo dimostreranno le prove che verranno tra poco esibite contro di lui: portasigarette d’oro e lettere compromettenti lasciate sbadatamente in giro (come la famosa lettera a Bosie, oggetto di molteplici ricatti, ritrovata da un certo Wood «nella tasca di un cappotto») o biglietti galanti indirizzati a giovinastri di palese vocazione criminale. E lo confermano le sue stesse parole: «Certe cose sono più divertenti a raccontarsi che a farsi»; o, più esplicitamente: «È come giocare con le pantere: metà del piacere sta nel rischio». Anche il marchese di Queensberry fa parte di questo gioco: servirà a rafforzare la sua aureola e a legarlo ancora più strettamente a Bosie... Insomma, «forte di un successo personale che parrebbe consentirgli qualsiasi libertà», Oscar continua la sua sfida nei confronti della società vittoriana, e «inconsapevolmente costruisce – credendo di costruire la propria “torre d’avorio”, come la chiama – il castello degli elementi d’accusa» 24; gli stessi che di lì a poco gli procureranno lavori forzati e rovina non soltanto finanziaria.
Il giorno dopo Carson riprende il suo interrogatorio in modo completamente diverso. Sulle prime, Wilde sembra quasi non capire: continua a guardarlo con allarmata curiosità, reggendo nella destra i guanti di suède marrone, mentre il sorriso gli si paralizza lentamente sulla faccia.
Carson gli ha chiesto in tono neutro: «Conoscete un certo Taylor?», e la domanda è passata su tutta l’aula come un soffio di panico. Carson ha delle prove, dunque? Clark, l’avvocato di Oscar, avvertendo il momento decisivo, si protende sul banco, non più tanto sicuro dell’innocenza del suo cliente. Ora più che mai sa di aver fatto bene a non chiamare a deporre Lord Alfred Douglas: a parte il carattere impulsivo del giovane, che non esiterebbe a insultare pubblicamente suo padre (e questo indisporrebbe la giuria), finché Bosie non deporrà, Lord Queensberry e Carson forse sentiranno un freno a porre delle accuse che potrebbero rivolgersi contro il ragazzo. Carson deve avere qualche sorpresa in serbo, perché parla e gesticola con la flemma di un giocatore di poker, sicuro del fatto suo. Wilde riesce a mantenere una relativa calma: gli viene chiesto se beve abitualmente champagne e trova ancora la forza di rispondere:
«Sì, lo champagne ghiacciato è una delle mie bevande preferite, purtroppo contro i consigli del mio medico».
«Ora non preoccupatevi dei consigli del vostro medico».
«Non me ne preoccupo mai...».
Quando Carson, dopo aver abilmente preparato il terreno, con un gesto quasi da prestigiatore produce le lettere riavute dal ricattatore Wood e compagni, l’impressione in aula è disastrosa. E non basta: ecco la sfilza dei nomi dei ragazzi procurati da Taylor: Alphonse Conway, Charles Parker, Fred Atkins, Ernest Scarfe... Squallidi figuri capaci di fare l’occhietto a eventuali clienti perfino nei corridoi del Palazzo di Giustizia. Possibile che Carson li voglia chiamare alla sbarra a deporre contro loro stessi? Quando si avvicina il primo, Oscar (ma come ha potuto credersi amato o semplicemente rispettato da gente di quella risma?) serra nervosamente le mani in un gesto disperato, mentre il suo viso si fa terreo, trasformandosi in una maschera tragica. Da ora in poi Carson diverrà padrone assoluto della situazione e Wilde sarà costretto a difendersi. «Mi piace la compagnia di chi è molto più giovane di me», dichiarerà, tentando invano di alleggerire l’atmosfera con qualche timido trait d’esprit. «Mi piacciono quelli che qualcuno chiama oziosi e sconsiderati. Non riconosco assolutamente alcun tipo di distinzione sociale; e per me la giovinezza, il puro fatto della giovinezza è così meraviglioso che preferirei di gran lunga conversare per mezz’ora con un giovanotto che essere – be’, esaminato in giudizio...». Ma nessuno sembra più ascoltarlo né tantomeno divertirsi assistendo a quello che ormai sta diventando un massacro: Narciso annaspa ignobilmente sul fondo melmoso dello stagno e il pubblico, sgomento, si chiede quale follia abbia spinto Wilde a provocare un simile processo. Le perbeniste mentalità vittoriane, molto più che dagli amori tra lo scrittore e Lord Douglas, sono scandalizzate dalla trasgressione a un vero e proprio tabù sociale. Oscar ha infangato, peggio, ha tradito la sua classe, e questo è davvero imperdonabile: un gentleman non siede a tavola con valletti, venditori ambulanti o facchini, offrendo loro vini d’annata e champagne: a certa gente si danno mance e tutt’al più si regalano abiti smessi, non portasigarette di valore. Gesti così fuori luogo rimettono troppe cose in discussione, non vanno compiuti con tanta leggerezza. Oscar sente il pubblico girargli d’un tratto le spalle, e privato dell’appoggio della platea perde precipitosamente terreno: ha consumato l’intera sua vita a recitare una parte, e, come tutti i grandi istrioni, senza una ribalta adeguata non funziona. È talmente frastornato e confuso che Carson non deve fare nessuna fatica per fargli compiere lo scivolone definitivo quando con finta noncuranza gli domanda, a proposito di un giovane valletto di Lord Alfred:
«Lo avete mai baciato, Mister Wilde?»
«Ma no, via, era troppo brutto».
«Come, Mister Wilde? E se fosse stato carino...».
Dopo, tutto diventerà troppo rapido e confuso, assumendo i contorni indistinti dell’incubo: Queensberry «non reo» e il giorno seguente il mandato di cattura spiccato contro di lui. Fuggire? Gli sembra troppo vile e volgare. Un agente in borghese accompagnato da due policemen bussa alla porta del suo appartamento all’Hotel Cadogan: «Mister Wilde, I presume». E poi la cospirazione del silenzio, il panico, la scomparsa degli amici. Pollice verso. I benpensanti ogni tanto hanno bisogno di qualche capro espiatorio... Il rifiuto del magistrato di concedere la libertà provvisoria, con la conseguente catastrofe. Il sequestro (soltanto le spese processuali ammontano a seicento sterline, che Alfred e sua madre hanno promesso di pagare ma non pagheranno mai), la vendita del mobilio di Tite Street. Una folla chiassosa di piccoli borghesi imbecilli e maleducati invade la casa, speranzosa di trovare le tracce di vizi innominabili, toccando, curiosando, frugando, arraffando: libri, mobili, ninnoli, quadri, perfino i giocattoli dei bambini, tutto viene frettolosamente dato via per un tozzo di pane... Ed ecco di nuovo Oscar all’Old Bayley, stavolta sul banco degli imputati, accanto a Taylor, per giunta: il principe degli esteti gomito a gomito con un ruffiano da quattro soldi. Ma per qualche momento sembra aver riacquistato dignità e padronanza di sé. Quando gli viene chiesto di spiegare che cos’è «l’amore che non osa pronunciare il suo nome», riesce a trovare parole che strappano applausi al pubblico e disorientano i giurati, che non riusciranno a trovare un accordo:
«L’amore che non osa pronunciare il suo nome in questo secolo è il grande trasporto di un anziano per un giovane, come fu tra David e Gionata, quello che Platone ha posto come base per la sua filosofia, e quello che si trova nei sonetti di Michelangelo e di Shakespeare. È quel profondo amore spirituale che è tanto puro quanto perfetto. Esso ispira e pervade grandi opere d’arte come quelle di Shakespeare e di Michelangelo, e quelle mie due lettere, così come sono. In questo secolo esso è incompreso, tanto incompreso che può essere descritto come “l’amore che non osa pronunciare il suo nome”, e a cagione del quale io vengo portato qui dove mi trovo ora. Esso è bello, fine, è la più nobile forma di affetto. Non c’è nulla di innaturale in esso. È intellettuale, ed esiste ripetutamente tra un anziano e un giovane quando l’anziano possiede intelletto e il giovane ha tutta la gioia, la speranza e il fascino della vita davanti a sé. Che debba essere così, il mondo non comprende, e a volte per causa sua mette qualcuno alla gogna».
È l’ultimo guizzo. Stavolta, in attesa del terzo processo, viene concessa la libertà provvisoria su cauzione di 2.500 sterline e due altre garanzie di 1.250 sterline l’una. A offrirsi come garanti saranno il fratello maggiore di Alfred, Lord Douglas di Harwik, e un sacerdote protestante, il reverendo Stewart Headlam, che neppure conosce personalmente lo scrittore. Wilde potrebbe ancora fuggire: non lo farà; va invece ad abitare in casa di sua madre, a Oakley Street, dove è letteralmente prigioniero, e questo non giova né alla sua pace né alla sua lucidità: Lady Francesca Wilde, nata Elgee, donna colta quanto bizzarra (anche lei dedita alla poesia in gioventù, con lo pseudonimo italiano di Speranza) 25, naviga a gonfie vele nel sublime senza avere il minimo senso della misura e della realtà («Se resti, anche se andrai in prigione, sarai sempre mio figlio – ciò non potrà mutare il mio amore – ma se fuggi, non ti rivolgerò mai più la parola»); suo fratello Willie, tipico irlandese dalla commozione facile di fronte al bicchiere, parla a vanvera facendo più male che bene («Caro povero fratello mio», dirà di lui Oscar, «sarebbe capace di compromettere una macchina a vapore»). Da parte sua, Bosie, che si è precipitato a Parigi per raccogliere (con scarso successo26) firme di artisti e scrittori solidali, lo supplica di raggiungerlo in attesa che i fatti prendano una piega più favorevole. Altri amici gli consigliano di attraversare la Manica e di stabilirsi, almeno per qualche tempo, a Saint-Malo, a Saint-Enogat, alle Sables-d’Olonne... Lady Francesca, da vera irlandese, sbatte loro la porta in faccia senza tanti complimenti e Oscar non parte. Debolezza? Rassegnazione? Fatalismo?... Vede di nuovo giusto Philippe Jullian quando osserva che in questo atteggiamento c’è anche un pensiero nascosto: «quell’uomo di teatro sa che la prigione, per un mirabile contrasto, porrà fine a una carriera in ogni modo spezzata, preferisce l’obbrobrio al misero esilio in una stazione termale». E ha ragione: un finale che non sappia suscitare emozioni rischia di rovinare l’intero dramma.
Il terzo processo, che prende il via il 20 maggio, sarà disgustoso. Di nuovo la nauseante sfilata di quei miserabili renter che Oscar aveva colmato di gentilezze e di doni: si arriva alle testimonianze false, ai doppisensi turpi, ai pettegolezzi sudici, ai particolari ripugnanti delle lenzuola macchiate del Savoy, scandalizzandosi soprattutto che «simili atti possano venire commessi in un albergo di prima categoria»... Il 25 maggio, alle 15,30, la giuria si ritira. Dopo circa due ore di deliberazione, il verdetto è di colpevolezza. Guilty: condannato a due anni di carcere e di lavori forzati per gross indecency. Le prostitute di Piccadilly improvvisano un gioioso can-can davanti al tribunale, lanciando insulti e scurrilità. Da ora in poi si potrà parlare di Calvario e fare di Wilde un santo: lui stesso provvederà alla sua agiografia scrivendo quella lunga, straordinaria “epistola” a Bosie che è il De Profundis, testimonianza, come acutamente nota Masolino d’Amico, «non meno affascinante che convincente, con tutte le sue contraddizioni e forse proprio in virtù di esse» 27, forse troppo ostentata per essere sincera o forse fin troppo sincera proprio perché così wildianamente ostentata: all’autocompiacimento si sono sostituiti l’autocompassione e un amaro orgoglio, ma Oscar resta sostanzialmente fedele a se stesso. Non dimentichiamo che nel 1898, tornato a Parigi subito dopo la pubblicazione di The Ballad of Reading Gaol, dichiarerà a un amico: «Parlare di riformarsi sono tutte chiacchiere. Nessuno si riforma mai. Io resto quello che sono sempre stato».
The Ballad of Reading Gaol esce nel gennaio del ’98 con la firma C. 3. 3. 28, pubblicato da Leonard Smithers, specialista in libri da vendere under the counter, che rimane letteralmente sbalordito – e sopraffatto – dall’inaspettato successo del libro. Al suo apparire Reading viene subito riconosciuto come «una delle più belle opere della moderna poesia inglese», ma quando verrà reso noto il nome dell’autore saranno in parecchi a storcere la bocca e a ridimensionare le lodi. Il libro renderà a Wilde pochissimo denaro, e le porte che avrebbero potuto essergli utili per risalire la china continueranno a restare inesorabilmente chiuse. Umiliazioni, sfiducia, abbrutimento: anche scrivere non lo interessa più, si lascia pian piano avvolgere dalla pigrizia come da un tepore rassicurante. Adesso non è più il caustico, elegantissimo dandy: indossa abiti a buon mercato su un corpo in disfacimento simile a quello che il suo Dorian Gray aveva contemplato una notte nel ritratto fatale, e si fa chiamare Sebastian Melmoth: Sebastian in omaggio al bellissimo martire trafitto dalle frecce, protagonista, fra l’altro di innumerevoli dipinti che Oscar aveva amato e ammirato, e Melmoth in ricordo del suo prozio materno Charles Robert Maturin, autore del famoso Melmoth the Wanderer 29, l’uomo errante protagonista di tenebrose vicende sospese tra Sade e Ann Radcliffe; il nome di un demone dietro cui nascondere il volto devastato dal carcere e dall’approssimarsi della morte. Oscar Wilde, C. 3. 3., Sebastian Melmoth: «tre maschere una dopo l’altra», come scrive Hugo von Hofmannsthal; «la prima con una bella fronte, labbra sensuali, occhi umidi e cinici: una maschera da Bacco. La seconda una maschera di ferro attraverso le cui fessure ci guarda la disperazione. La terza un domino pietoso preso in affitto per assecondare una lenta agonia» 30.
Sebastian Melmoth sarà un uomo tenero e inquietante, patetico e sinistro al tempo stesso, oscillante tra la sacrestia e il marciapiede, sempre provvisto di sigarette da offrire ai giovanotti ma anche di zucchero d’orzo da regalare ai bambini; «un anarchico mite», osserva ancora Philippe Jullian, «che ridendo dissiperà il suo ingegno in parole, un cinico intento a ostentare quelle debolezze che gli rendono la vita sopportabile: l’alcool, i ragazzi» 31.
È il caso di commuoversi per un così definitivo capitombolo? Probabilmente no: Wilde «desidera l’abiezione e attraverso questa raggiunge una specie di sublime melanconia» 32. Ha ancora qualche sprazzo dell’antica vitalità, ma ormai sa bene che non ha più nulla da aspettarsi dalla vita: prolungarla troppo sarebbe, secondo le sue stesse parole, «una spaventosa mancanza di tatto». Negli ultimi anni, a Parigi, vagando da un caffè all’altro di tanto in tanto incrocia qualche straniero felice di poterlo trattare in modo principesco, come Sergej Djagilev, un russo bello e ricco che vorrebbe acquistare i disegni eseguiti da Beardsley per la Salomé 33e da cui Oscar si fa invitare a pranzo insieme al suo ragazzo del giorno, un qualsiasi Henri o Gaston o Maurice inseguito per i boulevard: «Decisamente la pederastia è il più salubre dei vizi, quasi tutto avviene all’aria aperta e quanto bisogna camminare...».
Nell’estate del 1900 lo scrittore occupa due modestissime stanzette all’Hotel d’Alsace, in Rue des Beaux Arts, da dove esce quasi sempre tardi, verso quella che i francesi chiamano “l’heure verte” 34, per poi tornare a notte inoltrata nella sua camera dai mobili neri, funestata da un’orrenda carta da parati a grossi fiori rossastri. Adesso è tormentato da atroci emicranie che gli procurano forti capogiri: il 10 ottobre si fa operare a un orecchio, ma senza ottenere alcun miglioramento. «Sento che non vedrò il nuovo secolo; gli inglesi non potrebbero sopportarlo», dice a Bosie che lo ha invitato al Grand Café durante il loro ultimo incontro. Ormai, le rare volte che esce fa tappa a ogni caffè per bere un bicchierino di assenzio: è un suicidio all’irlandese, il dubliner non si smentisce. «Mi hanno detto che la mia malattia è sconosciuta negli annali della medicina. Sono davvero contento: morire di una malattia comune sarebbe stato troppo umiliante», confiderà un pomeriggio a Ross che lo è andato a trovare. Probabilmente si tratta di un ascesso al cervello, aggravato dalla sifilide e dall’alcool: nel giro di pochi giorni le condizioni del malato si aggravano rapidamente e le sue sofferenze divengono così terribili che bisogna ricorrere alla morfina. Una sera Oscar fissando l’aborrita carta da parati a fiori rossi mormora: «Sì, certo, uno di noi due se ne deve andare...» Verso l’alba del 30 novembre comincia il rantolo dell’agonia: un rantolo spaventoso, stridente, che culmina in una specie di sibilo acuto, quasi un urlo di terrore. Al capezzale del moribondo ci sono Reggie Turner, un amico di vecchia data e il solito fedelissimo Robert Ross, l’uomo che pagherà i restanti debiti di Wilde, ne difenderà la memoria e provvederà alla tutela delle sue opere, ricostruendone la fama e la fortuna anche nell’Inghilterra che lo aveva proscritto. Sono circa le due pomeridiane quando il rantolo cessa di colpo e si ode come una sorda esplosione: dalla bocca di quel corpo roso dal male sgorga un getto di pus; i tessuti, indeboliti dalla sifilide (se l’era presa ai tempi di Oxford) 35, hanno ceduto in corpore vivo. È finita36.
Il giorno dopo, alcuni giornali pubblicano la notizia della morte: arrivano alcuni amici, qualche uomo di lettere, degli inglesi (cercando di non farsi troppo notare e lasciando dei nomi falsi), un paio di signore velate. Bosie giungerà la mattina seguente, e sarà lui a pagare le spese del servizio funebre. Il 3 dicembre, uno sparuto corteo si incammina a piedi verso la chiesa di Saint Germain des Près per la triste cerimonia che conclude quasi clandestinamente un’esistenza che ha conosciuto tutto tranne la mediocrità. Ci sono molti fiori. La salma viene sepolta al cimitero di Bagneux, sotto una pioggia glaciale.
È l’inizio della rinascita e della leggenda: nel 1905, a cura di Ross, esce la prima edizione (non integrale) del De Profundis; nel 1907 le commedie di Wilde tornano con successo sulle scene londinesi; nel 1908 viene edita la sua opera completa; nel 1909 un comitato affida a Jacob Epstein, il miglior scultore inglese prima di Moore, la statua da porre sulla nuova tomba dello scrittore al Père Lachaise: un cubo di pietra su cui si erge una sfinge indubbiamente – e provocatoriamente – virile che reca sul capo una tiara. È ancora oggi una delle tombe la cui ubicazione è più richiesta dai visitatori di tutto il mondo.
RICCARDO REIM
1 Philippe Jullian, Oscar Wilde, Parigi 1967 (ed. it. Torino 1972).
2 «Soltanto lo straordinario resta».
3 «Per Oscar Wilde che posa a sodomita».
4 Per questa citazione e la precedente vedi nota 1.
5 Mario Praz, La letteratura inglese, II. Dai Romantici al Novecento, Firenze 1968.
6 Vedi nota 1.
7 Per tutte le frasi di Wilde citate nella presente introduzione – e di cui d’ora in avanti non si daranno più indicazioni in nota – vedi C. M. Franzero, La vita ‘recitata’ di Oscar Wilde, in O. Wilde, Tutto il teatro, Roma 1966. Ancora per i contributi italiani va senz’altro consultato (specie per quanto riguarda i processi e gli ultimi anni) il libro di P. F. Gasparetto Oscar Wilde – L’importanza di essere diverso, Milano 1981. Vedi inoltre il già citato libro di P. Jullian e i bellissimi: H. Montgomery Hyde, Oscar Wilde, Londra 1976; E. H. Mikhail, Oscar Wilde - Interviews and Recollections, Londra 1979.
8 My Secret Life, sterminato (e anonimo) romanzo pornografico vittoriano in undici volumi per un totale di oltre 4000 pagine, venne stampato clandestinamente intorno al 1890. «The Pearl», la più audace rivista pornografica di quell’epoca, ebbe vita dal luglio 1879 al dicembre 1880.
9 Oscar vinse una borsa di studio per il Magdalen College di Oxford nel 1874.
10 È appena il caso di ricordare che to rent significa “affittare”.
11 Oltre i titoli già indicati alla nota 7, in particolare sui tre processi vedi il volume assai accurato di R. Croft-Cooke, The Unrecorded Life of Oscar Wilde, dove si prendono in esame tutti i resoconti di prima mano, come i sei importanti libri di Robert Sherard, pubblicati dal 1905 al 1937.
12 Anche Oscar era stato allievo di Pater.
13 Su Alfred Douglas vedi H. Montgomery Hyde, Lord Alfred Douglas, Londra 1984.
14 Godwin, architetto di gran moda in quegli anni, aveva anche disegnato la Casa Bianca di Whistler.
15 Vedi nota 1.
16 I Douglas (il nome viene dal gaelico e significa«acqua scura») sono una delle più antiche famiglie della Gran Bretagna: basti dire che già esiste nella leggenda di Macbeth.
17 Masolino d’Amico, Introduzione a O. Wilde, Tutte le opere, Roma 1994.
18 «Il peccato fu mio; io non compresi». È il primo verso del sonetto The New Remorse.
19 Vedi nota 1.
20 Per il giudizio di André Gide, quello di Hugo von Hofmannsthal e molti altri, vedi il saggio di Lorenzo Gigli L’opera di Oscar Wilde, in O. Wilde, Tutto il teatro, Roma 1966, nonché l’edizione del Teatro a cura di E. Malagoli, Torino 1964 e i già citati libri di P. Jullian e M. Praz. Per Gide in particolare si veda, ovviamente, Si le grain ne meurt, Parigi 1920-21 (trad. it. Se il grano non muore, Milano 1947) e Oscar Wilde, in memoriam, Parigi 1910 (trad. it. Incontro con Oscar Wilde, Venezia 1945).
21 Franco Buffoni, Oscar Wilde: un esteta tra critica e poetica, introduzione a O. Wilde, Intenzioni e altri saggi, Milano 1995.
22 Vedi a questo proposito, naturalmente, il famoso libro di Robert Hichens The Green Carnation, Londra 1894; nuova ed. a cura dell’autore Londra 1949.
23 A questo proposito vedi la bella introduzione di Franco Cuomo, Anonimo vittoriano, a O. Wilde (?), Teleny, Roma 1980; nuova ed. Milano 1992.
24 Vedi nota 22.
25 Sulla madre di Wilde, personaggio inquietante e straordinario, vedi in particolare A. de Brémont, Oscar Wilde and His Mother: A Memoir, Londra 1911.
26 Zola e Daudet, ad esempio, rifiuteranno.
27 Masolino d’Amico, Introduzione a O. Wilde, De Profundis, Milano 1988.
28 Era il numero della cella di Wilde.
29 Il romanzo è del 1820.
30 Vedi nota 19.
31 Vedi nota 1.
32 Vedi nota 1.
33 I disegni vennero eseguiti per l’edizione inglese del 1894, «tradotta dal francese da Lord Alfred Douglas».
34 «L’ora verde», così detta dal colore verdastro dell’assenzio: l’ora del bicchierino prima di cena.
35 Presso una certa «Old Jesse», di cui sono clienti diversi ragazzi. Tra l’altro, la cura a base di mercurio gli rovinerà i denti per tutta la vita.
36 Vedi, in italiano, il già citato (nota 7) saggio di C. M. Franzero.