13
Vagai verso poppa lungo il corridoio principale, intontito o forse sbalordito dalla chiarezza di troppa verità. Superai gli ingressi che portavano al modulo degli alloggi e al Grand Palais e passai nel traffico degli attraversamenti, come se viaggiassi su rotaie, distaccato da ogni cosa si trovasse al di fuori del mio universo interno. Sempre che si potesse affermare che esisteva qualcos’altro all’esterno dei parametri dell’enigma che era ormai divenuto il mio demone interno.
Ero uscito dalla cabina di Dominique in preda a una giusta indignazione, ma quella chiarezza emotiva suonava falsa anche se le permettevo di commuovermi; una volta fuori, altre e più serpentine voci cominciarono a insinuarsi nel mio orecchio, e tutto quello che mi fu chiaro in quel momento fu che dovevo assolutamente fuggire dal caos che regnava nella mia mente prima che potessi anche solo cominciare a trovare un punto di focalizzazione.
Durante precedenti attacchi di quello che i pettegolezzi della nave definivano certamente il mio cafard, avevo ricercato o la solitudine della mia cabina o il regno pseudonaturale del vivarium come rifugio nella tempesta, ma adesso la compagnia delle mie quattro mura non mi offriva altro che la promessa di fuga e il vivarium, con la sua biosfera simulata e il suo falso cielo, non mi sembrava soltanto la quintessenza della cultura fluttuante di maya. Per quanto riguardava poi i ruoli sociali e i convenevoli con i miei coabitanti, confidavo a malapena nella mia abilità di presentare un personaggio coerente.
I piedi mi portarono ancora più a poppa, al di là della zona abitata della nave, nelle sezioni di corridoio cui erano fissati i vari moduli di carico: portelli a intervalli regolari che conducevano a corridoi di controllo erano allineati lungo entrambi i lati di quella sezione raramente frequentata del Dragon Zephir. Mentre quel disegno diventava una generalizzazione priva di caratteristiche, il mio passo rallentò, la mente iniziò a ruminare su ciò che lo spirito aveva ingerito e cominciai a capire come mai ero andato a finire lì.
La vera ambivalenza del mio rapporto empathetique con Dominique Alia Wu non poteva più essere inserita nella rubrica dello sdegno morale, il che non vuol dire che, in una luce morale, il suggerimento di lei non fosse decisamente ributtante. Non riuscivo tuttavia a negare che il mio spirito venisse attratto in luce amorale da quella definitiva tentazione tanto quanto la mia coscienza provava per essa una repulsione totale.
Per quanto riguardava le emozioni a livello umano, anche lì la repulsione e l’attrazione erano bloccate staticamente attorno al vuoto centrale.
Quella creatura spietata, che non provava alcun sentimento di tenerezza per me come uomo, non mi aveva forse sedotto passo a passo portandomi all’estremo confronto con il mio spirito a causa dello scopo che lei dichiarava di più alto livello? Oppure qualcosa in lei aveva percepito in me una qualche somiglianza che ci portava insieme nello strano schema tantrico come il più carnale, ma non meno sgradito, tropismo della mutua brama feromonica?
Certainement, fra noi c’era verità, in abbondanza e forse in eccesso. Verità assoluta, verità noir, ma verità priva di dimensione morale. Lo stesso stato in cui mi trovavo proclamava che eravamo, ahimè, spiriti simili, anche se ciò che ci accomunava poteva essere qualcosa che aveva ben poco di romantico.
Contro la volontà del desiderio di autostima, non potevo evitare di ammettere che il vero baratro fra di noi giaceva sia sotto sia al di là del regno morale dell’estetica etica. In effetti, la sua dedizione spietata al suo unico vero graal, procedendo come faceva da un singolo assioma assoluto verso l’inseguimento del tutto incrollabile di quel più grande bene assiomatico, poteva essere definita quanto meno formalmente superiore alle mie caotiche circonvoluzioni.
Questo sta a dire che io ero diventato una creatura dai dubbi irrisolti mentre lei non aveva mai messo in dubbio le proprie priorità per un singolo istante.
Non le invidiavo forse quella chiarezza di spirito proprio mentre mi sentivo respinto e sdegnato per la sua espressione suprema nel regno delle azioni? In effetti la sua sicurezza, la sua macabra volontà di ignorare ogni morale nell’inseguimento dell’eterno Grande e Unico era basata su esperienza diretta, mentre il mio sdegno moralmente superiore era il risultato di uno spirito che stagnava nell’ignoranza.
Ogni modulo di carico era connesso al nucleo centrale del Dragon Zephir tramite un condotto di controllo. Ogni condotto aveva un monitor per ispezionare a distanza le condizioni del modulo. In caso di emergenza, ogni condotto era anche dotato di una uscita e di una serie di cinture a bolle pressurizzate.
Le escursioni all’esterno di una Nave del Vuoto che viaggia fra le stelle a una velocità relativistica alta non sono comuni e comunque, nonostante siano poco frequenti, gli equipaggi delle Navi del Vuoto preferirebbero che lo fossero ancora meno. In effetti avevo raggiunto il grado di Capitano e servito in quel ruolo per molti anni senza avere mai avuto esperienza della realtà del vuoto interstellare privo di mediazioni.
Lo schermo del ponte e i monitor minori disseminati per tutta la nave erano dotati di circuiti di compensazione che riproducevano la realtà esterna, non come essa sarebbe apparsa ai nudi sensi, ma come l’occhio avrebbe percepito l’abisso galattico da un astratto punto fisso. Di conseguenza, il mare di stelle che io osservavo dal mio seggio sul ponte era ancora un’altra illusione e ricreava la realtà nella sua incarnazione priva di distorsioni temporali.
Quelli che l’emergenza aveva costretto a lavorare al di fuori di una nave sostengono che l’esperienza sia altamente sconcertante. Ad alte velocità relativistiche lo spettro subisce un effetto doppler tendente al blu a prua, al rosso a poppa, e l’onda d’urto provocata dallo schermo che deflette il medium interstellare compattato dalla velocità vi tinge davanti un’aura dai colori dell’arcobaleno; tali effetti, tuttavia, sono ritenuti soltanto curiosità visive. È la curvatura dello spazio stesso a fare cose al sensorium visivo umano che vengono descritte come simili a fissare la fossa dell’angolo morto nella finzione, anche se non nel contenuto.
A dispetto della inquietante e arcana reputazione di quella esperienza, e in un certo senso a causa di essa, mi trovai ad aprire un portello e a entrare in un condotto di ispezione, spinto dalla perversa determinazione di uguagliare la conoscenza sperimentale di Dominique del nudo vuoto con l’incontro più simile possibile al suo Salto alla Cieca.
Quien sabe? Non si sa come, sentivo di dovere un confronto così diretto a lei e a me; forse credevo che la moralità più assoluta pretendesse che io guardassi in profondità nell’estremo, per quanto la mia natura me lo permetteva, prima di riuscire a lasciarmelo alle spalle in piena coscienza. Soltanto affrontando quella realtà potevo con perfetta lucidità rinunciarvi.
Il condotto di ispezione era un semplice tubo di connessione flessibile fra la spina dorsale del Dragon e il modulo di carico, lungo circa cinquanta metri e dotato di portelli pressurizzati a entrambe le estremità, in modo da raddoppiare la sicurezza del portello stagno principale. Immediatamente dopo essere entrato, esaminai la rastrelliera con le cinture a bolle pressurizzate, indossandone una e sigillando il portello alle mie spalle prima di procedere lungo il tubo verso il semplice portello di uscita equidistante da entrambe le estremità. Esso era attrezzato con un sistema per fare entrare e uscire l’aria dal condotto pressurizzato e mostrava due spie rosse brillanti le quali indicavano che la pressurizzazione era al momento completa.
Il monitor a distanza era installato direttamente di fronte al portello di uscita per comodità e, prima di indossare la cintura, mi fermai davanti a esso per guardare per l’ultima volta con occhi vergini il simulacro elettronico che aveva sempre rappresentato la mia percezione della realtà del profondo vuoto interstellare.
L’immagine sul monitor era un quadro gradevolmente contenuto di quello che si trovava al di là del guscio della nave, a differenza del grande firmamento illusorio che si estendeva attorno al ponte di comando; la necessaria distorsione della scala rappresentativa serviva, in quel momento, a rendere il paesaggio un quadro stellare da puntinista chiaramente irreale.
Nonostante tutto, però, si trattava in un certo senso di una immagine più vera della realtà rispetto a quella che il mio occhio nudo stava per provare nella realtà stessa. Sul monitor, la distorsione era il prodotto di abilità e intelletto che cercavano di rappresentare una immagine dell’assoluto da un punto teoretico di distacco, mentre le distorsioni relativistiche della cruda realtà erano il mezzo attraverso cui il caos casuale si nascondeva dietro il proprio velo.
In questo modo quello che c’era oltre il portello di uscita fece insinuare le sue vibrazioni nel mio campo percettivo tramite il mero dato di fatto della mia decisione di affrontarlo. Eressi la mia bolla di forza polarizzata e cominciai a fare uscire l’aria dal condotto, fissando il monitor mentre la pressione si abbassava quasi a impressionare quella rappresentazione umana della realtà transumana nel mio cervello prima di avventurarmi a uscire.
Tutte le superfici esterne del Dragon Zephir erano cariche di un campo di gravità a un quarto di g perpendicolare al loro piano, così che quando aprii il portello di uscita e strisciai fuori, fui immediatamente in grado di alzarmi in piedi e di stare a una angolazione bizzarra rispetto alla curva parete esterna del condotto senza provare vertigini cinetiche o la paura di cadere, come una mosca ferma su un globo luminoso.
Quando permisi al mio fuoco visivo di spostarsi dal metallo che avevo sotto i piedi, tuttavia, il mio senso dell’equilibrio venne sensibilmente aggredito.
Mi trovavo eretto sul sottile ramo di un immenso albero metallico, il picciolo, in effetti, di uno delle dozzine di frutti metallici che pendevano dal tronco del Dragon Zephir che torreggiava avvolto in un bagliore dai colori dell’arcobaleno, alto sopra di me. I tentativi di guardare nelle profondità che mi circondavano vennero accolti da una sensazione di costrizione nauseante e informe, come se la realtà stessa si stesse nascondendo nell’angolo morto del mio campo visivo indipendentemente da dove io cercassi di focalizzare lo sguardo. Riflessi striati di azzurro e rosso in uno specchio deformante nero mi turbinavano attorno al margine della visione periferica, che a sua volta sembrava concentrarsi in uno stretto tunnel percettivo piegato a una angolazione stranamente spiovente.
Con lo stomaco rivoltato, indirizzai il mio fuoco visivo verso i piedi che toccavano il metallo e mi incamminai in fretta a occhi bassi, verso il punto di giuntura del condotto di passaggio con il nucleo centrale del Dragon. Una volta lì, piazzai un piede sulla parete che avevo davanti, mi inclinai indietro mentre completavo il passo in perpendicolare e mi trovai in piedi sulla spina dorsale della nave stessa, guardando in avanti, lungo la possente estensione del mio vascello.
Come un immenso giavellotto di metallo, il dorso del Dragon su cui mi trovavo sembrava trafiggere il tessuto dello spazio mentre si scagliava nello scudo color arcobaleno dei deflettori della nave, un ago gigantesco la cui punta manteneva un prismatico menisco di tensione superficiale attraverso la superficie liscia come l’olio della realtà.
Fluente come la corona spiraleggiante di una cometa da quella anomalia centrale, lo spazio risultava il turbine invertito di un nulla oscuro, macchiato di una nube di farfalline azzurre che vorticava incessantemente davanti a me mentre io cavalcavo sempre più avanti nell’occhio del ciclone. Dietro, l’universo era un qualcosa di vago e rossastro che usciva da un lungo tunnel, fino a un punto in cui svaniva; il tunnel stesso, la realtà della mia percezione visiva, sembrava non avere più né pareti né lunghezza.
Incapace di riorganizzare quell’input visivo in un sensorium coerente usando parametri normali, i miei centri percettivi vennero costretti a far fondere la mia consapevolezza attorno a una matrice alterata. Quel nuovo spirito percepì se stesso come un punto di vista sulla superficie del proprio sensorium, un’astrazione di second’ordine dell’interfaccia tra il flusso di dati sensoriale e il meccanismo di processo interno.
Di conseguenza, perfino l’assolutismo della mia oggettività fisica si rivelò arbitrario dal punto di vista di quella estrema soggettività.
Da quella prospettiva alterata, stavo viaggiando attraverso il cosmo in una bolla di tempo, il che è come dire che l’unica vera realtà era la grande nave su cui io mi trovavo e il punto di vista che era su di essa, visto che essa era l’unica realtà di cui quel punto vista era in grado di formare un’immagine.
Vraiment, quella realtà non era sufficiente a riempire l’anima? Mi trovavo lì, una piccola falena sulla schiena di quel possente leviatano di metallo, quel grande e silenzioso drago argentato che si faceva strada attraverso il tessuto dello stesso universo, estrema sfida al processo da cui proveniva. E io non ero, a dispetto di ogni aspetto sondabile, il padrone dell’eccezionale gigante su cui viaggiavo?
Così la realtà deviata e distorta che irradiava dalla prua del Dragon Zephir divenne mero artefatto del sistema, un fenomeno dell’interfaccia fra un impulso dato e lo spirito essenziale del suo interno, che lo percepiva oscurato, come se guardasse attraverso un vetro.
Mi ero avventurato in quel regno per confrontarmi con l’assoluto in modo non mediato e diretto, ma la rivelazione che ne avevo tratto era la natura paradossale dell’enigma della realtà assoluta in sé.
Se quel vuoto pieno di stelle aveva una qualsiasi realtà oggettiva, non era quella l’immobile, fredda oscurità di cristallo immutabile punteggiata di punti astratti di luce che veniva simulata dagli schermi della nave? Viceversa, il diorama che stavo vedendo non era forse un’illusione mentre l’attuale caos naturale e non mediato era il volto privo di maschera dell’estremo?
Au contraire, la mia attuale realtà non era forse un’illusione generata dal movimento relativistico della nave?
Vraiment, erano entrambe vere ed entrambe illusioni. In effetti non era forse l’arbitraria distinzione fra illusione e realtà la suprema illusione essa stessa?
La fisica cosmologica mi dice che il nostro universo è nato da un’esplosione da un singolo punto nello spazio-tempo nel profondo ma finito passato; particelle, atomi, stelle, pianeti, biosfere, sapienza: tutto già implicato in quella antica eruzione di esistenza nel vuoto perfetto. Tambien i fisici cosmologi ci dicono che quell’onda d’urto iperglobulare di materia si sta ancora espandendo per riempire l’indefinibile matrice in cui essa è avvenuta. Ma rispetto a ciò che circonda questo mandala universale in esplosione di spazio e tempo, perfino i nostri maghi più grandi restano muti. In effetti esiste un teorema, che si dimostra indimostrabile in termini, il quale dice che la conoscenza di ciò che giace al di là della matrice materiale universale è, per definizione, inconcepibile da un punto di vista interno.
Mentre io mi trovavo lì, sopraffatto dallo spettacolo e da questa estrema percezione del più essenziale dei vuoti, mi resi altresì conto che, attraverso un singolo strumento, la consapevolezza spingeva un suo tentacolo al di là dell’assoluto guscio teoretico dell’uovo universale: il Salto trascendeva le regole fondamentali che vi regnavano.
Così facendo, si dimostrava la possibilità di ottenere un punto di vista al di là del velo di maya.
Mi meravigliai per la chiarezza di quel terrificante satori. La realtà assoluta del Salto era confermata, all’interno del nostro regno del quotidiano, dal trasferimento della nave da locus a locus, a dispetto delle nostre preziose leggi universali riguardanti i fenomeni di massa-energia. Così la nostra tecnologia produceva un effetto che trascendeva la weltanschauung della stessa scienza che la produceva; così il serpente del paradosso cosmico ingoiava la propria coda; così il supremo caos rinasceva dall’estremo ordine.
Restai intimidito dalle implicazioni del nostro mondo-ombra di forme. Di tutti i fenomeni del regno di maya, soltanto il Salto permetteva allo spirito di trascendere la matrice di massa-energia che gli dava origine e in una maniera che, paradossalmente, consentiva ai nostri stessi strumenti di registrare il fatto. Eppure, proprio mentre i miei percettori sensoriali non riuscivano a formare un’immagine coerente del turbine relativistico al cui fuoco soggettivo io mi trovavo, così la nostra intera razionalissima civiltà che viaggiava attraverso le stelle era incapace di guardare con chiarezza l’anomalia insita nel suo stesso concetto di realtà, sul quale essa si centrava.
Non c’era da meravigliarsi quindi che una elaborata cultura fluttuante si fosse evoluta per isolare i viaggiatori stellari da questa percezione. C’era ancora meno da meravigliarsi che quella matrice sociale avesse creato una parete di purdah per separare la volontà razionale del suo Capitano del Vuoto dalla realtà trascendente del suo Pilota. Non c’era, infine, da meravigliarsi che tutti quegli strumenti culturali risuonassero vacui allo spirito di chi avesse guardato troppo in avanti.
E se io stesso, che vedevo ancora l’estremo attraverso una riflessione distorta dall’interno dell’illusione, ero divenuto uno spirito ribelle all’interno del gregge umano, che realtà poteva avere per Dominique un concetto come morale sociale o umano, per lei che aveva provato il più intimo contatto con quello che io avevo appreso soltanto tramite una tormentata fantasia?
Vraiment il Grande e Unico era ciò che serviva soltanto il proprio scopo e quello di nessun altro. Grande e Unico. E solipsisticamente Solitario.
Non percepii la durata temporale di quel momento satorico; poteva essere passato tutto in un augenblick, oppure potevo essere rimasto lì, immobile, per un’ora. In ogni caso, si trattò di un momento attraverso cui passai e non di uno stato dell’essere che la mia psiche potesse contemplare a lungo coerentemente. Una volta passato attraverso di esso, mi tornarono, raddoppiate, le vertigini trasformate da confusione dei sensi a nausea dello spirito.
Con ginocchia tremanti e con gli occhi abbassati per focalizzarmi sui soli meccanismi della deambulazione, mi ritirai fino al portello di uscita, anche troppo consapevole, mentre scivolavo all’interno e me lo richiudevo alle spalle, che stavo scappando come una falena accecata da un eccesso di luce a una gradevole oscurità.
Istintivamente, attivai lo schermo del condotto mentre aspettavo che esso si riempisse di aria, rifugiandomi dietro l’illusione creata dai sensori del mio bunker, bramoso di purgare la mia consapevolezza dalla sua vertiginosa chiarezza.
Quando la pressione atmosferica si fu bilanciata, ripiegai la bolla del vuoto, riportai la cintura allo scaffale e, barcollante, rientrai nella realtà della nave.
Arrivato lì, mi trovai faccia a faccia con il Secondo Ufficiale, Argus Edison Gandhi, che mi osservò sbalordita e non poco preoccupata mentre emergevo dal portello.
— Capitano Genro! Che ci fai qui?
— Potrei porre la stessa domanda a te, Interfaccia — ribattei duramente.
— C’era uno strumento che indicava che qualcuno si trovava fuori dello scafo in questa zona — disse lei. — Mori se ne è accorta in una scansione di routine. Non riuscivo a trovarti e così ho deciso di venire qui a controllare di persona. — Mi osservò attentamente. — Sei stato... fuori?
Io annuii in silenzio, incapace di strutturare una risposta verbale coerente.
— C’è qualcosa che non funziona in questo modulo? Si è verificato qualche danno al bolide? Hai evidenziato una perdita d’aria?
— Le condizioni esterne sono regolari — riuscii a risponderle in tono autoritario.
— E allora perché ti trovavi fuori? — domandò Argus, come se fosse stata lei l’ufficiale senior.
Il mio impulso iniziale fu quello di licenziarla con uno scoppio di ira da Comandante. Poi pensai di inventarmi un’innocua anomalia che avrebbe potuto giustificare una mia indagine. Mentre però osservavo quell’ambizioso giovane ufficiale, quel futuro Capitano del Vuoto, con la sua espressione di serietà deferente, la sua aria di consapevole competenza e i suoi razionali occhi brillanti che non comprendevano, decisi, per una volta, di essere sincero rispetto alla mia natura interna e, di conseguenza forse, al rispetto che le dovevo in quanto ufficiale ed essere umano.
— Tu non sei mai stata fuori, Argus? — dissi.
— In orbita, ma mai... mai... qui fuori.
— Be’, prima di adesso nemmeno io. Pensavo che fosse tempo.
— Tempo? — esalò lei, considerandomi apertamente oggetto di insana speculazione.
— Tempo di apprendere la realtà dentro cui guido la mia nave — mentii. — Non ti è mai venuto in mente che, in un certo senso, viaggiamo alla cieca, che percepiamo il mare in cui ci spostiamo soltanto attraverso la mediazione dei nostri strumenti tecnici? Hai mai desiderato vedere il vuoto di prima mano?
Lei sbarrò gli occhi. — Tutto quello che ho sentito dire di questa esperienza mi ha fatto credere che risulti estremamente sconvolgente — mi rispose. — Non è così?
— Verdad. Ma tale sconvolgimento potrebbe creare un ufficiale migliore, ne, certamente uno più consapevole. Ti raccomando di rifletterci, Interfaccia.
— Mi stai ordinando di uscire fuori, Capitano Genro? — disse Argus in tono insolente e di sfida. La sua espressione tuttavia tradiva una certa paura.
— Ti consiglio soltanto di concederti l’esperienza — le risposi. — Così come io l’ho concessa a me stesso.
— Capitano, sei sicuro di...
— La questione è chiusa — replicai seccamente, col tono del comando e mi indirizzai con passo deciso lungo il corridoio verso le zone abitate della nave, senza voltarmi indietro a osservare né le eventuali reazioni del mio Secondo Ufficiale, né la porta che si trovava fra la realtà che condividevamo e quello che giaceva oltre, attraverso la quale io, forse, ero appena irrevocabilmente passato.
Con mio grande smacco, ma in un certo senso con una più alta forma di indifferenza, prima che fosse passato molto tempo la mia permanenza nel vuoto era divenuta notizia di dominio pubblico, per non dire pettegolezzo ossessivo all’interno della cultura fluttuante. Evidentemente, in assenza di un ordine specifico, Argus aveva discusso dell’argomento con Mori, che a sua volta doveva averlo comunicato a Rumi, provocando così una diffusione generale, da bocca a bocca. Forse era stata la stessa Argus che aveva reso l’argomento questione di discussione pubblica, così che il racconto si era divulgato velocemente attraverso il corpo politico, partendo da una serie di fonti in espansione continua.
Quali che fossero i vettori della diffusione, presto mi risultò impossibile apparire in un posto senza che il mio stato mentale e la insondabile motivazione del mio strano comportamento divenissero il centro di un’attenzione curiosa di tipo trasversale o provocassero sguardi sfuggenti.
Alcuni, come Maddhi Boddhi Clear, Rumi e un fisico cosmologo di nome Einstein Shomi Ali, cercarono apertamente di intessere con me una conversazione sull’argomento della mia intrigante avventura. Einstein desiderava ardentemente avere una descrizione dettagliata degli effetti della distorsione; Rumi, cercando di dare un taglio un po’ più profondo, mi offrì di andare nella sua cabina dove avrei potuto confrontare la mia esperienza sensoriale con determinati dipinti e oggetti d’arte che si diceva fossero stati creati da artisti in vari stati di trasporto psicosomatico. Maddhi, naturellement, nel suo stile fiorito, mi incalzò per sapere se ci fossero prove delle tracce di Noi Che Siamo Già Andati scritte nella percezione del nudo firmamento, anche se io avvertii sotto quell’atteggiamento un più profondo desiderio di apprendere l’essenza dell’esperienza in sé.
Ai miei interlocutori risposi con la candida verità, sebbene con un’attenta concisione, definita dai parametri della domanda. Al cosmologo descrissi l’esperienza sensoriale in termini di distorsione, senza divulgare le implicite conseguenze psichiche. Mi sbarazzai di Rumi asserendo che nessuna opera d’arte che avessi mai visto esprimeva una tale realtà, anche se forse in futuro avrei accettato il suo invito a esaminare la sua collezione di opere arcane. A Maddhi raccontai l’esperienza che mi aveva portato a credere nella definitiva sincerità della sua ricerca, anche se non avevo individuato alcuna traccia di sapienza aliena.
In effetti ottenni un certo grado di insana soddisfazione nel parlare alla fine col mio autentico spirito, per quello che fosse tale essenza, invece che nascondendomi dietro il mio personaggio, anche se mantenevo abbastanza consapevolezza del mio ruolo di Comandante dall’astenermi di svelare la mia weltanschauung ai miei interroganti.
Furono invece proprio quelli come Sar, Argus, Mori, Aga e soprattutto la nostra Domo Lorenza che, cercando di diagnosticare la mia malaise con battute vacue ed esagerate galanterie, mi costrinsero alla fine e, in qualche modo contro la mia volontà, alla solitudine della mia cabina.
I vaghi interrogatori riguardanti il mio schema di sonno, il contenuto dei miei sogni e le funzioni fisiologiche erano già abbastanza sgradevoli, ma quando Lorenza trasformò questo atteggiamento in una pubblica inquisizione, non potei più tollerarlo.
Anche se avevo evitato scrupolosamente la sua compagnia per quanto possibile, la figura sociale più importante di bordo non poteva certo aspettarsi di sfuggire a tempo indefinito a un confronto con la padrona del Grand Palais.
Ero seduto nel refettorio del ponte-cucine, dove la fame mi aveva spinto, quando avvenne l’inevitabile. Lì, dove lunghe tavole e panche bianche creavano l’ambientazione tipica di una sala da pranzo di caserma, si poteva placare la propria fame senza rendere il fatto un evento sociale, almeno per quanto una cosa simile fosse possibile al Capitano della nave. Anche se il refettorio era affollato, lì i convenevoli sociali non richiedevano che si conversasse con il vicino a meno che il desiderio non fosse comune a entrambi, e la consumazione solitaria del proprio pasto non era malvista.
Mi ero quindi ritirato, al momento, sia dalle lingue lunghe sia dalle voci interiori nell’universo sensoriale di un piatto di pasta goreng à la fruit de mer (una pietanza di pasta, verdura, frutti di mare, uova e spezie di notevole complessità) quando Lorenza fece il suo solenne ingresso.
Priva di seguito, era vestita con semplici pantaloni e camicia bianchi e aveva legato i lunghi capelli in una coda di cavallo. Sans bijoux o trucco, sembrava un po’ gonfia e stravolta, come se si fosse concessa piaceri in eccesso o, forse, li avesse inseguiti con esagerata determinazione. Nonostante tutto, non era possibile per Lorenza Kareen Patali entrare in una stanza in uno stile che non fosse calcolato per annunciare la propria presenza, inoltre la nostra Domo non conosceva l’etiquette della privacy in una sala da pranzo. Si indirizzò determinata verso il punto in cui io ero seduto e si sedette di fianco a me in un modo che non lasciava la possibilità di congedarla cortesemente.
— Mi dispiace per il mio sfogo nel grand salon, Genro — disse con un tono di voce normale che però arrivava almeno alla mezza dozzina di Onorati Passeggeri che si trovavano lungo la tavola. — Avevo assunto una considerevole complessità di alcolici e droghe ed ero anche nel pieno di intrighi amorosi.
— Evento trascurabile — le dissi con una mistura di galanteria, reale indifferenza e desiderio di chiudere subito l’argomento. — Abbiamo tutti momenti simili, ne?
— Ma è stato un atto di crudeltà accusarti di insensibilità erotica quando in effetti soffrivi di una malaise più profonda.
Quel commento bastò a distogliere la mia attenzione dal piatto per portarla su di lei e a farmi corrugare la fronte. Tambien l’attenzione di tutti quelli che si trovavano nelle vicinanze si focalizzò sullo scontro, anche se i loro occhi restarono ancora più fissi sui piatti che avevano di fronte.
— Ah, pauvre Genro, è risaputo da tutti che hai vagato lungo lo scafo della nave come un’anima persa — disse lei con espressione preoccupata, anche se era impossibile non cogliere una certa sfumatura maliziosa nella sua voce. — Che gauche da parte mia attribuire la tua mancanza di ardore a indifferenza al fascino femminile, quando in effetti eri vittima di qualche disfunzione psicosomatica.
— Non mi risulta di avere alcuna malattia simile — replicai gelido, in imbarazzo davanti al celato ma evidente esame minuzioso da parte dei compagni di tavola.
Lorenza si sporse in avanti, come se volesse entrare nella sfera delle confidenze senza però frenare il suo attacco verbale. — Oh, mon cher, questo è il sintomo peggiore di tutti. Ti comporti come un amante erotico in una camera dei sogni con chi ha già avuto esperienza della sofisticatezza delle tue arti tantriche, hai strani incontri con Maddhi Boddhi Clear, vaghi silenziosamente per la nave come un fantasma, passi lunghi periodi in solitaria meditazione e, finalement, passeggi... fuori, dove nessuna persona sana di mente si avventurerebbe, eppure non riesci a cogliere alcuna disfunzione nel tuo comportamento!
Dall’altra parte della tavola, in diagonale, una donna emise un rumore strozzato, come se stesse soffocando le risa e parecchie paia di occhi non riuscirono a evitare di lanciarmi sguardi in tralice.
— Non mi sembra di non avere eseguito correttamente il mio dovere — dissi infuriato. — Per quanto riguarda il resto, preoccupazioni filosofiche possono far sì che l’attenzione trascenda dal regno dei convenevoli sociali e dell’interesse erotico, anche se questo forse va al di là della tua comprensione.
Lorenza fece schioccare la lingua e scosse la testa lentamente in una triste espressione materna. — Mon pauvre petit — cantilenò con velenosa dolcezza — cerco di aiutarti a guarire, non voglio sgridarti per le tue azioni. È probabile che il tuo male abbia fondamenti di tipo organico. Hai problemi di sonno? Hai l’alito di un savor particolare? Accusi strane febbri cerebrali?
La fissai in modo truce carico di rabbia impotente. L’attenzione degli Onorati Passeggeri presenti era oramai evidentissima e la curiosità pareva in alcuni casi essere stata sostituita da una certa timorosa preoccupazione per l’equilibrio mentale del Capitano.
— Il mio sonno non è disturbato, l’odore del mio alito non infastidisce il mio olfatto e non soffro di mal di testa — replicai, secco.
— Hai appetito o soffri di inappetenza? — insistette lei. — Hai forse un senso dell’olfatto esageratamente acuito? Vai di corpo regolarmente?
— Non credo proprio che la mia defecazione o la mancanza della stessa sia un argomento di conversazione adeguato fra noi in questo o in altri luoghi! — gridai, apertamente irato.
I mormorii delle varie conversazioni piombarono nel silenzio più totale nell’intera sala da pranzo. Gli sguardi di tutti i presenti erano puntati su di me. Si videro fronti corrugate, bocche spalancate e io provai improvvisamente la percezione stritolante di essere esposto al pubblico ludibrio, cosa che mi fece diventare il volto di brace.
— Povero Genro — disse Lorenza, abbassando il tono di voce a sussurro teatrale e passandomi una mano sulla guancia di fuoco. — Non pensi che sia saggio consultare un medico?
Percepii che nella sala tutti trattenevano il fiato quando venne enunciato apertamente quel suggerimento, e notai che vennero scambiati una dozzina di sguardi seguiti da impercettibili cenni di assenso col capo, come se Lorenza avesse parlato anche a nome dei presenti.
Balzai in piedi, lanciando con disgusto i bastoncini nel piatto e feci scorrere il mio sguardo indignato su tutti gli astanti, che si voltarono altrove imbarazzati.
— Ti ringrazio per la sollecitudine — latrai a Lorenza — ma sono io e non tu la suprema autorità su questa nave! Faresti meglio a tenere le tue insinuazioni per te!
Così dicendo, mancandomi alternative, uscii con passo deciso dalla stanza furibondo, ma non così in fretta da non accorgermi del pandemonio che eruppe non appena ebbi voltato la schiena.
Ero nella mia cabina da non più di un’ora quando il Guaritore Lao interruppe le mie meditazioni con la richiesta, via interfono, di raggiungerlo in infermeria per una visita medica che, sperava lui zelante, avrebbe ristabilito la fiducia di equipaggio e Onorati Passeggeri nel Comandante della loro nave.
Non posso certamente sostenere che questa convocazione mi arrivasse del tutto inaspettata. Anche se non esisteva a bordo un’autorità superiore alla mia, in casi estremi, il Comandante poteva essere sottoposto a controllo medico da parte del Guaritore se questi fosse stato convinto della sua inabilità a svolgere le mansioni che gli competevano. In tal modo, però, il Guaritore metteva a rischio la propria carriera con una simile diagnosi e d’altra parte, se si riusciva a persuadere il Secondo Ufficiale ad assumere il comando, considerate le circostanze, costui si sarebbe esposto a un rischio anche più grave di quello del Guaritore.
Tali passaggi di comando involontari sono sempre stati rarissimi, e i casi in cui il Guaritore e il Secondo Ufficiale coinvolti siano stati in seguito ritenuti colpevoli sono ancora più rari, al punto che i particolari che li riguardano sono noti a tutti i diplomati dell’Accademia.
Di conseguenza queste procedure sono ispirate a una certa ambiguità tra la pratica e il buon senso; la situazione è riconosciuta per definizione così estrema che nessuna regolamentazione ne può definire i parametri. In queste faccende si mantiene quindi una estrema correttezza fra tutte le parti in causa. Io avrei potuto rifiutare l’invito del Guaritore Lao invocando l’impunità del Comandante, ma così facendo avrei potuto spingerlo a trarre conclusioni che avrebbero potuto sviluppare ulteriori speculazioni, inducendolo ad applicare misure più estreme. Un atteggiamento di cooperazione, invece, avrebbe potuto fare molto per tranquillizzare la situazione se fosse stato reso di dominio pubblico.
Mi dichiarai quindi subito d’accordo ad andare immediatamente all’infermeria e cercai di rendere il tragitto fin lì il più appariscente possibile, invece di comportarmi come un miscredente che striscia verso un luogo vergognoso. Mi concessi svariate opportunità per informare il pubblico che mi stavo recando alla visita, rivelazione che venne accolta con un misto di sollievo e perplessità.
Soltanto quando ebbi raggiunto il rifugio del Guaritore la mia calma si infranse. Ad aspettarmi in mezzo ad armadietti, sedie e strumenti non c’era infatti un solitario monaco ippocratico, ma un vero e proprio tribunale di inquisizione: Lorenza, Argus e il Maestro Hiro in persona circondavano con espressione truce il chiaramente inquieto Lao.
— Che cosa significa tutto ciò? — proruppi, assumendo il tono di comando.
— Questa visita medica è stata suggerita dalla nostra Domo — disse Lao a disagio.
— E anche da me — aggiunse Argus. — Quando Domo Lorenza mi ha parlato del tuo bizzarro comportamento nel refettorio ho concordato che fosse opportuna, visto che seguiva di poco il nostro sconcertante incontro. Confido che tu accetterai la nostra iniziativa, fedele allo spirito con cui è intesa.
— Date le circostanze, il Guaritore Lao ha ritenuto pertinente la mia partecipazione — disse Maestro Hiro.
Mi bloccai appena al limite di affermare il mio potere e di congedare gli astanti: per evitare quanto meno l’apparenza di una cospirazione ai miei danni, non avrebbero dovuto negarmi un po’ di privacy, inoltre mi sentivo offesissimo dalla loro sconveniente arroganza.
Riflettendo, però, mi resi conto che avevo molto da guadagnare e poco da perdere dalla loro presenza. Nell’improbabile evento che il Guaritore Lao fosse stato disposto ad affermare che la mia funzionalità era menomata, sarebbero stati informati comunque e, qualora fossi stato trovato idoneo al comando, cosa di cui ero certissimo, quali migliori vettori, per diffondere la parola di quel risultato, che i miei accusatori scornati?
Incontrai i loro sguardi, uno alla volta, fissandoli con fredda determinazione. — Benissimo — dissi — visto che tutti voi vi considerate parti in causa solidalmente interessate, sarei scortese e villano a non consentirvi di rimanere. Procediamo alla svelta: vorrei godere del mio solito sonno tranquillo prima del prossimo Salto.
E così, sotto lo sguardo nervoso del mio Secondo Ufficiale, la professionale neutralità del Maestro Hiro e l’espressione torva di Lorenza, il Capitano del Dragon Zephir concesse il suo corpus alle sonde, alle misurazioni, alle campionature e alle palpazioni del Guaritore della nave. Elettrodi di ogni genere vennero attaccati alle mie varie parti anatomiche e vennero prelevati e analizzati campioni di sangue, pelle, capelli, saliva e così via. Arcani strumenti mi vennero passati sopra e attorno e venni rivoltato come un guanto.
Alla fine, dopo un lunghissimo lasso di tempo, quei rituali terminarono e i diversi dati vennero analizzati da un biocomputer che in breve tempo produsse un sommario stampato perché il Guaritore Lao e Maestro Hiro lo esaminassero.
I due ufficiali medici lo studiarono insieme per qualche tempo, confabularono brevemente fra loro, si dichiararono d’accordo l’uno con l’altro, alzarono le spalle e si voltarono per riportare le loro scoperte.
— Ebbene — domandai. — C’è qualche prova di disfunzione?
— La tua immissione metabolica mostra una leggera insufficienza di calcio, le tue onde cerebrali indicano un certo livello di stanchezza e c’è una notevole carenza di ferro nei tuoi globuli rossi — disse il Guaritore Lao come un gufo. — Ti consiglio di consumare più formaggio, verdura fresca e carne e di dormire con maggiore regolarità.
— E tu, Maestro Hiro, hai qualcosa da aggiungere a questa diagnosi calamitosa?
— Soltanto che questa visita rivela solo l’assenza di ogni componente somatica di malaise psichica — rispose egli rassegnato. — Senza una seduta psichica dettagliata e di una certa durata non si possono trarre ulteriori conclusioni, visto che soltanto un’analisi soggettiva è in grado di identificare anomalie di carattere puramente psichico.
— E le bizzarrie di comportamento? — domandò Lorenza. — Di certo sono una prova oggettiva di una mente che non funziona bene!
— Bizzarrie di comportamento? — gridai io. — Non smanio per i tuoi favori, Lorenza, ho deciso di non impegnarmi in conversazioni oziose, esercito le mie prerogative di Comandante per esaminare l’esterno della nave e queste sarebbero prove palesi di disordine mentale?
— Non si è mai parlato di disordine mentale — precisò Lao, cercando di calmarmi, chiaramente imbarazzato per il fatto che all’interno del suo luogo sacro fossero state pronunciate espressioni così sconvenienti.
— Davvero? — dissi con esagerata pacatezza. — Allora sei disposto ad attestare che sono in pieno possesso delle mie facoltà mentali?
— Non ho motivo per attestare nulla di diverso — rispose lui.
— Allora, per quello che mi riguarda, la questione è conclusa — dichiarai. — State tranquilli che non presenterò reclami. Il mio staff medico stava semplicemente eseguendo il proprio dovere e il mio Secondo Ufficiale non può essere accusato di altro che di una eccessiva preoccupazione per la sicurezza della nave.
Spostai l’attenzione su Lorenza, che avevo deliberatamente separato da quella professione di perdono. — Per quanto riguarda te, chere Lorenza — dissi crudelmente — anche se il tuo comportamento è stato tutt’altro che esemplare, chi potrebbe non perdonare la follia di una donna rifiutata?
Con un latrato di rabbia privo di parole, Lorenza uscì come una furia dalla stanza.
Quando Argus, un po’ in preda alla vergogna, fece per seguirla, la trattenni. — Un momento per favore, Interfaccia, ho un ordine da impartirti prima di congedarti.
Argus si voltò per fissarmi con una prontezza professionale e distaccata che suscitò in me sincera ammirazione, date le circostanze, anche se la mia ira contro di lei non si poteva certo considerare completamente sedata.
— Delego a te il compito di comunicare, tramite l’interfono della nave, il risultato della visita medica — dissi.
Sbarrò gli occhi. Lao e Hiro si guardarono a vicenda, perplessi.
— Tu... tu vuoi che io informi pubblicamente gli Onorati Passeggeri che il Comandante è nel pieno possesso delle sue facoltà mentali? — disse incredula.
— Ti ordino di farlo, Interfaccia — confermai. — Visto che hai giustamente ritenuto tuo dovere porre questa domanda dando voce alle preoccupazioni della comunità, tambien è tuo dovere annunciare la risposta, nicht wahr?
— Comandante, pensi che sia una procedura adeguata? — domandò Maestro Hiro.
— Se così non fosse non impartirei quest’ordine.
— Ma...
— Basta — dissi bruscamente, ma senza perdere il controllo. — Quanto alle questioni mediche mi affido al vostro giudizio, come ho appena dimostrato. Ma come Comandante del Dragon Zephir, non tollererò discussioni sugli ordini procedurali che impartisco rispetto alla nave.
Per risparmiare a loro due e a me stesso ulteriori discussioni, lasciai che quelle parole servissero da commiato, assicurandomi di avere ristabilito la giusta autorità del mio comando.