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Come può un atto di sociale follia tranquillizzare lo spirito? Come può una infrazione al proprio dovere condurre a una migliore esecuzione dello stesso?
Indubbiamente il nostro Guaritore avrebbe potuto fornire un’astrazione teoretica per spiegare i tratti comuni di una reazione abnorme così parossistica, ma non avevo la minima intenzione di consultare Lao o il Maestro Hiro riguardo all’alchemica sessualità di quello specifico senso di sollievo.
Sia sufficiente dire che una volta che io fui uscito, non visto, dalla cabina di Dominique e tornato nell’ambiente della cultura fluttuante, mi trovai in qualche modo più a mio agio nel mio personaggio di Comandante, più in grado di agire nel regno fenomenologico a un livello fenomenologico.
Naturellement, non c’era bisogno di essere Guaritore per sapere che il sollievo dalla tortura ormonale del più prolungato e contorto atto di coitus interruptus che avessi mai potuto immaginare aveva parecchio a che fare con il ripristino della mia funzionalità psichica e, di conseguenza, sociale.
Dalle prime deboli avvisaglie al momento del secondo Salto alla liberazione a lungo procrastinata nella cabina di Dominique, il mio metabolismo era stato invaso da imperativi ormonali e adrenalinici la cui continua stimolazione e successiva frustrazione non poteva certo essere ritenuta foriera di chiarezza di pensiero.
Adesso, quanto meno, la componente somatica del mio cafard era stata rimossa dall’intervento di Dominique Alia Wu e la mia dialettica psicologica poteva finalmente procedere da una base di equilibrio biochimico.
L’antico detto secondo cui un fallo eretto non conosce moralità è una battuta ironica, ma in effetti si avvicina molto alla verità: quando l’energia della libido è catturata da un engramma sessuale la logica di ulteriori azioni è dettata non dalla volontà, ma dall’engramma stesso finché tale energia non viene liberata.
Inoltre, cedere alla mia passione noir mi aveva quanto meno fornito un’immagine più vera della sua essenza; mi ero confrontato con il vuoto al suo coeur ed ero passato a una consapevolezza, anche se parziale, della mia vera posizione nell’equazione sessuale del Salto.
Gli uomini primitivi avevano sviluppato parecchie tecniche culturali per la soggiogazione sessuale delle femmine della specie, crudeli come la recisione del clitoride o sottili come la negazione di eguaglianza di spiritualità. Perfino nelle epoche illuminate ciò era percepito come un comportamento economicamente motivato o bramosia possessiva, la trasformazione dei favori femminili in una merce di scambio del commercio dell’ego maschile.
In realtà quella era soltanto un’ulteriore trasformazione della motivazione più profonda in una razionalizzazione maggiormente sopportabile, anche se purtroppo sempre abbastanza sgradevole. Quello che io avevo imparato nell’abbraccio del mio Pilota era una cosa ormai ben stabilita negli annali della biologia e perfino una verità lapalissiana della tecnologica del Salto: il potenziale orgasmico della femmina della nostra specie trascende quello del maschio.
Di qui, la soggiogazione socio-sessuale della femmina da parte dell’homme, ben lungi dall’essere un atto di potere fallico, è in effetti un meccanismo di difesa, una fuga dal confronto con questa ingiustizia cosmica. L’intero labirinto culturale del corteggiamento maschile per l’ottenimento dei favori femminili è in effetti la mera negazione della vera natura del rapporto, e cioè che il maschio eroticamente sofisticato dona favori maggiori di quanti non ne possa ricevere. Le donne, ovviamente, potenziano questo inganno visto che la percezione maschile della vera situazione non soltanto le sottoporrebbe a invidia, ma invertirebbe anche la polarità della dualità archetipica a loro sfavore.
Il muro di purdah fra Comandante e Pilota rappresentava forse l’estrema espressione di tale negazione, essendo il meccanismo del Circuito di Salto la definitiva estensione di ciò che veniva negato. Lì lo squilibrio andava al di là della biologia, del regno dei fenomeni di massa-energia, nello stesso Grande e Unico.
In quanto freddo fatto scientifico, non mera metafora, il Salto era la metà di un atto sessuale: il risultato del mio premere il pulsante di Salto garantiva l’estasi sessuale proprio come la mia performance per Lorenza nella camera dei sogni e, in entrambi i casi, non era il mio scopo che io servivo.
Esporre un Capitano del Vuoto al contatto della realtà umana del suo Pilota era come esporlo al nucleo sessuale del suo dovere, all’atto sessuale a senso unico del Salto, alla propria invidia... dell’orgasmo femminile, della vera padrona del destino della nave, di quello che il suo spirito mascolino non poteva toccare.
Non c’è da meravigliarsi quindi che la nostra cultura stellare abbia sviluppato questo muro di purdah attorno al cuore del mistero. Non c’è da meravigliarsi che la cultura fluttuante si sia sviluppata attorno a esso in modo da deviare l’attenzione erotica del Comandante verso l’archetipica relazione con la sua Domo. Non c’è da meravigliarsi che quella relazione sia al centro della armoniosa dinamica di bordo. Non c’è da meravigliarsi che una volta che Dominique aveva fatto breccia in quel muro, la mia libido avesse spostato la sua attenzione dal regno sociale a quello psicologico.
Naturellement, quella consapevolezza non mi fiorì dentro subito, ma continuò a evolversi fino alla mia presente e triste comprensione, avvenuta tramite contemplazione, studio di cristalli di parole e ulteriori lezioni karmiche. Perfino ora, mentre codifico questa giustificazione in un cristallo di parole, mi rendo conto che sto in qualche modo fingendo o piuttosto mancando di rendere in modo comprensibile alla mia mente quotidiana un ricordo logico di quel satori (illuminazione).
Nonostante tutto, è giusto affermare che ero ormai conscio di trovarmi intrappolato in una futile passione, non a causa del corpo o dello spirito di Dominique Alia Wu, ma a causa di quello che avevo potuto gustare come pallida ombra attraverso la sua mediazione. Era quindi un veleno meno potente per la mia psiche, quanto meno così mi sembrò al momento. Non era una infatuazione feromonica, ma un mero guasto dei miei processi psichici. Proprio come tutto quel genere di mutazioni disadatte non si sarebbe forse autoestinta col passare del tempo evolutivo?
Mi sembrò di essermi persuaso di ciò dopo un breve periodo di sonno tranquillo e una partecipazione giudiziosamente distaccata ai piaceri del Grand Palais.
Dopo essere uscito furtivamente dalla cabina di Dominique ero riparato nella mia, dove ero sprofondato quasi subito in un sonno privo di sogni; in seguito avevo eseguito una serie di asana yoga e una lunga abluzione contemplativa, terminata la quale avevo recuperato sufficiente razionalità da poter continuare la digestione degli eventi interni nell’artificiale mondo esterno del vivarium.
Lì, tra il fogliame lussureggiante, i variopinti e cinguettanti uccellini e i non meno sgargianti Onorati Passeggeri, percepii gli imperativi evolutivi all’opera. Le rane non smaniavano di volare, gli uccellini non smaniavano di nuotare e la cultura fluttuante che cavalcava le stelle non smaniava di comprendere il regno esistente fra di esse. Per un uccellino nuotare significava morire e per l’uomo lanciarsi nudo nel vuoto era altrettanto negato a livello genetico. Tuttavia soltanto gli uomini avevano il potere di trascendere la programmazione della loro specie, di incapsularsi nella tecnologia, nell’arte e nella cultura e di invadere l’elemento alieno all’interno di una bolla della loro realtà autocreata.
Di conseguenza quei meccanismi di sopravvivenza umana, quando funzionavano adeguatamente, non rappresentavano il trionfo del determinismo sull’individuo ma il trionfo dello spirito sul determinismo evolutivo.
Essere sbalzati fuori per caso da quella realtà humaine e vedere ciò che giaceva oltre significava raggiungere una percezione più solidale rispetto ai compagni viaggiatori, che danzavano la loro parte sulla scena. Ero certo che la mia ossessione mutante fosse svanita alla fredda e limpida luce evolutiva.
Ben presto mi trovai di nuovo a partecipare alle conversazioni e a sorseggiare vino con gli Onorati Passeggeri.
E la cultura fluttuante non era forse all’apice delle culture reperibili nei mondi umani? Nel giro di poche ore gli argomenti inclusero le ecosfere esterne di due pianeti abitabili di recente scoperta, un confronto tra annate di vini moderne e quelle di antica tradizione terrestre, il relativo equilibrio di yin e yang nella nostra cultura transtellare, la speculazione sulla penuria di vita intelligente nella nostra piccola regione della galassia, la tendenza nella scultura e pittura contemporanee, così come gli inevitabili pettegolezzi di bordo.
Se la cultura fluttuante aveva la sua bella quantità di figli di fortuna, ricchi sibariti, persone che scappavano dalla noia e i loro accompagnatori parassiti, questi non facevano forse da corollario ai mercanti, agli artisti, agli scienziati e ai pellegrini che viaggiavano attraverso le stelle per scopi più elevati? Nei tempi antichi le corti dei monarchi rappresentavano un simile distillato delle essenze più rarefatte della cultura umana: anche quelle erano gabbie dorate piene di impettiti uccelli del paradiso, ma accanto a loro si trovavano anche i filosofi, gli artisti e i maghi dell’epoca.
La ricchezza di prim’ordine si contorna di raffinatezze per i sensi ma, al di là di esse, concede a se stessa l’acquisto più elevato possibile, la compagnia della crème della crème artistica, intellettuale, scientifica e spirituale della società umana. Certamente nella Seconda Epoca Stellare la cultura fluttuante rappresenta un tale distillato; sgarbato, da parte mia, guardare dall’alto in basso il pinnacolo della mia società, come se mi trovassi in un altezzoso Olimpo quando in realtà anche io ero beneficiario diretto del suo mecenatismo.
La segreta violazione del tabù principale della mia matrice sociale mi aveva quindi, in qualche modo, riportato a una specie di armonia con essa.
Soltanto l’inevitabile confronto con Lorenza Kareen Patali avrebbe finito col turbare quella immersione nelle acque del sociale con i presagi e il fugace ricordo dell’intrusivo vuoto, con l’accenno alle dinamiche meno sociali che, nonostante tutto, continuavano a circondarlo e a fare da sfondo sia a quella bolla d’allegria dorata umana sia al mio personaggio sociale che, al momento, così bene si integrava in essa.
Ero entrato nel grand salon in compagnia di Mori, del mercante artista Rumi Jellah Cohn, di Sar Medina Gondo, una bionda stupefacente di grande ricchezza e scarso intelletto che si era attaccata a me, e di Orvis Embri Rico, uno scultore che sembrava essere l’amante pagato di lei o sotto il suo patronato o entrambe le cose.
Lorenza era stesa in una nicchia imbottita illuminata da un faretto rosa con un uomo muscoloso dai pantaloni e dalla blusa ampi in seta nera; dalla postura, dalla pipa di sostanze stupefacenti che stavano condividendo e dai calici d’argento pieni di vino che stavano appoggiati sul tavolinetto davanti a loro con i bordi che si toccavano, dedussi che erano appena tornati da una camera dei sogni.
Le mie reazioni a questa vista furono oscure, strane e sconcertanti. Lorenza era estremamente attraente: i lunghi capelli rossi scompigliati, la pelle d’ebano ripulita da ogni artificio, il corpo in posa languida che si intravedeva sotto una trasparente vestaglia gialla, priva di una forma precisa. Quella visione, potenziata forse dalla presenza del suo compagno del momento, mi stimolò un certo ardore del genere che era mancato durante il nostro recente pas de deux, una nostalgia per il calore del suo abbraccio che mi era stato negato dalla mia stessa disfunzione psichica, un desiderio di ripetere l’episodio con una conclusione mutualmente più soddisfacente.
Allo stesso tempo provai un certo dispiacere, un brivido di atavica gelosia maschile, ma avvertii anche il senso dell’incrinatura delle sottili armonie sociali di cui io, e non lei, ero stato la vera causa. Anche se non è sconveniente che Comandante e Domo condividano camere dei sogni con tutti gli altri, è meglio mantenere in pubblico l’illusione di discrezione, in modo che tali legami non vengano percepiti dagli Onorati Passeggeri come un’affermazione di biasimo nei confronti dell’altro, una violazione deliberata della fiction archetipica.
Sentii che quel quadretto aveva esattamente quello scopo, come se Lorenza si fosse resa conto, a livello subliminale, della mia tresca con Dominique e cercasse di colpirmi pubblicamente per riequilibrare la situazione. Quanto meno fu ciò che pensai nella malaise sessuale carica di sensi di colpa che si riattivò all’improvviso.
Mentre ero incerto se abboccare all’amo o lasciare la coppia per proprio conto, la decisione venne presa per me da Sar che mi afferrò in modo possessivo per un braccio e mi condusse verso di loro, con gli altri al seguito.
— Oh, Lorenza — disse in tono colorito — devo ringraziarti per il godimento di un viaggio tres rare (molto raro)! La meraviglia del vivarium, le prelibatezze della tavola, la piquancy dell’intrattenimento! La compagnia simpathetique! Le camere del sogno così osé...
Disse le ultime parole con un risolino teatrale, facendo roteare gli occhi e attirandomi a sé, cosa che rese acida l’espressione di Orvis e fece quasi nascondere a Rumi il proprio divertimento dietro a una mano.
Lorenza finse indifferenza o forse percepì la nullità che formava il nucleo di quelle parole. — Merci, buona Sar — disse languidamente. — L’apprezzamento dell’esperto è il più grande piacere per l’artista. — Guardò entrambi mentre lo diceva, ma il modo in cui sbatté le palpebre e dischiuse le labbra mi fece capire che il significato profondo della risposta era diretto a me.
— E tu, mio buon signore, sei un esperto dei piaceri del Grand Palais o viaggi per motivi più funzionali? — domandai indirizzandomi al tipo vestito di nero.
— Nessuna delle due cose o forse entrambe — rispose quello, tirando una boccata dalla pipa. — Come te, Capitano Genro, fornisco un servizio agli Onorati Passeggeri. Sono Aga Henri Koram, servidor de usted, libero servitore alle dipendenze della nostra bella Domo.
— Davvero? — commentò Sar inarcando un sopracciglio. — E che genere di servizio fornisci?
Aga le lanciò un languido sorriso fissandola con i pacati occhi scuri. — So servire i vini e le vivande alla maniera classica, così come comporre ed eseguire odi musicali — rispose. — Inoltre sono maestro nelle arti tantriche, visto che un servitore deve essere versatile in quanto al procurare piaceri.
— Lieta di conoscerti — disse Sar con voce flautata. — Forse prima della fine del viaggio commissionerò i tuoi servigi...
— Se lo farai, troverai i miei prezzi onesti e le mie prestazioni adeguate — affermò Aga, senza falsa modestia o vanteria. — Domo Lorenza può attestarlo: abbiamo viaggiato assieme in svariate occasioni.
Lorenza, che aveva osservato lo scambio con un’aria di distaccato divertimento, inclinò la testa verso Aga agitando i capelli rossi e continuando però a fissare me con i suoi occhi azzurri. — Vraiment, le prestazioni di Aga sono di calibro altissimo — disse in modo lezioso.
Regnò un momento di silenzio carico di imbarazzo; non fosse stato per questo, avrei potuto definire l’impressione di quello scambio di battute a mio beneficio un riferimento di paranoia illusoria. Le espressioni dei volti degli osservatori però confermarono quella weltanschauung: Lorenza aveva deliberatamente organizzato quel quadretto per esternare la sottile disarmonia fra noi due con una ripicca un po’ meno raffinata.
Se colpire la mia attenzione di uomo e di Comandante era stato lo scopo ultimo di quella charade, la trama aveva avuto successo: dopo un periodo adeguato di ulteriori gradevolezze, trassi Lorenza di lato col pretesto di discutere di certi aspetti dei nostri compiti. In realtà la rappresentazione armonica dei nostri compiti era proprio ciò di cui volevo parlare.
— Sei arrabbiata con me per quello che è successo nella camera dei sogni: è questa la raison d’etre di questo display pubblico di desiderio di rivincita, nicht wahr?
Lorenza mi guardò da dietro una facciata di ingenua innocenza. — Desiderio di rivincita? Pubblico display? Que pasa, mon cher Genro?
— Non negherai forse di avere condiviso una camera dei sogni con quel servitore?
— Certo che no — rispose lei, pacata. — Perché dovrei?
La fissai intensamente negli occhi di ghiaccio, realizzando che quel discorso non sarebbe riuscito a comunicare nulla senza la collaborazione empathetique che lei mi stava di proposito negando. Paradossalmente, tuttavia, stavano passando dei veri messaggi al di sotto della primaria superficie verbale: senza che sembrasse così, mi stava dicendo che avevo perfettamente ragione. Il che, dopo tutto, significava soltanto che il suo precedente comunicato obliquo era andato a segno.
— Non c’è alcun motivo, Lorenza — le dissi. — Ma sarebbe meglio che certe ripicche venissero effettuate meno pubblicamente.
— Ripicche, mon cher? — ribatté lei, serena. — Perché mai dovrei avere un motivo per una ripicca? — Mi lanciò tuttavia un sorriso che contraddiceva le sue parole.
— Indubbiamente sono io a compiere una ripicca proiettando il mio giudizio di me stesso sui tuoi atti così innocenti — dissi con ironia, sfumando a mia volta le parole con una smorfia.
— Tres galant — disse secca Lorenza.
Con mia grande sorpresa, forse non con sua, stavo cominciando a trovare quel sottile duello eroticamente stuzzicante. — Anch’io non sono privo di certe grazie — dissi tranquillamente. — Sebbene non vanti l’abilità di un professionista.
Lo sguardo le si addolcì un poco e mi rivolse le successive parole con un sorriso. — Però per un amateur tantrique, la tua prestazione non manca di molto. Eccetto, forse, di sincerità.
— Forse a quello si può rimediare con un po’ di esercizio.
— Quien sabe? — commentò lei con una risatina. — Vraiment sono disponibile a continuare la discussione in privato, dopo un adeguato periodo di riflessione.
— Dopo il prossimo Salto? — suggerii. — In un’altra camera dei sogni di tua scelta?
— No, cher Genro. Questa volta la scelta del posto spetta a te, visto che la mia non ti ha soddisfatto completamente.
— Anche tu sei molto galante, Lorenza — dissi, sigillando l’appuntamento con un bacio sulla mano di lei, anche se entrambi sapevamo perfettamente che quella che Lorenza mi aveva lanciato era una sfida.
E così venne difesa e mantenuta una parvenza di civiltà, così Comandante e Domo preservarono il ritmo della loro pavana pubblica da una sconveniente disarmonia. Lorenza mi prese per mano mentre tornavamo al milieu (centro) della interazione sociale e, tramite contatti visivi, carezze, vino bevuto insieme e duetti di allegria, proclamammo che i nostri personaggi erano tornati a svolgere i ruoli prestabiliti.
Indubbiamente chi non ha familiarità con la rarefatta atmosfera della cultura fluttuante potrebbe pensare che questa obliquità rappresenti non tanto cortesia quanto una certa anomia, una charade priva di spirito, una decadente prevaricazione della superficialità sulla sostanza.
Forse questa verità soggettiva ha un suo valore così come ne ha il suo opposto... e cioè che la vera civiltà consiste proprio di convenzioni e rituali tramite i quali il caos interno e il vuoto esterno possono essere contenuti entro il consenso armonioso della oggettività sociale condivisa, mantenendo quindi la necessaria illusione della realtà costruita. Esistono in effetti quelli che definiscono l’essenziale natura di ogni forma artistica proprio in questo modo.
Comunque fosse, il rapporto fra Comandante e Domo, sincero o no in termini di Genro e Lorenza, non servì soltanto a riarmonizzare la superficie sociale ma a sommergere il mio caos interiore sotto la sociale dialettica della danza. Durante le successive poche ore, credo di essermi preoccupato essenzialmente dei doveri del mio ruolo di Comandante, della scelta di una adeguata camera dei sogni e dell’esthetique d’amour piuttosto che di pensieri metafisici, dello stile piuttosto che della sostanza.
Soltanto mentre mi recavo al ponte di comando per effettuare il quarto Salto quel confortevole mantello di illusione cominciò a sfilacciarsi.
A ogni passo, la consapevolezza di una tensione ormai familiare cominciò a insinuarsi nella mia coscienza. Per la prima volta, credo, notai che pochi Onorati Passeggeri mi salutarono e quanto poco li degnassi di attenzione io; era come se, per un accordo inespresso, la transizione dall’illusione interna della cultura fluttuante alla realtà del mio vero comando fosse un rito solenne da eseguire in isolamento.
Quando arrivai sul ponte, sentii il mio personaggio dissolversi sotto la nera e fredda volta stellata; immense energie impersonali sembrarono rovesciarmisi addosso da quei milioni di fissi occhi siderali: venni avvolto da una realtà completamente indifferente in un abbraccio che era al tempo stesso gelido eppure oscuramente sensuale. Ovviamente l’armatura del costrutto psichico, la superficie culturale del personaggio, era completamente inadeguata al confronto della nuda espressione del vuoto. Come sembrava vana tale illusione davanti a quella impietosa realtà!
Eppure quale maggiore grandeur poteva immaginare il vero spirito che stare seduto lì, sul trono di Comandante, nudo davanti al vuoto privo di veli, osando sfidarlo con i semplici meccanismi dell’uomo?
Mentre cominciava la familiare procedura del countdown, la percepii per la prima volta come un solenne rito, e non soltanto in senso metaforico, ma come mantra tramite cui noi pochi iniziati che fissavamo il volto dietro il velo di maya, in cima a quella montagna al di sopra del mondo interno degli uomini, potevamo schermare noi stessi dalla vera vista del caos tramite la nostra funzionale danza del dovere.
In questo modo scambiavamo un’illusione con un’altra: distoglievamo il nostro sguardo dall’ultima sfida al nostro spirito.
— Circuito di Salto in attesa. Parametri principali normali.
Mentre Mori ripassava la lista di controllo, mi trovai a invertire la polarità del rituale: invece che focalizzare la mia attenzione sui sensori rossi che si accendevano sulla console fissai davanti a me il nudo vuoto stesso, lasciando che il ritmo delle parole non portasse la mia coscienza al rito, ma al di là di esso, alla consapevolezza di ciò che cercava di negare.
— Pilota nel Circuito.
Un vento freddo sembrò soffiarmi attraverso mentre il rituale mi rammentava che, nel profondo del macchinario, all’interno del modulo del Pilota, Dominique, fra tutti i presenti a bordo, era l’unica a confrontarsi con la vera realtà, la vera irrealtà, il Grande e Unico privo di volto o forma, di fronte al quale anche il vuoto universale non risultava altro che un illusorio velo finale.
— ... lista di controllo completata, tutti i sistemi pronti per il Salto.
— Assumi la tua posizione, Man Jack.
— Coordinata vettoriale di sovrapposizione calcolata e in console.
— Inserisco la coordinata vettoriale di sovrapposizione nel Circuito di Salto — intonai, toccando il sensore di comando tramite la memoria cinestetica, mentre l’oscurità stellata mi riempiva il sensorium. Così facendo mi resi conto che quell’azione era una connessione ombelicale con la realtà quotidiana, la proiezione della volontà umana nella discontinuità incombente di massa-energia del Salto, la traccia di molliche attraverso la foresta, la via verso il focolare di casa.
— Aura del Campo di Salto... eretta.
In realtà provai nuovamente un brivido erotico, ma coperto di empatia humaine: se l’eros è la condivisione di comunione psichica tradotto nella sprach della carne, allora io oso chiamare l’amore che provai invidia per il viaggio fusa con l’ammirazione per il viaggiatore.
Spostai lentamente il dito sul comando di Salto e l’intervallo di tempo sembrò espandersi mentre la mia coscienza vi riversava satori.
Suonò la prima nota del segnale di Salto riverberando attraverso il ponte, la nave, il mio corpo, ovunque eccetto che nel centro, il modulo del Pilota.
Con essa arrivò il ricordo di Dominique... l’odore di acetone del suo alito, l’odore del vuoto e del coraggio di affrontarlo; con quel ricordo olfattivo giunse il congruente ricordo del mio eccitamento sessuale.
Risuonò la seconda nota, portando le parole che lei aveva detto: “Se insisti sulla metafora erotique, stai tranquillo. Non violenti il mio spirito”.
Adesso però la musica di quelle parole sembrava avere un ritornello dal significato nuovo. “Non violenti il mio spirito” diceva la melodia. Au contraire! Au contraire! sussurrava il ritornello.
Risuonò l’ultima nota.
Il mio ricordo si ripiegò su se stesso tornando alle labbra di lei che scivolavano sul tronco nervoso della mia estasi fallica in temporanea congruenza con le ultime parole mormorate: “So (così), ricorderai questo al momento del Salto semmai dovessi indugiare, e saprai che non si tratta di stupro”. Au contraire, au contraire!
Mentre fissavo l’oscurità stellata come se fossero gli occhi di un’amante, gli occhi di lei, col dito sopra il sensore dell’estrema penetrazione, capii.
— Salto — dissi, e la mia bocca sembrò formare la parola con infinita lentezza, gustandola e lanciandola al vuoto come un bacio. Né stupro, né freddo meccanismo o ideogramma di squilibrio psichico, percepii il tocco sul sensore di comando come atto di amore: vero, estremo e al di là dell’egoistica soddisfazione.
In quell’augenblick dalla durata eterna, mi sembrò di sentire aprirsi un canale elettrico: dalla mia bocca che formulava una parola d’amore e dalla punta del mio dito, attraverso la traccia mnemonica dell’orgasmo, a Dominique, lassù nel Grande e Unico, nel modulo del Pilota; a quel punto un grande sospiro di ariosa energia esplose dentro di me.
Le stelle si erano spostate. Il momento era passato. Nel tempo reale, il mio corpo riprese a vibrare di energia dovuta al mancato appagamento.
Con grande sforzo psichico e un atto di volontà mi alzai dal sedile di quel satori che svaniva velocemente. Mi sembrò di potere ricatturare ciò che si stava sciogliendo fissando il mandala stellato che avevo davanti.
Argus aveva annunciato la nostra nuova posizione, l’equipaggio aspettava ordini, Dominique giaceva in coma e mi attendeva l’incontro con Lorenza. Genro Kane Gupta dovette ancora una volta indossare la maschera del suo ruolo; ancora una volta il mio spirito disarmonizzato doveva servire l’armonia della nave. Argus e Mori avevano già cominciato a guardare in modo strano il Comandante, che stava lì a fissare lo spazio vuoto.
Per fortuna mi ero accordato per incontrare Lorenza direttamente sul ponte delle camere del sogno e non nel grand salon; mentre camminavo per i corridoi feci fatica a ricambiare il saluto di quelli che incontravo. Ombre, erano povere pallide ombre e io un giocatore involontario di quella quotidiana charade.
Mi accorsi già in quel momento dello scivolone del mio personaggio? Percepii forse nello specchio dei volti di passaggio la mia stessa anomia sociale?
Quando l’ascensore fece giungere il mio corpus nei profondi recessi del Grand Palais, Lorenza era lì ad aspettarmi. Avvolta in veli la cui sfumatura rosata corrispondeva alla perfezione con le pareti uterine del corridoio e i lunghi capelli rossi che fluttuavano nelle brezze profumate, mi sembrò una incarnazione della stessa atmosfera, un’apparizione, una driade di quella foresta rosa del piacere.
Nonostante tutto mi ci volle un notevole atto di volontà per risvegliare il vero uomo che c’era in me dal torpore in cui era immerso, anche davanti a quella visione di piaceri carnali.
— Oh, cher Genro, che sogno dobbiamo condividere? — disse lei, afferrandomi le mani come una bambina che si aspetta un bel viaggio.
— Nada che vada oltre la visione che ho adesso — risposi, rifugiandomi nella galanteria ed evitando al tempo stesso una risposta diretta, visto che dal momento in cui ero salito sul ponte di comando non avevo più assolutamente pensato a quell’incontro e anche le mie precedenti riflessioni di estetica erotica erano passate nell’abisso dei ricordi.
Mostrando un certo buon umore la condussi per mano attraverso il dedalo, sbirciando nelle camere dei sogni, come se fossi sicuro della destinazione ma volessi giocare la carta dell’indecisione: naturellement era proprio il contrario, visto che stavo veramente cercando una camera che potesse conciliare il desiderio di lei con il mio spirito.
Era il karma che stava agendo a caso, il fatto che la charade si stesse sfaldando, o una congruenza con il mio tropismo interno che portarono alla mia scelta? Forse tutte e tre le cose, visto che Lorenza si stava facendo impaziente e la camera che ci si presentò in quel momento rispecchiava ciò che avevo dentro.
Il sogno di quella camera era lo spazio stesso: un infinito illusorio di oscurità trafitta di gioielli in cui si fluttuava liberi dal turgido abbraccio della gravità. Naturellement, non il vuoto mortale che si trovava al di là dello scafo del Dragon Zephir, bensì una sua stilizzazione astratta. La temperatura non era gelida ma gradevole per il corpo, e le stelle non erano fisse come vertici eterni in una griglia cristallina, ma eseguivano un valzer complesso alla musica di una celestiale orchestra. Il vuoto sì, ma rimodellato secondo i desideri del cuore umano.
— Que drole, mon Captain — disse Lorenza, il suo umorismo velato da una certa ritrosia. — Il Capitano delle Navi del Vuoto sceglie il vuoto, ne?
Non mi venne in mente nessuna battuta; in effetti, in un augenblick di paranoia noir, mi sembrò che quegli occhi azzurri avessero visto il nucleo del mio desiderio ultraterreno. Una strana energia cominciò a diffondersi nei chakra della mia spina dorsale per sollevare la mia lancia fallica in modo quasi metallico; non si trattava del sensuale risveglio del prana humain ma di un improvviso lampo freddo di elettricità nei miei circuiti.
Mi tolsi i vestiti con efficienza meccanica, notando appena la danza eseguita da Lorenza per sbarazzarsi dei propri veli. Come se qualche sensore nascosto avesse segnato il movimento d’apertura della nostra pavana, il tempo della musica cominciò ad accelerare e le stelle turbinarono più in fretta nelle loro orbite.
Con la pelle d’ebano nuda contro la più profonda oscurità, il corpo di Lorenza sembrò fondersi nel vuoto, diventando una estensione palpitante dell’atmosfera stessa, un esprit de la nuit che emergeva dalle acque oscure in una spuma di stelle: occhi azzurri, sorriso bianco, nebulosa rossa di capelli che incarnavano l’ineffabile in sé.
Io scivolai verso di lei, giù, giù, giù nel vortice del desiderio del ricordo... nel Circuito, nel vuoto, nel trono del Comandante, col dito eretto sul sensore di comando mentre fissavo l’espressione della grandezza al di là.
La mia schiena era un arco di freddo cavo elettrico, il mio fallo sovraccarico di dolorosa tensione; il mio senso del chi, dove e cosa, come il vortice di stelle che mi attirava verso il centro, come il volto dello stesso vuoto incarnato, sembrò dissolversi e frammentarsi in un caos sans forma, sans interfaccia.
Mentre ci toccavamo, mentre la carne sfiorava la carne, mentre labbra e lingue si univano, mentre la musica proseguiva in un continuo crescendo e le stelle divenivano il vortice di un buco nero attorno al nostro vuoto centrale, non ci fu altro che una bruciante successione di lampi che mi percorsero la spina dorsale fino alla torturata lancia del mio fallo.
Gemendo, il mio dito toccò il sensore di comando, con un singolo affondo di spada penetrai nel nucleo dell’oscurità...
Salto!
...ed esplosi in una doccia di schegge elettriche, una scarica dopo l’altra di fredda e ustionante estasi che sorgeva attraverso la mia carne galvanica nella vulva del vuoto.
Come il Salto stesso, passò in un augenblick, lasciandomi svuotato, frammentato, ansimante nel buio.
Lorenza fluttuò davanti a me, gli occhi due biglie azzurro-ghiaccio, le labbra serrate in una smorfia. — Animale! — latrò. — Sarebbe questa l’arte tantrica?
Restai lì, a fluttuare per un lungo silente momento sotto il brutale disprezzo del suo sguardo, assorbendolo, facendo mio il suo giudizio. Distrutto dalla vergogna, bloccato da una vile consapevolezza segreta, tremante per il sudore provocato dal mio senso di colpa, come avrei potuto replicare?
Eppure... eppure...
Lentamente la mia focalizzazione psichica cominciò a fondersi nuovamente nel mio personaggio di Comandante: divenni anche troppo conscio dell’enormità che avevo commesso, dell’irreparabile rottura fra Capitano e Domo e di quello che avrebbe potuto portare nel regno del sociale. Esitante, nuotai verso di lei, la mia coscienza politica indirizzata da lacrime di coccodrillo a tentare un risarcimento attraverso l’applicazione delle arti tantriche orali volenterosa ma priva di sostanza.
— No! — gridò Lorenza sollevando una mano per bloccarmi, allontanandosi da me come l’immagine stessa del disgusto. Quindi, osservandomi con sguardo più riflessivo e pacato: — No...
— Mi dispiace, Lorenza, io...
— Vraiment! — sibilò lei. — Devi davvero dispiacerti! — Poi, ancora una volta, una eco più pacata: — Vraiment, mon pauvre petit. — Sospirò, rilassò le spalle e lentamente cominciò a fissarmi più con pena che con rabbia. — Davvero, sei posseduto da qualche malaise, Genro. Prima la frustrazione priapica, poi questa... questa perdita di controllo civilizzato.
Annuii in muto assenso, grato per la sua solidarietà a quel livello, ma sapendo bene che una vera connessione empathetique fra noi era impossibile a un livello più alto.
Consapevole anche del mio vergognoso disagio, lei si avvicinò un po’, sollevò una mano quasi per accarezzarmi una guancia. — De nada, cher Genro — disse. — Ho avuto esperienza di maladroit (maldestre) performance sessuali prima. Di certo il Guaritore Lao ti curerà della tua malady.
— Non penso — le risposi, scuotendo la testa. Sapevo infatti bene che non esisteva alcuna cura all’interno della sfera di pertinenza del Guaritore, sempre che ciò che mi aveva infettato lo spirito potesse essere chiamato malattia.
— Por que no? — disse lei nuovamente seccata. — Fallire nel pas d’amour per una malaise posso capirlo, ma rifiutarsi di cercare una cura per folle orgoglio maschile, questo è un conscio atto di egoismo!
— Chiamalo come vuoi — dissi con la cocciutaggine dovuta alla segreta consapevolezza che non potevo rivelare. — Ma, bitte, non parlarne con i passeggeri o l’equipaggio. Non dobbiamo infettare il regno del sociale con la nostra... la nostra...
— Tu vorresti forse fare una predica a me con queste balle sul dovere? — disse bruscamente. — Tu, che ti rifiuti di eseguire il tuo? Io sono la Domo del Grand Palais del Dragon Zephir! Non turberò l’armonia del mio regno per una vendetta personale! Naturellement, manterremo una facciata civile.
— Apprezzo la tua discrezione, Lorenza.
— Discrezione, pfui! — dichiarò lei con altezzosa freddezza. — Mantengo una facciata di civiltà in onore del mio dovere, mio povero relitto di Comandante, tutto qui!
Annuii, sospirai, mi ritirai dietro il muro che esisteva ormai fra di noi, una barriera che avevo creato io, volente o nolente. Mentre mi rivestivo, però, provai un perverso senso di amara libertà. Sapevo adesso che la focalizzazione della mia consapevolezza si era staccata dalla performance del mio ruolo di Comandante in un purdah d’esprit autoimposto. Come Dominique, lo scopo che il mio spirito serviva ora era suo proprio.
Quanto meno così credevo, nella mia malaise.