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— Generatore del Propulsore di Salto attivato e in attesa, parametri normali.

Il primo rosso sensore di comando si illuminò sulla mia console.

— Circuiti elettronici di Salto attivati, parametri normali; circuiti dell’Armonizzatore attivati in attesa, parametri normali.

Uno per uno i sensori ambrati si illuminarono davanti a me, mentre Mori si affaccendava lungo il banco di monitor allineati su tutta la parete curva anteriore del ponte. Mentre passava da un monitor all’altro, con gli occhi fissi sugli strumenti, declamando la propria parte del rituale, capii per la prima volta, o quanto meno, ebbi la chiara sensazione, che quelle console fossero state allineate così come un elemento di ingegneria psicologica.

Dopo tutto si sarebbero potute benissimo sistemare l’una sopra l’altra davanti alla sedia del Man Jack, non c’era alcun bisogno strettamente funzionale di allinearle lungo la curvatura del ponte come una muraglia di contenimento. In effetti si trattava di una sistemazione alquanto scomoda che costringeva il povero Man Jack a balzare dall’una all’altra come una servetta.

Tuttavia, senza quella recinzione di strumenti, quella specie di barriera fra noi e il margine dell’abisso, noi tre ci saremmo trovati vertiginosamente in mezzo al ponte, circondati da un mare di stelle, senza niente a impedire a una brezza passeggera di farci precipitare nel vuoto infinito.

Naturellement, in realtà il mare stellato era soltanto un’immagine corretta nei colori dallo schermo; non ci trovavamo su un ponte aperto, ma in una capsula chiusa e non esistevano onde o brezze galattiche che ci potessero spazzare via. La mente lo capiva ma, in quel momento, così vicino al primo Salto, senza alcun reticolo di manovra a interrompere la totalità dell’illusione, lo spirito poteva cominciare a porsi delle domande.

— ... Circuito Primario attivato e in attesa, parametri normali; Pilota nel circuito, segni vitali all’interno dei parametri accettabili; lista di controllo completata, tutti i sistemi pronti per il Salto.

Mori mi lanciò un’occhiata con espressione tesa, il suo giovane volto illuminato dall’eccitazione, lo sguardo ansioso eppure professionalmente freddo. — Assumi la posizione di Salto, Man Jack — le ordinai dal mio seggio di Comandante, avvertendo una certa tensione nella mia voce.

Mori sedette di fianco ad Argus che prese a recitare la propria breve parte del rituale.

— Posizione e vettore della nave verificati e registrati; coordinata vettoriale di sovrapposizione calcolata, sulla tua console, Capitano Genro!

Altri due sensori rossi di comando si illuminarono: in quel momento avevo raggiunto l’apice del comando totale. — Inserimento della coordinata vettoriale di sovrapposizione nel computer del Circuito di Salto — annunciai toccando il primo sensore.

In quel momento, la coordinata vettoriale di sovrapposizione che Argus aveva calcolato veniva scaricata nel computer del Circuito di Salto; si trattava di una soluzione specifica dell’equazione che relazionava l’universo di massa-energia con il coestensivo spazio psicosomatico non-einsteiniano del Salto, che avrebbe guidato, o costretto, il campo mentale del Pilota e il congruente fenomeno massa-energia della nave, attraverso l’ineffabile Grande e Unico per farlo uscire dall’altra parte più o meno nella corretta direzione.

Tutti i sensori di comando erano ancora rossi. Ne toccai un secondo. — Aura del Campo di Salto attivata.

Tre delicate note musicali risuonarono per tutta la nave, il tradizionale annuncio dell’imminente Salto. Il Dragon Zephir era ormai interamente inglobato nel complesso campo di energia noto come aura del Campo di Salto. Tutti i sensori erano ancora accesi a indicare che l’aura di Salto era nella configurazione adeguata, che le componenti elettroniche del Circuito di Salto funzionavano normalmente, che l’Armonizzatore era pronto a sintonizzare l’aura di Salto della nave con il campo mentale del Pilota, imprimendo le più elevate coordinate psicosomatiche sul modello di più bassa massa-energia che era la nave, trascinandola nel Salto non appena io avessi toccato l’ultimo sensore rosso di comando.

Come faccio sempre, come certamente fanno tutti i Comandanti del Vuoto, mi fermai per un lungo momento contemplativo, inspirando lentamente mentre il mio dito indugiava appena sopra quell’ultimo sensore di comando.

Che cosa accade effettivamente durante il Salto? È possibile fornire una descrizione schematica. Quando avessi toccato quel sensore di comando, il circuito Primario avrebbe lanciato il sistema nervoso del Pilota in un orgasmo psicosomatico programmato; simultaneamente, l’Armonizzatore avrebbe sincronizzato l’aura di Salto con quella configurazione psicoelettronica, il computer del Circuito di Salto avrebbe sovrapposto quel campo combinato con la coordinata vettoriale e...

...la nave avrebbe effettuato il Salto.

Ma cosa accade durante il Salto? Che cosa fa il Pilota, che cosa prova il Pilota, in quell’eterno nanosecondo di orgasmo psicosomatico?

È possibile anche dare una descrizione elettrofisiologica di orgasmo psicosomatico. Il circuito Primario stimola simultaneamente il sistema nervoso del Pilota all’orgasmo sessuale, alla fuga nirvanica, al picco di onde alfa, allo spasmo vagale, al flusso adrenalinico e a circa venti altri picchi elettrofisiologici meno drastici. E lo tiene lì per qualcosa meno di un micromininanosecondo di tempo oggettivo, per l’infinita, soggettiva eternità del Salto.

Ma che cosa accade lì, nel discontinuo Grande e Unico? Come fa il Pilota a far effettuare il Salto alla nave? Come fa la coordinata vettoriale di sovrapposizione a consentirle, di solito, di effettuare il Salto più o meno nella giusta direzione? Perché le lunghezze del Salto variano con una così totale imprevedibilità?

Esiste, approssimativamente, una teoria psicoelettronica del Salto. Nell’orgasmo psicosomatico, l’ologramma elettronico nello spazio quadridimensionale che è la psiche del Pilota diventa coesistente con l’ologramma di spazio-tempo che è l’intero eterno universo, che esiste nell’ipotetico spazio del Salto per un momento letteralmente senza tempo, in coesistenza con l’eternità stessa. La coordinata vettoriale di sovrapposizione serve in qualche modo come ancora rispetto allo spazio quadridimensionale, riportando indietro Pilota e nave in quello che ci piace chiamare l’universo, a svariati anni luce di distanza più o meno sul vettore calcolato.

Questo è quanto ci viene insegnato all’Accademia. Tramite tale procedimento noi, potenti Comandanti, facciamo muovere le nostre navi fra le stelle! Cominciate a capire la vera discontinuità che esiste fra i Piloti del Vuoto e i comuni esseri umani?

Considerate ora l’ultimo mistero del Salto: il procedimento stesso è stato sviluppato da un criptico dispositivo trovato nelle magnifiche e perfette rovine lasciate da quella razza da lungo tempo scomparsa che si faceva chiamare Noi Che Siamo Già Andati, dopo trent’anni di esperimenti effettuati su una base di tentativi ed errori.

Così, mentre sedevo sul mio seggio di comando, col dito pronto a iniziare quel processo letteralmente atemporale che andava al di là della mia comprensione o del mio controllo, trattenni il fiato per un istante, fissando il mare di stelle, l’infinito universo di materia ed energia e, per la prima volta, quella grandiosa vista non mi sembrò una realtà più vera della sua immagine nel grande schermo che avevo davanti. Essa era una maschera di colori compensati, al di là della quale giaceva il nudo universo stesso; ma quello non era a sua volta una maschera di materia ed energia, l’ultimo velo di maya oltre al quale si nascondeva?

Strizzai gli occhi. Mi costrinsi a espirare lentamente. Anche quando compresi che era lì, mi sforzai di bandire il nome di Dominique Alia Wu da quell’angolo della mia coscienza in cui trovai che si stava celando, la personificazione umana di quel mistero, la psiche dietro il protoplasma funzionale noto come Pilota, collegato al circuito che terminava sotto la punta del mio dito. Compresi, a un livello nuovo, l’antica saggezza che isolava il Pilota da rapporti umani con Comandante ed equipaggio: adesso che si era creata una breccia, notai che quella donna aveva già perturbato l’equilibrio del mio spirito, la focalizzazione della mia volontà di inserirla nel Salto.

Fissai intensamente le stelle, usandole come un mandala per centrare il mio essere sul momento in corso, per scacciare quegli oscuri pensieri. Io ero il Comandante, quella era la mia nave e lì c’era il regno attraverso cui l’avrei fatta veleggiare. — Salto! — gridai e, come al solito, mentre toccavo il sensore di comando, tentai il futile e vecchio gioco del Comandante di cercare di percepire lo spostamento del campo stellare.

Come al solito, fallendo. Un istante le stelle erano in una configurazione e l’istante dopo in un’altra: niente movimento, niente sfocatura di immagine, niente discontinuità percepibile dall’occhio umano.

Eravamo da un’altra parte. Avevamo saltato.

Argus proiettò un reticolo su quelle nuove stelle. Immagini spettrali di altri campi stellari balenarono rapidamente sullo schermo, raddoppiando la visione, triplicandola, mentre il computer cercava di far combaciare la realtà con gli schemi che aveva in memoria. In meno di un minuto, il procedimento terminò e una delle immagini in memoria si fissò, combaciando perfettamente con l’immagine della realtà esterna.

Apparvero dei numeri sullo schermo. Mori emise un’esclamazione di approvazione.

— Quattro-punto-zero-uno anni luce — disse orgogliosa Argus. — Deviazione radiale dalla rotta normale .75 percento. Non avremmo potuto desiderare un Salto migliore. Complimenti, Comandante.

— Grazie, Interfaccia — risposi un po’ cupamente, chiedendomi in realtà a chi si dovessero fare i complimenti e per che cosa.

Vagando sotto la brillante luce del mattino nel vivarium, non molto tempo dopo il primo Salto, ascoltando i passerotti, osservando piccoli gruppi di Onorati Passeggeri che passeggiavano, conversavano, si davano appuntamenti e in generale agivano come in un qualsiasi giardino planetario, mi chiesi, forse per la prima volta, perché mai avessero scelto di essere Onorati Passeggeri.

Per viaggiare da una stella all’altra? Ma quello lo facevano più facilmente e a costi minori i diecimila portati in elettrocoma dal Dragon Zephir: si andava a dormire nel punto di partenza e ci si svegliava all’arrivo, senza passaggio di tempo soggettivo e senza perdere un istante di vita. Per sperimentare l’avventura e il romanticismo del viaggiare nel regno delle stelle? Gli Onorati Passeggeri non si degnavano nemmeno di ammettere di rendersi conto del tragitto della nave: tutto, nel Grand Palais, come quel simulacro planetario, era progettato per negarlo.

Ovviamente sapevo bene che la vera risposta era per godere dell’infinita festa della stessa cultura fluttuante: le persone sceglievano di essere Onorati Passeggeri per l’ambiance creata per loro da Domo come Lorenza. Ma se la cultura fluttuante era raison d’etre tautologica per se stessa, perché aveva allora avuto bisogno dell’avvento delle Navi del Vuoto per esistere? Non si sarebbe potuta creare altrettanto bene su una superficie planetaria o su un palais di piacere orbitante?

Ovviamente no, visto che era un fenomeno inesistente. Doveva esserci una voce interna, qualche bisogno psichico sottile e profondo, nascosto dentro quei devoti alle arti edonistiche, una chiamata del vuoto per i loro spiriti di cui erano inconsapevoli a livello conscio e, paradossalmente, essi passavano i loro infiniti viaggi cercandola e rifuggendola allo stesso tempo.

Quelli dovevano essere i pensieri scatenati dalle acque profonde del mio stesso spirito che cominciavano ad agitarsi. Perché io avevo dedicato la mia vita a quello strano modo di viaggiare? Per condividere lo stile di vita della cultura fluttuante nell’unico modo possibile rispetto alla mia situazione economica? Per visitare la varietà dei lontanissimi mondi umani? Per godere dell’eccitazione del comando? Per guardare dal mio posto di comando i mari di stelle e conoscere l’entusiasmo di confrontarsi con il vuoto absolute?

Mi era sempre sembrato tutto perfettamente normale ma in quel momento, anche se non sapevo perché, mi stava cominciando ad apparire come un altro velo di maya, un tessuto illusorio che si stava lacerando. Come un primordiale anfibio che affrontava per la prima volta l’interfaccia fra mare e aria, riuscivo vagamente a percepire una forza evolutiva che mi spingeva a lanciarmi verso il terrorizzante ignoto.

— Oh, Capitano Genro, immaginavo di poterti trovare qui.

Lorenza Kareen Patali era seduta presso una panca di pietra in mezzo a un entourage sfarzoso, che ricordava, in quel momento, il gruppo di passerotti che cinguettava sul salice soprastante. Quattro uomini: uno in abito verde, uno rosso, uno azzurro ghiaccio con un contrastante mantello scuro e uno bianco con un mantello nero; una donna piccola e formosa, di età matura, con un vestito dorato e stivali neri alti fino alla coscia, e una donna alta e dalla magrezza spettrale che indossava un magnifico abito al ginocchio, di uno strano tessuto che riproduceva perfettamente il piumaggio di un pavone maschio.

Lorenza indossava degli abiti che contrastavano fortemente con gli attuali compagni e con il suo precedente personaggio. L’abbigliamento costituito da reggiseno e calzoncini di seta e stivaletti bianchi, il tutto privo di ornamenti, contro la sua pelle nera e vellutata creava un sorprendente effetto maculato. Non aveva un gioiello in vista e i capelli le fluivano sulle spalle in artistico disordine.

Non sapevo se quell’effetto fosse calcolato a mio uso e consumo; certainement, fomentò un desiderio meno ambivalente del suo stile precedente, sufficiente a far svanire le mie complesse nebbie mentali nel fuoco della più sfrenata lussuria sessuale.

— Vieni a sederti accanto a me — mi invitò fra il gruppetto dei suoi seguaci, che mi presentò con un cinguettio di sillabe che mi passò nelle orecchie senza lasciare alcun ricordo significativo.

Allo stesso modo la discussione oziosa mi fece poca impressione al momento e ancora meno nel ricordo. Due degli uomini, Seldi Michel Chang e Peri Donal Jofe, vestiti rispettivamente di verde e bianco, erano chiaramente habitué di vecchia data dei viaggi di Lorenza: amours di un momento imprecisato, così come immaginai lo fosse stata la donna vestita da pavone. L’altra donna era compositrice di musica leggera di scarsa fama e gli altri due uomini, vestiti di rosso e azzurro ghiaccio, erano mercanti in viaggio. Le chiacchiere erano le solite da intenditori: i vini della cantina del Grand Palais, i confronti fra Bocuse Dante Ho e altri famosi maestri, le critiche di vari olofilm, gli effetti di droghe sulla psiche und so weiter (ecc.).

Non presi molto parte a quel discorso raffinato, né era ciò che ci si aspettava da me. Il vero interesse di Lorenza, di me stesso e dei presenti stava negli sguardi languidi e furtivi che io e lei ci scambiavamo mentre recitavamo i ruoli a noi assegnati per il divertimento e forse la rassicurazione degli Onorati Passeggeri.

Anch’io trassi un inconscio piacere dalla recita del mio ruolo di Comandante, forse risultava rassicurante anche per me lasciare che il magnetismo sessuale e il rituale della cultura fluttuante focalizzassero il mio essere sulle aspettative inerenti al mio personaggio, soffocando le tensioni in atto fra l’uomo interno e quello esterno. Di qui la saggezza di un rituale adeguatamente stilato... e la sua follia.

Dopo qualche tempo, il nostro pubblico comprese che il primo movimento del pezzo era terminato e si accomiatò con baciamani e inchini, sussurrando e spettegolando fra gli alberi, forse incoraggiato a tentare intrighi d’amour prendendo spunto dal nostro archetipico esempio.

Lorenza si alzò, tirandomi in piedi, si stiracchiò in modo languidamente invitante e mi fissò con i suoi occhi blu zaffiro. — L’hai notato, vero? — disse.

— Quale uomo non l’avrebbe notato? — risposi galantemente io.

Lei rise, ma una sfumatura di impazienza sembrò incresparle le labbra. — Voglio dire che sono vestita in modo più adeguato per l’amour — proseguì, passando un dito sul gancio che aveva fra le coppe del reggiseno e un altro sul davanti dei pantaloncini. — Un tocco qui... e qui... ed ecco la donna che c’è dentro.

— In omaggio alla tua percezione dei miei gusti?

Por que no? — domandò lei alzando le spalle. — Come ti ho detto, mi dimostrerò un amour alquanto multiforme. A suo tempo mi ricompenserai galantemente, ne?

Certainement — risposi guardandomi attorno. Il vivarium, però, era abbastanza affollato in quel punto: godere a lungo di privacy sembrava improbabile e una performance in pubblico sarebbe risultata poco opportuna. — Non oserei suggerire un posto così naturale.

— Hai già scelto qualche camera dei sogni?

— Il tuo alloggio e tu sareste un sogno sufficiente per ora — dissi. — Non ho bisogno di fantasia con una realtà così seducente.

Lei mi passò un braccio attorno alla vita e mi attirò a sé. — Per adesso — disse — come questa nave, sono ai tuoi comandi. In seguito ti istruirò sulle raffinatezze dei sensi.

Così, tenendoci stretti alla vita, uscimmo dal vivarium, scendemmo lungo la rampa verso il grand salon, lo attraversammo e ci recammo nelle stanze private di lei. Il tutto sotto gli sguardi di approvazione di una moltitudine di Onorati Passeggeri, domestici, e perfino di Mori, che mi rivolse un sorriso smagliante.

Di ciò che accadde fra il Capitano Genro e Domo Lorenza nelle stanze di lei c’è molto e poco da dire. Il corpo di Lorenza sans veli fornì un brivido di sorpresa inaspettato... i suoi peli pubici erano dello stesso rosso della lunga criniera. Se questo confermasse il colore naturale dei capelli o, più probabilmente, la sottigliezza dell’artificio, fui troppo galante per chiederlo. Lorenza nuda non differiva nell’effetto complessivo da Lorenza vestita e dire che entrambe erano magnifiche sarebbe solo ovvio.

Come una qualsiasi Domo, in effetti come qualsiasi donna della cultura fluttuante, si dimostrò ben addestrata nelle tecniche erotiche e abile nella loro esecuzione. Nonostante le mie limitazioni personali o psicologiche, ho sempre coltivato le arti della sessualità civile a corredo della naturale energia animale di un uomo normale, e penso sia corretto affermare che il mio repertorio sia risultato adeguato all’occasione.

Godemmo insieme di chingada in diverse configurazioni, di amour de la bouche, e anche di arti meno orientate all’orgasmo, del massaggio erotico e delle carezze, raggiungendo entrambi un soddisfacente prolungamento di tensione della libido e un’abbondanza di orgasmi.

Tuttavia, durante l’intero passage d’amour non praticammo i più elevati esercizi del tantra che cercano di imbrigliare le energie e gli stimoli della carne al servizio di una comunione dello spirito. Di conseguenza, se le nostre pratiche erotiche lasciarono poco a desiderare, non si può dire che il nostro duetto avesse raggiunto il livello della vera arte. Alla conclusione dei nostri esercizi non eravamo meno estranei e nemmeno più innamorati di prima.

Né, penso, nessuno dei due cercasse un rapporto diverso da quello. Quali che fossero state le corrispondenze feromoniche che potevano averci attirato a livello biologico, l’estensione psicologica del nostro passage d’amour non giaceva nella sfera personale ma in quella sociale, nella realizzazione dei nostri ruoli all’interno della dinamica di bordo della cultura fluttuante. Il Comandante del Vuoto e la Domo avevano completato con successo la loro danza nuziale: se il nostro incontro aveva realizzato qualcosa al di là della pura fisicità, era stato quello.

In seguito restammo stesi sul letto placando la sete con vino bianco secco, conversando oziosamente come si può fare dopo aver condiviso un ottimo pasto.

— Sei abbastanza abile nelle sequenze orali, Capitano Genro. Sono stata quasi sempre gradevolmente incapace di anticipare le pause e i cambiamenti.

— Non tanto per la mia creatività, penso, quanto per la spontaneità delle tue risposte, controllate, eppure dotate di una randomizzazione mai precisamente prevedibile...

— Oh, tres galant! Ma chi danza bene con un partner può non farlo altrettanto bene col successivo che, a sua volta può andare benissimo con una terza persona...

— Allora, alla nostra sinergia! — dissi, facendo tintinnare i bicchieri.

Und so weiter (ecc.). A dire la verità, una volta placato il mio ardore ed eseguito il mio dovere di Comandante, non passò molto prima che desiderassi di porre fine a quella coda insoddisfacente, di uscire dalla situazione con eleganza. Non mi sentii quindi affatto disturbato quando l’altoparlante della camera interruppe quelle cortesi banalità.

— Capitano Genro, Capitano Genro, contattare lo chef Bocuse Dante Ho.

— Cosa può volere da me Bocuse? — bofonchiai sconcertato a Lorenza. — Deve trattarsi per forza di una questione per la Domo.

Lorenza alzò le spalle, anche lei perplessa, mentre io mi collegavo con il ponte-cucine. — Sono il Capitano Genro...

— Sono Bocuse, mi Capitano — disse la voce agitata del maestro chef. — Abbiamo un alterco fra uno dei domestici e un ufficiale. Pazzesco! Scandaloso! Shit! Merde! Caga! Intollerabile! Devi fare finire questa storia muy presto!

— Qual è il problema, maestro? — domandai.

— Questo ufficiale pretende di essere servito. È uno scandalo! Un’enormità! Non posso creare in una simile catastrofe!

— Qual è il problema, amico? — ripetei, irritato. — Chi è l’ufficiale e perché la sua richiesta di servizio sta creando tanto trambusto?

— Il problema consiste proprio in chi è l’ufficiale, Capitano Genro. Si tratta del Pilota, qui nel mio regno, che pretende la preparazione e il servizio di un orrore gastronomico!