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«Cazzo.»
Ci hanno tagliato il telefono perché non abbiamo i soldi per pagare la bolletta. O meglio, mamma e papà non li hanno. Steve o Sarah potrebbero pagarla, ma non accadrà mai perché i nostri genitori non vogliono sentire ragioni. È una possibilità che non viene nemmeno presa in considerazione.
«Siamo arrivati a questo», borbotta Steve, percorrendo la cucina a passi rapidi e nervosi. «Io me ne vado. Il prima possibile.»
«Così poi non avranno più nemmeno i soldi che versi per vitto e alloggio», sottolinea Sarah.
«E allora? Se vogliono soffrire, possono farlo senza che io resti qui a guardare.» È giusto.
Inoltre, è lunedì sera, e sono quasi le sette. Questo non va bene. No, non va bene per niente. Zero.
«Oh, no», dico a Rube, che si sta scaldando le mani sul tostapane. Questo manda a monte il piano di usare il telefono in camera di Sarah per chiamare Perry. «Ehi, Rube.»
«Che c’è?» Le fette di pane saltano fuori.
«Il telefono.»
E capisce al volo.
«Tipico. Questa casa è totalmente inutile.» E si dimentica del pane.
Andiamo dal tizio che vive accanto, Rube ha in tasca il numero di Perry. Non c’è nessuno.
Andiamo dall’altro vicino. Idem.
Allora Rube torna in casa, prende quaranta centesimi dal portafoglio di Steve e schizziamo via come razzi. Mancano dieci minuti alle sette.
«Sai dove possiamo trovare una cabina telefonica?» chiede Rube, mentre camminiamo spediti. Ansimiamo. Stiamo quasi correndo.
«Fidati di me, ho in testa la mappa delle cabine di tutto il quartiere», gli assicuro.
Ne fiuto una, nascosta nel buio di una strada laterale.
Quando riusciamo a fare la telefonata, sono le sette in punto.
«Siete in ritardo», esordisce Perry. «Non mi piace quando mi fanno aspettare.»
«Sta’ calmo», replica Rube. «Ci hanno tagliato il telefono e ci siamo fatti quasi tre chilometri di corsa per trovare una cabina. E poi il mio orologio dice che sono le sette in punto.»
«Ok, ok. Quello che sento è il tuo respiro?»
«Te l’ho detto, ci siamo sparati quasi…»
«D’accordo.» Va subito al sodo. «Siete dentro o fuori?»
Rube.
Io.
Battito del cuore.
Respiro.
Battito del cuore.
Voce.
«Dentro.»
«Tutti e due?»
Un cenno.
«Sì.» Ci sembra di sentire Perry sorridere da un capo all’altro del telefono.
«Bene. Adesso ascoltatemi. Questa settimana non combatterete. Comincerete la prossima, a Maroubra. Prima però dobbiamo organizzarci. Vi dirò che cosa vi serve, e poi dovremo preparare il vostro lancio. Avete bisogno di nomi. E di guantoni. Ne discuteremo. Posso venire da voi o preferite che ci vediamo da un’altra parte?»
«In Stazione Centrale», propone Rube. «Il vecchio potrebbe essere a casa, e non sarebbe piacevole.»
«Ok. Stazione Centrale, allora. Domani pomeriggio alle quattro. Eddy Avenue.»
«D’accordo. Lato stazione o lato parco?»
«Lato parco.»
È tutto deciso.
«Benvenuti», ci dice Perry prima di riattaccare. Siamo dentro.
Siamo dentro, e non si torna più indietro. Non si torna indietro perché, se lo facessimo adesso, probabilmente ci ritroveremmo in fondo al mare, al porto. Vicino al punto da cui fuoriesce il petrolio, chiusi in sacchetti dell’immondizia. Be’, questa è un’esagerazione, certo, ma chi può saperlo? Chi può sapere in che mondo squallido siamo appena entrati? Sappiamo solo che potremo guadagnare dei soldi, e magari anche un po’ di autostima.
Tornando a casa, abbiamo come la sensazione che la città ci stia inghiottendo. L’adrenalina ci scorre ancora nelle vene. I polpastrelli emanano scintille. Andiamo sempre a correre la mattina, ma a quell’ora la città è diversa. È piena di speranza, e di sole. Il sole d’inverno. La sera sembra che muoia, aspettando di rinascere il giorno dopo. Mentre camminiamo vedo uno storno morto. È accanto a una bottiglia di birra nel canale di scolo. Sono entrambi privi d’anima, e possiamo soltanto passare oltre in silenzio, guardando le persone che ci guardano, ignorando quelle che ci ignorano. Rube ringhia a chi tenta di farci scendere dal marciapiede. I nostri occhi sono grandi, e sveglissimi. Le nostre orecchie colgono anche il più piccolo suono. Il nostro olfatto fiuta il traffico e gli esseri umani. Esseri umani e traffico. Avanti e indietro. Assaporiamo il momento, lo mandiamo giù, perché sappiamo che è il nostro. Avvertiamo i nervi che si contraggono nello stomaco, e che si accaniscono contro la pelle, da sotto.
Quando il mattino taglia l’orizzonte, l’indomani, stiamo già correndo da un po’. E intanto Rube mi parla di alcune cose. Vuole un sacco da pugile. Una corda per saltare. Vuole un secondo paio di guantoni per poterci allenare come si deve. Vuole dei caschetti, per evitare di ammazzarci. Vuole.
Vuole queste cose con tutto se stesso.
Corre, e i suoi piedi hanno uno scopo. C’è fame nei suoi occhi, c’è desiderio nella sua voce. Non l’ho mai visto così. Come se desiderasse disperatamente essere qualcuno e fosse disposto a combattere per questo.
Quando arriviamo a casa, il sole gli inonda il viso. Di nuovo. Una collisione.
«Lo faremo davvero, Cam», mi dice, il tono serio, solenne. «Andremo là e vinceremo, una volta tanto. Non molleremo prima di aver vinto.» È appoggiato al cancello. Si accovaccia. Infila la faccia tra i paletti orizzontali. Giocherella con il fil di ferro. E poi… mi sconvolge perché, quando si gira a guardarmi, una lacrima gli scende lungo il viso. Con la voce smorzata dalla fame, aggiunge: «Non possiamo più accettare di essere così. Dobbiamo migliorare. Dobbiamo essere più… insomma… Mamma si ammazza di lavoro, mentre papà è un uomo finito. Steve tra un po’ leverà le tende. Sarah sta facendo la figura della troia». Stringe il pugno attorno al filo metallico e, a denti stretti, conclude: «Quindi tocca a noi. È semplice. Dobbiamo diventare qualcosa di meglio. E riprenderci un po’ di amor proprio».
«Possiamo?»
«Dobbiamo. E lo faremo.» Si alza e mi afferra per la maglia, proprio in corrispondenza del cuore. «Io sono Ruben Wolfe», scandisce, duro. Mi sputa quelle parole in faccia. «E tu sei Cameron Wolfe. E questo d’ora in poi dovrà avere un significato, fratello. Dovrà smuoverci qualcosa dentro, dovrà farci desiderare di dare dignità ai nostri nomi… non dobbiamo accontentarci di essere solo due buoni a nulla qualunque, come hanno sempre detto di noi. Non esiste. Ci tireremo fuori da questa situazione. Strisceremo, gemeremo, combatteremo, morderemo e abbaieremo contro tutto ciò che proverà a mettersi sulla nostra strada, o che proverà a stanarci e ad annientarci. Ok?»
«Ok.» Annuisco.
«Bene.» Con mia grande sorpresa, Rube appoggia l’avambraccio sulla mia spalla, e insieme fissiamo la strada, che a quest’ora è invasa da una luce nera e dalle auto scintillanti. Sento che affronteremo fianco a fianco qualunque cosa ci capiterà, e per un attimo resto sconcertato davanti all’evidenza che mio fratello è cresciuto (anche se ha solo un anno più di me). Mi stupisce il fatto che sia animato da un desiderio così forte. Le sue ultime parole sono: «Se falliamo, dovremo biasimare soltanto noi stessi».
Poco dopo entriamo, e sappiamo tutti e due che ha ragione. Le uniche persone da biasimare siamo noi stessi, perché è su di noi che faremo affidamento. Ne siamo consapevoli, e questa consapevolezza sarà sempre accanto a noi, al margine di ogni singolo giorno, di ogni pulsazione e di ogni battito. Ci sediamo a fare colazione, ma non riusciamo a placare questa fame. Che continua a crescere.
E cresce ancora quando incontriamo Perry in Eddy Avenue, fuori da Belmore Park, secondo gli accordi. Alle quattro in punto.
«Ragazzi», ci saluta. Ha con sé una valigetta.
«Perry.»
«Ciao Perry.»
Andiamo verso una panchina, più o meno al centro del parco, che è stata bersagliata dai piccioni e su cui sedersi è piuttosto rischioso. Ma è meglio di altre, che i pennuti sembrano considerare i propri gabinetti personali.
«Guardate in che stato è questo posto», constata Perry, compiaciuto. È il tipo a cui piace sedersi in un parco squallido per parlare d’affari. «È vergognoso», dice, anche se la smorfia soddisfatta ha lasciato il posto a un sorriso vero e proprio. È un sorriso morbosamente maligno, in cui cordialità e felicità si uniscono a formare un mix devastante. Indossa una camicia di flanella, jeans dozzinali, stivali vecchi e, naturalmente, quel suo sorriso cattivo. Cerca un angolo su cui posare la valigetta, ma alla fine decide di metterla a terra.
Un momento di silenzio.
Si avvicina un vecchio che ci chiede qualche spicciolo.
Perry gli dà una manciata di monete, ma solo dopo avergli fatto una domanda.
«Amico, sai qual è la capitale della Svizzera?»
Il poveretto ci pensa un po’ su e risponde: «Berna».
«Molto bene. Ma il punto è questo.» Di nuovo quel dannato sorriso. «In Svizzera, una volta hanno radunato gli zingari, le troie e i vagabondi ubriaconi come te, e li hanno gettati al di là del confine. Si sono sbarazzati di tutti gli sporchi maiali che onoravano quella bella terra della loro presenza.»
«Quindi?»
«Quindi sei un vagabondo ubriacone incredibilmente fortunato, o no? Non solo puoi rimanere nel nostro splendido Stato, ma riesci anche a guadagnarti da vivere grazie a persone generose come me e i miei colleghi.»
«Loro non mi hanno dato niente.»
(Abbiamo sperperato i nostri ultimi risparmi al cinodromo, l’altro giorno.)
«È vero, ma non ti hanno nemmeno gettato nel Pacifico, o sbaglio?» Un ghigno malefico. «Non ti ci hanno buttato per poi dirti di cominciare a nuotare.» E aggiunge: «Come invece avrebbero dovuto fare».
«Tu sei schizzato.» L’ubriacone si allontana.
«Certo», gli urla dietro Perry. «Ti ho appena regalato un dollaro che mi sono guadagnato duramente.»
Sì, sicuro, penso io. Che hai guadagnato grazie a chi combatte per te.
Il vecchio è già passato a un’altra coppia – entrambi vestiti di nero, sudici, con i capelli viola. Hanno orecchini su tutta la faccia e Dr. Martens ai piedi.
«Dovrebbe darlo a loro il dollaro», scherza Rube, e io rido. Ha ragione e, mentre il vecchio ciondola attorno a quei due, io lo osservo. Ha ridotto la sua vita agli scarti e agli avanzi altrui. È triste.
È triste sì, ma Perry si è già dimenticato di quell’uomo. Si è divertito, e adesso vuole parlare di affari.
«Ok.» Mi indica. «Prima tu. Ecco i guantoni e i calzoncini. Avevo pensato anche di procurarti le scarpe, ma poi ho cambiato idea. Non ve le meritate, nessuno dei due, perché non so quanto durerete. Potrei farvele avere più in là, quindi per ora usate le vostre scarpe da ginnastica.»
«Mi sembra giusto.»
Prendo guanti e calzoncini, e devo dire che non sono affatto male.
Si vede che sono economici, ma mi piacciono molto. Guanti rosso sangue e pantaloncini blu navy.
«Ora.» Perry si accende una sigaretta e tira fuori dalla valigetta una birra calda. Sigarette e lattine di birra. Quella robaccia mi dà fastidio, ma continuo ad ascoltarlo. «Dobbiamo trovarti un nome, per presentarti alla folla prima dei combattimenti. Qualche idea?»
«Uomo Lupo?» suggerisce Rube.
Io faccio no con la testa.
Rifletto.
E poi mi viene un’idea.
Sorrido.
Lo so. Annuisco. E lo dico.
«Il Perdente.»
Il viso di Perry si illumina. Continuo a sorridere e guardo vecchi mendicanti, tipi strambi e piccioni che spazzano le strade alla ricerca di qualcosa per sopravvivere.
Sì, Perry si illumina, dietro il fumo della sigaretta, e dice: «Carino, mi piace. La gente ama i perdenti. E, anche se dovessi perdere, potresti comunque rimediare qualche mancia». Ride. «Anzi, è molto più che carino. È assolutamente perfetto.»
Ma non siamo qui a perdere tempo.
«Ora», continua, passando oltre e puntando il dito contro mio fratello. «Per te ho già pensato a tutto. Ecco guantoni e pantaloncini.» Guantoni grigio-blu. Da pochi soldi. Senza lacci, come i miei. Pantaloncini neri con bordi dorati. Più belli dei miei. «Vuoi sapere come ti chiamerai?»
«Non ho possibilità di scelta?»
«No.»
«Perché no?»
«Perché ho già organizzato tutto, te l’ho detto. Anzi, la vuoi sapere una cosa? Il nome lo scoprirai al primo combattimento, ok?»
«Suppongo di sì.»
«Di’ di sì.» Il tono è quasi violento.
«Sì.»
«E aggiungi un ‘grazie’, perché quando avrò finito con te le donne ti cadranno addosso come tessere del domino.»
Domino.
Che coglione.
Rube obbedisce. «Grazie.»
«Bene.»
Perry si alza e fa qualche passo, la valigetta lungo il fianco.
Si gira.
«Lasciate che vi ricordi che il vostro primo incontro sarà domenica prossima, a Maroubra. Vi ci porto col furgone. Fatevi trovare di nuovo in Eddy Avenue, il pomeriggio alle tre in punto. Non fatemi aspettare, perché l’autobus mi costerebbe una fortuna, e poi mi rifarei su di voi, intesi?»
Annuiamo.
Se n’è andato.
«Grazie dell’attrezzatura», grido, ma Perry Cole è già sparito.
Noi restiamo seduti sulla panchina.
Guantoni.
Calzoncini.
Parco.
Città.
Fame.
Noi.