Esplosioni
I.
La mano di mio padre si solleva lentamente, per tre secondi rimane sospesa all'altezza delle spalle, poi colpisce con violenza la mia guancia sinistra. La mano è segnata da solchi profondi, impregnata dell'acre profumo della paglia e di quello bruciante del grano maturo. Sessant'anni di lavoro hanno conferito a quella mano una dura forza e un'immensa dignità. Si abbatte sul mio viso con un rumore pesante e profondo, come l'esplosione di un pallone. Alcune scintille, brillanti e luminose, roteano veloci come meteore nel cielo grigio e blu, disegnando una serie di linee bianche, candide, che si intersecano fra loro come a formare un dipinto, che rimane lì a lungo, senza dissolversi. Esercitazioni di volo. L'aereo entra nelle fasce di nebbia tracciate nel cielo. La mano di mio padre mi lascia appena il tempo di vedere la scia lasciata dall'aereo, che già si ritrae fulminea dal mio viso. I miei lineamenti non si sono ancora ricomposti del tutto, quando in aria echeggia un'esplosione. In principio il suono sembra assumere la forma di una sfera, ma poi, in brevissimo tempo, si protende nello spazio allungandosi, allargandosi e assottigliandosi, come una cometa. Ho la netta sensazione di riuscire a vederlo quel suono: vola oltre la casa e la strada, oltrepassa veloce pianure e fiumi, colpisce gli alberi bassi e l'erba alta, per sciogliersi infine nell'aria lattiginosa d'inizio estate.
Io sono lì, in piedi, fra la nostra aia perfettamente circolare e l'atmosfera. Io sono lì, al confine tra l'aia di casa nostra e il margine dell'atmosfera. Vedo il rumore dell'esplosione svanire a poco a poco, e il sole color dell'oro rotolare tra gli alberi neri, simile a una ruota.
Fin dove arriva l'occhio, la linea blu metallo dell'orizzonte è rotta dai raggi del sole in due torrenti impetuosi, che, in una perfetta armonia di luce e ombra, corrono verso di me, paralleli e serpeggianti, per poi superarmi. Veloce come l'energia elettrica, una salamandra nera e lucente come il carbone compare sulla riva del fiume, poi scompare con la stessa rapidità. Reprimo in petto un'improvvisa sensazione dolorosa, simile a un'esplosione di folle gioia, ho come l'impressione di star gridando con tutte le mie forze.
Curvo su di me, questo padre sovrasta il mio viso da una altezza enorme. La mano che mi ha colpito è percorsa da fremiti: una piccola belva eccitata. Scalzo, un paio di calzoni neri corti fino al ginocchio, la schiena lucida, e in testa un cappellaccio di paglia con gli orli tutti logori, accartocciato e avvizzito come un fascio di foglie morte, questo padre si erge davanti a me. Mio padre, il mio austero e imponente padre, mi rivolge uno sguardo carico di compassione. C'è un acre odore intossicante nei raggi incandescenti che risplendono sulle sue alte spalle e sulle sue cosce nodose. Sembra un albero senza foglie cresciuto in mezzo all'aia: non ha ombra fresca da offrirmi, e rende il calore infuocato ancor più duro da sopportare. Senti, papà, dico... Mio padre, con gentilezza: Taci, figliolo, hai torto! Il tuo vecchio ha ormai settant'anni. Io insisto: No! Voglio parlare. Tu non capisci, non capisci un bel niente! (avanza di un passo, io arretro di uno) Cos'è che non capisco? mi chiede. E io: Se mi picchi infrangi la legge! Mio padre, ridendo di cuore, avanza barcollando e mi afferra. La mano sinistra si agita nell'aria, colpisce forte la mia guancia destra, producendo un rumore simile a quello che si provoca schiacciando le frittelle sulla parete della padella. Ecco, ho infranto la legge, bastardo! La sua faccia è gonfia. Adesso fa sbattere dentro il tuo vecchio, se vuoi. Non sono affatto triste, ma le lacrime mi scorrono giù.
Le mie orecchie risuonano, confusamente vedo solidificarsi le scie lasciate nello spazio dal braccio che mio padre agita in aria e che restano appese, come roventi ferri di cavallo, al muro che si alza fra me e lui.
In realtà non c'è nessun muro. I raggi del sole si infrangono sul suo corpo e il riverbero crea un'aura di lampi ramati dalla breve vita. Mio padre riluce, splendente come un antico strumento musicale buddhista.
Il viso è attraversato da mille rughe e ogni singola ruga trattiene in sé fango e sudore; rughe che come fiumi corrono in lungo e in largo per irrigare un'antica pianura. La terra del mio villaggio è giallo ocra, sotto gli spessi strati di questa terra giace un antico mare, blu come la notte, rinchiuso lì da chissà quanti millenni, forse il nonno di mio nonno lo sa. Mio padre ara la terra gialla con un vecchio vomere, profonde e solenni ferite rimangono incise sulla terra e sul suo viso. Quel viso è lì a testimoniare che merito di essere picchiato. Papà! Lo chiamo ancora una volta: Non puoi più trattarmi con questa violenza. Sono grande ora! E lui: Sei forse più grande del tuo vecchio? Se tu me lo uccidi, ti ammazzerò di botte. Io cerco di spiegarmi: Pensi che non vorrei anch'io avere un maschietto? Ma ho già una bambina e ho ricevuto il certificato che mi autorizza ad avere un solo figlio. Io sono un quadro del Partito, posso non rispondere all'appello del Paese? Gli angoli della bocca di mio padre si curvano pesantemente verso il basso, due rivoli di torbide lacrime gli lavano le guance ricoperte di polvere. E se tenessimo nascosta la nascita, se non andassimo a registrarlo? chiede mio padre. Stiamo parlando di un bambino, rispondo, non di un cane o di un gatto. E poi, il nostro dirigente lo sa già. Mio padre: E come ha fatto a saperlo? Gli rispondo che... non riesco a iniziare la frase, il cuore mi si riempie di una rabbia cieca. Non riesco a iniziare la frase che il mio cuore ha già iniziato la sua: Voi mi avete fatto soffrire, certo, ma anch'io ho fatto soffrire voi.
Doveva essere stato circa vent'anni fa. Avevo appena iniziato le elementari. Portavo i capelli corti che mi lasciavano scoperta la fronte.
Un giorno mia madre mi disse: Vieni qui, che ti cucio il cavallo dei pantaloni9 Ma io le risposi: No.
Se me lo cuci non sono più comodi per fare la pipì. E lei: Hai moglie ormai, vuoi ancora portare i pantaloni aperti? Non hai paura che la gente ti veda e si metta a ridere? Che moglie? chiesi. Papà ha già fissato una moglie per te nel villaggio a nord, rispose mia madre. Ma di che moglie parli! dissi io. Di una moglie che ti faccia da mangiare, che ti cucia i vestiti e che ti metta al mondo dei bei bambini.
Ma io non la voglio, protestai. Mia madre mi tirò giù i pantaloni e con un lungo pezzo di filo grezzo chiuse l'apertura che correva lungo il cavallo. più tardi, dopo che le mie ossa e i miei muscoli, crescendo anno dopo anno, avevano fatto scoppiare via via tutti i miei vestiti, e neri baffi avevano sopraffatto la delicata peluria del mio viso, capii finalmente l'enorme valore d'uso del concetto di «moglie» La vidi da molto lontano.
Quel giorno il nostro villaggio aveva fatto venire un gruppo di attori per una recita. Il palco era stato innalzato nel letto del fiume in secca e da tutti i villaggi intorno la gente era venuta a vedere lo spettacolo. Lei veniva dietro un gruppetto di ragazzine, portando sulle spalle un basso sgabello che lo strofinio di intere generazioni di glutei avevano reso nero lucente. Qualcuno mi disse: Quella alta è tua moglie. Rapidamente distolsi lo sguardo. Sul palco pendeva un lungo pezzo di stoffa azzurra, una decina di pallide stuoie facevano da sostegno a quel cielo improvvisato.
Tamburi e gong venivano percossi producendo un boato assordante. Sotto il palco i bambini strillavano chiamando i genitori. Poi, il rombo dei tamburi e dei gong cessò. La nitida melodia che il maestro creava con le corde del liuto avvolse il letto del fiume. Non potei più resistere e guardando di traverso fissai il mio sguardo su di lei. Era molto alta. Era estate, e il suo seno maturo, premendo il vestitino rosso sbiadito dal sudore, faceva schiudere l'allacciatura posta sul davanti. Il viso era di un rosso intenso e i capelli neri come le piume di un corvo. Depose lo sgabello, che dava l'impressione di essere molto pesante, e si sedette. Stava rialzando la testa, ma non aveva ancora raddrizzato il busto, quando cominciò improvvisamente a ondeggiare e cadde di lato. Si rialzò, la testa piegata leggermente nella mia direzione. Ci separavano una trentina di metri, ma vidi bene le sue guance piene, simili a palline di gomma. Estrasse lo sgabello dal terreno arenoso del fiume nel quale era sprofondato, e con i piedi riempì di sabbia le piccole buche lasciate dalle zampe. Quando tutti e quattro i fori furono ricoperti, si mise a saltellare tutto intorno per rendere la sabbia compatta, il suo corpo rispondeva a ogni balzo sussultando. Dopo aver fatto questo, posò nuovamente lo sgabello e si sedette. Ricamate da una densa trama di gambe umane, vedevo le zampe di legno affondare di nuovo, sembravano dei pesciolini che scavano buche sul fondo facendo zampillare qua e là getti di sabbia. Affondarono ancora un po', poi si fermarono.
Dietro di lei, sopraggiunse altra gente. Confusa in quella fitta rete di persone, offriva alla mia vista metà del suo corpo, su cui concentrai lo sguardo. Maree si alzavano e si abbassavano nel mio cuore. Il suono acuto del liuto si aprì un varco tra i gong e i tamburi. I colpi sordi dei gong e dei tamburi sommersero le note del liuto. La marea inghiottì la riva, e quella stessa marea la risputò fuori. Mamma! Dove sei? Strillava una bambina sul palco, stringendo una frittella di granturco nella mano sinistra e una cipollina storta, con le foglie verdi e il gambo bianco, nella destra. Il tipo mi diede un'altra gomitata e fece: Tua moglie ha due natiche belle grosse. Bada a farla arrabbiare, che quella ti si siede sopra e ti riduce a una piadina.
Vai a farti fottere, gli dissi. Li Tiemei10 fece la sua entrata in scena. Rosse le scarpette, rossi i pantaloni, rossa la giacca, rosse le guance, e tra le sopracciglia aveva un punto, grande come un pollice, tracciato con il rossetto. La lunga treccia che raccoglieva i capelli era legata in fondo da un nastro rosso, tra le mani stringeva una lanterna rossa. Il tipo del mio villaggio sbottò: Di nuovo La lanterna rossa!
Io non risposi. I miei occhi scrutavano ancora quell'intreccio umano all'interno del quale c'era lei.
Bastò uno sguardo e il mio cuore si scaldò, poi si raffreddò, si riscaldò di nuovo e di nuovo si placò. Non avrei saputo dire se era gioia o dolore quello che stavo provando.
L'autunno di quell'anno partii militare. Se non fossi partito, se durante la ferma non fossi stato nominato funzionario, se, nominato funzionario, non avessi fatto l'università, se durante l'università non fossi stato ricoverato in ospedale, e se durante la mia degenza non avessi incontrato quell'infermiera dai grandi occhi a mandorla, tutta una serie di problemi non si sarebbero mai venuti a creare e non ci sarebbe mai stato questo giorno.
Lo schiaffo di mio padre mi colpisce così pesantemente da farmi schizzar fuori l'anima. Un forte bruciore mi pervade il viso. Porto una mano alla guancia e sento le tracce, grandi come carote, lasciate dalle sue dita.
Nella mia testa, ora vuota come un secchio, un ronzio di api si fonde con lontane esplosioni. I suoni colpiscono le pareti del secchio e rimbalzano turbinando. Non ti riguarda, dico, fatto sta che lo so. Prima di finire la frase, la rabbia mi monta di nuovo in cuore. Mio padre: Dimmelo! Dimmi quale grandissimo figlio di vacca te l'ha detto, me la sbrigo io con lui.
La Commissione per la pianificazione delle nascite della Comune, gli dico, mi ha mandato una lettera. Ho fatto rapporto ai miei superiori e sono tornato subito qui. Mio padre manda un grugnito di disappunto, scuote la mano per scacciare un tafano dal petto e si scrolla di dosso alcune pagliuzze di fieno. E così, il bambino... avresti il coraggio di mettere fine alla nostra famiglia? Mio padre mi guarda con tristezza. Ma scusa, non ho forse una figlia? chiedo. Come fai a dire che metto fine alla famiglia? E lui: Una figlia non è un figlio, le donne non contano. E il Presidente dell'India allora? ribatto. E il Primo ministro inglese? E la Regina danese, o la vice capodistretto Tian? Non sono forse donne? Di fronte a Tian non avresti il coraggio di alzare la testa! Questo non c'entra, ribatte. Ti scongiuro, lascialo vivere! Ci vado io in galera al posto tuo. No, dico, lascia perdere. Non si può fare!
La paura degli schiaffi di mio padre è scomparsa, ma il mio stato d'animo è molto negativo. Presto avrò trent'anni. L'agitazione di mio padre prima di colpirmi, e il tremito che gli scuoteva la figura subito dopo, mi fanno capire che ormai sono sospinto tra le fila degli uomini di mezza età, e che il potere di decidere degli eventi che mi riguardano è nelle mie mani, non in quelle di mio padre. Il fatto che mi abbia picchiato, va interpretato come l'ultima disperata battaglia prima di cedere il potere.
Il mio cuore è duro come il ghiaccio, non mi arrenderò a nessun costo.
Persino l'interrogarsi sul tenere o no un figlio che mia moglie mi ha nascosto di portare in grembo, mi appare secondario, quello che conta è che prendo la mia vita nelle mie mani.
Mio padre mi volta le spalle, e si dirige verso il muretto che costeggia l'aia. Oltre quello, l'anacardo bruciato dal sole rovente lascia pendere tristemente dai rami le sue foglie, ma riesce ancora a gettare una pallida ombra al di qua del muretto, creando attorno una leggera sensazione di freschezza. Mio padre si erge in quella tremula ombra. Sulle sue carni brune si riflettono irregolari bagliori, così bianchi da sfumare nel verde, accecanti, bellissimi. Si toglie dalla testa quel vecchio cappellaccio di paglia che un semplice soffio di vento manderebbe in mille pezzi, lo tiene in mano, ma non se ne serve per farsi aria. Sotto il sole implacabile, pagliuzze di grano frusciano nervosamente sull'aia. Ogni singolo oggetto che mi circonda riflette i raggi del sole, ogni colore si sveste della propria natura. Quel che ai miei occhi appare bianco, diviene nero solo un attimo dopo.
Spinte da un'improvvisa brezza di vento, le foglie dell'anacardo si agitano controvoglia, poi reclinano nuovamente il capo, immobili, incollate nell'aria torbida come sulfuree lingue di fuoco. Mio padre è in piedi di fronte a me. così freddo, distante. Stanche, le lunghe braccia scendono lungo i fianchi. Braccia che sembrano non riuscire più a sollevare le grandi e pesanti mani. Mani che sembrano ingrandite dal sangue che vi scorre dentro. Mani il cui peso allunga ancora di più le braccia.
Dalle mani di mio padre emana un senso di tristezza, e rispetto. In me risvegliano oscure e aspre emozioni che mi fanno bruciare la lingua. Le mani pendono lungo i fianchi, una stringe fra le dita il vecchio cappellaccio di paglia. Quel cappello mi pietrifica, mi terrorizza. Sono sbigottito dal fatto che possa ancora esistere. Sono terrorizzato dal rischio che mio padre, stringendolo fra le dita, inavvertitamente lo mandi in pezzi. Una volta frantumato si spargerebbe nell'aria immobile come polvere acida e rovente, rendendo ancor più torbida questa torrida estate. Mia moglie è rimasta incinta tra ondeggianti campi di grano dorato e spighe verdi come la giada.
Quando mio padre agitava la sua grande mano per colpirmi, sentivo crescere in me una rabbia cieca e distruttrice. È ora di saldare i nuovi e i vecchi conti lasciati per troppo tempo in sospeso! Nei trent'anni che ci dividono, vedo solo sbuffi di polvere color ruggine. Non c'è traccia di sentimenti affettuosi, niente amore, nessuna felicità, nemmeno la freschezza di un fiore.
Eppure mi rendo conto che il mio risentimento non è obiettivo. Anche la sua schiena curva e il fango che gli copre il corpo sono lì a protestare contro la mia parzialità. Sulle sue ossa è inciso il marchio profondo lasciato per ricordo dal duro lavoro, e nei suoi occhi le ruote dell'amarezza e del dolore hanno tracciato lunghi solchi vermigli.
Sotto quell'affaticato anacardo, assomiglia quasi a un prigioniero.
China la testa incanutita e dalla sua gola giungono dei suoni leggeri, un vago «la la lo lo», poi, stringendosi nelle spalle, lentamente, molto lentamente, si inginocchia. L'ho sconfitto. Sotto il sole infuocato, sulla mia pelle scorre il sudore, ma dentro sono ghiaccio puro. Un gelo multiforme e multicolore si condensa nel mio guscio svuotato, accompagnandosi a una serie di piccole stalattiti di ghiaccio simili a denti di lupo...
Quando l'ho saputo, sono tornato di corsa a casa, con ancora indosso gli abiti di città. Ora, di fronte a mio padre, il mio vestito sembra improvvisamente acquistare lucentezza: sembra più costoso, stravagante. È pieno di tasche e bottoni, pulito in maniera quasi sconveniente. La sconfitta di mio padre mi fa sentire terribilmente in colpa. Vedo un vecchio di settant'anni, mezzo nudo, che si inginocchia di fronte a un vestito sgargiante, dentro al quale c'è il figlio pallidino e grassoccio.
I raggi del sole illuminano padre e figlio, illuminano l'aia immersa nell'estate. Un manto di frumento copre lo spiazzo dell'aia. Tra bagliori gialli come l'oro, ondeggia l'argento dei fusti e delle spighe, e le barbe di grano appuntite. Animate dai raggi del sole, le sottili e acuminate pagliuzze che crescono sulle spighe, frusciano sfregandosi tra loro. Precipitati per caso in quel mare d'oro, due verdi steli non ancora maturi formano un nitido contrasto che gli occhi accolgono a stento. Ragni rossi come il fuoco - della grandezza di un chicco di riso - si arrampicano, quali scintille prodotte da un fulmine improvviso, sulle acerbe spighe color giada. Oltre l'aia, un falcetto e una panca posti di traverso giacciono immobili e silenziosi. Le confuse impronte di piedi e le radici del grano sparse a terra ricordano la scena di un'antica battaglia pronta a rivelare, al visitatore di quello storico luogo, i misteri di un oscuro sentimento... Mia moglie aspetta, sollevando il falcetto, che mio padre, chinandosi, vi spinga sotto un fascio di grano. Ora si china anche lei e, con un colpo sibilante, divide in due parti il fascio. Mia madre, muovendosi incerta, si dà un gran da fare a sollevare le spighe e spargerle bene nell'aia con il vecchio forcone di gelso. Mia figlia saltella in mezzo al cortile, mangiucchiando chicchi di frumento. Insieme a un chicco, le finisce in bocca anche una barba di grano che si arrampica verso la gola.
In un attimo il viso le si fa violaceo, come se stesse soffocando.
Scoppia a piangere, tossisce. Sua madre è terrorizzata, sudore freddo le imperla la fronte... Spighe gialle e dorate; la serenità del lavoro; il sudore profumato dalla fatica; una figlia, fresca come un fiore appena sbocciato; una moglie giovane e forte; i vecchi, solidi come radici... Un delizioso quadretto di pace terrena, di felicità e di abbondanza, in cui ogni tonalità di colore obbedisce a un atteggiamento tranquillo dello spirito. Non c'è vento che soffi, né maree che si alzino, non c'è tuono o pioggia che scrosci, e le azioni degli uomini somigliano ai lenti movimenti delle «conchiglie dei pellegrini»11
Sulla spiaggia, lavata dalla tranquilla potenza dell'onda che recede, rimangono una serie di identiche impronte, come una calligrafia, come parole, come la storia...
Mi sento profondamente in colpa.
Sebbene ogni anno ritorni a casa per far fronte ai miei doveri di marito, di padre e di figlio, sebbene senta che i rapporti che mi legano a questo desolato e remoto villaggio siano tanto intensi quanto quelli fra l'utero e l'embrione, ogni volta che torno alle mie origini, nei luoghi del lavoro duro e mite, non posso fare a meno di provare un profondo sconvolgimento. Lasciandosi alle spalle l'animata vita della città, segnata dal flusso delle ambizioni umane, con solo un giorno e una notte di treno e due ore di pullman, si arriva in questo luogo. Lontano, come un sogno che non si riesce a dimenticare. È il frenetico mormorio e le risa corrotte delle donne e degli uomini di Pechino, Shanghai, Canton, Tianjin. Nel sogno sto volando. Un incidente, l'aereo ha uno schianto, siamo feriti, e il velivolo precipita al suolo vorticando. Apro gli occhi: sono ancora nell'aia di casa mia.
In piedi al limite dell'aia, mi sottopongo come un asceta alla punizione inflitta al mio corpo dai raggi del sole. Il ricordo di una scena simile mi riporta indietro di vent'anni, a quando il maestro, per farmi pentire di essere andato al fiume a fare il bagno, mi lasciò sotto il sole finché non caddi svenuto.
Quando mio padre lo venne a sapere, impugnò uno dei forconi che usava nei campi e inseguì il maestro butterato, che per sfuggirgli fu costretto ad arrampicarsi su un muro. Mio padre mi ama. Ha consumato il manico della zappa nei campi per permettermi di andare a scuola. È così. Mi ama, anche se mi picchia. È giusto un riflesso del suo grande amore. Eppure non posso arrendermi solo per il fatto che mi vuol bene. C'è qualcos'altro, un'altra forza in grado di superare quella dell'amore di mio padre e di mia madre, una forza che non è amore e sta governando le mie emozioni, indefinibile, inconsapevole, slegata da qualsiasi condizionamento di causa ed effetto, una forza la cui stessa essenza si concretizza in obiettivo.
Non ha bisogno di essere spiegata. È la mia indipendenza. Certo voi, in nome dell'amore che provate per me, sentite di dover interferire in questa mia indipendenza. Ma io devo avere in odio le vostre intrusioni. Certo voi lavorate duramente, e la vostra laboriosità contribuisce a scrivere la storia del genere umano. Ma io devo per forza avere in odio tutto ciò. Di fronte ai monumentali contributi dati dai padri, quelli dei figli sembrano ben poca cosa, ma mesi e anni si succedono rapidamente e, come un fiume, l'umanità si moltiplica e spinge sempre in avanti. Avanzo di qualche passo e mi accosto a mio padre: Non essere triste, papà.
Appoggiandosi con una mano a terra, mio padre si alza in piedi, si calca in testa il cappellaccio di paglia, fa alcuni passi con le gambe un po' irrigidite, quindi si china a raccogliere il forcone e comincia a rigirare le spighe in mezzo all'aia.
Il mio brunito padre solleva le spighe dorate aiutandosi con un lungo forcone giallo chiaro - alcuni chicchi scortecciati dal sole, vivaci e leggeri, scivolano fra i denti del forcone cadendo sul terreno verde cenere dell'aia, reso visibile lì dove il grano è stato rimestato - e poi, scuotendole più volte, le lascia ricadere a terra. Il suolo è liscio e ben livellato, i chicchi cadendo vi rimbalzano più volte sopra. Mio padre fa lavorare ancora il forcone, portando in superficie le spighe che stavano sotto e viceversa. Nell'aia si sprigiona un profumo di farina bruciata. Le spighe sono secche. È giunto il momento della battitura. Mi avvicino a mio padre e afferro il forcone che tiene in mano, lui lo stringe con forza maggiore. Sollevo lo sguardo per vederlo in viso e i miei occhi incontrano nei suoi una strana espressione di fredda indifferenza che immediatamente mi respinge lontano. La mia mano lascia la presa. Facciamo venire al mondo questo bambino!
Lascialo nascere! Ma te lo immagini?
Una nipotina e un nipotino che saltellano intorno a me e a tua madre facendo una gran confusione, come un cagnolino e un gattino che corrono, saltano, schiamazzano. Sarebbe bellissimo...
Il quadretto felice che mio padre dipinge mi commuove. Lui continua: L'unione di un uomo e una donna è stabilita dal Cielo, non puoi darne la colpa ai tuoi vecchi. Il suo discorso sembrava solo all'inizio, e invece si interrompe bruscamente. Abbassa la testa e ricomincia a rimestare le spighe con il forcone. Mi giro e la vedo arrivare dal lato nord dell'aia.
Alta, il corpo rigoglioso, incede dondolando e mentre viene verso di noi addenta un grosso cetriolo gocciolante. Quando mi arriva di fronte, manda giù rapidamente l'ultimo morso di cetriolo, due semi le rimangono attaccati a lato delle labbra. Si pulisce la bocca strofinandosi con la manica e mi chiede bruscamente: Che sei tornato a fare? Niente di particolare, le rispondo. Bene, allora dacci una mano con la trebbiatura. Dico: Lascia perdere la trebbiatura e muoviti!
Dobbiamo andare all'ospedale della Comune per l'intervento. Ma di quale intervento stai parlando? mi chiede.
Io non ho niente che non va! Sto parlando dell'aborto, rispondo.
Appena queste parole mi escono di bocca, il suo viso impallidisce di colpo. Rimane stordita per una trentina di secondi, con le grandi mani rosse che penzolano lungo i fianchi. Che fai lì imbambolata? dico.
Sbrigati. Va a casa a prepararti. Lei scoppia in singhiozzi, poi il sangue le rifluisce lentamente in viso e gli occhi umidi mandano scintille di rabbia. Mentre guardo il suo corpo alto, provo un'involontaria sensazione di paura. Le guance le tremano; mi rendo conto che è furiosa. Da chi hai saputo che sono incinta? Lascia perdere, rispondo. Lei si copre il viso con le mani mandando lamenti convulsi, ma io, non so perché, sento che il suo pianto è teatrale. È bravissima a far finta di piangere. Mi ricordo di una notte. Io ero seduto ai piedi del kang a fumare. Rimasi a fumare così a lungo che la cera della candela colò tutta sul davanzale della finestra. Lei piangeva. Io la guardai negli occhi e vidi che erano completamente asciutti. Smisi di guardarla, lei piangeva ancora. La osservai di nuovo, aveva gli occhi bagnati. Penso sia stata saliva. Anche un'altra volta, quando fui ricoverato in ospedale per un attacco di dissenteria e lei venne a trovarmi, attraverso i vetri della finestra la vidi che si cospargeva le guance di saliva...
Il suo pianto si trasforma ora in una serie di sommessi mormorii, e questi, a loro volta, prendono la forma di chiari e distinti insulti diretti a mio padre: Vecchiaccio decrepito! T'annoiavi, vero?! Ti prudeva la lingua?! Sarai contento solo quando avrai permesso a tuo figlio di mettere fine alla famiglia... A girare tutto il mondo, non si troverebbe un altro padre come te...
Le braccia sollevate di mio padre rimangono sospese in aria per qualche secondo, poi crollano di botto, come le ali di un uccello centrato da un proiettile, e insieme alle braccia cadono anche il forcone e le spighe di grano. Nel breve spazio di un momento, vedo il viso di mio padre attraversato da mille metamorfosi. Prima è un foglio di carta bianca che brucia, torcendosi e crepitando fra le lingue di fuoco, poi lo scuote un lieve tremito, si ricompone, si placa. La sua espressione non è di rabbia, non è di dolore. I raggi brillanti del sole di un'estate ancora acerba nella penisola 12 illuminano il suo viso cinereo. I battiti del cuore mi scuotono il petto, i muscoli si contraggono: Non dire idiozie! le grido. Lei, a testa alta in segno di sfida e con occhi simili a tizzoni ardenti che mi fissano, dice. È chiaro, semplice. In tutta la Cina nessuno sa che sono incinta, nessuno eccetto lui e tua madre, tua madre non è qui, lui sì. Chi altro potrebbe avertelo detto se non lui? Ma se mi ha appena dato due ceffoni! Guarda le guance, rispondo. E lei: State fingendo un litigio fra voi per fregare me. T'avverto, le dico, se ti azzardi ancora una sola volta a trattare così mio padre, farai i conti con me. Non credere di farmi paura.
Le guance di mio padre si coprono di lacrime, le sue labbra tremano e la vita ricompare sul suo viso. Solleva di nuovo il forcone e si mette a girare il frumento. Spighe e chicchi saltellano allegramente per terra.
Rivolto a lei dico: Muoviti.
Dobbiamo farlo subito. più tardi andiamo, più sarà difficile.
Per la prima volta, vere lacrime e non saliva le inumidiscono il viso.
Lacrime leggere, trasparenti, quasi senza peso. Mi è difficile sostenere la vista di quel viso arrossato solcato dalle lacrime, quanto quella di un cavallo con le corna.
Il suo pianto si fa più forte, le lacrime sgorgano più copiose, più grandi, di un colore più intenso, pesanti, come una densa colla trasparente. Gli occhi mi bruciano come fuoco vivo. Detesto quando mi prende in giro. Sono stato fortunato a scoprire in tempo che era incinta: Non puoi prendertela con me. Ti avevo consigliato di prendere la pillola, e tu mi hai detto che usavi già la spirale. Te la sei cercata, ora non dare la colpa a me.
Non te ne sto facendo una colpa, mi risponde. Ora non piange più. Si avvia a grandi passi verso un lato dell'aia, si mette una grossa corda marrone - a cui capo è assicurato un rullo di pietra verde, più grande da un'estremità e più piccolo dall'altra - sulle spalle e, con voce melodiosa, dice a mio padre: Allora papà, posso cominciare a macinare? Sul viso di mio padre si dipinge un'espressione di stupita allegria e sorridendo le dice: Lascia stare, mamma di Yanyan13, lo passo io il rullo. Lei insiste: Sono giovane, lo faccio io. Tu hai lavorato tutta la mattina, adesso riposa un po' all'ombra dell'albero. Mio padre si commuove, e non riesce a dire neanche una parola. Sempre più agitato, rimesta il grano con il forcone. Le spighe, come pesciolini dorati, balzano in alto e poi si rituffano giù. Lei si mette a tirare il rullo di pietra verde, girando in circolo sull'aia. Le sue grandi gambe e l'ampia schiena fanno sembrare lo spiazzo più piccolo di quel che è. Non riesco a trovare parole da dirle. In quel mentre, dal sentiero che si diparte dal lato settentrionale del cortile, sopraggiunge mia madre tirandosi dietro un giovane toro.
Dietro di loro, la mia figlioletta di quattro anni.
Mia madre è una di quelle donne che hanno avuto i piedi fasciati14, avanza passo passo con qualche difficoltà. Mi vede da lontano e cerca di affrettare l'andatura, ma il torello non ce la fa più a camminare.
Mio padre interrompe il lavoro e mi dice: L'altro ieri è venuto un castratore di tori, voleva poco e aveva una buona mano, così l'abbiamo fatto evirare.
Non potevate scegliere un momento più tranquillo per far castrare il toro? gli chiedo.
La mamma di Yanyan voleva castrarlo, mi risponde, e quell'uomo era bravo e voleva poco.
Dopo che un toro è stato castrato, bisogna tenerlo continuamente in movimento per evitare che si accucci a terra. Ma un toro appena castrato conosce mille astuzie per accucciarsi, per questo farlo marciare senza sosta. È un lavoraccio. Giorno dopo giorno, notte dopo notte, mia madre e il toro hanno camminato fino a diventare pezzi di legno. Le vado incontro. Mentre una folata di vento caldo le scompiglia ancor più i capelli già disordinati, il suo viso avvizzito si eccita. Mia figlia le viene dietro tenendo in mano una radiolina verde rettangolare, la testa un po' incassata nelle spalle.
Mi fissa intimorita.
Mia madre le dice: Yanyan, saluta papà.
Io dico: Mamma...
Sei tornato. È successo qualcosa? mi chiede.
No, niente.
Lacrime scendono dagli occhi di mia madre.
Mia figlia si nasconde dietro mia madre, e da lì mi studia di nascosto.
Guardando quei suoi occhi così simili ai miei, mi chino per prenderla in braccio. È piuttosto paffutella, tanto pesante da far venir meno la forza delle mie mani. Gli abiti che indossa devono essere dell'anno scorso: tra la cintura dei pantaloni e l'orlo della camicia madida di sudore, rimane uno spazio scoperto da cui fa capolino la pancia sporca. Yanyan, le dico, chi sono io? Lei timidamente mi risponde: Tu sei papà. Hai paura di me? le chiedo. Papà, mi chiama lei.
Le rispondo.
2.
Tirandola per una manica, la trascino verso la riva del fiume e la faccio scendere oltre la murata. La sabbia polverosa del fiume in secca si alza nell'aria torrida. Lei abbandona passivamente il corpo all'indietro, e con il mento proteso verso l'alto, pronuncia una serie di parole confuse e incomprensibili. Camminiamo con molta fatica, trascinando un piede dopo l'altro, quasi fossimo incollati al terreno secco: l'impressione è la stessa di quando si passa una mano su un panno di feltro, o si cerca di tirar fuori una serpe dalla tana. Nel letto del fiume non c'è sentiero e la cedevole sabbia alcalina scricchiola sotto i nostri piedi bruciandoci le piante. Intorno echeggia il martellante canto disordinato delle cicale tra i salici. Ogni frinire si interseca con un altro, ogni frinire è un filo sottile di una immensa rete gettata sopra il letto asciutto del fiume. Sollevo la testa e vedo il cielo disseminato di nuvole frastagliate come le scaglie dei pesci. È mezzogiorno, una forte luce avvolge l'aria, ma del sole non riesco più a trovar traccia. Il frinire delle cicale sovrasta il pianto sommesso di mia madre, i sospiri di mio padre e gli schiamazzi della radiolina in mano a mia figlia sulla riva del fiume. Un boato nell'aria squarcia il canto delle cicale, un suono che fa esplodere quel frinire come schegge di petardi; schegge che poi fluttuano disordinate nel cielo, simili a fiocchi di neve. Le esercitazioni di volo della base continuano. Mentre trascino sua madre lungo la riva del fiume, mia figlia rimane lì, con gli occhi spalancati, troppo terrorizzata persino per piangere. Io sono a mia volta troppo spaventato per riuscire a guardarla. Sempre trascinando mia moglie, attraverso il greto del fiume diretto a sud. La mia destinazione è l'ospedale della Comune a due chilometri da lì. La sabbia asciutta scricchiola sotto i nostri piedi, dandomi l'impressione di averla sotto i denti. Mia moglie mi segue controvoglia. Ansimante per la fatica mi volto verso di lei, la mia mano stringe l'orlo della sua manica. Ti decidi a camminare? le chiedo torvo.
Lei non risponde, si limita a guardarmi sconcertata.
Sei anni fa, era lei a trascinare me per la manica verso l'ufficio della Comune, per andare a registrarci15
Era una mattina splendida, radiosa, con un cielo così bello da sembrare un pavone che spiega la coda. A quell'epoca nel letto del fiume si poteva ancora udire il gorgoglio dell'acqua che scorreva. Per prendere un po' di tempo, le proposi di deviare passando per il Ponte Jiukong, distante tre chilometri e mezzo da dove eravamo. Lei mi disse: Stai fresco, oggi sono io che do gli ordini. Si tolse le scarpe e cominciò ad arrotolarsi i pantaloni scoprendo le caviglie, scure come sabbia bagnata, e le cosce, chiare come sabbia asciutta. Dai, che ti porto a cavalcioni oltre il fiume, mi disse.
Mi premette le scarpe sul petto perché gliele tenessi, l'odore acre del sudore che saliva dal loro interno mi penetrò nelle le narici. Vado a piedi fino al ponte, dissi. Col cavolo! ribatté. Eravamo soli. Si accovacciò ai miei piedi dandomi le spalle, e mi afferrò le gambe all'altezza delle ginocchia. Io, tenendo le sue scarpe tra le braccia, mi lasciai andare sulla sua schiena. L'acqua la accolse con un leggero sciabordio, poi le sue gambe cominciarono ad affrontare rumorosamente il guado. Non osavo abbassare la testa. Gli occhi fissi davanti a me, guardavo i germogli verdi del grano sulla riva opposta e il volo impacciato delle tortore, che si libravano dalla riva per poi planare sui crinali rigogliosi di grano, disegnando una parabola spezzettata. Le sue grosse mani erano saldamente serrate alle mie cosce e tutte le mie sensazioni si concentravano sulle palme che mi stringevano. All'epoca aveva ventotto anni, e benché non fosse ancora sposata, il suo corpo era già piuttosto grassottello. Dall'ampia schiena emanava un profumo di cipolla.
Mentre il suo respiro cominciava a farsi pesante, io, pur immerso nei caldi raggi del sole e avvolto dal calore del suo corpo, tremavo come una foglia scossa dal vento. Mi portò fino all'altra riva, qui mi depose, mi diede una spinta e una gran pacca sulla schiena e disse: Che non ti venga in mente di dartela a gambe. Io le risposi sorpreso: E dove pensi che potrei scappare? Se anche ci fosse un luogo, tu non provarci. Mi strappò di mano le scarpe che le stavo portando e si incamminò sul sentiero pulito a piedi nudi, lasciando a ogni passo un'orma distinta sul terreno. Dopo una decina di passi, le impronte diventarono via via più leggere. Sul collo grassoccio dei suoi piedi si andava depositando uno strato di terra gialla che faceva sembrare le brillanti unghie degli alluci un paio di vigili occhi. Cos'hai da guardare?
Sul viso le comparve un sorriso fiero, mentre mi spingeva in avanti obbligandomi ad accelerare il passo.
Mi sentii improvvisamente come il condannato a morte in procinto di arrivare sul luogo dell'esecuzione, la schiena dritta come un pennello, o come l'asta di una freccia. Il funzionario del Governo del popolo della Comune, un bellissimo ragazzo dal viso butterato, ci accolse con un gran sorriso. Si mise a sfogliare rumorosamente il registro in pelle blu dei residenti della Comune, finché non riuscì a trovare uno dei nomi che cercava. Vi fece un segnetto accanto con la penna e lo ricopiò su un foglio bianco. Lei si srotolò una gamba dei pantaloni, coprendo alla vista la coscia. L'impiegato trovò l'altro nome, lei srotolò l'altra gamba dei pantaloni. L'assistente ci osservava attentamente, lei sbatté più volte le scarpe una contro l'altra e se le mise ai piedi. Ci fece alcune domande, alle quali rispose sempre lei ad altissima voce, quasi stesse litigando con qualcuno. Il butterato riempì un foglio, quindi disse: Mettete le vostre impronte digitali. Dopo aver impresso il pollice nell'inchiostro facendolo diventare rosso, lei lo schiacciò con gran forza nel punto indicato dal butterato. Io mi misi le mani in tasca e mi avviai incespicando verso la porta. Cerchi ancora di dartela a gambe? Lei mi afferrò con una mano e strillò: Torna subito qua!
Il butterato ci fissava stupito, poi si riprese e, stropicciandosi il naso e sbattendo gli occhi, proruppe in una sgradevole risata: Attento ragazzo, guarda che le buschi! Io non ce la metto la mia impronta, dissi. E il butterato: Ce la devi mettere altrimenti non è legale. Tirandomi per un braccio lei mi diede uno strattone, ed eccomi di nuovo accanto al tavolo.
Aveva lunghe sopracciglia nere, una pesante peluria le contornava le labbra. Il petto era ampio, abbondante nel vestito stampato a girasoli. Sono quasi vent'anni che t'aspetto, disse.
Viva o morta, ti appartengo. Che scuse vai ancora cercando per non mettere quell'impronta? Il butterato: Ragazzo, non fare il fesso! Dove la trovi un'altra moglie come questa? Per un uomo alto ci vuole un cavallo grande, e se la montagna è grande, ci sarà da raccogliere più legna da ardere. Se questa donna ti darà un figlio, sarà grande anche lui. Sollevai il pollice, fissai le circonvoluzioni dell'impronta di lei sul foglio, e ripensai a quel palco alzato nel letto del fiume, a lei seduta a guardare lo spettacolo, con quel suo sgabello che affondava nella sabbia...
A un tratto, l'aria si riempie di raggi abbaglianti, che si incrociano fra loro per poi rifrangersi sulla sabbia del fiume, rendendola simile a mercurio. Un aereo, con le ali a freccia e la coda in alto, compie un giro della morte e si getta in picchiata. Poi raddrizza il muso e si slancia di traverso verso l'alto. Solo dopo che l'aereo ha ripreso il suo volo verso il cielo, il letto del fiume viene squarciato da un terribile boato. Le esercitazioni sono ancora in corso.
Mia moglie è ora seduta con il busto eretto sulla terra sabbiosa, volge verso di me la sua ampia e solida schiena. Il collo è sporco di terra, e vi sono rimaste attaccate una barba di grano rossastra e due gialle cuticole - una piccola e una grande. Il vestito è zuppo di sudore e sul colletto luccicano grandi macchie di grasso.
Dai, muoviti. Lei mi risponde: No. La sabbia del fiume mi si infila nelle scarpe bruciandomi i piedi. Raggi blu scuro sibilano verso l'alto, facendomi lacrimare gli occhi. Yulan, le dico, che devo fare, vuoi proprio che mi metta in ginocchio davanti a te?
Chiamarla Yulan16 mi mette in grande imbarazzo. In sei anni di matrimonio non l'ho chiamata nemmeno una volta con il suo nome, ho sempre usato mezzi semplicissimi per farle capire che stavo parlando con lei.
Quando non posso evitare di scriverle una lettera, cerco sempre di scarabocchiare il più possibile i due caratteri del suo nome, così da renderli illeggibili. Un abisso divide questo nome e la persona fisica che esso rappresenta. Mi vergogno. Anche lei comunque, nelle cinque lettere che mi ha scritto in sei anni che siamo sposati, ha sempre amputato braccia e gambe ai caratteri del mio nome, lasciandoli sulla busta come tre soldati, stremati e feriti, che marciano nel deserto. Quando la chiamo Yulan, il suo viso cambia immediatamente espressione. Gira la testa e persino un po' il corpo. Mi guarda affettuosamente. La sabbia è rovente, dico, e tu sembri non accorgertene, dai, tirati su. Lei si alza docilmente e mi dice: Senti, papà di Yanyan... se davvero vuoi che abortisca, farò come tu dici... Sai, fino a un attimo fa mi sentivo esattamente come Li Ersao17: nessuno che mi amasse, nessuno che provasse:Li Ersao si risposa. dolore per me... poi mi hai chiamato per nome, e allora ho capito che ero completamente diversa da Li Ersao...
Li Ersao stava intonando il suo lamento straziante nella verde radiolina rettangolare tra le mani di mia figlia: «Quando avrò finito di trascinare il rullo per l'aia e il grano resterà a seccare, a chi mai potrò raccontare le amarezze che mi avvelenano?»
Questi versi hanno scosso la mia famiglia, al punto che siamo rimasti in un silenzio solenne, ad ascoltare le spighe messe a essiccare che crepitavano sotto i raggi brucianti del sole. Sugli alberi le foglie erano tutte avvizzite. Mia madre tirava con tutte le sue forze l'anello di ferro infilato al naso del giovane toro per impedirgli di sdraiarsi a terra. Dalla bocca del toro usciva bava biancastra e negli spasmi del dolore contorceva la coda come un serpente. È inutile parlarne ancora, ho detto io, questo bambino non possiamo tenerlo, e anche se lo desiderassimo, dovremmo aspettare che io riesca a farmi una posizione. Di che cavolo di posizione vai cianciando, mi ha risposto mia madre, se uno è in gamba il mondo è suo. L'annunciatore alla radio gracchiava: Lang Xianfen18, in questi due versi, riesce a mettere perfettamente in luce lo stile pacato ma denso di sofferenza, tipico delle opere Lü19, assorbendo in parte anche le sonorità delle opere Bangziqiang dello Hebei, e i toni dolci di quelle del Jiangxi. La cantante esprime perfettamente i sentimenti della giovane vedova Li Ersao, la sua solitudine e il suo insopportabile dolore, e ci spinge ad associare il suo atto di accusa contro le sofferenze della vita, al desiderio di una vita felice, racchiuso in un uomo da amare e da cui essere riamata.
Ma adesso, gentili ascoltatori, godiamoci un'altra volta questi versi meravigliosi. Le labbra di mia moglie si sono piegate in una smorfia imbronciata, e il suo viso si è rabbuiato come una nuvola nera. Ha preso la corda - quella che sembra un serpente morto - e se l'è fissata sulle spalle. Ha cominciato a camminare, con la schiena curva e il collo proteso in avanti, calcando bene i grandi passi, come se volesse battere il tempo. Il rullo di pietra verde scricchiolava. Rotolando sulle spighe di grano ne faceva venir via tutti i chicchi. Mio padre camminava dietro al rullo, lavorando di forcone per rimestare le spighe schiacciate.
Quando le scuoteva, i chicchi rimasti cadevano a terra attraverso i denti della forca come gocce di pioggia. La piccola si era ritirata sotto la stretta fascia d'ombra proiettata dal muretto. Se ne stava lì, con la pancia scoperta e le paffute gambette divaricate. Si era tolta le scarpe e le aveva gettate a destra e a sinistra, una vicina a una gamba, l'altra più lontana. La radio, che ora teneva fra le gambe, continuava a suonare.
«Quando avrò finito di trascinare il rullo per l'aia e il grano resterà a seccare, a chi mai potrò raccontare le amarezze che mi avvelenano?»
Mia moglie ansimava e piangeva, i suoi singhiozzi si facevano più pressanti. Avanzava a passi enormi, e ad ogni passo calciava in aria le spighe che le erano attorno. Sollevava molto i piedi, come se procedesse a fatica su un terreno fangoso.
«Data ai Li all'età di diciassette anni, venni picchiata e oltraggiata.
L'anno dopo mi morì il marito, e con lui tutte le mie speranze. A casa di mia madre non ho più fratelli o sorelle ai quali affidarmi, da mia suocera non ho più marito, sono sola, tutta sola.»
Mia moglie, piangendo ormai senza alcun freno, camminava a tentoni, facendo sbandare il rullo di pietra a destra e a sinistra. Mio padre si curvava ancor più in basso, con quel suo cappellaccio di paglia che sembrava sempre sul punto di cadere e che non cadeva mai.
Durante il lungo lamento alla radio, mia figlia non ha mosso un muscolo: le mani incrociate sul ventre, lo sguardo rivolto verso l'aia, ha abbassato le palpebre, le ha sollevate, le ha abbassate di nuovo, e di nuovo sollevate... Tre giorni dopo la sua nascita, tornai di corsa a casa e la vidi adagiata accanto a mia moglie. Da sotto una minuscola coperta spuntava un visino cosparso di finissima peluria. Quel visino, come faceva a essere così piccolo? La bambina suscitava in me compassione e repulsione allo stesso tempo. Sembrava improvvisasse uno spettacolo per me: arricciò il naso e strizzò gli occhi in un insieme di piccoli dossi morbidi e carnosi. Rimase così contratta per un po', e poi esplose in un sonoro starnuto. Io feci un balzo per lo spavento, non avrei mai pensato che un affarino così piccolo potesse starnutire. Dopo rilassò i lineamenti del viso e aprì gli occhi. Sembrava mi stesse guardando. Io credevo che la capacità visiva dei suoi occhi fosse ancora molto ridotta, che non riuscisse affatto a vedere il mio viso. Piangeva. Mia moglie disse: Non piangere, hai visto chi è venuto? Non lo conosci, eh. È il tuo papà. Mi sedetti pesantemente sullo sgabello quadrato. Non riuscivo a crederci, ero diventato papà. Mia moglie prese in braccio la bambina, si liberò il petto, e le accostò alla bocca un capezzolo marrone, molto piccolo rispetto al grande seno. Le labbra della piccola si aprirono e si chiusero, e alla fine, come un pesce che abbocca all'amo, inghiottì quel capezzolo tanto più grande della sua bocca. Mia moglie cercava di tenere sollevato con la mano il seno che rischiava di tappare le narici della bambina. Aveva un aspetto solenne, quasi mistico. Mentre le guardavo, il cuore mi divenne un deserto e vidi un uomo incamminarsi verso la remota antichità splendente come l'oro.
Mio suocero è nel commercio delle pelli di maiale. È molto bravo a fare soldi. Quando venne a trovare la figlia, era ormai la dodicesima luna del freddo inverno. Il vento ululava sul fiume, sollevava la sabbia gialla e la gettava oltre gli argini, spargendola con fischi acuti sulla paglia secca dei tetti. Sul grasso viso di suo padre si era congelato uno strato di unto. Scambiò qualche parola con mio padre ed entrò nella stanza di mia moglie. Quando mi vide non disse una sola parola. Bevve una tazza di tè, quindi si alzò e disse: Figliola! Ti ho portato sei zampe di maiale, così tua suocera ti ci fa una bella zuppa. Mangiare zampe di maiale fa venire il latte. Lo accompagnai in cortile, dove tirò fuori le zampe dalla sacca della sua bicicletta, e le gettò una dopo l'altra sul terreno spaccato dal freddo eccezionale.
Alcune erano bianche, altre nere, sembravano i pezzi superstiti di una partita di scacchi. Non vuoi mangiare qualcosa prima di andartene? No, mi rispose, devo andare al mercato. Tu, genero mio, per bravo o incapace che sia, sei comunque uno che mangia grazie alle riserve alimentari dello Stato e si porta a casa, diciamo, cinquanta o sessanta yuan al mese.
Come diavolo hai fatto a ridurre la tua famiglia in questo stato pietoso?
Ma guardati: tre stanzette sbilenche e traballanti... e i tuoi vecchi, mezzi sordi e mezzi ciechi. Sposare te ed entrare nella tua famiglia è stato, per mia figlia, andare incontro alla povertà e ad un ben scialbo destino.
Oggigiorno le donne, nel primo mese dopo il parto, devono poter mangiare pollo, anatra, pesce, carne; devono dormire fra sete e rasi, bere latte in polvere o miele. E invece voi, siete davvero da biasimare! I suoi rimproveri mi lasciarono muto, incapace di proferir parola. A dire il vero, nella nostra famiglia non c'era molto di cui potersi dire felici. Io, mia moglie, mio padre, mia madre e quel piccolo presagio di sventura appena venuto al mondo, avevamo la sensazione di essere vittime di un torto. Ma tenevamo duro, sopportavamo.
Era colpa di una serie di coincidenze sbagliate, stabilite inesorabilmente dal nostro destino. Mentre rientravo dopo aver accompagnato mio suocero che se ne andava, vidi i miei genitori che si stringevano nelle spalle per il grande freddo. Raccolsi le zampe di maiale ed entrai in casa. I miei genitori mi guardavano freddamente, come se io fossi il padrone e loro i miei schiavi. Mia madre era intenta ad accendere il fuoco nel fornello dal quale si levò un denso fumo bianco che salì con forza fino al soffitto, per poi ricadere con violenza ancora maggiore. I miei si stropicciarono gli occhi con la manica della giacca finché gli zigomi non gli diventarono rossi e la manica quasi lucida. Ma che vada a fare in culo! dissi. Io ho grandi prospettive... e dovrei subire la predica di quel macellaio? Afferrai le zampe di maiale irrigidite dal gelo e le scagliai con violenza, una dopo l'altra, in mezzo al cortile, come bombe a mano. Una volò fino al vecchio mandorlo scricchiolante. La bianca zampa rimbalzò per un bel po' fra le nere biforcazioni dei rami, prima di rallentare la sua caduta e toccare terra scatenando il terrore fra alcuni passeri.
Con chi ce l'hai? chiese mia moglie da dentro casa.
Con quel figlio di vacca di tuo padre, le risposi.
Credo tu ti stia riferendo al tuo, di padre.
Senti, dissi, se pensi che qui ti trattiamo male, allora vattene con il tuo vecchio.
Ma bravo, che bella pensata. Adesso che ho avuto un figlio, vorresti rispedirmi a casa. È questo che ti ha insegnato il Partito?
Mio padre uscì di casa con la schiena curva, raccolse una a una le zampe di maiale che avevo gettato a terra e rientrò. Il fumo nella stanza era così opprimente che dovetti avanzare chinato, con la faccia a un passo dal pavimento irregolare. Sul fuoco una pentola piena d'acqua bolliva rumorosamente. Da un angolo della stanza mio padre trascinò una trave di legno e una bacinella di coccio, dentro la quale mise le zampe.
Mia madre, servendosi di un mestolo sbrecciato ricavato da una zucca, prese l'acqua dalla pentola e la versò lentamente sulle zampe per sbollentarle. Le zampe sfrigolavano a contatto con l'acqua bollente, e immerse nella bacinella si rivoltavano su se stesse, venivano a galla e poi riaffondavano. Lentamente, il vapore che aveva invaso la stanza cominciò a diradarsi, mostrando le mura annerite e i vecchi mobili rotti. Mio padre infilò con prudenza la mano nella bacinella. La sua mano scura intrecciata alle bianche lingue di vapore fondeva realtà e apparenza in un'immagine di fantasia. La mano nera estrasse dal coccio una zampa gocciolante. Non la gettò, non la depose, ma gli scivolò via mentre compiva il gesto, andando a sbattere con grande precisione sul bordo della trave di legno e spruzzando tutt'intorno una corona di gocce d'acqua. Vidi gli occhi di mio padre sbattere una volta, e un'altra ancora.
Mia madre tese le mani, con una tenne ben salda la zampa per le unghie, con l'altra cominciò a ripulirla delle setole, che vennero via una a una, come feltro marcio, lasciando scoperta la pelle biancorossa luccicante. Mio padre e mia madre erano estremamente meticolosi, non una sola setola venne risparmiata. Dopo averle pulite tutte, sciacquarono la pentola, la riempirono di nuovo d'acqua e riaccesero il fuoco, facendole bollire finché l'intera stanza non fu permeata del loro profumo. A mia moglie bastò un solo giorno per spolparle tutte fino a farle splendere e mangiare buona metà della zuppa. Qualche tempo dopo disse ai vicini: La mia famiglia mi ha mandato sei zampe di maiale, ma se le sono mangiate quelle due vecchie scrofe dei miei suoceri. Mia madre mi raccontò quello che mia moglie aveva detto ai vicini, i quali poi glielo avevano riferito. Quelle parole mi provocarono non pochi sospiri...
«Il rullo rotola sull'aia. La mia vita e questo rullo si somigliano come gocce d'acqua. Rotola in avanti e rotola indietro: quando cesserà tutto ciò? Le sofferenze non hanno inizio né fine.»
Alla radio cantavano abbondando negli accenti sentimentali, un perfetto sottofondo per mia moglie che tirava il rullo di pietra al mio posto. Il pianto di mia moglie era diventato un fiume lento e tranquillo che, senza trovare ostacoli, riversava i lamenti contro la mia malvagia famiglia e i sospiri contro l'avverso e miserevole destino nelle mie orecchie. Evidentemente si era immedesimata in Li Ersao, buona e debole, bella e ricca di sentimenti, che suscita pietà e amore. Trascinava meccanicamente il rullo per l'aia.
Sembrava aver trasformato quel lavoro in una condanna nei miei confronti. Lo splendido canto di Li Ersao mi aveva commosso, la messinscena di questa ingannatrice mi aveva toccato al punto di ritrovarmi con la testa piena di pensieri. Mi sono sentito molto a disagio, mi sembrava improvvisamente che la tragedia fosse la forma di base del mondo e che voi, io, lei, non fossimo altro che personaggi di questa tragedia. Mia moglie crede di vivere lo stesso terribile destino di Li Ersao. Io credo che il mio sia ben più duro del suo, e i miei genitori ritengono il loro più miserevole del nostro. Tutti noi ci pieghiamo sotto il peso della sofferenza. Solo mia figlia sembrava fare eccezione.
Appoggiata al muretto, con la testa piegata, era immersa in un sonno profondo. Sulle sue guance arrossate dal sole si dipingeva un'immagine di immensa tristezza...
Mia moglie ha gettato a terra la corda che teneva sulle spalle e ha ruggito: Adesso basta! Ne ho abbastanza di fare il somaro per la vostra famiglia! Io le ho chiesto: Credi di essere Li Ersao? Tu invece vorresti cacciarmi così che mi sposi qualcun altro, giusto? mi ha risposto.
Veramente nobile da parte tua. Lo so io come hai studiato cinematografia in questi due anni: rotolandoti sui prati con le ragazzette. Hai capito, il signore si è fatto le scarpe nuove e adesso vorrebbe disfarsi di quelle vecchie. Te lo sogni. Non riuscirò a catturarti, ma certo non permetterò che tu te la goda. A un tratto ho avuto la piacevole sensazione di precipitare verso il basso, come un corpo in caduta libera. Il sole si è tuffato verso di me, come un corvo gracchiante, e l'aia dorata mi ha girato intorno come un disco.
La mia testa ha sbattuto sulla paglia e la pula brucianti, profumate e morbide, sulle barbe di grano e i chicchi, maturi, appuntiti, affilati.
Cadendo a terra, le labbra mi si sono riempite di polvere. Mia moglie mi ha trascinato all'ombra dell'albero come fossi un cane morto, dandomi forti colpi sulla schiena. I miei, in piedi accanto a me, mi chiamavano a gran voce. Mia madre ha detto: Mamma di Yanyan, non fargli troppo male, anche se non si è comportato bene. È sempre il tuo uomo. Se dovesse accadergli qualcosa, sarebbe la fine della nostra famiglia... Mia moglie era una furia. È colpa mia? Stai dando di nuovo la colpa a me?! Sono sempre io che faccio la parte del cattivo, mentre voi siete i paladini senza macchia, vero? Ma se le ha prese persino da suo padre. E ringrazia che è suo figlio, altrimenti quelle due sberle gli avrebbero appiattito la testa. Ho schiuso le palpebre e ho visto le lacrime negli occhi di mia moglie. Piangeva per me?
Erano lacrime, o saliva? Mi sentivo male, e avevo voglia di vomitare. Papà di Yanyan, mi hai spaventato a morte!
Vuoi che ti carichi in spalla e ti porti in ospedale? Si è chinata su di me. Fissando quel suo grande viso pieno, ho scosso nervosamente la testa. In quel preciso momento il torello, il quale doveva avere in odio l'intera umanità, ha deciso di lasciarsi cadere a terra. Mia madre, mio padre e mia moglie, come un sol uomo, sono corsi tutti in quella direzione. Io sono stato abbandonato, mia figlia dormiva ancora. La radio trasmetteva una pubblicità in cui un'acida signora cercava di vendermi un dentifricio che previene il raffreddore, marca Caprifoglio.
Mi sono tirato su e mi sono avvicinato anch'io al torello.
Sembrava un cumulo di fango ammonticchiato per terra. Mia madre lo tirava per il naso con tutte le sue forze. Mio padre, con quel cappellaccio di paglia che gli gettava un'ombra scura sul viso, gridava furioso cercando di farlo alzare, gli occhi sbarrati e la bocca aperta. Ma che diavolo ci stai a fare? Sei cieca?
Sei morta? insultava mia madre. I capelli di mia madre erano arruffati come un mucchio di paglia. Ha sollevato il viso gonfio e non osando parlare ad alta voce, si è limitata a mormorare lentamente: Io... mi stavo preoccupando solo di mio figlio... mi ero completamente dimenticata del toro... Ti venisse un colpo! ha esclamato mio padre. Negli occhi di mia madre è apparsa un'espressione incerta fra il terrore e la voglia di reagire. Mia moglie ha riso gelida. I muscoli del viso di mio padre si contraevano nervosamente. Ha colpito mia madre con uno schiaffo che l'ha fatta arretrare di cinque o sei passi, inciampare e cadere a terra senza rumore, come se il suo corpo fosse lo stoppino di paglia di una lanterna.
Era rimasta incinta sei volte, ma io sono l'unico figlio sopravvissuto.
L'ho aiutata a rialzarsi. Dalla narice sinistra le scorreva un rivolo di sangue rosso scuro, che colando sul suo labbro superiore, le è entrato in bocca tingendo di rosso i denti e la lingua. Ti rompo le ossa! ha gridato.
Voleva bastonare il toro che si stava di nuovo piegando sulle zampe tentando di accucciarsi. Mia madre ha afferrato veloce la corda legata al naso del toro e si è messa a tirare con forza.
Il toro non ha avuto altra scelta che raddrizzare le zampe. Mia madre è andata via lentamente, guardandomi con occhi sconsolati mentre conduceva il toro attraverso le ombre variegate degli alberi.
Ho sferrato un violento calcio contro il forcone di legno, facendolo schizzare in aria. Dopo aver compiuto due capriole tra i raggi del sole. È ricaduto sulla paglia. Andiamo, ho detto gelido. Andiamo dove? ha chiesto mia moglie. All'ospedale. Ad abortire, ho risposto. No, non vengo. Ho afferrato i miei vestiti con entrambe le mani, cercando con tutte le forze di strapparmeli di dosso. Se non avevo il diritto di picchiare nessuno, avevo almeno tutti i diritti di strapparmi i capelli e di lamentarmi. In quello sfogo selvaggio, torbide lacrime, dense di molti elementi, mi solcavano il viso. Papà, non te la senti di affrontare tuo figlio? ha chiesto mia moglie. Mio padre sembrava sordo. È avanzato vacillando nel mucchio di grano, ha tirato su quel serpente morto che era la corda marrone e se l'è avvolto intorno alle spalle, quindi, allungando il collo come un'oca, ha incominciato a camminare. Dietro di lui, il rullo di pietra verdastra rotolava provocando un secco crepitio...
Mia moglie mi guarda con riconoscenza, perché l'ho chiamata per nome. Ondate di calore giallo scuro scorrono sul letto asciutto del fiume.
Il canto delle cicale si è fatto secco e monotono, infastidisce l'orecchio.
Mi rendo conto di essere ormai arrostito dal sole bianco e dalla sabbia altrettanto bianca, al punto di non capire più nulla. Anche mia moglie sembra completamente inebetita. Dai nostri corpi si sprigiona un intenso odore di carbone bruciato. Tiro fuori un fazzoletto di un bianco abbagliante e lo porto all'altezza degli occhi, ma non riesco ad asciugarmi il sudore che mi imperla la fronte, perché mia moglie mi sta fissando. Allora, tenendo il fazzoletto fra tre dita, comincio ad asciugare energicamente il suo viso, che, sotto la stoffa, si irrigidisce come una tegola. Guardo il fazzoletto e mi accorgo che ha cambiato colore. Lei socchiude gli occhi e dischiude leggermente le labbra, come un pesce tenuto troppo a lungo lontano dall'acqua. Sta certo aspettando che la asciughi di nuovo.
In alcuni momenti sa andare molto d'accordo con me, sa fare appello a tutto il suo calore per sedurmi. È una cosa che mi tocca, ma allo stesso tempo mi rattrista, e sebbene mi senta soddisfatto, non posso fare a meno di provare un certo senso di colpa e di rimorso. Rivolto il fazzoletto, e con un tocco ora leggero ora più forte, e movimenti verticali e orizzontali, le pulisco il viso dal sudore e dalla polvere. Yulan, le dico, tu sei una buona moglie, mi dai sempre retta.
Pensaci un attimo: in Cina siamo già un miliardo di persone, se tutti avessero due bambini dove andremmo a finire? Lei allunga una mano verso di me. Cerco di bloccarla, e mi accorgo che invece è la sua mano a bloccare la mia, la stringe con grande forza, quasi avesse paura che fugga. Io mi metto in marcia, lei mi segue.
Attraversato il fiume in secca, risaliamo l'argine. Non oso volgere lo sguardo, ma percepisco la presenza della nostra aia a nord del fiume.
Calore rovente e freddo gelido si mescolano in frecce di terrore che, una dopo l'altra, mi colpiscono la spina dorsale.
Sull'argine facciamo una breve sosta, guardiamo distrattamente gli alberi di carrubo e i cespugli di falso indaco che crescono fitti lungo la riva. Per non turbare quel momento di illusoria allegria, non cerco di liberare la mia mano dalla sua, non cerco di cancellare il sorriso cartaceo che porto stampato in viso.
Un improvviso scoppio di grida ci fa girare. Guardando verso il letto asciutto del fiume, vedo un gruppo di uomini correre in maniera disordinata.
Correndo, alzano grandi nuvole di polvere. La sabbia sollevata da chi è davanti colpisce il viso rozzo di chi viene dietro, tanto che questi tengono gli occhi chiusi e corrono seguendo il rumore provocato dagli altri. Davanti a questa folla, un animale rosso fuoco, simile a un cane, corre a grandi balzi. Salta sopra l'argine proprio davanti a noi, gli uomini gli tengono dietro come uno sciame d'api.
Lei mi stringe forte la mano. Il sudore del suo palmo è fresco e appiccicoso. Ci giriamo. Compio un semicerchio, e lei ne compie uno intorno a me. Ci incamminiamo con grande cautela, come una coppia di giovani sposi innamorati.
La fila di edifici rossi dell'ospedale della Comune sembra incandescente, quasi bruciasse.
3.
Quando entriamo nel reparto di ostetricia e ginecologia, la capo reparto sta mangiando velocemente dei baozi, panini al vapore ripieni. È figlia del fratello di mio nonno. Ha quarantanove anni, un viso molto pallido e benché sia estate le sue mani sono gelide; e con quella mano gelata stringe un paio di forbici scintillanti sulla cui punto è conficcato un baozi fumante.
Nell'addentarlo, strizza forte gli occhi e fa schioccare la lingua. Poi apre gli occhi, ma si può ancora vedere la lingua che si agita disordinatamente in bocca. Zia, la chiamo. Zia, dice mia moglie. La zia manda giù il baozi, si passa la lingua sulle labbra e dice: Ma tu non eri partito appena qualche giorno fa?
Perché sei tornato? Sei venuto a selezionare attori, o a scegliere gli esterni? Cogliendo la palla al balzo, le dico: A selezionare attori. E cosa recitate di bello? mi chiede. Una storia da niente, rispondo. E chi dovrebbe andarla a vedere una storia priva di interesse? Se proprio dovete girare un film, almeno fatene uno interessante. Giusto, dico io. La zia mi dice: Allora, mi hai scritturato per il tuo film? Guarda che non ho niente da invidiare a Lu Wenting20
Ho fatto venire al mondo almeno un migliaio di bambini, ho raggiunto la mezza età, tuo zio è ancora nel Ningxia e non c'è verso di riuscire a farlo trasferire qui 21 Scriverò sicuramente un'opera dedicata alla messa al mondo dei bambini, dico. Mia zia mi chiede ridendo: Hai mai assistito a un parto? Le dico che no, non l'ho mai visto. Ma allora come farai a descrivere un parto? replica.
Ho visto le attrici nelle scene in cui rappresentate il parto: spruzzate loro un po' d'acqua sul viso, ed ecco il sudore; storcono la bocca, ed ecco lo sforzo; si strappano i vestiti, ed ecco il dolore. Non passano neanche un paio di minuti che già si sente il vagito del bambino. non è così facile, credimi. Io sorrido. La zia mi fa: Lo vuoi vedere un parto? Se vuoi oggi posso farti assistere a uno. Le dico che non voglio vederlo.
La zia infilza un altro baozi e mentre mangia mi chiede: C'è qualcosa che non va. È incinta, le dico.
Sorride. Vogliamo abortire, aggiungo.
Ma fatelo nascere invece, forse è un maschio! Ho già una figlia, le rispondo. Una figlia, in fin dei conti, non va, dice la zia. Ma come, la pensi così anche tu? chiedo. Guarda che io sono l'unica ad avere il diritto di pensarla così, mi risponde lei, e sebbene io sia riuscita a costruirmi una certa posizione sociale, ti dico che una donna, anche con molto talento, non ce la fa.
Fatelo nascere. No che non lo facciamo nascere, le dico. Vuoi davvero abortire? chiede la zia. Mia moglie fa cenno di sì con la testa.
Mia zia riempie mezza bacinella con l'acqua contenuta in un recipiente sistemato in un angolo e si lava rumorosamente le mani. Quindi, sollevando le mani bagnate, si alza in piedi e dice: Dovrete aspettare. Lì dentro ho un solo tavolo ostetrico, ed è occupato da una donna che sta partorendo. Ci vorranno un paio d'ore, forse di più. Aspetteremo, dico. Se preferite potete tornare domani. No, insisto. E va bene, dice, aspettate pure.
In piedi davanti alla finestra, mia zia si asciuga le mani dandomi la schiena. Una volpe! la sento esclamare.
Una volpe?
Rumori confusi provengono da fuori: uno scalpiccio, grida umane e il latrare furioso dei cani. Scatto verso la finestra e vedo un animale, simile a un cane, scivolare veloce come il vento attraverso il prato antistante l'ospedale. Sembra una nuvola rossa inseguita da tre cani, seguiti a loro volta da una ventina di persone che corrono sollevando un gran polverone.
Una volpe? Ma quando mai si è vista una volpe in pianura? I cani e gli uomini la inseguono oltre il prato, fino al campo di grano appena mietuto.
Ancora non riesco a credere che quell'animale sia davvero una volpe.
Volando come il vento attraversa il campo di stoppie gialle, supera la statale est-ovest e corre verso un campo di granturco a sud della strada.
Sul margine del campo, brilla come una fiamma e scompare alla vista. Distolgo lo sguardo e, rientrato in me, do un'occhiata alla stanza. Sulla porta d'ingresso sono appesi diversi cartelli dipinti di bianco con le scritte in rosso. Questa stanza porta a un'altra stanza. Le pareti si possono considerare bianche, il pavimento è in cemento di pessima qualità. Nella parete a oriente c'è una porta, e dietro questa la sala parto. La parete sud ha una finestra, mia zia e mia moglie si appoggiano al davanzale, cercando di vedere la volpe con il viso schiacciato contro il vetro e lo sguardo concentrato.
Rassegnato a seguire la maggioranza, guardo anch'io fuori della finestra.
L'ospedale non ha un muro di cinta, la vista della campagna non ha confini: l'erba verde, il campo di grano dopo la mietitura, la statale nera, il campo di granturco. L'ombra argentina di un aereo scivola avanti e indietro sopra la campagna: le esercitazioni di volo proseguono.
Nel campo di granturco, dai fusti alti fino al petto, quella ventina di persone si dispone a semicerchio e, lanciando grida forsennate, si spinge verso sud. Vedo le teste e i colli delle persone che fluttuano sul manto verde, ma non i cani, dei quali sento solo i latrati, cavernosi e impauriti.
Gli uomini avanzano in maniera disordinata, i cani abbaiano creando un gran trambusto. La volpe non è visibile. Sfumo l'immagine, e metto a fuoco il vetro della finestra, dove si è posata una mosca che si sta pulendo le ali con la saliva. La pittura verde dell'infisso è sbiadita, e lo stucco secco che fissa il vetro spaccato da lunghe crepe verticali. Mia zia e mia moglie staccano il viso dal vetro della finestra e si scambiano un'occhiata intensa sospirando sconsolate. Era una volpe? Non mi aspetto alcuna risposta, pongo la domanda solo per rompere il silenzio.
Mia moglie guarda allarmata la zia, sul cui viso si diffonde un misterioso alone color cera. Certo che era una volpe! dice mia zia. Un cane non era.
I cani hanno la coda in alto, le volpi invece la tengono parallela al terreno, dritta come una scopa. Se fosse stata notte, avremmo visto la luce che diffonde mentre corre.
Sorrido. Non ci credi? continua.
Guarda che sono un membro del Partito anch'io, e anche i membri del Partito devono ammettere che le volpi mandano un bagliore. Tu l'hai mai visto? le chiedo. Ma certo! mi risponde. Una decina di anni fa, questa zona non era molto popolata, i bambini erano rari come le stelle cadenti. Si sa, quando la gente è poca, demoni e spiriti abbondano. A quell'epoca, dovevo uscire alle ore più impensate della notte per andare a visitare i pazienti. Fuori, in aperta campagna, brillavano ovunque i fuochi fatui. Il tuo prozio mi aveva detto che per catturarne uno, bastava mettersi le scarpe al contrario, e che quando lo si bloccava a terra con i piedi, si scopriva che era un pezzo di stoffa o un osso putrefatto. E poi c'erano le volpi. Se ti perdevi nella notte buia come la pece, e tutto intorno si ergevano solo enormi pareti scoscese impossibili da scalare, allora la volpe veniva a salvarti. Davanti ai tuoi occhi compariva una piccola lanterna che illuminava debolmente il grigio sentiero. Bastava che la seguissi per arrivare sano e salvo a casa. Potevi sentire il cigolio del manico della lanterna e il rumore felpato dei passi. Arrivati alle porte del villaggio, la lanterna faceva ancora qualche salto, come in cenno di saluto, ma prima che tu potessi rispondere, si trasformava in un bagliore e scompariva. Le chiedo: Hai mai incontrato una volpe che ti abbia indicato la strada? No, mi risponde, ma al tuo prozio è successo. Quindi, obietto, parli solo per sentito dire.
Vorresti dire che tu non ci credi? ribatte la zia. Non mi è mai capitato di imbattermi in una volpe che mi indicasse la strada, continua, ma una volta ne ho incontrata una che fabbricava le pillole dell'immortalità22, e questa è la pura verità...
Prima che la zia finisca di parlare, vari rumori ci giungono dalla sala parto e un'infermiera, in camice e cuffia bianchi, apre la porta e si precipita fuori. Nell'attimo in cui la porta viene spalancata, vedo nella stanza il lettino ostetrico, con i suoi poggiagambe di ferro bianco e il materassino di pelle nera, sui cui distolgo immediatamente lo sguardo e, fatto qualche passo, mi metto a fissare la parete.
L'infermiera: Dottoressa, dice che sta per nascere. Mia zia solleva il polso e dà un'occhiata all'orologio: Non starla a sentire, ancora non ci siamo, come minimo ci vuole un'altra mezz'ora. L'infermiera le chiede: Vuole entrare a vedere come sta? Anche se la vedo, non cambia niente, risponde la zia. Poi, rivolta a me: Se vuoi fumare fai pure, qui non siamo al Policlinico di Pechino. Mia zia segue l'infermiera in sala parto. Mentre chiude la porta, l'infermiera mi lancia un'occhiata. Io tiro immediatamente fuori una sigaretta e l'accendo.
Gli spiriti delle volpi possono davvero trasformarsi in donne? mi chiede timidamente mia moglie. Ci penso un po' su e poi rispondo: Forse.
Quando sei lontano da casa, bisogna che tu faccia molta attenzione, mi dice. Annuisco. La mosca si sta scagliando con forza contro il vetro della finestra.
Fuori, la luce sembra essersi un po' affievolita. Gli uomini che circondavano il campo di granturco per dare la caccia alla volpe stanno rientrando. Non riesco a distinguere i loro lineamenti, solo teste tonde, teste lunghe. Le loro grida risuonano più fiacche, mentre i latrati dei cani sono più forti e più chiari. Un trattore grigioverde, di quelli che si guidano ancora a mano, avanza sbuffando per la folle corsa sulla statale est-ovest, lancia verso il cielo candidi anelli di fumo dal suo tubo di scappamento rivolto verso l'alto. Sul viso del guidatore scintilla una luce bianca accecante.
Passa anche un carro con un cavallo pezzato attaccato alle lunghe redini e un bue nero legato alle stanghe. Il carro trasporta qualcosa di nero, probabilmente carbone. I posteriori del cavallo luccicano, forse è sudore, forse grasso. Il cavallo solleva esageratamente gli zoccoli, mentre il bue non li stacca da terra, quasi scivolasse piuttosto che camminare.
Basandomi sulle immagini stereotipate che abbiamo delle cose, mi sembra di indovinare le grosse, solide corna del bue. Una moto rossa fiammante saltella sulla strada come fosse un coniglio.
In sella ci sono un uomo e una donna, lei si tiene abbracciata alla vita di lui. Supera il carro, poi il trattore, scoppiettando tanto vigorosamente da far vibrare il mondo intero.
La zia e l'infermiera escono dalla sala parto. Dai un'occhiata al libro, dovrebbe essere a pagina 58 o giù di lì, dice la zia. Se non fosse per suo suocero, le darei proprio una bella lavata di capo. Non so con chi ce l'abbia. L'infermiera si ferma davanti a me - il suo viso ha un incarnato rosa. È veramente delicato e vivace, una frangia le copre la fronte, nascondendo anche le sopracciglia - mi alzo di scatto, arretro fino a un angolo della stanza e, lasciandole riprendere possesso del suo posto, le dico: Mi scusi. Non c'è di che, mi risponde, stia pure seduto. Ma non me la sento proprio di rimettermi seduto.
La sua mano si stende sotto i miei occhi per aprire un cassetto. È piccola e ben fatta, la pelle è screpolata. Anelli di pelle bianca sembrano esplodere sulla punta delle dita. La sua mano si esibisce con impegno ma trema nervosa. Uccidete la volpe! Le grida giungono dal lontano sud. La sua mano si imporpora, poi sbianca, e arrossisce di nuovo facendomi venire in mente il suo viso.