Il cane e l'altalena
Una volta, nella regione a nord-est di Gaomi, c'erano dei grandi cani bianchi, docili e affettuosi, i cui esemplari di razza pura, con il passare del tempo, diventarono molto rari. La maggior parte dei cani che vengono allevati adesso nella regione sono bastardi, e anche se capita di trovarne uno bianco, avrà sempre una chiazza di colore, indice di un incrocio. Malgrado ciò, purché la chiazza non sia troppo grande e particolarmente visibile, la gente del luogo continuerà a chiamarli come in passato «cani bianchi», senza preoccuparsi che la realtà corrisponda al nome, per non apparire eccessivamente pignola.
Mentre mi rinfrescavo il viso alla limpida acqua del ruscello del villaggio, accovacciato sui gradini che da un'estremità del vecchio ponte in rovina scendevano alla riva, vidi arrivare sul ponte uno di questi cani.
Era interamente bianco, tranne le zampe anteriori macchiate di nero, e aveva un'aria malinconica.
Ci trovavamo alla fine del settimo mese lunare e il caldo nella zona, situata in un avvallamento, si era fatto insopportabile. Quando ero sceso dall'autobus che collegava il villaggio con il capoluogo di distretto, avevo gli abiti zuppi di sudore e il viso e il collo coperti di polvere. Dopo essermi lavato il viso e il collo, avrei desiderato togliermi i vestiti e tuffarmi nel fiume, ma rinunciai, scorgendo in lontananza qualcuno che si avvicinava lungo il sentiero che dai campi portava al ponte. Mi alzai e mi asciugai con uno dei fazzoletti che mi aveva regalato la mia fidanzata.
Mezzogiorno era passato e il sole cominciava a declinare dolcemente verso occidente. Una brezza fresca e leggera soffiava di tanto in tanto da sud-est, procurando una piacevole sensazione, facendo oscillare le spighe di sorgo che frusciavano sotto la sua spinta e agitando il manto del cane che scodinzolava leggero e più si avvicinava, più mi sembrava imponente.
Quando fu vicino, notai le sue zampe nere.
Giunto all'estremità del ponte si immobilizzò, girò la testa a guardare la strada polverosa, poi mi fissò con i suoi occhi vitrei. Il suo sguardo remoto e di una tristezza infinita conteneva qualcosa che richiamò in me un sentimento conturbante sepolto nel profondo.
Avevo lasciato il villaggio per andare a studiare. Anche i miei genitori se ne erano andati, trasferendosi da mio fratello maggiore. Nel villaggio non avevo più nessuno e nessuna ragione per ritornarci. Dieci anni erano trascorsi in un lampo, un lasso di tempo né lungo né breve.
Prima delle vacanze estive, mio padre era venuto a trovarmi nella scuola dove insegnavo, e quando prese a raccontare del villaggio natio, provai nostalgia mio malgrado. Si augurava che trovassi il tempo di andarvi a fare una visita. Ma io gli avevo risposto che ero molto occupato con il lavoro e non mi sarebbe stato possibile assentarmi, e lui aveva scosso il capo in segno di disapprovazione. Quando se ne fu andato, però, mi sentii così inquieto che alla fine decisi di rompere gli indugi e di farvi ritorno.
Il cane girò nuovamente la testa verso il sentiero polveroso, e poi alzò ancora una volta lo sguardo vitreo su di me. Osservavo le sue zampe nere che, con mia sorpresa, stavano per riportarmi alla memoria un ricordo, ma in quel mentre ritrasse la lingua rosso sangue e abbaiò due volte verso di me. Quindi sollevò una zampa, e con un gesto abituale fece pipì contro un pilastro del ponte.
Dopodiché, seguendo la strada che avevo fatto anch'io per scendere in riva al ruscello, venne a sistemarsi accanto a me. Si mise la coda fra le gambe, tirò fuori la lingua e prese a lappare l'acqua.
Sembrava aspettasse qualcuno: beveva con l'aria di chi volesse ingannare l'attesa, non di chi fosse assetato.
La sua espressione indifferente si rifletteva nell'acqua, e i pesci nuotavano senza posa nella sua immagine. Cani e pesci sembravano ignorare del tutto la mia presenza, io invece ero molto consapevole del loro tanfo, al punto che mi venne voglia di spedire il cane in acqua con un calcio perché acchiappasse i pesci.
Poi cambiai idea, per «carità canina», e in quel mentre lui arricciò la coda, sollevò la testa e guardandomi con freddezza risalì lentamente sul ponte. Lo vidi gonfiare il pelo del collo e correre eccitato nella direzione dalla quale era venuto.
Ai lati del sentiero si stendevano immensi campi di sorgo dalle spighe grigioverdi. Il cielo azzurro chiaro disseminato di nuvole bianche copriva la campagna chiazzata. Tornai sul ponte, e recuperai il mio bagaglio con l'idea di attraversarlo in fretta. Sei chilometri mi separavano dal villaggio, non avevo avvisato nessuno del mio arrivo e, se fossi giunto per tempo, sarebbe stato più facile organizzarmi da mangiare e da dormire.
Assorto nei miei pensieri, vidi il cane far strada a qualcuno che veniva dai campi e portava sulla schiena un fascio enorme di foglie di sorgo.
Quasi vent'anni in campagna mi avevano insegnato che le foglie di sorgo sono un ottimo foraggio per le bestie, e che tagliare quelle vecchie quando le spighe maturano, non impedisce a queste di crescere.
Guardai con compassione quel grosso fascio lontano che si muoveva zoppicando. Sapevo bene cosa significava cogliere le foglie facendosi strada in quei campi, così fitti da non lasciar passare l'aria.
Inutile dire del senso di soffocamento e del calore che faceva grondare di sudore. La sensazione peggiore era il contatto della sottile peluria delle foglie sulla pelle umida. Per fortuna tutto ciò era per me ormai lontano.
A poco a poco, l'immagine della persona che avanzava curva sotto il peso delle foglie si fece più nitida.
Indossava pantaloni neri, una tunica blu e scarpe nere dalla suola di gomma gialla. Benché fosse ora a due passi da me, solo i capelli lunghi mi fecero capire che si trattava di una donna.
Il suo viso era rivolto a terra e il collo teso in avanti. Forse per calmare il dolore alle spalle? Il fascio era disposto per lungo sulla sua schiena e retto da un bastone di bambú, del quale lei sosteneva la parte inferiore con una mano mentre con l'altra, che passava dietro il collo, reggeva l'altra estremità. I raggi del sole facevano brillare le gocce di sudore che le imperlavano il collo e il capo. Le foglie di sorgo erano di un verde tenue. La donna avanzò lentamente e alla fine imboccò il ponte. Il fascio era largo quasi quanto il ponte, io indietreggiai fino al palo marchiato poco prima dal cane, e li osservai mentre avanzavano. A un tratto mi resi conto che un legame invisibile univa questi due esseri, e l'andatura del cane, ora più veloce, ora più lenta, allentava o stringeva questo legame. Giunto di fronte a me, mi fissò di nuovo con i suoi occhi remoti. La velata allusione contenuta in quello sguardo divenne in un attimo estremamente limpida, le sue zampe nere squarciarono di colpo la nebbia che avvolgeva il mio cuore, facendomi pensare immediatamente a lei. La sua testa chinata mi scivolò accanto e mi sorpassò, il respiro affannoso e il puzzo di sudore restarono indelebilmente impressi nella mia mente.
All'improvviso lasciò cadere il fascio e si sgranchì lentamente.
Posato a terra, il fascio le arrivava quasi al seno. Le aveva incavato il dorso e le parti del corpo dove aveva fatto più pressione erano coperte di foglie ridotte in poltiglia. Sapevo che sollievo provavano ora queste parti del corpo. A un capo del ponte gettato sulle acque chiare increspate, accarezzata dalla brezza che veniva dai campi, doveva sentirsi rilassata e paga. Sollievo e benessere sono due elementi costitutivi della felicità; un tempo ormai passato l'avevo sperimentato anch'io.
Mentre si stirava la schiena ebbi l'impressione che stesse per svenire.
La polvere che le copriva il viso era solcata da rivoli di sudore. La bocca sensuale socchiusa respirava profondamente. Il profilo del naso era fine, come il gambo di una cipollina fresca, la pelle scura, i denti bianchi.
Le donne del posto sono famose per la loro bellezza e molte in passato venivano scelte per andare a corte.
Oggi fanno le attrici a Pechino. Ne ho vista qualcuna e aveva gli stessi tratti e colori, lei non era certo da meno! Se non avesse avuto il viso deturpato, sarebbe diventata un'attrice anche lei! Una decina d'anni prima era stata bella come un fiore, con due occhi che brillavano come stelle.
- Nuan! - gridai.
Mi fissò con l'occhio sinistro iniettato di sangue, che le dava un'aria crudele.
- Nuan! Xiao Nuan! - gridai per farmi riconoscere.
Avevo ventinove anni, e lei era più giovane di due, ma come era cambiata in dieci anni! Senza quella ferita causata dall'altalena non l'avrei riconosciuta. Anche il cane mi osservava attento: doveva avere adesso almeno dodici anni, era un vecchio cane. Non avrei mai immaginato che fosse ancora vivo, e, a giudicare dall'aspetto, in buona salute.
Quando - il giorno della Festa delle barche-drago - mio padre lo portò da casa di mio zio nel capoluogo di distretto, non era più grande di una palla. Dodici anni fa la razza pura era già estinta ed era una rarità vederne anche uno con poche macchie come quello. Mio zio aveva un allevamento di cani e mio padre aveva ottenuto quest'esemplare, approfittando senza imbarazzo del legame zio-nipote. In un tempo in cui il villaggio era pieno di bastardi e di incroci, l'apparizione di mio padre con questo cane suscitò molta invidia.
Ci fu persino che offrì trenta yuan per comprarlo. Anche in una regione desolata e remota come la nostra, non mancavano i piaceri, e allevare i cani era uno di questi. E, tranne in caso di catastrofe naturale, c'era sempre da mangiare per tutti, per questo le specie canine si moltiplicavano.
All'epoca avevo diciannove anni, Nuan diciassette e il cagnolino solo quattro mesi. Numerose divisioni dell'Esercito di liberazione e camion provenienti dal nord attraversavano il ponte di pietra. La nostra scuola media aveva eretto un riparo a un'estremità del ponte, dove veniva preparato il tè da offrire ai soldati; il gruppo di propaganda cantava e danzava al suono dei gong e dei tamburi davanti al riparo.
Il ponte era molto stretto, il primo camion lo attraversò con estrema cautela e metà delle ruote sospese nel vuoto. Il secondo spaccò uno dei pilastri con la ruota posteriore e si rovesciò nel fiume, mandando in pezzi una gran quantità di pentole, tazze, bacinelle, mestoli che trasportava e creando sulla superficie dell'acqua una grossa macchia d'olio. Alcuni soldati saltarono immediatamente nel fiume per aiutare l'autista a uscire dalla cabina e riportarlo a riva tutto grondante. Accorsero altri soldati vestiti di bianco e uno di loro, che portava i guanti bianchi, si mise a gridare a pieni polmoni in un megafono. Nuan e io, dimentichi del nostro ruolo di animatori della squadra di propaganda, osservavamo rapiti la scena. più tardi, alcuni grossi papaveri vennero a stringere la mano a Guo, soprannominato il Butterato, rappresentante dei contadini poveri e medio-poveri della nostra scuola, e al Direttore Liu, responsabile del Comitato rivoluzionario della scuola.
Poi si rinfilarono i guanti e ci fecero un cenno di saluto. A quel punto si disposero in fila e guardarono le truppe che attraversavano il fiume. Guo mi chiese di suonare il flauto, mentre Liu chiese a Nuan di cantare.
- Cosa canto? - chiese Nuan.
- Canta Vedervi è una gioia!
E noi cominciammo a suonare e a cantare.
I soldati attraversarono il ponte una fila dopo l'altra, mentre le vetture guadarono il fiume.
«L'acqua del fiume è chiara e limpida, i campi si estendono fino al canale.»
I camion di testa avanzarono sollevando onde di schiuma, mentre la coda della colonna lasciò dietro di sé una scia giallastra.
«L'Esercito di liberazione è arrivato sulle nostre montagne per aiutarci nel raccolto d'autunno.»
Dopo i camion, fu la volta di due piccole jeep. La prima entrò in acqua velocemente sollevando onde alte cinque o sei metri. Appena l'altra jeep entrò in acqua, il motore mandò un rumore strano e poi finì sommerso.
Una colonna di fumo nero si alzò dal fiume.
«Quando si chiacchiera i ricordi affiorano alla memoria.»
- Che disastro! - gridò un ufficiale.
- Che imbecille! Dite a Wang, la Scimmia, di mandare degli uomini a tirar fuori la macchina, - ordinò un altro.
«Si mangia nella stessa marmitta, una stessa lampada ci fa luce.»
Subito una decina di soldati scesero nel fiume per spingere la jeep in panne. Benché l'acqua non gli arrivasse che alle ginocchia, le loro divise si bagnarono fino al petto incollandosi al corpo e modellando gambe e natiche magre e grasse.
«Siete la nostra carne e il nostro sangue. Sarete sempre nei nostri cuori.»
Quelli col camice trasportarono l'autista, bagnato fino alle ossa, in una vettura con dipinta sopra una croce rossa.
«La benevolenza del Partito è infinita, vedervi è per noi una gioia straordinaria!»
Gli alti papaveri si girarono, sembravano in procinto di attraversare il ponte. Li guardavamo sbalorditi, io con il flauto in mano, Nuan a bocca aperta. Uno di loro, che portava un paio di occhiali con la montatura nera, annuì col capo verso di noi e aggiunse: - La ragazza canta bene e lui suona niente male.
- Voi capi avete avuto una giornata dura. I ragazzi hanno fatto del loro meglio, siate comprensivi, - rispose Guo, il Butterato. Tirò fuori un pacchetto di sigarette, lo aprì e le distribuì con fare rispettoso. Gli ufficiali rifiutarono gentilmente.
Un cingolato si fermò sull'altra riva. Vi salirono alcuni soldati che scaricarono, gettandoli a terra, pali di legno bianco e rotoli di filo d'acciaio.
Quello con gli occhiali neri si rivolse a un giovane e bell'ufficiale: - Capitano Cai, dica al suo gruppo di propaganda di regalare ai ragazzi qualche strumento.
Dopo aver attraversato il torrente, le truppe si distribuirono nei villaggi, nel nostro fu installato il quartier generale. In quei giorni nel villaggio regnò un'aria di festa, quasi fosse Capodanno. Una decina di linee del telegrafo collegarono la mia casa con diversi punti del paese.
Il bel capitano Cai e la sua truppa di musicisti erano acquartierati in casa di Nuan. Ci andavo tutti i giorni ed eravamo diventati molto amici.
Spesso chiedeva a Nuan di cantare. Cai era un tipo alto, con i capelli soffici e le sopracciglia arcuate.
Quando Nuan cantava, stava a testa bassa e fumava con accanimento. Avevo anche notato che le orecchie gli tremavano leggermente. Diceva che Nuan era dotata ed era un peccato che non avesse un insegnante che la impostasse. Anche per me prevedeva un avvenire brillante. Gli piaceva molto il nostro cane bianco dalle zampe nere. Mio padre glielo aveva immediatamente offerto, ma lui aveva rifiutato.
Il giorno in cui partirono, mio padre e il padre di Nuan si presentarono a Cai per chiedergli di portarci con loro. Lui rispose che ne avrebbe parlato ai suoi superiori e che alla fine dell'anno, al momento del reclutamento, ci avrebbe arruolato. Al momento di separarci, mi regalò un manuale per imparare a suonare il flauto e a Nuan diede un libro di canzoni rivoluzionarie.
- Piccola zia, non mi riconosci? le chiesi imbarazzato.
Famiglie di origine diversa si erano trasferite nel villaggio, i Zhang, i Wang, i Li, i Du. L'ordine dei clan si era confuso, e ogni tanto una zia sposava un nipote, o un nipote seduceva una zia. L'importante era che non si notasse una grossa differenza d'età, così nessuno avrebbe fatto del sarcasmo.
Sin da quando ero bambino avevo l'abitudine di chiamare Nuan «piccola zia», ma non avevamo nessun legame di parentela. A dire il vero, ricordo che dieci anni fa chiamarla Nuan o «piccola zia» comportava una leggera differenza. Ora non eravamo più dei ragazzi e quella sfumatura non la notavo più.
- Piccola zia, non mi riconosci? - e mi resi subito conto di quanto ero idiota nel farle questa domanda.
Il suo viso aveva preso un'espressione dolorosa. Il sudore lo imperlava incollandole i capelli alle gote. La pelle abbronzata si fece pallida, l'occhio sinistro brillò colmo di lacrime. A destra l'occhio non c'era, non c'erano lacrime, solo un'orbita vuota circondata da ciglia irregolari. Il cuore mi si strinse, distolsi lo sguardo da quella cavità e li posai sulle sopracciglia graziose e i capelli splendenti di sudore sotto i raggi del sole. Il muscolo della sua guancia sinistra si contraeva facendo vibrare le ciglia e il sopracciglio, dando al suo viso un'espressione tragica e bizzarra. Un altro a guardarla non si sarebbe commosso, ma io non potevo non sentirmi turbato...
Quella sera di dieci anni fa, venni di corsa a casa tua e dissi: - Piccola zia, l'altalena è libera, andiamo a giocarci noi!
- No, sono stanca.
- Dai! Non fare storie! La festa dei morti, è finita da otto giorni e domani smonteranno l'altalena per recuperare la legna. Stamattina il carrettiere si lamentava con il capo-brigata perché usavano la corda del carretto per l'altalena e temeva che si sarebbe spezzata.
- E va bene! Andiamo! acconsentisti sbadigliando.
Il cane crescendo si era fatto più snello e non era più bello come da cucciolo. Il suo pelo, illuminato dalla luna, mandava una luce argentea.
L'altalena - due pali verticali, uno orizzontale, due anelli di ferro, due grosse corde e una tavola - si ergeva su un lato dell'aia. Silenziosa e lugubre sotto il chiaro di luna, come l'entrata dell'inferno. Dietro c'era il fossato dell'aia, nel quale cresceva una fitta selva di sofore, le cui spine, dure e acuminate, mandavano una luce cinerea sotto i raggi lunari.
- Dai! Spingimi, - dicesti.
- Ti faccio arrivare fino al cielo!
- Prendo il cane con me.
- Non credo che gli piacerà!
Chiamasti il cane: - Vieni anche tu a farti dondolare - Con una mano tenevi la corda e con l'altra stringevi il cane che guaiva di paura.
Io salii in piedi sulla tavola e, stringendovi tutti e due fra le gambe, spinsi in avanti, mettendo a poco a poco in moto l'altalena.
L'oscillazione si faceva più ampia e ci portava sempre più in alto. La luce lunare si increspava come fosse acqua, e il vento ci fischiava nelle orecchie. Mi girava un po' la testa.
Tu ridevi, il cane abbaiava e alla fine l'altalena arrivò a oscillare all'altezza del palo orizzontale. I campi, il fiume, le case, le tombe, si alternavano davanti ai miei occhi. Il vento freddo mi accarezzava a tratti il viso, abbassai la testa e ti guardai.
- Come va?
- Sono in paradiso La corda si spezzò. Io caddi sotto l'altalena, tu e il cane veniste catapultati tra le sofore, e una spina ti trafisse l'occhio destro. Il cane uscì dalla macchia e, completamente stordito, prese a girare come ubriaco attorno all'altalena.
- Questi ultimi anni... li hai passati bene... no? - balbettai.
Le spalle le si curvarono e i muscoli del viso si rilassarono.
L'occhio sinistro, più grande dell'altro forse a causa dello sforzo cui era sottoposto o forse per compensarla della perdita dell'altro, mi lanciò uno sguardo gelido che mi fece perdere tutta la mia sicurezza.
- Perché non avrei dovuto passarli bene? Ho da mangiare, da vestire, un marito e dei bambini! A parte l'occhio non mi manca niente. È questo che si intende per «star bene», no? - rispose con cattiveria.
Non seppi cosa dire, ci pensai un po' su e quindi aggiunsi: - Dopo essermi diplomato sono rimasto all'istituto come insegnante.
Forse diventerò professore incaricato... Avevo nostalgia del villaggio, non solo delle persone, ma del fiume, del ponte di pietra, del sorgo rosso, dell'aria pura e del canto degli uccelli... Allora ho approfittato delle vacanze estive per venire a fare una visita.
- Cosa ci trovi in questo buco sperduto? Hai nostalgia di un vecchio ponte che cade in rovina? Dei campi di sorgo dentro ai quali si sta peggio che in un forno?
Mentre parlava scese dal ponte seguendo il pendio dell'argine fino al fiume, dove si tolse la giacca da uomo scolorita dal sudore e la gettò su una pietra. Si chinò per lavarsi il viso e il collo: indossava solo una maglietta grigiastra, che doveva esser stata bianca una volta, la taglia appariva troppo grande per lei ed era cosparsa di piccoli buchi. La teneva infilata in un paio di pantaloni legati in vita con una striscia di tessuto bianco.
Senza mai guardare dalla mia parte, si lavò la faccia, il collo, le braccia.
Alla fine, quasi non ci fosse nessuno con lei, sfilò la maglietta dai pantaloni e si sciacquò il petto. La maglietta si bagnò e aderì ai suoi seni cadenti.
Guardando quelle due cose, mi venne in mente una canzone che cantavano i bambini del villaggio: «Prima del matrimonio, i seni della donna sono d'oro; dopo il matrimonio d'argento; quando diventa madre mammelle di cane» Per questo le chiesi: - Quanti figli hai?
- Tre - Ravviò i capelli, si aggiustò la maglietta e la rinfilò nei pantaloni.
- Ma le nascite non sono limitate a un solo figlio per famiglia?
- E chi ti ha detto che ho partorito più di una volta? - E vedendo che non capivo aggiunse freddamente: - Ne ho avuti tre in una volta! Li ho scodellati come una cagna.
Mi sforzai di ridere. Raccolse la giacca blu, la sbatté diverse volte sulle ginocchia, poi la infilò abbottonandola a partire dall'ultimo bottone.
Il cane, che era rimasto accucciato accanto al fascio d'erba, si alzò, stirandosi e scuotendosi.
- Sei in gamba! - le dissi.
- Che fine avrei fatto se non lo fossi? Le difficoltà della vita sono predestinate, non puoi evitarle, anche se lo volessi.
- Sono maschi o femmine?
- Tutti maschi.
- Sei fortunata! Tanti maschi tanta fortuna!
- Sciocchezze! È sempre lo stesso cane, no?
- Sì, non gli resta molto da vivere!
- Questi dieci anni sono passati in un soffio!
- Altri dieci e saremo morti!
- Proprio così! - Mi sentivo sempre più a disagio; cominciai a rivolgermi al cane accucciato accanto al covone: - Caro vecchio cane, te la passi bene!
- Voi ve la passate bene, perché non dovremmo stare bene anche noi? C'è chi si nutre di riso e chi mangia crusca! C'è posto per tutti: per i signori come per i villani...
- Come sei cambiata! Chi è il signore, chi il villano?
- Sei diventato un signore, no? Professore incaricato all'università!
Arrossii fino alle orecchie, non sapevo cosa dire. Trovavo insopportabile la sua meschinità, pensai di risponderle sullo stesso tono, ma poi decisi di lasciar perdere.
Presi il mio bagaglio e forzai un sorriso: - Probabilmente starò da mio zio, vieni a trovarmi quando hai un po' di tempo!
- Dopo sposata mi sono trasferita nel villaggio Wangjiaqiuzi, non lo sapevi?
- Se non me lo dici, come faccio a saperlo?
- Che tu lo sappia o no, ha comunque poca importanza! - e con voce indifferente aggiunse: - Se non ti disturba che la vita della piccola zia assomigli piuttosto a quella di un cane, vienimi a trovare, se hai tempo. Basta che tu chieda della casa di «Nuan, l'orba», la conoscono tutti al villaggio.
- Non sei più la stessa, com'è potuto succedere! È il destino, il destino degli uomini è deciso dal cielo, e non c'è niente da fare.
Risalì con indifferenza sul ponte e si fermò davanti al suo covone.
- Sii gentile, aiutami a rimetterlo sulle spalle.
Le sue parole mi intenerirono e coraggiosamente le proposi: - Te lo porto io!
- Non è necessario! - Si accovacciò davanti al covone e si mise il bastone sulla schiena.
- Alzalo!
Mi misi dietro di lei, afferrai la corda che legava il covone e lo sollevai con forza. Lei ne approfittò per alzarsi in piedi.
Poi si curvò nuovamente e, per trovare la posizione giusta, scrollò con forza il covone. Le foglie frusciarono.
- Vienimi a trovare, - la sentii mormorare da là sotto con voce smorzata.
Il cane abbaiò nella mia direzione, poi le corse davanti per farle strada.
Restai un tempo infinito sul ponte a guardare quell'ammasso di foglie di sorgo che si dirigeva lentamente verso nord, finché il cane divenne un puntino bianco e la sua padrona e il covone un punto nero appena più grosso. Allora mi girai e mi diressi a sud.
Dal ponte al villaggio Wangjiaqiuzi c'erano tre chilometri e mezzo.
Dal ponte al nostro villaggio ce n'erano sei.
Dal suo villaggio al mio c'erano nove chilometri e mezzo. Mio zio voleva prestarmi la bicicletta, io rifiutai sostenendo che quella distanza si poteva fare a piedi. Lui insistette spiegandomi che la bicicletta non era più un lusso, il villaggio era diventato prospero e tutte le famiglie ormai ne possedevano una. Erano passati i tempi in cui c'era una sola bicicletta per tutto il villaggio ed era difficile, se non impossibile, farsela prestare. Risposi che mi ero reso conto che si erano arricchiti. Le strade erano in effetti piene di biciclette che circolavano in ogni direzione, ero io che volevo andare a piedi: la vita sui libri mi aveva regalato le emorroidi e avevo bisogno di esercizio, preferivo camminare.
Lo zio mi disse: è evidente che studiare non è una cosa buona, non solo per i malanni che colpiscono quelli che studiano, ma anche perché li rende un po' bislacchi. Che bisogno hai di andarla a trovare? Diventerai lo zimbello del villaggio! Una è cieca e l'altro è muto. Ognuno deve stare al proprio posto, i pesci con i pesci, i gamberi con i gamberi, non bisogna abbassarsi a frequentare certa gente - Risposi a mio zio che non avevo intenzione di discutere con lui e che a trent'anni sapevo come comportarmi.
Risentito tornò alle sue occupazioni e mi lasciò in pace.
Speravo di incontrarla di nuovo sul ponte. Se doveva trasportare un altro covone di foglie, questa volta avrei insistito in tutti i modi per caricarmelo io al posto suo. In questo modo lei e il cane mi avrebbero guidato fino a casa loro. In città la gente è molto attenta al modo di vestire e segue la moda, ma in campagna i miei jeans attiravano solo occhiatacce che mi mettevano a disagio. Mi ero dovuto giustificare spiegando che li avevo comprati in saldo per tre yuan e sei mao, mentre in realtà mi erano costati ben venticinque yuan. E loro, visto che li avevo pagati quasi niente, mi avevano perdonato. Sfortunatamente al villaggio Wangjiaqiuzi la spiegazione sui miei jeans non era arrivata, e se non incontravo Nuan e il cane bianco sul ponte, una volta al villaggio, avrei dovuto chiedere informazioni, e non sarei certo passato inosservato.
Queste considerazioni mi facevano augurare di incontrare lei, o almeno il cane.
Ma le mie speranze furono vane.
Appena attraversato il ponte, il sole sbucò dai campi di sorgo come una palla di fuoco, sul fiume giaceva un enorme pilastro di luce rossa che ne tingeva la superficie. Il sole, tanto rosso da sembrare insolito, era circondato da una sorta di alone nero.
Stava per piovere.
Aprii l'ombrello ed entrai nel villaggio accompagnato da una raffica obliqua di pioggia sottile. Una vecchia dalle spalle curve stava attraversando la strada, il vento le sollevava la tunica e la faceva vacillare. Chiusi l'ombrello e le andai incontro per chiederle dove abitava Nuan.
- Scusi, sa dov'è la casa di Nuan?
La vecchia, che teneva il corpo inclinato in avanti per resistere al vento, posò su di me uno sguardo perplesso. Il vento le agitava i capelli grigi e la tunica, e piegava gli alberi sottili lungo la strada.
Gocce di pioggia grosse come monete cadevano di tanto in tanto colpendole il viso.
- Dove si trova la casa di Nuan? chiesi di nuovo.
- Quale Nuan?
- Quella con un occhio solo, dovetti aggiungere.
Mi guardò di nuovo con un'aria sinistra, poi sollevò il braccio e indicò una casa dalle tegole bianche lungo la strada.
Mi fermai di fronte al sentiero lastricato della casa e chiamai: - Zia Nuan, sei in casa?
Il primo a rispondere fu il cane bianco. Non era come quei terribili cerberi che, forti della presenza del padrone, si precipitano verso di te abbaiando con tutte le loro forze al solo scopo di farti morire di paura.
Tranquillamente allungato sulla paglia della sua cuccia, gli occhi socchiusi, abbaiava simbolicamente, come se volesse dimostrare la gentilezza e la generosità della sua razza.
Chiamai di nuovo. Nuan mi rispose dall'interno con voce limpida, ma fu un uomo agile e solido dalla barba color terra e dagli occhi marroni che uscì ad accogliermi. Mi esaminò con aria ostile; soffermandosi sui miei jeans, le sue labbra si torsero in una smorfia di disprezzo, e sul suo viso comparve un'espressione da pazzo. Fece un passo verso di me, e io indietreggiai immediatamente di un passo. Allora sollevò il mignolo della mano destra e prese ad agitarlo freneticamente davanti ai miei occhi, pronunciando un fiume di sillabe incomprensibili. Sapevo da mio zio che il marito di Nuan era muto, ma il cuore mi si fece pesante nel vedere il suo aspetto da folle. Un'orba che sposa un muto è come pretendere di tagliare le verdure in un recipiente concavo con un coltello storto!
Nessuno dei due ha motivo di prendersela con l'altro! Ma io non potevo non provare una pena profonda.
Ci eravamo nutriti di sogni così belli. Il capitano Cai ci aveva riempiti di speranze. Mi ricordo come l'avevi guardato negli occhi il giorno della sua partenza e come avevi pianto. Cai era pallido, aveva tirato fuori da una tasca un pettine di corno e te ne aveva fatto dono.
Piangevo anch'io e gli dicevo che avremmo aspettato che ci venisse a prendere.
- Verrò! - ci aveva risposto per rassicurarci.
In autunno, quando il sorgo diventò di nuovo rosso, sentimmo dire che una divisione dell'Esercito di liberazione era arrivata al distretto per fare nuove reclute. Eravamo talmente eccitati che perdemmo il sonno. Un nostro maestro andava al distretto a sbrigare delle faccende, ne approfittammo per chiedergli di informarsi presso l'Ufficio per il reclutamento se il capitano Cai era là. Il maestro partì. Il maestro ritornò. Ci disse che quei militari indossavano giacche gialle e pantaloni blu: facevano parte dell'intendenza dell'aeronautica. Non era la divisione di Cai...
Io ero disperato, ma tu ancora piena di fiducia insistevi che era impossibile che Cai ci avesse mentito.
- Ci ha dimenticato già da tempo... - dissi.
E tuo padre aveva aggiunto: - Avete fatto di un nano un gigante!
Lui scherzava e voi l'avete preso sul serio. Gli uomini per bene non fanno i soldati, così come non si usa del buon ferro per fare i chiodi! Una volta diplomato, tornerai qui a tirare la carretta. Faresti bene a toglierti queste idee dalla testa, Cai vi ha trattato come dei bambini!
- No! Non è vero! Non mi avrebbe mai trattato come una bambina - E un rossore si diffuse sul tuo viso mentre dicevi quelle parole.
- Questo lo credi tu! - rispose tuo padre.
Guardavo stupito il tuo viso che cambiava colore, animandosi in un'espressione particolare, appena percettibile.
- Forse verrà l'anno prossimo o forse quello dopo ancora, - aggiunsi tanto per dire qualcosa.
Era così bello il capitano Cai, con quell'aria nobile e dignitosa, alto e ben fatto, il viso dai lineamenti perfetti e la pelle bianca e ben rasata...
Un giorno mi confidasti che la vigilia della partenza ti aveva preso teneramente la testa fra le mani, e baciandoti la fronte aveva mormorato: «Sorellina, sei così pura...»
Quelle parole erano state per me un'indicibile tortura.
- Quando diventerò un soldato, lo sposerò.
- Smettila di sognare! Non ti prenderebbe nemmeno con una dote di cento chili di carne.
- Se lui non mi vorrà, allora sposerò te.
- No! - gridai.
- Ma stai delirando? - replicasti guardandomi con disprezzo.
Ricordo com'eri bella a quel tempo!
I tuoi seni simili a dei boccioli facevano palpitare il mio cuore.
Era evidente che non piacevo al muto.
Il suo mignolo esprimeva animosità e disprezzo nei miei confronti. Mi sforzai di abbozzare un sorriso tentando di guadagnarmi la sua amicizia, ma lui incrociò i mignoli in modo strano e li sollevò davanti ai miei occhi. Riconobbi quel gesto pescando nel patrimonio di atti osceni accumulati ai tempi dell'infanzia, e ricordai la volgare risposta che richiedeva. Per un attimo provai ribrezzo, come se avessi raccolto un rospo. Considerai anche di fuggir via, ma in quel mentre vidi spuntare sulla soglia della casa tre teste rasate dalle fattezze identiche e con indosso gli stessi abiti. Mi fissavano con occhi marroni identici. Tutti e tre tenevano le teste inclinate verso destra, mi facevano venire in mente tre pulcini implumi e irascibili. Le loro fronti erano solcate da rughe e le mascelle, larghe e prominenti, tremavano leggermente. Sembravano tre vecchietti.
Tirai fuori le caramelle che avevo portato per loro. Il muto fece alcuni segni e pronunciò delle semplici sillabe. I bambini fissavano con aria avida le caramelle colorate che tenevo in mano, ma non osavano muoversi. Feci un passo verso di loro, ma il muto si mise in mezzo e cominciò ad agitare le braccia e ad emettere suoni che facevano raggelare il sangue.
In quel momento Nuan uscì di casa, con le mani incrociate sul petto, vacillando lievemente. Capii perché aveva tardato tanto a mostrarsi: si era cambiata e indossava una giacca blu indaco e pantaloni grigi di terital con la piega ben stirata. Era da tempo che non vedevo quella giacca di foggia tradizionale, e fui preso dalla nostalgia. L'allacciatura laterale metteva in risalto il seno delle giovani donne.
Nuan aveva un viso fine e delicato e un collo incantevole. Si era messa un occhio di vetro nell'orbita vuota, restituendo simmetria al viso. Provai pena per il suo cuore buono e sofferto. Io osservo la vita da un punto di vista basso, presto attenzione ai dettagli più insignificanti e ai movimenti impercettibili delle corde del cuore, sottili come seta, per questo non potei fare a meno di rabbrividire. Non dovevo concentrarmi sull'occhio finto che, privo di vita, mandava il freddo riflesso della porcellana.
Si accorse che la fissavo e abbassò la testa. Passò attorno al marito, si fermò di fronte a me, mi tolse la borsa dalle spalle e mi invitò ad entrare.
Il muto, pazzo di rabbia, le diede uno spintone. Indicò i miei pantaloni e agitò di nuovo il mignolo gridando.
I muscoli del suo viso erano tutti in movimento, a volte contratti a volte rilassati, ma sempre con un'espressione che metteva paura. Alla fine sputò per terra e calpestò lo sputo con il suo enorme piede.
Evidentemente qualcosa dei miei pantaloni non gli andava a genio, mi pentii d'essere stato così stupido da presentarmi in campagna in jeans, e decisi che, una volta rientrato al villaggio, avrei chiesto a mio zio un paio di pantaloni più larghi.
- Piccola zia! Non sa chi sono, presentami, ti prego! - dissi imbarazzato.
Nuan diede una spinta al muto, mi indicò col dito poi puntò il pollice in direzione del villaggio. Quindi indicò le mie mani, la penna che avevo in tasca e il distintivo della mia scuola. Mimò il gesto di scrivere e disegnò nell'aria i contorni di un libro. Il suo viso esprimeva sentimenti diversi, come i suoi gesti.
Il muto rimase sbalordito e si calmò di colpo, il suo sguardo divenne docile come quello di un bambino.
Scoppiò a ridere, facendo un verso simile all'abbaiare di un cane e scoprendo i denti gialli. Mi diede una manata sulla bocca dello stomaco, quindi batté i piedi e gridò, il viso rosso dall'emozione. Capii perfettamente cosa voleva dire e ne fui commosso. Aver guadagnato la fiducia del muto mi rilassò. I bambini ne approfittarono per avvicinarsi, gli occhi inchiodati alle caramelle che tenevo in mano.
- Avvicinatevi! - li invitai.
I bambini alzarono gli occhi per guardare il padre. Questi rideva di cuore, allora si lanciarono su di me e presero le caramelle. Nella mischia che seguì per impadronirsi di una caramella caduta per terra, le tre piccole teste calve si urtarono. Il muto li guardava sorridendo. Nuan emise un lieve sospiro e disse: - Ora hai visto tutto! Puoi anche ridere di me!
- Zietta... come potrei... sono così carini...
Il muto mi guardò con aria complice, sorrise, quindi si girò e separò a calci i bambini che ansimanti si lanciavano sguardi cattivi. Tirai fuori il resto delle caramelle e le divisi tra loro in parti uguali. Il muto cominciò di nuovo a gridare e a far gesti ai bambini che indietreggiavano con le mani nascoste dietro la schiena. Lui gridò più forte finché i bambini, con i visi contratti, misero ciascuno una caramella nella sua grande mano.
Quindi sparirono con un lamento. Il muto fissò con aria idiota le caramelle, poi mi guardò mormorando qualcosa e facendomi dei segni con la mano. Mi girai verso Nuan per chiederle aiuto con lo sguardo.
- Dice che ha sentito parlare di te e che vuole provare le caramelle che hai portato da Pechino.
Io feci il gesto di mettere qualcosa in bocca, e lui rise. Tolse delicatamente la carta a una caramella e se la mise in bocca. La succhiò tenendo la testa leggermente inclinata, come se ascoltasse chissà cosa. Alla fine alzò il pollice e capii che lodava le caramelle. Ne prese immediatamente un'altra.
Promisi a Nuan di portarne di migliori, la prossima volta.
- Tornerai? - chiese.
- Certo!
Dopo aver finito la seconda caramella, il muto rifletté un attimo e offrì l'ultima a Nuan che rifiutò chiudendo gli occhi. Il muto gridò.
Tremai nel vederlo mettere una mano sotto gli occhi di Nuan, che continuava a tenerli chiusi e a scuotere la testa. Il muto ruggì infuriato, afferrò Nuan per i capelli con la mano sinistra e le tirò indietro la testa, costringendola a sollevare il viso. Si mise la caramella fra le labbra, tolse la carta con l'aiuto dei denti, e - ora bagnata e appiccicosa - la spinse nella bocca di Nuan. La bocca di lei, benché non fosse piccola, apparve minuscola a confronto delle dita di lui, grosse come cetrioli, e le sue labbra sembrarono fragili e delicate.
Nuan tenne la caramella in bocca, senza sputarla né succhiarla. Il suo viso era privo di qualsiasi espressione. Il muto, per festeggiare la vittoria, mi rivolse un sorriso soddisfatto.
- Entriamo! Che stiamo a fare qui al vento? - mormorò confusamente Nuan.
Si accorse che perlustravo con lo sguardo il cortile.
- Che guardi? Quello è un asino terribile, scalcia e morde, lui è l'unico capace di tenerlo a bada. La mucca l'ha comprata la primavera scorsa, ha partorito un vitello appena un mese fa.
Nel cortile c'era un ampio riparo nel quale venivano allevati un asino e una mucca. La mucca era molto magra, fra le zampe teneva un vitellino che stava attaccato alle sue mammelle. Il vitellino sedeva sulle zampe posteriori e dondolava la coda, dando di tanto in tanto con la testa dei colpi contro le mammelle della madre.
La mucca curvava la schiena per il dolore e una triste luce blu brillava nei suoi occhi.
Il muto era un gran bevitore, si scolò i nove decimi di una bottiglia di alcol molto forte, il «Zhucheng», mentre io ne bevvi solo un sorso. La sua faccia non aveva nemmeno mutato colore, mentre a me girava la testa. aprì un'altra bottiglia, riempì di nuovo il mio bicchiere, e me lo offrì con entrambe le mani. Temendo di offenderlo bevvi d'un fiato, mandando all'aria ogni prudenza. Ma per evitare che continuasse, finsi di non poterne più e mi stesi sull'imbottita del letto. Divenne rosso per l'eccitazione e scambiò dei segni con Nuan che mi disse a bassa voce: - Cerca di non dargli corda. È capace di bere più di dieci persone messe insieme. Bada di non ubriacarti - Aveva uno sguardo deciso.
Alzai il pollice verso di lui, e puntai il mignolo verso me stesso, per indicare le mie assai deboli capacità.
Finalmente l'alcol fu portato via dalla tavola e vennero serviti i ravioli.
- Mangiamo tutti insieme, zietta! proposi.
Dopo l'approvazione del marito, Nuan fece salire sul kang i tre ragazzi che cominciarono a divorare come lupi.
Lei restò in piedi vicino al kang per servirci. L'invitai a sedere, ma disse che aveva mal di pancia e rifiutò di mangiare.
Dopo il pasto, il tempo era tornato sereno e il sole caldo si dirigeva verso sud. Nuan tirò fuori da un baule un pezzo di stoffa gialla, indicò i tre marmocchi facendo contemporaneamente segno verso nord-est. Il muto acconsentì con un movimento della testa.
- Riposati ora, io vado in città a far tagliare dei vestiti per i bambini. Non aspettarmi, vai pure fra un po' - Mi diede un occhiata penetrante, poi partì veloce come il vento con il pacchetto sotto il braccio. Il cane la seguì con la lingua fuori.
Il muto e io eravamo seduti faccia a faccia. Ogni volta che i nostri sguardi si incrociavano, si metteva a ridere. Dopo aver giocato un po', i tre ragazzi si addormentarono più o meno contemporaneamente. Aveva ricominciato a fare caldo e sugli alberi oltre il cortile si sentivano le cicale. Il muto si tolse la giacca, lasciando nudo il busto muscoloso.
Emanava un odore animale che m'intimoriva e m'infastidiva. I suoi occhi sbattevano rapidi, si strofinava il petto con le mani portando via palline di sudiciume, simili alla cacca dei topi. Di tanto in tanto, tirava fuori la lingua da lucertola e si leccava le spesse labbra. Ero irritato e nauseato allo stesso tempo; pensai all'acqua verde e limpida del fiume che scorreva sotto il ponte. Il sole inondò la stanza e scaldò le mie cosce avvolte dai jeans. A un certo punto gettai uno sguardo al mio orologio. Il muto si mise a gridare e saltò giù dal kang, tirò fuori da un cassetto un orologio digitale e me lo porse. Capendo che si aspettava un complimento, alzai disonestamente il pollice per mostrargli che lo apprezzavo, e indicai il mio con il mignolo. Il muto naturalmente ne fu molto felice e si mise l'orologio al polso destro. Gli indicai il sinistro ma scosse la testa senza capire. Non insistetti e mi limitai a sorridergli.
- Fa molto caldo oggi! Le messi crescono rigogliose e in autunno ci sarà un secondo raccolto. Hai allevato molto bene il tuo asino. Dopo il Terzo plenum, la vita dei contadini è molto migliorata, ora sei ricco, dovresti comprarti un televisore. Il vino era eccellente, e molto forte!
Il suo viso era raggiante di felicità. Si passò una mano sulla testa e poi la fece scivolare sul collo. Guardai senza capire. Aveva l'intenzione di tagliare la testa a qualcuno? Vedendo che non capivo, si agitò e la mano prese a tremargli.
Puntò con l'indice il suo occhio destro e poi si accarezzò di nuovo la testa fino al collo. Allora capii.
Voleva parlarmi di Nuan, gli feci un cenno di assenso con la testa. Fece scivolare la mano sui suoi capezzoli neri, indicò i bambini e si accarezzò il ventre. Afferrai più o meno quel che voleva dire e risposi con cenni del capo. Allora, eccitato, si alzò in piedi, contorcendo il corpo per comunicarmi il suo messaggio. Io annuivo con vigore, pensando che avrei dovuto mettermi a studiare il linguaggio dei muti. Alla fine, col viso madido di sudore, mi accomiatai da lui. Qui fu tutto semplice da capire: il suo viso prese un'espressione infantile, con una mano batté il suo petto e poi il mio.
È così! Siamo fratelli! - gli gridai con tutta sincerità.
Con tre sculacciate fece alzare i bambini, che mi accompagnarono alla porta, trasportando le mie cose con gli occhi ancora cisposi. Sulla soglia, tirai fuori dalla borsa l'ombrello pieghevole per regalarglielo e gli mostrai come funzionava. Prese l'ombrello come fosse un tesoro e si divertì a chiuderlo e aprirlo davanti ai bambini che lo guardavano con gli occhi spalancati e le mandibole tremanti. Lo interruppi toccandolo con un dito e gli indicai la strada diretta a sud.
Allora agitò le mani gridando, corse come una freccia dentro casa e ne ritornò con un coltello enorme, che tolse dalla guaina e brandì sotto i miei occhi. La lama mandava una luce fredda, doveva essere molto tagliente.
Si sollevò sulla punta dei piedi e afferrò un sottile ramo del pioppo che cresceva all'entrata, quindi lo tagliò con il coltello in tanti pezzettini che caddero al suolo.
Infilò il coltello nella mia borsa.
Lungo il cammino pensavo che, nonostante fosse muto, questo non gli impediva di avere carattere. Nuan non doveva essere troppo infelice con lui.
Anche se non poteva parlare, col tempo erano arrivati a capirsi, a gesti e con gli sguardi, superando le barriere imposte dalla natura. Le paure che avevo forse erano infondate.
Giunto al ponte, preso dall'idea di fare un bagno nel fiume, già non pensavo più a Nuan. La strada era deserta, non c'era anima viva. La pioggia caduta la mattina era evaporata e il suolo era di nuovo coperto da uno strato di polvere grigia. Ai due lati della strada, le foglie luccicanti del sorgo frusciavano e le locuste volavano nell'erba folta, battendo l'aria rumorosamente e mandando lampi con le loro ali rosa. L'acqua sciabordava sotto il ponte. Il cane bianco era lì, accucciato all'imboccatura del ponte.
Quando mi vide si mise ad abbaiare mostrando i denti bianchi. Ebbi il presentimento che la situazione si stesse facendo delicata. Il cane si alzò e si diresse verso i campi di sorgo, girandosi di tanto in tanto, come per farmi segno di seguirlo. Mi vennero in mente alcune scene dei romanzi polizieschi che avevo letto: decisi di seguire il cane, ma con la mano cercai nella sacca il coltello che mi aveva dato il muto e lo strinsi. Mentre scostavo i fusti di sorgo per farmi strada, la vidi seduta lì in mezzo, con accanto il pacchetto.
Aveva spezzato e disposto per terra alcuni fusti di sorgo, in modo da lasciare uno spazio libero accanto a sé. Il sorgo che la circondava le faceva da paravento. Quando mi vide arrivare, tirò fuori la stoffa gialla dal suo fagotto e la stese sulle piante abbattute. Un'ombra maculata le danzava sul viso. Il cane ansimante si accucciò da una parte, e appoggiò il muso sulle zampe anteriori.
Il mio corpo si contrasse in una morsa gelata, battevo i denti e mi sentivo la mascella bloccata: - Ma... non dovevi andare in città? Che sei venuta a fare qui? balbettai.
- Io credo nel destino, - e un rosario di lacrime le si sgranava sulle gote. - Ho detto al cane: - Se mi capisci, aspettalo sul ponte e portalo qui. Se viene vuol dire che il nostro legame non si è spezzato - Ed ecco che ti ha portato da me!
- Torna subito a casa! - Tirai fuori il coltello. - Mi ha regalato il suo coltello.
- Sono dieci anni che sei partito, pensavo che non ti avrei mai più rivisto in questa vita. Non sei ancora sposato? No! Tu lo hai visto, hai capito com'è fatto. Ama e odia al limite estremo... Sospetta di qualsiasi uomo mi rivolga la parola.
Mi legherebbe con una corda se solo potesse. Non ho nessuno con cui parlare, eccetto il cane. Mio caro cane, da quando ho perso l'occhio mi sei rimasto solo tu, ma sei invecchiato molto più in fretta di me... Sono rimasta incinta un anno dopo il matrimonio. Il mio ventre si ingrossava come un pallone. Poco prima del parto non riuscivo più nemmeno a camminare, e non mi vedevo la punta dei piedi. Ho messo al mondo tre figli, appena più grossi dei piccoli di una gatta! Piangevano tutti insieme e avevano fame tutti insieme. Ho solo due seni, dovevo allattarli a turno e se non mangiavano piangevano. Sono stati due anni terribili, pensavo che non mi sarei mai più ripresa. Dal momento in cui vennero al mondo vissi nell'ansia. Signore, fa che parlino e non siano come il padre, mi auguravo.
Quando ebbero circa otto mesi il cuore mi si gelò. Erano assenti, insensibili ai suoni, e piangevano senza toni.
Pregai il Cielo che me ne lasciasse almeno uno col quale poter parlare... ma non servì a niente, erano tutti e tre muti.
Chinai il capo e mormorai: - Piccola zia... perdonami... È colpa mia...! Se non t'avessi portato su quella maledetta altalena!
- Tu non c'entri! In fondo sono io l'unica responsabile. Quell'anno, ti avevo detto che il capitano Cai mi aveva baciato... Se avessi avuto un po' più di coraggio, sarei andata a cercarlo nell'esercito. Mi voleva bene davvero e mi avrebbe tenuta con sé.
Poi ci fu l'incidente con l'altalena.
Quando eri all'università, mi scrivesti anche delle lettere, ma io non ti risposi mai. Pensavo che con la mia menomazione non ero più degna di te e temevo che avremmo sofferto in due. Com'ero stupida! Dimmi la verità: se allora ti avessi detto che volevo sposarti, mi avresti voluta?
Vedendola così disperata risposi sopraffatto dall'emozione: - Sì! Certo!
- Allora... ora dovresti capire...
Temendo di farti ribrezzo mi sono messa l'occhio di vetro. Sono in periodo fecondo... voglio un figlio che parli! Se accetti mi salvi, altrimenti mi uccidi... Qualunque scusa o pretesto tu possa avere, ti prego, tienili per te.