Il vecchio fucile
Un fascio di luce dorata lo inondò mentre si toglieva il fucile dalla spalla con la mano destra priva di indice. Il sole al tramonto scendeva velocissimo, descrivendo un arco perfetto, e nei campi riecheggiava frammentario un suono simile al riflusso della marea, accompagnato da un respiro triste, a tratti intenso, a tratti debole. Facendo grande attenzione appoggiò il fucile sul terreno coperto di chiazze di muschio della dimensione di monete di rame.
Nel deporre l'arma, osservò la terra umida e un'immensa tristezza gli serrò il cuore. Il fucile, a canna lunga e con il calcio di legno di mogano, giaceva sull'irregolare suolo bagnato senza potervi perfettamente aderire.
Accanto ad esso il sole illuminava una spiga di sorgo caduta, dalla quale era spuntato un grosso grappolo fitto di teneri germogli di un giallo tenue, che gettava la sua ombra sulla canna scura e il calcio rosso cupo del fucile, facendogli cambiare colore.
Mentre scioglieva la fiaschetta della polvere da sparo che teneva allacciata in vita, si tolse la giacca nera mostrando il suo busto ossuto. Avvolse il fucile e la polvere da sparo nella giacca e li posò sul terreno; quindi avanzò di tre passi, si chinò e, allungando le braccia bagnate dall'intensa luce del sole, sfilò un fascio di fusti di sorgo dalla pila in cui erano accatastati.
In autunno c'era stata un'inondazione e i terreni, sommersi dall'acqua per migliaia di ettari, facevano pensare a un oceano. Le spighe color cremisi del sorgo spuntavano dall'acqua, mentre frotte di topi saltavano dalla cima di un fusto all'altra, lesti come uccelli in volo. Al tempo del raccolto, l'acqua arrivava all'altezza del petto, la gente l'aveva attraversata a guado trasportando le spighe con le zattere.
Carpe dalle pinne rosse e pesci d'erba dal dorso nero, piovuti chissà da dove, sfrecciavano tra le verdi radici aeree dei fusti di sorgo. Di tanto in tanto, un martin pescatore color smeraldo si tuffava in acqua per poi uscirne con in becco un pesciolino d'argento brillante. In agosto la piena si ritirò a poco a poco, portando alla luce strade coperte di fango. L'acqua rimasta negli avvallamenti formava pozzanghere di tutte le forme e le dimensioni. Poiché era impossibile trasportare i fusti di sorgo tagliato, vennero trascinati fuori dall'acqua e accatastati sulla strada, o sul terreno più alto ai bordi delle pozze. Un sole meraviglioso splendeva sulla campagna pianeggiante. Nell'arco di cinque chilometri pochissimi erano i villaggi, le pozzanghere scintillavano e le cataste di sorgo somigliavano a fortini.
Dando le spalle al caldo sole brillante e ad un vasto acquitrino, egli trascinò uno a uno i fasci di sorgo fino al bordo della palude, dove con quelli eresse un rifugio a pianta quadrata che gli arrivava a mezzo busto. Raccolto il fucile, vi saltò dentro e si sedette. La sua testa arrivava esattamente al bordo del nascondiglio. Dall'esterno non lo si poteva vedere; mentre lui, attraverso le fessure appositamente lasciate, aveva una vista nitida sull'acquitrino e quella specie di isolotto di fango che vi sorgeva nel mezzo. Il suo sguardo poteva raggiungere anche il cielo rosa e la terra marrone. Il cielo sembrava molto basso e la luce rossa del sole tingeva la superficie delle acque. Scintillando l'acquitrino si estendeva fin nella caliginosa luce crepuscolare, e i dardi di sole che vibravano lungo i suoi bordi somigliavano a un cerchio di calde ciglia. Ciuffi di canne gialle si ergevano solenni sull'isolotto melmoso, ora divenuto azzurro chiaro, che avvolto da una luce guizzante sembrava fluttuare leggero. La sensazione diveniva più forte man mano che tutt'intorno aumentava l'oscurità e l'acqua si faceva più lucente. Ebbe l'impressione che l'isolotto stesse fluttuando verso di lui, sempre più vicino, ancora pochi passi e avrebbe potuto saltarci sopra. Non erano ancora arrivate sull'isolotto.
Perplesso e irrequieto guardò ancora una volta il cielo. È l'ora, pensava, dovrebbero arrivare.
Non aveva idea da dove venissero.
Quel giorno, avevano passato l'intero pomeriggio a trasportare i fusti di sorgo, e quando il caposquadra aveva annunciato che era ora di staccare dal lavoro, mentre decine di uomini si erano incamminati verso casa facendo oscillare le loro lunghe ombre, lui era corso qui, per fare i suoi bisogni, e all'improvviso le aveva viste. Si sentì come se qualcuno gli avesse sferrato un pugno in petto, il suo cuore subì una battuta d'arresto prima di riprendere il ritmo regolare.
Un grande stormo di anatre selvatiche che planava sull'isolotto gli abbagliò la vista. Per una decina di sere di seguito, le osservò nascosto in mezzo ai fasci di sorgo. Notò che di norma arrivavano, mandando il loro richiamo, verso l'imbrunire, come provenissero da oltre il cielo. Prima di atterrare, volteggiavano eleganti sopra l'acquitrino, come una grande nube grigioverde che a tratti si dispiegava e a tratti si riavvolgeva. Quando scendevano sull'isolotto battendo in aria le ali, si sentiva al colmo dell'eccitazione. Prima di allora non gli era mai accaduto di vedere così tante anatre selvatiche concentrate in un pezzo di terra tanto piccolo, non gli era mai accaduto...
Sarebbero già dovute essere lì, e invece non si vedevano. Non erano ancora arrivate, o non sarebbero venute affatto? Si sentiva in ansia, giunse persino a dubitare che quanto aveva visto in precedenza non fosse stata che un'illusione; d'altro canto, gli era sembrato poco credibile fin dall'inizio che in quel posto potesse esserci un così grande stormo di anatre selvatiche. Spesso aveva sentito i vecchi del villaggio raccontare storie sulle anatre divine, ma le anatre delle storie erano di un bianco immacolato, mentre queste non lo erano. Avevano splendide piume verdi sul capo e sul collo, un anello bianco attorno alla gola, e le ali simili a specchi blu. Erano forse i maschi? E quelle con il corpo castano dorato screziato di marrone scuro, erano le femmine? Senza dubbio non si trattava delle anatre divine, visto che avevano lasciato sull'isolotto strati e strati di piccole piume verdi e marroni. Vedendo le piume si tranquillizzò molto. Si sedette, raccolse la giacca in cui erano avvolti il fucile e la polvere da sparo e svolgendola con piccole scosse riportò alla luce l'arma e la fiaschetta lucente. Il fucile giaceva tranquillo e silenzioso sui fusti di sorgo, il suo corpo splendeva di una luce rosso scuro simile alla ruggine.
E in effetti in passato la ruggine l'aveva ricoperto e aveva roso il metallo, lasciandolo pieno di buchi.
Ora, comunque, la ruggine non c'era più. L'aveva tolta lui, grattandola via con due fogli di carta vetrata. Il fucile giaceva a terra contorto come un serpente nero in letargo. Sentiva che si sarebbe potuto svegliare in qualunque momento, alzarsi in volo, battendo in un crepitio i fusti del sorgo con la coda d'acciaio. Quando allungò la mano per toccare il fucile, la prima sensazione che provò fu un freddo gelido, che dai polpastrelli gli salì fino al petto, scuotendolo di brividi. Il sole stava tramontando più velocemente, mutando forma man mano che scendeva, appiattendosi e deformandosi, come una sfera semifluida che cade su una liscia lamiera d'acciaio. La parte inferiore era piatta, e le superfici curve, sottoposte a una tensione estrema, finirono per esplodere: un liquido rosso, gelido e gorgogliante, si diffuse in tutte le direzioni. Una quiete onirica scese sull'acquitrino, il liquido color cremisi si immergeva lentamente nell'acqua, trasformandone gli strati sottostanti in un denso brodo rosso, mentre in superficie restava trasparente e di uno splendore accecante. A un tratto notò una libellula dalle striature dorate sospesa a un lungo stelo di erba avvizzita. I suoi occhi enormi, simili a gemme purpuree, ruotavano a destra e a sinistra riflettendo i raggi di luce.
Egli afferrò il fucile e se lo mise sulle gambe, il calcio dell'arma sporgeva oltre l'angolo formato dalle gambe e dal ventre, mentre la bocca, da sotto il suo mento, guardava di traverso il cielo grigio pallido del sud. Estrasse di tasca un misuratore di forma cilindrica, tolse il tappo della fiaschetta che conteneva la polvere da sparo e la versò dentro al misurino. Quindi caricò la canna, e subito dalla bocca del fucile si produsse il rumore soffice di qualcosa che scorreva. Poi, prese una manciata di pallini da una scatoletta di ferro, li versò nella bocca del fucile, e questa volta dalla canna salì un suono cristallino. A quel punto, sfilò una lunga bacchetta che si trovava sotto la canna e, con l'estremità a forma di nodo, pigiò la polvere da sparo e i pallini. Tremava di paura e il cuore gli batteva forte, quasi stesse accarezzando una tigre assopita. Dopo aver versato nella canna la terza dose di polvere da sparo e la terza presa di pallini, una morsa di gelo gli strinse il cuore e un denso sudore freddo gli imperlò la fronte. Nel tirar fuori il tappo di ovatta che aveva preparato per tempo e che doveva servirgli a otturare la bocca del fucile, le sue mani tremavano. Si sentiva affamato e fiacco. Strappò una radice d'erba dalla terra e, dopo averla ripulita dal fango, la mise in bocca. Cominciò a masticarla, ma questo non fece che aumentargli la fame. In quell'istante sentì sopra le pozze il fischio prodotto dalle ali quando sbattono l'aria. Doveva portare immediatamente a termine l'ultimo atto dei preparativi: inserire la capsula.
Tirò indietro la testina sporgente del cane, e apparve una protuberanza a forma di capezzolo collegata alla canna del fucile. Sulla protuberanza c'era una cavità rotonda con un forellino al centro. Con estrema attenzione strappò vari strati di carta da una capsula dorata, quindi la sistemò nella cavità. La capsula conteneva polvere da sparo gialla, e sarebbe esplosa appena il cane l'avesse colpita, dando fuoco alla polvere nella canna. Un serpente di fuoco sarebbe guizzato fuori dalla bocca del fucile, sottile all'inizio, poi sempre più grande sino a trasformare il fucile in una specie di scopa di ferro. Quel fucile era rimasto appeso per così tanto tempo al timpano nero come la pece di casa loro, che egli aveva penetrato il mistero del suo funzionamento da solo, senza bisogno di maestri. Due giorni prima, quando l'aveva tirato giù per ripulirlo dalla ruggine, si era sentito perfettamente a proprio agio nel maneggiarlo.
Le anatre selvatiche erano arrivate.
Sulle prime, volteggiarono a cento metri d'altezza, mandando il loro richiamo e battendo le ali. A tratti planavano, poi riprendevano quota, o si raggruppavano per disperdersi nuovamente con un gran baccano, o si slanciavano verso terra dalle direzioni più disparate, fino a sfiorare la superficie dell'acqua rossa e cristallina. Si mise in ginocchio e, trattenendo il respiro, incollò lo sguardo su quei cerchi di luce purpurea. Con delicatezza infilò il fucile in una fessura tra i fusti di sorgo, il cuore gli batteva all'impazzata. Le anatre stavano ancora volteggiando, descrivendo cerchi grandi e piccoli: si aveva l'impressione che persino l'acquitrino ruotasse assieme a loro. A volte, alcuni maschi dalle verdi piume furono quasi sul punto di sbattere contro la bocca del suo fucile, e aveva potuto notare i loro becchi verde pallido e i balenii di furbizia negli occhi neri.
Il sole era diventato più grande e più piatto, i bordi mandavano riflessi neri, mentre il centro, ancora simile all'acciaio fuso, sprizzava scintille crepitanti.
Improvvisamente le anatre cominciarono a mandare forti richiami, formando un gran coro maschile e femminile. Era talmente eccitato che gli tremavano le labbra, sapeva, sapeva che presto sarebbero atterrate.
Avendole osservate attentamente per dieci giorni di seguito, sapeva che, dopo aver mandato i loro richiami, sarebbero scese a terra. Solo pochi minuti erano passati dal momento in cui le loro ombre erano apparse nel cielo, ma egli aveva la sensazione che fosse trascorso un periodo lungo, molto lungo. Violenti crampi allo stomaco gli ricordarono che aveva ancora fame. Alla fine le anatre scesero, stendendo improvvisamente le zampe purpuree e aprendo completamente le ali solo prima di toccar terra. Le code bianche come la neve, simili a ventagli di piume aperti, toccavano il suolo a una tale velocità che l'impatto le faceva barcollare di due o tre passi. L'isolotto marrone cambiò subito colore: innumerevoli soli cangianti luccicavano sulle piume multicolori dei volatili, e i raggi del sole si muovevano avanti e indietro, trasportati dall'incessante andirivieni dello stormo.
Egli sollevò non visto il fucile, appoggiò il calcio sulla spalla, e mirò a quello stuolo di germani che si andava via via ingrossando. Il sole perse un altro pezzo, apparendo ormai storto e sformato. Alcune anatre si erano accovacciate, altre stavano ritte sulle zampe, e altre ancora volavano basse un certo tempo e poi atterravano di nuovo. È il momento di far fuoco, pensò. Ma non sparò.
Spostando la mano sul grilletto si rese conto a un tratto della sua enorme menomazione. Con un senso di pena, ricordò il suo indice monco di due falangi, simile a un ceppo nodoso e tozzo incastrato tra il pollice e il medio.
Aveva solo sei anni il giorno in cui sua madre era tornata dal funerale del padre. Indossava una lunga tunica di cotone bianco con una corda di canapa allacciata alla vita, portava i capelli sciolti. Le palpebre erano diventate trasparenti per il gonfiore, e dai suoi occhi, ormai due fessure lunghe e sottili, traspariva uno sguardo cupo e lacrimoso. - Da Suo, vieni qui, - lo chiamò la madre, e lui si avvicinò trepidante. Lei gli afferrò la mano e, soffocando i singhiozzi, tese il collo, come se stesse cercando di mandar giù qualcosa di duro. - Da Suo, tuo padre è morto, lo capisci? - Mentre annuiva la madre continuò: - Tuo padre è morto, non tornerà più, lo capisci? - Egli la osservava perplesso, annuendo vigorosamente. Sai com'è morto tuo padre? - gli chiese. È stato ucciso da questo fucile. Questo fucile è un'eredità di tua nonna. Non lo dovrai toccare mai.
Lo appendo al muro e tu lo guarderai tutti i giorni, e guardandolo penserai a tuo padre. Dovrai studiare seriamente per farti una vita decente e acquisire meriti presso i tuoi antenati - Ascoltava senza essere sicuro di capire le parole della madre, ma continuò ad annuire con vigore.
E così, il fucile rimase appeso al timpano di casa sua, reso nero e brillante dal fumo di decine di anni.
Guardava l'arma tutti i giorni. In seguito, quando passò dal primo al secondo anno, sua madre appese ogni sera al timpano una lampada a cherosene, in modo che avesse luce a sufficienza per studiare. Ma ogni volta che guardava i caratteri neri sui libri, gli girava la testa. Non faceva che pensare al fucile e alla storia del fucile. Il vento delle pianure desolate filtrava attraverso i graticci delle finestre investendo la fiamma della lampada, che somigliava alla punta di un pennello, con fili di fumo nero che le tremolavano sopra.
Anche se sembrava intento sui libri, egli era sempre consapevole dello spirito del fucile; lo sentiva persino scricchiolare. La sensazione era la stessa che si prova davanti a un serpente: desiderio e allo stesso tempo paura di guardarlo. Era appeso con la canna puntata verso il basso e il calcio in alto, e mandava tetri bagliori neri. La fiaschetta, ricavata da una zucca, che conteneva la polvere da sparo era appesa lì accanto, intrecciata al fucile, la vita sottile premuta sul cane. Aveva un colore rosso dorato, l'estremità più larga era rivolta verso l'alto e la più stretta verso il basso. Com'erano in alto, il fucile e la fiaschetta! E com'erano belli! Un vecchio fucile e una vecchia fiaschetta appesi a un vecchio timpano gli tormentavano l'anima. Una sera, salì sopra un alto sgabello e li tirò giù per ispezionarli alla luce della lampada.
Un dolore insopportabile gli serrò il cuore quando sollevò quel fucile pesante. In quel mentre, sua madre arrivò dall'altra stanza. Non aveva ancora quarant'anni, ma i capelli le si erano già fatti grigi. - Da Suo, cosa stai facendo? - gli chiese. Stava lì assente, il fucile in una mano e la fiaschetta nell'altra. - Come sei andato agli esami? - domandò la madre.
- Secondo contando dal basso, - fu la risposta. - Sei un buono a nulla! Rimetti il fucile a posto!
- No, voglio uccidere... - replicò ostinato.
- Rimettilo a posto! - gli ordinò sua madre dandogli uno schiaffo sulla bocca. - Studiare seriamente è il tuo solo dovere, ricordalo! - Riappese il fucile; la madre aveva preso un coltello da cucina da sopra il fornello. - Allunga l'indice, - ordinò calma. Egli obbedì docilmente. Quando sua madre gli premette il dito sul bordo del kang1, preso dal terrore cercò di divincolarsi. - Non muoverti, - gli ingiunse. - E ricorda: non devi toccare quel fucile - Sollevò il coltello che ricadde mandando un lampo freddo. Una scossa violenta si propagò dalla punta delle sue dita fino alle spalle, e la colonna vertebrale per la tensione s'inarcò. Il sangue colava lentamente dal dito reciso, nel tamponargli la ferita con una manciata di calce viva, sua madre piangeva...
Guardando quel moncone di dito, sentì un prurito al naso. Quanti giorni erano che non mangiava carne?
Non ricordava bene, ma ricordava benissimo tutta la carne che aveva mangiato in passato. Sembrava non ne avesse mai avuta a sufficienza, e il giorno in cui aveva visto quelle anatre selvatiche belle grasse, pensò subito alla carne. E poi pensò subito al fucile. Ricordandosi che sua madre gli aveva mozzato il dito a causa di quel fucile, gli venne la pelle d'oca.
Ma alla fine, il pomeriggio del giorno prima l'aveva tirato giù. Uno strato di polvere spesso quanto una moneta gli si era depositato sopra e per di più era completamente avvolto dalle ragnatele. La cinghia di cuoio, rosicchiata dagli insetti, si era spezzata appena l'aveva toccata. Nella fiaschetta era rimasta ancora molta polvere da sparo. Quando la versò fuori per farla asciugare al sole, vi scoprì dentro una capsula dorata.
Prese quell'unico pezzo con le mani che gli tremavano per l'eccitazione.
Pensò subito al padre. La fortuna era dalla sua: dove avrebbe potuto procurarsi una capsula del genere oggi? Non ho soldi e, anche se ne avessi, non riuscirei a procurarmi neppure i buoni per la carne. Sono stupido e, anche se non lo fossi, non sarei mai riuscito ad andare a scuola, e comunque a cosa mi sarebbe servita la scuola? Cercava di consolarsi guardando quel suo dito mozzo. La madre gli aveva portato via solo la punta, ma poi la ferita si era infettata e un'intera falange era andata in cancrena: ecco perché si era ridotto in quello stato. Gli eventi passati gli fecero sorgere un odio feroce per quello stormo di anatre dal ricco piumaggio. Vi ucciderò, tutte, fosse l'ultima cosa che faccio! Vi mangerò, ridurrò in poltiglia perfino le vostre ossa e poi le manderò giù.
Immaginò come sarebbero state croccanti e profumate le loro ossa.
Portò il dito medio sulla sicura del grilletto.
Ma ancora una volta non sparò. Un nuovo stormo di anatre selvatiche scendeva infatti volteggiando in un'altra nube multicolore. Fra le anatre che si trovavano già sull'isolotto scoppiò il caos: certe pestavano le zampe, altre si alzavano in volo. Non si capiva se volessero esprimere il benvenuto verso le consimili, o sfogare la loro irritazione contro le intruse. Osservò infastidito quel turbinio e, con delicatezza, ritrasse il fucile. Il sole aveva ora assunto la forma appuntita di una patata dolce e proiettava raggi verde scuro e rosso brillante. La libellula dalle striature dorate, spaventata dalle anatre, era volata via, e, sfiorando l'acqua, era tornata al suo rifugio, le sei zampette aggrappate a una foglia di sorgo, e la lunga coda screziata che pendeva. Vide brillare nei suoi occhi due puntini luminosi. A poco a poco, lo stormo si ricompose, si quietò. Sulla superficie dell'acqua, frantumata dalle zampe delle anatre, si allargavano in ogni direzione dei cerchi concentrici, che, scontrandosi, ne formavano di nuovi.
I due stormi si erano fusi. Se avessi una grande rete, pensava, e la gettassi all'improvviso sopra di loro... però sapeva di non possedere una rete, aveva solo il fucile. Tolse la capsula con cautela, estrasse il tappo d'ovatta e caricò di nuovo la polvere da sparo e i pallini per tre volte... Tornò a prendere di mira le anatre. Il suo cuore era colmo di un'ancestrale sete di sangue. Un così grande stormo di anatre per una canna così esile... Ancora una volta ritrasse il fucile, lo caricò con due misure di polvere, e poi lo tappò. La canna era quasi colma ora, e quando alzò l'arma si rese conto di quanto era pesante. Il suo dito medio tremando premette il grilletto. Egli chiuse gli occhi nell'istante in cui partì il colpo.
La testa del cane colpì la capsula dorata con un suono metallico, ma dal fucile non uscì alcun suono. I cerchi sull'acqua sembrava si stessero contraendo, mentre il vapore purpureo che aleggiava tra il cielo e la terra si faceva sempre più denso, e il rosso del tramonto sbiadiva pian piano. La lucentezza dell'acqua non era diminuita, ma assumeva man mano una colorazione più scura. Raggruppate tutte assieme le anatre apparivano belle, solide, calde, con le loro piume soffici, lucide, sontuose. I loro occhi furbi sembrava fissassero sdegnosi la bocca del suo fucile, come a deridere la sua impotenza. Estrasse la capsula e diede un'occhiata alla tacca che il cane vi aveva lasciato sopra. Un caldo alito di aria fetida si diffuse dalle anatre. I loro corpi, strofinandosi l'uno con l'altro, producevano suoni soffici, morbidi.
Rimise la capsula nella scanalatura: non poteva credere che fosse veramente successo. Suo padre, sua nonna, non ci erano forse riusciti al primo colpo?
Erano trascorsi più di dieci anni dalla morte del padre, ma la sua storia si raccontava ancora al villaggio. Ricordava vagamente la sua alta figura e il suo viso butterato con le guance coperte da una barba bionda.
La storia di suo padre era stata trasformata dagli abitanti del villaggio in una leggenda: gli bastava chiudere gli occhi perché gli apparisse come una sequenza di immagini. Iniziò sulla strada sterrata grigio cenere che conduceva ai campi.
Suo padre camminava portando sulle spalle una pesante seminatrice di legno, preceduto e seguito da contadini dalle teste dure. A fianco della strada crescevano i gelsi, dalle foglie grandi quanto una moneta di rame. Gli uccelli cinguettavano e l'erba lungo il cammino era verdissima. L'acqua nei fossati era profonda, e sulle piante acquatiche di un giallo tenue fluttuavano le uova delle rane. Il padre ansimava pesantemente sotto il peso della seminatrice che gli premeva sul collo, quando, a un tratto, una bicicletta sbucò fuori dal nulla e lo investì.
Egli barcollò un po', ma non cadde, mentre la bicicletta finì a terra. Suo padre a quel punto posò immediatamente la seminatrice per andare a raccogliere la bicicletta e aiutare il ciclista a rialzarsi. Questi era di statura molto bassa; appena cercò di camminare, le giunture delle sue ginocchia scricchiolarono. Il padre lo salutò con rispetto, era Liu, l'agente di polizia. - Cane, sei diventato cieco? - l'aveva investito l'agente Liu.
- Sì, il cane è diventato cieco. Non vi arrabbiate, - aveva risposto suo padre.
Liu: - Ti permetti di insultarmi?
Bastardo, figlio di puttana! - Suo padre: - Agente, siete stato voi a investirmi! - Liu: - Vai in culo a tua madre! - Suo padre: - Non insultate, siete stato voi a venirmi addosso! Liu: -- Suo padre: - Siete irragionevole. Persino nella vecchia società c'erano funzionari onesti e assennati! - Liu: - Vorresti dire che la vecchia società era meglio della nuova? - Il padre: - Non ho detto questo - Liu: - Controrivoluzionario! Rinnegato! Ti ammazzo! - Liu sfoderò la Mauser dal cinturone e puntò contro il petto di suo padre la nera caverna della canna. Suo padre: - Non ho fatto nulla per meritare la pena di morte - Liu: - Hai fatto quanto basta! - Suo padre: - Sparami, allora! - Liu: - Non ho portato le munizioni!
- Vaffanculo!
- Non potrò spararti, ma certo ti darò una bella lezione!
Liu si avventò su suo padre alla velocità del vento, le ginocchia ancora scricchiolanti, e con la lunga canna della Mauser lo colpì sul setto nasale. Sangue nero cominciò a sgorgare lentamente dalle sue narici.
I contadini lo portarono via, mentre i più anziani si scusavano con Liu. Per questa volta ti lascio andare, aveva detto Liu furioso. Suo padre, da un lato, si pulì il sangue con le dita, poi le sollevò e le osservò attentamente. Liu: - Questo per farti capire che non sono uno che scherza! E il padre: - Amici, avete visto tutti, mi farete da testimoni - Si passò vigorosamente la mano per pulirsi il viso che era coperto di sangue e aggiunse: - Liu, che i tuoi antenati siano fottuti fino all'ottava generazione.
E mentre il padre avanzava un passo dopo l'altro, Liu alzò la pistola e gridò: - Ancora un passo e sparo!
- Non uscirà neanche un fischio da quella pistola! - Suo padre afferrò il polso di Liu, gli strappò la pistola e la scagliò con rabbia nel fossato. Gli spruzzi schizzarono altissimi.
Tenendolo per il collo, lo scosse avanti e indietro e gli assestò un lieve calcio giusto sul sedere. Liu finì nel fossato, con la testa nella melma e il sedere in aria, mentre le gambe ricaddero con un tonfo in acqua.
La folla impallidì; alcuni indietreggiarono piano piano, sua madre altri andarono nel fossato a tirare fuori Liu.
- Presto, nipote, scappa! - disse un vecchio a suo padre. - Quarto zio, ci rincontreremo sulla strada che conduce alle Sorgenti gialle2! - Suo padre tornò a casa vacillando.
Liu venne tirato fuori dal fossato che strillava e piangeva come un bambino. Pregò la folla di recuperargli la pistola. Una dozzina di uomini scese nel fossato: setacciarono in lungo e in largo, ma l'arma non venne recuperata.
Cercando a tentoni sulle travi coperte di polvere, suo padre trovò un lungo involucro di carta oleata, dal quale tirò fuori un fucile lungo e storto. I suoi occhi erano colmi di lacrime. - Come mai abbiamo un'arma in casa? - chiese sua madre allarmata. Non hai mai sentito dire che mia madre uccise mio padre? L'ha fatto con questo fucile - Sua madre con uno sguardo terrorizzato disse: Sbarazzatene subito. - No, - fu la risposta. - Cosa vuoi fare? - Uccidere un uomo - Quindi recuperò anche una fiaschetta ricavata da una zucca che si poteva legare in vita e una scatola di latta, e con abilità caricò il fucile con polvere da sparo e pallini.
- Fa in modo che Da Suo studi seriamente, e che guardi questo fucile ogni giorno; dovrà solo guardarlo, non toccarlo. Hai capito? - E la madre: Sei impazzito? - Suo padre le puntò il fucile contro: - Va via!
Il padre entrò nel pereto. I fiori sugli alberi facevano pensare alla neve. Appese il fucile a una pianta, volgendo la canna verso il basso, quindi legò un cordino al cane. Poi si stese a terra, la bocca del fucile nella sua. Con gli occhi spalancati, guardò le api dorate e, con forza, tirò il cordino. Fiori di pero simili a fiocchi di neve caddero a terra turbinando. Anche alcune api caddero, morte.
Tirò un altro colpo, ma, come prima, il fucile restò silenzioso.
Scoraggiato, si sedette. Il sole era sdraiato sulla linea dell'orizzonte simile a una youtiao3, con il suo stesso colore dorato. L'acquitrino si era ancora rimpicciolito, mentre i margini della pianura si facevano sempre più indistinti. Una mezza luna bianca era già visibile. Lontano, su un canneto, alcuni insetti splendevano di luce verde. Le anatre avevano infilato il becco sotto le ali, e lo guardavano con aria di scherno. Gli erano così vicine, e più diventava buio più si avvicinavano. Il suo stomaco protestò vivamente. Un numero infinito di anatre arrosto, colanti d'olio, volarono davanti ai suoi occhi. Provò a premere il grilletto una decina di volte di seguito, tanto che la capsula venne deformata dalla testina del cane, finendo per rimanere incastrata nella scanalatura.
Disperato si afflosciò contro il riparo, quasi gli avessero portato via le ossa, i fusti di sorgo scricchiolarono. Le anatre non prestarono alcuna attenzione a quei rumori, silenziose e immobili, sembravano un mucchio di ciottoli screziati. Il sole scomparve, e con esso svanirono anche le striature rosse e verdi tra la terra e il cielo, e ogni cosa apparve nel suo colore originario, grigio e bianco. I grilli e le cicale sbattevano le ali mentre il loro frinire infinito si fondeva in un canto unico. In procinto di scoppiare a piangere, osservava la volta celeste dal colore dell'erba medica. Guardò il fucile con la coda dell'occhio, lo odiava con tutto il suo essere. Era veramente lo stesso fucile di una volta, quel ferro vecchio? Quell'orrendo arnese decrepito aveva veramente avuto una storia così straordinaria?
Quando Wang Laoka raccontava dei tempi andati, sembrava che le storie si stessero svolgendo davanti agli occhi degli ascoltatori, al punto che tutti gli abitanti del villaggio, dai più anziani ai più piccoli, adoravano sentirlo parlare. Ecco quello che Wang Laoka gli aveva raccontato: Ai tempi della Repubblica4, nessuno dei tre distretti controllava i nostri luoghi. C'erano più briganti qui che peli sui buoi e sia gli uomini che le donne diventavano violenti per un nonnulla: uccidere e tagliare un'anguria erano la stessa cosa. Avete mai sentito la storia della nonna di Da Suo? Il nonno di Da Suo era un giocatore incallito, e si faceva mantenere dalla moglie. La nonna di Da Suo era una donna molto in gamba mise su una casa dal nulla, e non era cosa facile per una donna. Per tre anni sudò sette camicie e, alla fine, comprò quasi un ettaro di terra e due grossi cavalli. Era una bellezza la nonna di Da Suo, la chiamavano «la regina degli otto villaggi», per i suoi piedini a punta e quella frangetta che somigliava a una tenda di seta nera. Per proteggere la sua casa, barattò un dan e due dou5 di frumento per un fucile. Aveva una canna lunga lunga, il fucile, e il calcio di mogano rosso. Si diceva che, nel cuore della notte, il cane del fucile scattasse. Si infilava il fucile ad armacollo e, in groppa al suo grande cavallo, andava nei campi a caccia di volpi. Era una tiratrice formidabile: le colpiva sempre nel buco del culo! In seguito, si ammalò gravemente: ebbe la febbre per sette intere settimane. Il nonno di Da Suo ne approfittò per andare a far baldoria con le puttane e giocare a suo piacimento. Perse tutta la terra, e anche i due cavalli. Quando il vincitore mandò i suoi servi a casa per prendersi i cavalli, la nonna di Da Suo giaceva sul kang ansimante. Il padre di Da Suo al tempo era solo un ragazzino di cinque, sei anni. Vedendo che conducevano via i cavalli, gridò: - Mamma, portano via i cavalli! - A quelle parole, la nonna di Da Suo rotolò giù dal kang, staccò il fucile dal muro e, un passo alla volta, giunse in mezzo al cortile. - Che diritto avete di portar via i miei cavalli? - gridò. I due tizi che tenevano i cavalli, ben sapendo quanto quella donna sapesse essere feroce, risposero pronti: - Tuo marito li ha persi al gioco con il nostro padrone - E lei: - Sì è così, allora vi chiedo di portare qui mio marito, devo parlargli - Il nonno di Da Suo, che si chiamava Santao, temendo la moglie, si era nascosto fuori dal portone e non osava entrare. Ma quando la sentì gridare, non potendo più permettersi di fare il fifone, prese coraggio ed entrò nel cortile.
- Che giornata calda, - disse gonfiando il petto. - Hai perso i cavalli? - domandò sorridendo la nonna di Da Suo. - Sì, - rispose Santao. - E dopo i cavalli, cosa perderai ancora?
- Te, - ribatté Santao. - Ma bravo Santao! - esclamò la nonna. - Il destino unisce in matrimonio chi nella vita precedente era nemico, averti sposato è stata proprio la mia fortuna. Hai perso i miei cavalli, le mie terre, sono gravemente ammalata da quarantanove giorni, e non mi hai portato neppure una scodella d'acqua.
E ora vorresti anche giocarti me; piuttosto io perderò prima te. Tra un anno, in questo stesso giorno, porterò il bambino sulla tua tomba a bruciare i soldi di carta6 - Si udì giusto uno scoppio, il cortile fu riempito da un lampo rosso e... il nonno morì...
Suo padre era ancora vivo, quando Da Suo sentì questa storia. Gli chiese che fine avesse fatto quel fucile, ma lui gli aveva gridato: - Vattene via!
La mezza luna divenne brillante, mentre le lucciole, danzando oziose nell'aria, disegnavano sul suo viso archi color verde. L'acquitrino aveva assunto una tonalità cupa, tetra, grigia come l'acciaio. Non era ancora del tutto buio e riusciva a vedere i grandi occhi verde pallido delle libellule dalle striature dorate. I trilli degli insetti si susseguivano a ondate ravvicinate. L'aria umida condensandosi saliva a cumuli verso l'alto. Non guardava più lo stormo di anatre, ma pensandole fu assalito ancora una volta dai crampi della fame. L'immagine di un cacciatore con le anatre abbattute legate attorno al corpo si sovrapponeva a quella di una guerriera a cavallo con il fucile ad armacollo, per poi fondersi a sua volta con quella dell'uomo indomabile coperto di fiori di pesco.
Il sole era ormai scomparso. Restava solo una striscia di tepore giallo tenue sulla linea dell'orizzonte a ovest. Lo spicchio di luna sorgeva a sud-ovest, diffondendo una tenerezza soffice come l'acqua. La nebbia si era alzata dall'acquitrino, simile a cespugli. Le anatre apparivano e scomparivano tra i banchi di nebbia, mentre grossi pesci guizzavano nelle acque paludose. Si alzò, come ubriaco o in trance, e fletté le sue articolazioni indolenzite e irrigidite. Si riallacciò la fiaschetta in vita, si rimise il fucile in spalla e uscì dal nascondiglio. Perché non succedeva niente quando premeva il grilletto?
Sfilò l'arma dalla spalla; tenendola tra le mani, la guardava risplendere sotto la luna di una lucentezza turchina. Come mai non spari? Immerso nei suoi pensieri, alzò il cane e, del tutto casualmente, premette il grilletto.
L'esplosione, bassa e rimbombante, rotolò a ondate sulla pianura autunnale, e una sfera di luce rossa illuminò l'acquitrino, illuminò le anatre. Frammenti di ferro e pezzi di legno schizzarono in ogni direzione; le anatre si alzarono in volo spaventate. Cadde a terra lentamente, cercando con tutte le sue forze di tenere gli occhi aperti. Gli parve di vedere le anatre, simili a pietre volanti, depositarsi sul suo corpo, accumularsi su di lui, fino a formare una grande collina, che lo oppresse al punto di togliergli il respiro.