1
«Io, Zoe Saldivar, ho appena fatto dello stupido sesso con il mio ex» dichiarò Zoe ad alta voce tirando cautamente la cordicella di ingresso alla soffitta che penzolava sopra la sua testa. Il legno della botola si era un po' gonfiato e, se fosse scattato all'indietro con troppa forza, il pannello si sarebbe incastrato per sempre. Almeno così le aveva spiegato l'agente immobiliare quando lei aveva visitato la casa dopo aver versato il deposito di garanzia.
«Non che il sesso fosse stupido» si corresse. «Anzi, è stato bello. Vorrei poter dire che ero brilla, ma non è vero. E sapevo che non era il caso, lo sapevo benissimo, ma sono stata debole. Ecco, l'ho detto. Ho fatto dello stupido sesso con il mio ex in un momento di debolezza.»
La scala retrattile discese e Zoe mise il piede sul primo piolo, poi guardò Mason, il suo gigantesco gatto rosso. «Allora, non mi dici niente?»
Mason abbassò e risollevò le palpebre pigramente.
«Non ti interessa o mi stai facendo l'occhiolino?»
Mason sbadigliò.
«Non so che cosa sia peggio: il sesso o il fatto che tu sia l'unico con cui posso parlarne» commentò sconsolata. Poi salì la scala fino alla soffitta, che era piuttosto spaziosa. Finora Zoe non l'aveva sfruttata molto – soprattutto perché trascinare qualcosa di pesante su per quella scaletta era praticamente impossibile – ma era riuscita a sistemarvi le valigie e la collezione di stendardi dedicati alle stagioni, comprati di recente a una fiera dell'artigianato.
Accese la luce e si sforzò di ignorare il piccolo brivido di disagio che provava sempre in uno spazio angusto. Spostò verso l'apertura il lungo pennone su cui andavano appesi gli stendardi, poi prese quello dedicato alla primavera e ammirò soddisfatta il magnifico motivo floreale intessuto nella trama.
Poco dopo udì uno scricchiolio e si voltò: Mason stava salendo la scala.
«No!» esclamò Zoe. L'ultima cosa che le ci voleva era che il suo gatto scomparisse in qualche angolo polveroso, costringendola a chiamarlo per ore inutilmente.
Mason la guardò come per domandarle: Dici a me?, e saltò sul piancito della soffitta.
Era bello grosso, circa nove chili di muscoli e... be', di ciccia dovuta ai troppi spuntini golosi. E appena spiccò l'ultimo balzo, la scala rimbalzò e si ripiegò a gran velocità, e la botola si richiuse di scatto.
Nel silenzio che seguì, gatto e padrona si fissarono per un istante, poi Mason partì per un giro esplorativo come se andasse tutto bene. Purtroppo non era affatto così.
Non chiuda la botola con troppa forza. Con gli anni e l'umidità il legno si è imbarcato e se non fa attenzione si incastra.
Le parole dell'agente echeggiarono nella mente di Zoe. All'epoca non ci aveva fatto troppo caso: che importanza poteva avere la botola di ingresso alla soffitta rispetto alle tante cose che doveva sistemare? E invece adesso ne aveva eccome.
Zoe lasciò cadere lo stendardo, si avvicinò al pannello e provò a spingere. Niente. Spinse con maggior forza. Ancora niente.
Lei non era un'esperta di congegni meccanici. Sapeva cambiare una lampadina o aggiornare il computer, ma niente di più complicato. Capiva bene il meccanismo della scala retrattile: si tirava una corda, la botola si apriva e la scala scendeva giù. Quando lei aveva finito e ridiscendeva, spingeva in su la scala, quella si ripiegava e la botola si chiudeva.
Solo che non era in grado di ripetere la procedura da dentro la soffitta anziché dal corridoio. E poi, se la botola si fosse aperta all'improvviso e lei fosse ruzzolata giù?
Si inginocchiò davanti all'apertura, poggiò le mani sui due lati e spinse con tutte le sue forze, ma non ci fu il minimo movimento. Era bloccata lassù.
Si mise a sedere e cercò di trovare una soluzione. Gridare era inutile: in casa non c'era nessuno perché lei viveva da sola. Aveva delle amiche, ma per alcuni giorni nessuna di loro si sarebbe accorta della sua assenza, e lo stesso valeva per suo padre. Non poteva telefonare a nessuno perché il cellulare era rimasto di sotto. Chiamare un vicino non era possibile, dato che la soffitta non aveva finestre.
Zoe deglutì e si disse che andava tutto bene. L'aria della soffitta non stava diventando troppo calda, poteva respirare, non c'era motivo di agitarsi. Poi udì un rumore provenire da un angolo e sobbalzò, premendosi la mano sul cuore che batteva all'impazzata. Comparve Mason, che la fissò con quella che sembrava un'espressione predatoria. «Non ti sognare di mangiarmi il fegato» lo ammonì. Il gatto sorrise.
Zoe si alzò in piedi. Ci doveva essere una soluzione, e lei l'avrebbe trovata. Alla peggio si sarebbe buttata sulla botola con tutto il suo peso, accettando il rischio di una caduta. Meglio quello che una lenta morte per stenti.
Mentre si guardava intorno, si impose di pensare positivo. Sarebbe andato tutto bene, e a breve la sua prigionia sarebbe diventata un aneddoto divertente da raccontare. Ma intanto ricordava di aver letto tante storie terribili su gente che moriva da sola e veniva trovata quand'era ormai mummificata. Il che poteva capitare anche a lei...
Viveva sola, lavorava in casa, la sua migliore amica era ossessionata dalla salute del figlio di un anno e mezzo e non le telefonava quasi mai. Lei poteva benissimo morire di stenti, senza fegato, e ritrovarsi mummificata. Ricordava le foto di mummie viste durante le lezioni di scienze, e non erano un bello spettacolo.
Venti minuti dopo aveva radunato le sue valigie, il pennone, due vecchie coperte che puzzavano di muffa e un rastrello di metallo per le foglie, lasciato dal proprietario precedente. Se James Bond era capace di uccidere qualcuno con una penna stilografica, lei poteva evadere da una soffitta ispirandosi a MacGyver!
Poggiò il pennone accanto alla botola, vicino alla più piccola delle valigie. Le due coperte le sarebbero servite se avesse dovuto gettarsi giù; ci si sarebbe avvolta per attutire la caduta. Ma un passo alla volta. Puntò il manico del rastrello al centro della botola e spinse. La botola si aprì di un centimetro, poi si richiuse di scatto. Si riposò per un attimo, poi spinse di nuovo aggiungendo il peso del corpo. La botola cedette di un millimetro, poi di un paio di centimetri, infine un po' di più tanto che riuscì a infilare la base del pennone nell'apertura. Quindi si raddrizzò e scrollò le braccia che le tremavano per lo sforzo.
Se fosse riuscita a scendere da quella soffitta, avrebbe fatto un bel discorsetto a Mason, pensò. E magari avrebbe cominciato ad andare in palestra, si sarebbe fatta qualche amico in più, avrebbe comprato uno di quei salvavita che le persone anziane portavano al collo...
Appena le sue braccia smisero di tremare, si rimise all'opera e riuscì ad allargare l'apertura quanto bastava per infilarci pure la valigia più piccola, la cui superficie di plastica si ammaccò.
Dopo molte imprecazioni e l'uso di altre due valigie, la botola si aprì del tutto e la scala retrattile si abbassò elegantemente fino a terra. Mason trotterellò giù per gli scalini, superandola, e una volta arrivato sul pianerottolo la guardò come per domandarle perché ci mettesse tanto a scendere.
«Dobbiamo proprio parlare del tuo atteggiamento» borbottò lei seguendolo giù per la scala. «E stasera mi apro una bottiglia di vino.»
Quattro giorni dopo l'incidente, come lo definiva tra sé, Zoe entrò da La tazza di tè per comprare degli scones da portare alla sua amica Jen. Uno dei vantaggi di lavorare da casa era di poter disporre a piacimento del proprio tempo: se voleva lavorare fino alle due di notte, nessuno protestava. Lo svantaggio, naturalmente, era che per mesi nessuno avrebbe saputo che lei si stava trasformando in una mummia in soffitta.
Per quanto si ripetesse che aveva trovato il modo di liberarsi e adesso stava benissimo, non riusciva a scrollarsi di dosso la sensazione di aver visto la morte in faccia. Ma forse il suo disagio era dovuto soprattutto al senso di solitudine provato.
Tutti i suoi ex colleghi di lavoro si erano trasferiti con la ditta a San Jose o avevano trovato un altro impiego. Suo padre era un tipo fantastico e viveva in città, ma... era pur sempre suo padre, e con lui non poteva certo andare a fare shopping. Il problema era che lei lavorava in casa e non usciva quasi mai. E negli ultimi mesi aveva praticamente dimenticato di avere una vita.
La rottura con Chad era stata la causa principale di tutto quello, pensò avvicinandosi al banco per scegliere i dolci. Non che lasciarlo fosse stato un errore, solo che adesso si sentiva come spaesata.
Scelse una dozzina di scones – al latticello, ai mirtilli, con scaglie di cioccolato bianco – poi risalì in macchina e si diresse verso casa di Jen. L'aria di marzo era fresca, il cielo limpido. L'Oceano Pacifico distava meno di un chilometro e faceva sì che il clima di Mischief Bay fosse temperato: anche in inverno, il termometro scendeva raramente al di sotto dei quindici gradi.
Jen abitava in una grande casa simile a un ranch, circondata da un ampio giardino ben tenuto. Jen e il marito Kirk avevano avuto una grande fortuna. Poi Zoe si rimproverò per quel pensiero meschino, ricordando che quella fortuna era stata pagata a un prezzo terribile. Quasi due anni prima il padre dell'amica era morto improvvisamente e sua madre, Pam, si era trasferita in un appartamento più piccolo lasciando la casa alla figlia. Sicuramente Jen avrebbe preferito di gran lunga restare nella casa di prima e avere ancora il padre. Zoe avrebbe dato qualsiasi cosa per riavere sua madre accanto.
«Accidenti, la faccenda della soffitta mi ha fatto diventare macabra» borbottò scendendo dalla macchina. «Meglio pensare a qualcosa di allegro.» Si avvicinò alla porta. Sopra il campanello c'era un'insegna di legno dipinta a mano con la scritta IL MIO BAMBINO STA DORMENDO!, così bussò con cautela.
Pochi secondi dopo, Jen Beldon aprì la porta. «Zoe!» esclamò stupita. «Dovevamo vederci oggi?» Poi gemette. «Ma certo che era oggi! Sono un'amica orribile. Vieni, entra.»
Zoe la abbracciò e poi sollevò la scatola. «Ho portato dei dolci che nessuna delle due dovrebbe mangiare, perciò sono un'amica orribile anch'io.»
«Grazie a Dio! Ultimamente ho solo voglia di carboidrati, più ce ne sono e meglio è.»
Zoe seguì Jen in cucina e si sedette mentre l'altra metteva il bollitore sul fuoco e versava due cucchiaini di tè in una teiera. «I giorni volano via in un lampo. Non riesco a tener dietro a tutto, ho sempre mille cose da fare.»
Zoe notò la T-shirt oversize che l'amica indossava sopra un paio di leggings neri. Ai piedi aveva un paio di calzettoni bianchi, ma non le scarpe. Sotto gli occhi nocciola aveva profonde ombre scure, come se non dormisse abbastanza, e i chili in più presi durante la gravidanza c'erano ancora tutti.
«Kirk è sempre più preso dal lavoro. È felicissimo, ma ha degli orari pazzeschi. E non farmi parlare del suo partner...»
«Ti preoccupa sempre?» domandò Zoe comprensiva.
«Ogni giorno di più. Quell'uomo è un cowboy dei più rozzi, non ha alcun riguardo per le regole, e mi domando come mai non lo abbiano ancora sospeso o cacciato via!»
Circa sei mesi prima, Kirk aveva lasciato la relativa sicurezza del Dipartimento di Polizia di Mischief Bay per entrare nella squadra dei detective della polizia di Los Angeles. Il suo partner era un poliziotto scavezzacollo di nome Lucas, e Jen viveva nel terrore che mettesse in pericolo suo marito.
Zoe dispose gli scones su un vassoio, poi prese dal frigorifero il burro e il cartone di latte per il tè. «E... Jack come sta?» domandò.
Gli occhi di Jen si colmarono di lacrime. «Come sempre» rispose. «Intelligente, affettuoso, allegro, ma vorrei tanto che...»
Il bollitore cominciò a fischiare e lei spense il fuoco, poi versò l'acqua bollente nella teiera mentre Zoe si sedeva al tavolo con un sospiro. Jack era un delizioso bambino che aveva raggiunto ogni tappa della crescita come previsto: aveva imparato a gattonare, a sedersi, a prendere in mano gli oggetti. L'unica cosa che non faceva era parlare. Emetteva raramente qualche suono e si faceva capire in altri modi.
Negli ultimi mesi Jen aveva cominciato a preoccuparsi seriamente, convinta che suo figlio avesse qualcosa che non andava. Zoe non era un'esperta della prima infanzia, ma dal momento che tutti gli specialisti consultati avevano assicurato che Jack stava benissimo e che avrebbe parlato quando fosse stato pronto, temeva che la sua amica si agitasse per un problema inesistente.
Jen versò il tè nelle tazze, poi si sedette di fronte a Zoe spostando il baby monitor dalla credenza al tavolo. «Gli faccio sempre dei test, e lui li supera quasi tutti. Credo che sia molto intelligente, non mi sembra ritardato né niente del genere, comunque la settimana prossima ho appuntamento con un altro specialista.» Prese uno scone e lo osservò. «Forse è un problema di nutrizione... eppure sto così attenta alla sua dieta! Non gli farei mai mangiare uno di questi» aggiunse agitando il dolce. Sospirò. «Sono così preoccupata che non riesco nemmeno a dormire...»
«Lo capisco, mi dispiace.»
«Pensa che ho dovuto licenziare l'impresa di pulizie. Avevo detto chiaramente che potevano usare solo il vapore e gli stracci organici che avevo comprato, e invece loro pulivano con uno spray chimico! E se i fumi dei prodotti chimici danneggiassero lo sviluppo mentale di Jack? E se fosse colpa dell'intonaco sulle pareti o del lucido sui pavimenti?»
«E se invece Jack stesse benissimo?» ribatté Zoe d'impulso, pentendosene subito dopo.
Jen si irrigidì e la guardò con le labbra strette. «Parli proprio come mia madre» disse seccamente. «Capisco che per te non sia importante, ma Jack è mio figlio e io so che ha qualcosa che non va. Lo sento. Se avessi dei figli tuoi, lo capiresti.»
Zoe rimise giù lo scone con le scaglie di cioccolato bianco incapace di inghiottirne anche solo un morso. «Ti chiedo scusa... volevo solo esserti d'aiuto.»
«Be', non ci sei riuscita.»
Zoe aspettò che Jen le chiedesse scusa a sua volta, ma visto che continuava a fissarla con sguardo truce si alzò. «Sarà meglio che vada» disse avviandosi verso la porta.
Jen la seguì e prima che Zoe uscisse le mise una mano sul braccio. «Scusami... è solo che non voglio più sentirmi dire che Jack non ha nessun problema. Non è così, ma a quanto pare sono l'unica che se n'è accorta. Sto affogando e nessuno mi dà una mano... cerca di capire!»
«Ci provo. A questo punto vuoi ancora che venga a trovarti la settimana prossima?»
«Non dire così! Sei la mia migliore amica, ho bisogno di vederti. La prossima volta andrà meglio, vedrai. Promettimi di tornare!»
Zoe annuì. Le parole di Jen sembravano sincere, ma lei sapeva che non erano più amiche come prima, e da tempo.
«Allora ci vediamo» la salutò prima di dirigersi alla macchina. E mentre metteva in moto, si rese conto che non aveva avuto modo di raccontare a Jen il suo incidente in soffitta, né nient'altro che la riguardasse.
Ormai tutto era cambiato, pensò. Non c'era più Chad, Jen si stava allontanando e lei si sentiva completamente isolata. Se non voleva morire sola e dimenticata da tutti, doveva apportare dei cambiamenti nella sua vita. Primo passo, trovare un operaio in gamba che riparasse la scala e la botola. Secondo passo, uscire di casa e farsi nuovi amici.
Tutte le mamme erano convinte che il loro figlio fosse eccezionale, pensò Jennifer. Ma nel suo caso era la pura verità. John Beldon, battezzato come il nonno materno ma chiamato Jack, era un bambino bellissimo, allegro e molto intelligente. A un anno e mezzo camminava e correva, anche se con un'andatura un po' traballante; sapeva impilare uno sull'altro i blocchi di legno, capiva parole come su, giù, caldo, rideva alle battute di sua madre, indicava gli oggetti che lei gli nominava, riconosceva il motore della macchina di papà, prendeva a calci una palla con molta precisione. Inoltre era cauto e gentile con lo strano, delicatissimo cane di sua nonna e ricordava di lavarsi le mani prima di andare a tavola. Eppure non poteva, o non voleva, parlare.
In quel momento, Jen stava seduta con suo figlio sul pavimento del soggiorno, su un tappeto di cotone biologico abbastanza folto da attutire le eventuali cadute. Dal lettore CD veniva un brano di musica classica e il sole gettava lame di luce sul pavimento attraverso i vetri puliti con il vapore. L'aria della stanza era pura e libera da ogni inquinamento chimico.
Jen sollevò un cartoncino con il disegno di un ragno, e Jack batté le mani. Il secondo cartoncino mostrava le parti del ragno – zampe, testa, grandi occhi – però disposte a casaccio. Jack aggrottò la fronte e poi scrollò la testa, come a indicare che nel disegno c'era qualcosa di sbagliato. La madre gli mostrò di nuovo il primo cartoncino e il piccolo sorrise soddisfatto.
«Sei proprio in gamba» esclamò Jen. «Sì, questo è il ragno giusto. Bravo.»
Jack fece segno di sì, poi si picchiettò la bocca con la mano. Jen riconobbe il segnale, diede un'occhiata all'orologio sulla parete e vide che erano le undici e mezza. «Hai fame?» domandò. «Anch'io, sai» aggiunse sentendo il proprio stomaco gorgogliare. «Vado a preparare il pranzo, vieni con me?»
Il piccolo rise e gattonò fino a lei, poi si mise in piedi e sollevò le braccia. Lei lo abbracciò, stringendo a sé il suo corpicino tiepido. Era un bambino fantastico, pensò. Se solo... Poi scacciò quel pensiero negativo. La giornata stava andando bene, doveva concentrarsi su questo.
Si mise in piedi e si avviò verso la cucina seguita da Jack. Il piccolo si diresse subito al suo tavolino, dove c'era di che tenerlo occupato mentre lei cucinava: un grande blocco di fogli, pastelli non tossici, un cestino del pranzo che cantava e nominava i vari cibi al suo interno. Jen aveva anche pensato di aggiungere una mini cucina, convinta del fatto che un maschietto potesse benissimo cucinare, ma il marito le aveva fatto notare che per correttezza avrebbe dovuto accettare anche un mini banco degli attrezzi. Però la loro cucina non era abbastanza spaziosa per ospitare tutti e due i giocattoli, così Jen aveva rinunciato.
Si chiuse alle spalle il cancelletto di sicurezza, poi mise il cellulare sul supporto e cercò una stazione che trasmettesse musica. «Ti va un po' di disco-music?» domandò. Lui ridacchiò. Appena cominciò You should be dancing dei Bee Gees, Jen ondeggiò le anche – imitata da Jack, che pur traballante era ben coordinato per la sua età – poi fece qualche passo di lato e Jack rise e applaudì. Quando lei girò su se stessa, lui la imitò con entusiasmo. Infine Jen si mise ai fornelli e quindici minuti dopo erano seduti a tavola.
Il pranzo di Jack era composto da un piccolo petto di pollo alla griglia e da frittelle di cavolfiori e patate, cotte in una friggitrice ad aria che non usava i grassi. Jen le aveva preparate in dimensioni minime, in modo che il figlio potesse mangiarle con le mani. Se la cavava già bene con il cucchiaio, ma così era più semplice e più rapido.
Lei si era riscaldata un po' di salmone della sera prima, ma non aveva avuto il tempo o la voglia di prepararsi un'insalata. Di solito evitava di comprare quelle già pronte in busta, perché le sembravano eccessivamente care.
«Oggi è mercoledì» disse al figlio, «ed è una bellissima giornata. Più tardi possiamo fare una passeggiata e andare a vedere l'oceano.» Seguendo i consigli di alcuni libri, Jen parlava sempre a Jack come se fosse in grado di capire tutto, usando frasi complete e termini specifici. Lulu, il cane di sua madre, non era solo un cane, ma un Chinese Crested. E così per il cibo: ogni cosa veniva chiamata con precisione – pane, mela, riso, cereali – e lo stesso per i giocattoli.
Cercava sempre nuovi stimoli per aiutare lo sviluppo del suo cervello e per farlo crescere meglio. Conosceva tutti i sintomi dell'autismo, e a parte la difficoltà di parlare Jack non ne mostrava alcuno. Ma ci doveva essere una ragione per cui non parlava ancora, e le probabilità che avesse qualche problema non erano poche. Tutte queste preoccupazioni le impedivano di dormire.
Terminato il pranzo, Jack portò il suo piatto fino al lavandino e Jen lo depose sul ripiano accanto al proprio, poi spense il programma musicale – perché un bambino doveva abituarsi anche al silenzio – e mise gli auricolari. Ogni giorno a quell'ora, grazie all'apposita applicazione, si connetteva con la radio della polizia. C'era il solito ronzio di voci diverse: due agenti mandati a controllare un possibile caso di violenza domestica, qualcuno che chiedeva al centralinista se voleva i grissini con la pasta alla marinara, e così via. Jen diede un'occhiata alla credenza per assicurarsi di aver messo via il cibo rimasto, e due secondi dopo udì una notizia che la raggelò.
Le frasi erano troppo concitate perché potesse seguire il discorso, ma le poche parole che aveva colto erano sufficienti. Due detective... sparatoria... un ufficiale ferito.
Kirk!, pensò in preda al panico. Il suo cuore cominciò a battere all'impazzata, il respiro le si mozzò. Le sembrava che una mano gigantesca le serrasse la gola, tanto che non riusciva a inalare aria sufficiente.
I cracker sono uno spuntino delizioso. Jen si riscosse sentendo la voce allegra del giocattolo di Jack e guardò il piccolo, che infilava il cracker di plastica nel cestino da pranzo e rideva soddisfatto.
Si aggrappò alla credenza e cercò di calmarsi. Se l'ufficiale ferito era davvero Kirk, qualcuno le avrebbe telefonato o magari sarebbe venuta una macchina della polizia per accompagnarla in ospedale. Fece il numero di Kirk, ma come sempre quando lui era in servizio le rispose la segreteria.
Moriva dalla voglia di accendere la TV, ma non voleva che suo figlio fosse esposto alla violenza dei notiziari. Inoltre, tutti i saggi che aveva letto sconsigliavano la televisione per i bambini della sua età.
Jen sciacquò i piatti, li mise nella lavastoviglie, poi pulì i ripiani. Dagli auricolari non veniva nessun dettaglio, nessun nome rispetto a ciò che aveva udito poco prima.
Quand'ebbe finito di sistemare la cucina, tolse gli auricolari. Non voleva indossarli troppo in presenza del figlio, per non dargli l'impressione che non si interessasse abbastanza a lui. Andare in spiaggia ormai era fuori questione: doveva rimanere in casa per ogni evenienza. Portò Jack in giardino, tenendo aperta la vetrata scorrevole per sentire il campanello dell'ingresso, e si mise il cellulare in tasca. Poi, per circa un'ora, giocò con il piccolo cercando di non pensare al peggio. Finalmente, all'una e quaranta, rientrò e diede a Jack mezza mela tagliata a spicchi sottili prima di accompagnarlo in camera per il sonnellino pomeridiano.
Tirò le tende mentre Jack sceglieva il peluche che voleva con sé, e come sempre l'eletto fu Winnie the Pooh. Jen gli sfilò le scarpe e lo aiutò a sdraiarsi, poi accese il carillon dotato di luce notturna e cominciò a leggergli una favola. In breve, il piccolo si addormentò, e dopo aver messo in funzione il baby monitor Jen uscì silenziosamente dalla camera, chiuse la porta e si precipitò in soggiorno per guardare la TV.
I notiziari locali non menzionavano la sparatoria, e sulla CNN c'era un servizio sui mercati azionari. Jen corse ad accendere il computer e cercò le ultime notizie online.
Solo un articolo parlava della sparatoria, ma risaliva a mezz'ora prima e diceva solo che un sospetto era stato fermato. Nessuna informazione su un ufficiale ferito, il che poteva significare che non c'era stata alcuna vittima, o che non si voleva diffondere alcuna notizia prima di aver informato la famiglia.
Telefonò di nuovo a Kirk, ma anche questa volta le rispose la segreteria. Non significava niente, si disse. Il marito stava bene e sarebbe tornato a casa come sempre. Nel frattempo lei doveva tenersi occupata, sbrigare tutte le faccende che di solito si accumulavano durante la giornata. Jack non avrebbe dormito per più di un'ora, doveva approfittare di quel tempo prezioso.
Ma non riusciva a muoversi, respirava ancora a fatica e le sembrava che le pareti della stanza si chiudessero su di lei. Il panico minacciava di travolgerla...
Aveva una gran voglia di piangere, ma non osava farlo, perché se avesse cominciato non avrebbe più smesso e non voleva turbare suo figlio, né trasmettergli la sua ansia com'era successo a lei da bambina, quando sua madre si preoccupava troppo.
Si costrinse ad alzarsi dalla sedia. Doveva decidere i menu della settimana successiva e scrivere la lista della spesa, doveva cambiare le lenzuola e mettere quelle sporche in lavatrice. Avrebbe fatto un passo dopo l'altro, con calma, e sarebbe andato tutto bene. A Kirk non era successo niente. Doveva per forza essere così.
Si lasciò ricadere sulla sedia e avvolse le braccia attorno al busto. Stava per vomitare, pensò. Forse sarebbe svenuta. Non riusciva a respirare...
In quel momento, il suo cellulare emise il segnale di un messaggio in arrivo. Jen lo afferrò e vide che era di Kirk.
Inspirò a fondo, ubriaca di sollievo.
Tesoro, dovevo comprarti qualcosa al supermercato? Mi dispiace, ma non ricordo che cosa mi hai detto stamattina. Baci
Lei emise un suono a metà tra la risata e il singhiozzo e digitò la risposta. Kirk stava bene. L'ordine del suo mondo era stato ristabilito.
Si alzò in piedi e ripassò l'elenco delle cose da fare. Lenzuola, menu settimanale, lista della spesa. E poi, cinque minuti online per trovare qualcuno che le spiegasse perché il suo bambino non voleva parlare.