Guardare lontano

Alla fine del 2014 inaugurai una nuova politica estera della Lega. La questione non aveva mai appassionato troppo il movimento, ma ormai era assolutamente fondamentale stringere alleanze e conoscenze fuori dai confini italiani.

Il primo passo, ovviamente, era rinforzare il legame con gli amici del Front National. A novembre, Marine Le Pen celebrò un trionfale congresso a Lione e io mi presentai con una maglietta con la scritta BASTA EURO, che scaldò la platea. Devo dire che non ero l’unico ospite straniero, ma Marine e la folla mi riservarono un trattamento particolarmente caloroso. Le agenzie fecero rimbalzare in Italia parole addirittura imbarazzanti, tanto erano cariche di affetto e di stima nei miei confronti: «Sono in estasi davanti alla sua energia» diceva di me Marine Le Pen, «è un uomo estremamente coraggioso e può andare al governo».

Nel mio intervento avevo disegnato un’Europa diversa per i nostri figli, con meno burocrazia e più libertà, e in serata avevo partecipato alla festa organizzata dal Front National lanciandomi in alcuni balli con la mia bionda alleata di Francia. In quell’occasione avevo avuto la possibilità di conoscere la nipote Marion, che parla discretamente in italiano. È una ragazza molto determinata, la più giovane parlamentare di Francia, con idee molto chiare anche su temi come la difesa dell’agricoltura e della pesca, spesso ignorati dalla «grande politica». Prima della festa, passai in albergo dove acconsentii alle insistenze degli inviati di «Oggi»: non solo mi strapparono un’intervista, ma mi convinsero a fare alcune fotografie sdraiato nel letto, a petto nudo e con indosso solo una drammatica cravatta verde.

Mi dedicarono la copertina del settimanale, parlando del «Salvini desnudo», e ovviamente incassai la solita valanga di insulti da parte del centrosinistra. Il ministro Maria Elena Boschi, per esempio, mi definì «imbarazzante». L’unica persona a sinistra a cogliere l’aspetto ironico della mia iniziativa fu Vladimir Luxuria, che promosse a pieni voti la pancetta e il petto villoso. I soliti intellettuali si chiesero: come può uno del genere fare il premier?

La forma è sostanza? Non sempre, per fortuna. Altrimenti un elegantone come Matteo Renzi avrebbe fatto la fortuna dell’Italia, una signora sobria come Elsa Fornero avrebbe fatto il bene del Paese. L’hanno fatto? No, anzi! Almeno io preferisco tenermi giacca e cravatta pe le occasioni che lo richiedono, lo smoking perfino, se serve (come alla prima della scala). Nella vita di tutti i giorni meglio jeans e camicia, o anche felpa e maglietta.

Be’, dicevano cose simili di Bossi quando, poco prima del ribaltone del 1994, s’era presentato in Sardegna da Berlusconi esibendo una canotta bianca poi passata alla storia. Eppure il fondatore della Lega ha scritto pagine fondamentali della storia politica italiana.

Comunque, se nel Belpaese mi attaccarono per cercare di screditarmi, all’estero mi presi delle belle soddisfazioni.

Al di là del bagno di folla di Lione – ma tutto sommato giocavo in casa – fu emozionante il primo viaggio in Russia, nell’ottobre del 2014. Andai a Mosca per incontrare alcuni esponenti del partito di Vladimir Putin e degli imprenditori. Rappresentavo le istanze delle molte aziende italiane messe in ginocchio perché Bruxelles aveva imposto delle sanzioni contro i russi. Il motivo, sulla carta, era la questione della Crimea, che aveva deciso di staccarsi dall’Ucraina per unirsi alla Russia con un normale referendum. Una scelta che l’Europa non intendeva avallare e – forse su suggerimento degli USA, preoccupati dall’attivismo internazionale di Putin – aveva deciso di ostacolare attraverso alcune sanzioni economiche. Peccato che, anziché colpire la Russia, le sanzioni danneggiavano soprattutto l’export italiano e in particolare quello del Nord, che in Russia valeva milioni di euro. Così molti imprenditori, già messi in ginocchio dalla crisi, fregati dall’euro e minacciati da Equitalia, si erano ritrovati col cruccio di avere molto meno lavoro. Grazie a Bruxelles!

Portai questi argomenti in Russia, accompagnato da pochi fedelissimi, e fui piacevolmente impressionato dalla sensazione di ordine e pulizia che si poteva respirare, per esempio, nella metropolitana di Mosca. Un vero museo, di una bellezza incredibile.

Purtroppo non feci in tempo, causa vari appuntamenti, a godermi le bellezze della città con la spensieratezza del turista, ma fu davvero avvincente quando riuscii ad assistere a una seduta del Parlamento russo. Appena si accorsero di me, il presidente dell’assemblea (l’equivalente della nostra Boldrini, sic!) disse: «Il parlamentare italiano Salvini della Lega è venuto ad assistere ai lavori» e scattò un applauso spontaneo e caloroso di tutto l’emiciclo. Fu un’emozione indescrivibile.

Nel 2015 poi l’incontro con il presidente Putin, in un albergo di Milano, davanti a un caffè. Il presidente era perfettamente al corrente dei problemi italiani, dall’immigrazione alle tasse, e io ebbi modo di ribadire le posizioni della Lega: «Altro che sanzioni! Tra Italia e Russia ci vorrebbe un ponte! Io non credo nei blocchi e penso che il ruolo stesso della NATO sia da ridiscutere. Presidente, la ammiro per le idee chiare, la fermezza, il coraggio e una visione della società basata su valori che condivido».

Non potevo dimenticare che proprio Putin era uno dei più fieri oppositori dell’estremismo islamico. Lui mi ringraziò per le belle parole a favore di Mosca, ma devo ammettere che non c’è mai stata persona in vita mia – né Berlusconi né Mattarella o Renzi – capace di mettermi in soggezione come Putin. Il suo modo di fare, la sua voce ferma, la sua stretta di mano: tutto confermava che mi trovavo di fronte a un vero leader.

Guarda caso, dopo il faccia a faccia con Putin e le mie parole a favore di Mosca, si intensificarono i veleni di chi insinuava strani e occulti finanziamenti che da Est stavano rimpinguando le casse del Carroccio. Soldi da Mosca? Li presero i compagni in passato. Conti a Panama? Li hanno altri oggi... La lega vive del suo, senza «aiutini», tanto che ero stato costretto a mettere in cassa integrazione i dipendenti di via Bellerio, mentre sia il quotidiano «la Padania» sia TelePadania avevano chiuso i battenti. Per me è stato molto difficile chiudere il quotidiano. Negli ultimi mesi era stato molto ben diretto da Aurora Lussana, ma i debiti e i costi erano troppi. In una situazione di crisi che attanaglia anche i grandi gruppi, era impensabile andare avanti. La prima pagina dell’ultimo numero del 30 novembre 2014 gridava una sola parola: GRAZIE.

Resiste Radio Padania, tra mille difficoltà, e per risparmiare sulle spese ho fatto trasferire tutti gli uffici della sede di via Bellerio in una sola ala dell’edificio, così da poter risparmiare anche su luce e riscaldamento. Altro che rubli! L’unica cosa che ricevetti da Putin fu un bell’orologio, e la conferma di una visione comune del futuro. Stop.

Dopo il faccia a faccia con Putin sono andato altre volte a Mosca, per approfondire i rapporti e cercare di aiutare altre imprese italiane, pronte a lavorare con la Russia nonostante le sanzioni. In più, fare asse con l’Est è strategico perché Putin ha dimostrato di saper prendere in mano il problema ISIS con più lucidità e prontezza di quanto non siano stati capaci di fare gli americani con Obama, secondo me il peggior presidente USA della storia.

Nell’ottobre 2015 sono poi andato in Marocco per discutere di immigrazione, concentrando una serie di impegni in poco più di due giorni, tra Rabat e Casablanca. Ho incontrato imprenditori, politici ed esponenti del governo. Ho trovato un Paese tutt’altro che chiuso, ma con le idee chiare e con il desiderio di aumentare la qualità della vita dei propri cittadini. Qui anche l’islam non ha subito derive estremiste, e persino la religione ebraica e quella cristiana sono professate e rispettate.

Un ministro marocchino mi ha spiegato: «Nel nostro paese chi sbaglia paga, non come da voi dove, purtroppo, anche molti nostri connazionali fanno quello che vogliono perché si sentono impuniti». Lezione di rigore e serietà, vorrei che al mio posto ad ascoltare ci fosse stato Renzi!

Un sistema molto rigido, per usare un eufemismo, lo trovai anche in Corea del Nord, quando accettai un invito per vedere da vicino uno dei Paesi meno conosciuti e visitati del mondo. A mie spese, ovviamente, acquistai i biglietti d’aereo e pensai al visto e poi partii con un gruppo di parlamentari, guidato dal vulcanico Antonio Razzi, con una valigia carica di curiosità.

Dite la verità, non avrebbe incuriosito anche voi una visita nell’ultimo Paese al mondo dove non puoi usare Internet e dove non funziona il cellulare? Niente SMS, niente Whatsapp, niente Facebook. Da provare! Almeno per cinque giorni!

Arrivato in Corea, sembrava di essere tornati indietro nel tempo. Una tranquillità assoluta, forse perché se fai la pipì fuori posto ti ritrovano qualche anno dopo...

Per le strade la sera non si vedeva anima viva. I ragazzi e i bambini non conoscono PlayStation o Nintendo e giocano per strada come facevo io quarant’anni fa. A scuola tutti in divisa, una vita scandita da orari, ruoli, regole e gerarchie. E c’era la sensazione di un controllo totale del governo sulla vita delle persone. A dire il vero, diciamo che era più di una semplice sensazione... Le autorità locali ci portarono in giro per la capitale Pyongyang e ricordo che gli esponenti del governo trattavano Razzi con i guanti, quasi fosse un capo di Stato; in quei giorni ho capito che il senatore abruzzese è molto abile a farsi passare per lo sciocco che non è.

Sono ripartito, dopo aver visitato l’ultimo confine militarizzato al mondo – fra le due Coree – con la speranza che democrazia, sviluppo e libertà possano toccare in sorte ai bimbi che stanno crescendo in quel paese, senza guastarne lo spirito, le tradizioni e il paesaggio.

Nella primavera di quest’anno, invece, sono stato in Israele e negli Stati Uniti. Il primo viaggio ha rappresentato la conferma che non c’erano pregiudizi nei nostri confronti da parte di Gerusalemme, come invece scrisse qualcuno. Essere accolti da ministri, leader politici e religiosi, imprenditori e diplomatici ha confermato che le idee e le battaglie della lega non solo sono conosciute, ma anche apprezzate da molti nel mondo. Senza contare che visitare i luoghi della Terra Santa e lo Yad Vashem – il memoriale dell’Olocausto – è un’emozione unica.

Potrei dichiararmi soddisfatto dei miei rapporti con gli altri Paesi: Marine Le Pen in Francia, Putin in Russia, il governo marocchino. In più, abbiamo ottimi contatti con Israele e con i repubblicani americani. Però, ecco, il mio più grande riconoscimento come leader politico, quello che posso considerare come una specie di consacrazione, lo devo a un’altra personalità: il mago Otelma.

Da quando sono diventato parlamentare europeo, infatti, il Divino mi scrive delle e-mail per prevedere il futuro. Me ne ha mandate decine, alcune delle quali sono andate perse perché l’archivio di posta elettronica del Parlamento cancella automaticamente i messaggi dopo pochi mesi. Alla fine del 2015, Otelma commentò il risultato del primo turno delle regionali francesi (clamorosamente favorevoli al Front National) con una e-mail gonfia di felicità e orgoglio. Cito testualmente: «Il divino maestro Otelma constata che le sue previsioni concernenti la Francia – e l’Europa in generale – si sono avverate pienamente: la travolgente vittoria di Marine, connessa alle svolte marcate di Budapest e Varsavia, chiude uno scenario di decadenza e desolazione e ne apre un altro, più promettente sotto vari profili. È giunto il tempo – per i popoli europei – di riprendere in mano il proprio destino glorioso e recuperare le radici culturali compromesse da grotteschi personaggi di dubbia caratura culturale e politica. È giunto il tempo della riscossa».

Da una parte i governi di sinistra hanno sempre risolto la questione con la consegna del guinzaglio economico a Bruxelles e di quello militare a Washington; dall’altra le «destre» dei vari governi Berlusconi hanno lavorato per allargare la prospettiva della nostra politica estera a tutto il Mediterraneo, oltre le divisioni buoni e cattivi, ma con l’intento pragmatico di fare gli interessi nazionali, come nel caso dell’accordo Italia-Libia del 2010, oppure lavorando per il superamento della dottrina NATO contro la Russia con l’accordo di Pratica di Mare del 2002.

Questa schizofrenia è un dato strutturale tutto italiano che costituisce già di per sé una debolezza nei confronti delle altre potenze mondiali, che al contrario hanno una consolidata tradizione nel mantenere fissa la loro strategia geopolitica, pur dividendosi ferocemente nelle questioni interne.

Il peggio del peggio, però, è stato raggiunto dal governo Monti che, lontano dal riuscire a fare sintesi dei due orientamenti, è stato solo capace di abbandonare in India due marò, scaricati come capri espiatori dopo un incidente in acque internazionali che a distanza di diversi anni ha ancora contorni molto opachi.

Il governo Letta invece sarà ricordato per la sciagurata operazione «Mare Nostrum» che se fortunatamente è riuscita a salvare tante vite in mare, ne ha probabilmente fatte perdere altrettante a causa dell’effetto di richiamo che ha avuto per tanti disperati che dall’Africa hanno deciso di tentare la traversata verso l’Europa proprio perché sapevano di poter sperare nel soccorso italiano.

Per questa mia critica a Mare Nostrum sono stato spesso insultato, mi hanno dato dello «sciacallo» che strumentalizza i morti, ma chi lo afferma non capisce, o forse non vuol vedere, quello che succede prima e dopo il momento – spettacolare dal punto di vista delle immagini, lo ammetto – dei salvataggi in mare.

Che il traffico internazionale di esseri umani finanzi, di qua e di là del Mediterraneo, il terrorismo islamico e le mafie italiane lo hanno accertato molte inchieste; per questo mi sembra purtroppo verosimile pensare che coloro che si arricchiscono abbiano tutto l’interesse a invogliare sempre più persone a partire. In questo senso «Mare Nostrum» è andata oltre una giusta operazione di salvataggio in mare ed è diventata una specie di spot pubblicitario per queste agenzie di nuovi schiavisti.

Strumentalizzare sarebbe far finta di non vedere, adottando così la politica dello struzzo, di cui l’attuale presidente del consiglio è certamente un esponente di altissimo profilo.

Renzi infatti non affronta mai una questione internazionale; fedele alla tradizione dei suoi predecessori della sinistra, ha nella rubrica del telefono solo due numeri: se deve prendere una decisione economica importante chiede permesso a Berlino, mentre se c’è bisogno di manovalanza italiana per qualche operazione all’estero riceve ordini dagli USA.

Un Paese serio, però, non può vivere in questo stato di sudditanza.

Un Paese serio si assume il rischio di essere protagonista e mette al centro della politica estera i propri interessi, e non quelli di chi ci vorrebbe tutti più poveri.

Che cosa significa tutto questo in concreto?

Prima di tutto riaprire immediatamente i rapporti con la Russia, non solo rottamando le sanzioni che danneggiano soltanto noi (più di quattro miliardi di euro di mancate esportazioni di prodotti italiani) ma rafforzando le partnership a tutti i livelli: dalle aziende alla cultura.

Dopodiché guardare al Mediterraneo e alla cooperazione internazionale senza cedere all’assistenzialismo e alla paura del terrorismo, né tantomeno con il senso di colpa del nostro grottesco passato coloniale, ma costruendo le basi per un mercato di esportazioni che sia di beneficio per tutti e ricostruisca il nostro peso economico in Europa.

E infine adottare una politica estera pacifica, coerente con il pensiero della Lega che si è sempre opposta a tutte le guerre – dal Kosovo all’Iraq –, ma che sa farsi ascoltare dalle Nazioni Unite quando chiede la messa in sicurezza delle aree a noi vicine, Libia in primis, anche con un intervento militare.

Una politica estera pragmatica, ma che riconosce amici e nemici, che preferisce collaborare con Israele piuttosto che regalare altri sei miliardi alla Turchia sotto il ricatto dei flussi migratori.

Potrei dilungarmi in mille altri esempi, ma forse è più efficace affidarsi a una citazione dal film Il partigiano Johnny, tratto dal bellissimo libro di Beppe Fenoglio, in cui al gerarca fascista che chiede: «Che ne sarà dell’Italia se vincerete voi?» il partigiano risponde: «Una cosa piccola, ma seria».