La paura del meteorite
È il grande giorno. Ho dormito poco e male. Ma sono pronto ad affrontare la mia gente. Una volta salito sul palco, scruto le facce in platea, sento gli applausi e i cori da stadio. «Matteo, Matteo» urlano i Giovani padani. Rispondo con un gesto della mano, e intanto riparte il flusso di pensieri che mi avevano attanagliato la notte prima. Mi chiedo, tra il serio e il faceto: sicuro che oggi diventerai segretario? E mentre ripenso ad alcune delusioni del passato, un pensiero un po’ folle mi assale: che cosa può succedere ancora? Ci manca solo che dal cielo caschi un meteorite. Questa sì che sarebbe la beffa della beffe: e allora addio Salvini, addio al sogno di guidare la Lega per cambiare il Paese.
In pochi istanti riesco a scacciare i cattivi pensieri. Mi presento sul palco con una camicia bianca e i jeans: niente felpa, l’occasione richiede un abito «classico». La sala al Lingotto Fiere di via Nizza è stracolma. Davanti a me sono sedute centinaia di persone, mentre decine di bandiere sventolano incessantemente e diversi striscioni invocano l’indipendenza e il ritorno della Lega dura e pura, quella che al governo preferiva la lotta. Pochi istanti prima, era stato Giancarlo Giorgetti ad annunciare il mio intervento. Provo a calmare la folla, sono molto emozionato, ma cerco di stemperare la tensione con una battuta. «Non facciamoci riconoscere anche all’estero» chiedo riferendomi ai nostri ospiti stranieri. «Avevo preparato un discorso, e non sono solito farlo. Ovviamente non leggerò una riga di ciò che ho scritto, come era facile immaginare» e subito vengo travolto da un applauso che mi scalda il cuore. Mi sento addosso, appiccicati, migliaia di occhi e avverto il peso del mio nuovo ruolo. Lo confesso pubblicamente: «Un conto è parlare da consigliere, un conto è parlare prendendosi sulle spalle una responsabilità enorme che sono fiero e onorato di avere. È un cammino che bisogna fare tutti insieme, perché uno da solo non vince nemmeno se si chiama Gesù Cristo. Quindi io ci sono se ci siete anche voi...». E poi saluto «i tanti che ci ascoltano in diretta su Radio Padania e chi si trova nell’altra sala, perché in questa non ci stavamo tutti». Siamo tantissimi, la grande famiglia della Lega ha invaso Torino.
Vado avanti: «Più che un congresso di partito, intendo la giornata di oggi come un momento di comunità, di ripartenza e di cambiamento». Quello che non cambia negli anni è il linciaggio vergognoso che la stragrande maggioranza dei giornali italiani riserva alla Lega». Altro applauso. Forte, scrosciante. Ammetto di essere arrabbiato. Negli ultimi giorni abbiamo subito attacchi gratuiti, pesantissimi, sinceramente ingenerosi.
La scelta coraggiosa della Lega di votare il successore di Maroni attraverso le primarie è stata massacrata da certa stampa. «Se i politici in Italia sono un problema, anche alcuni professoroni, economisti o giornalisti lo sono». Quando e se la Lega sbaglia (non siamo infallibili, anzi!), va riconosciuto e bisogna chiedere scusa. Ma a me pare che ci sia una profonda disparità di giudizio: solo noi subiamo una vera e propria persecuzione mediatica, mentre è prassi censurare o ridimensionare gli scivoloni di alcuni esponenti del centrosinistra!
«La Lega non è un partito, ma una comunità: e noi dobbiamo tornare a essere comunità. Quando parti in battaglia puoi avere i migliori armamenti del mondo, ma la cosa fondamentale è fidarti di chi hai a fianco. Se non ti fidi, la battaglia è persa.» Il passaggio mi esce di getto, come un vero e proprio sfogo: negli ultimi anni, la storia della «Lega-grande famiglia» si è infangata a causa di veleni interni, della lite con il cerchio magico, dei sospetti e delle antipatie dilagate dopo la malattia di Umberto Bossi. A quel punto, mentre i Giovani padani intonano il coro «Salvini uno di noi», ammetto che mi sto per commuovere e la voce si incrina. Fortunatamente mi riprendo in fretta. «D’ora in avanti non ci deve essere una virgola interna fuori posto» perché scatterà il momento delle elezioni europee e nelle sedi «non deve volare una mosca. Non intendo che non bisogna avere dubbi, perché chi non ha dubbi è un cretino. Ma un conto è il dibattito, un altro sono l’invidia e le chiacchiere inutili. Non c’è spazio per queste cose. La battaglia è immensa. Prima sconfiggiamo il doppio nemico: uno Stato sempre più ladro e un’Europa sempre più ingiusta, poi discutiamo di altro... Prima proviamo a vincere!»
«Mi sono segnato un po’ di citazioni, perché mi hanno detto che se un segretario non ne spara un po’ non va bene. Ma preferisco parlare al cuore. L’emergenza è il lavoro, la Lega deve battersi alla morte per questo.» Cito i Giovani padani, ricordando che ho cominciato a fare il leghista in mezzo a loro. Ma ricordo pure che per raggiungere certi sogni l’età non conta, perché anche da anziani si può dare il proprio fondamentale contributo: «Bernardo Caprotti, patron di Esselunga, ha creato un impero: anche Napolitano ha un’età simile, eppure lui, invece di crearli, sosteneva gli imperi... C’è modo e modo di essere ottantenni».
Poi attacco l’euro: «Un crimine contro l’umanità. Il sistema euro è servito per fregare la nostra agricoltura, per frenare la nostra economia, che si fonda per il novanta per cento su piccole e medie imprese, su aziende che hanno meno di dieci dipendenti e che l’Europa vorrebbe cancellare». Mi scaglio quindi contro «l’immigrazione incontrollata»: «Chi arriva in casa nostra senza permesso è un clandestino che va rispedito a casa sua a calci nel sedere. Con quattro milioni e mezzo di disoccupati non c’è più spazio per un solo immigrato».
Concludo chiedendo ai governatori e ai sindaci presenti in sala di raggiungermi sul palco: «Se siamo d’accordo, tutti insieme, dobbiamo puntare all’indipendenza e alla disobbedienza. L’una senza l’altra non vanno lontano. Sturzo, che era un democristiano, diceva “liberi e forti”. Prendiamo esempio da questa massima. Se ci state, gli facciamo un mazzo così. Chi è pronto si alzi in piedi, perché qui c’è da iniziare un cammino che ci porti lontano e che ci porti a vincere. È finito il momento della retroguardia, usciamo dalla trincea. Ci riprendiamo il lavoro, ci riprendiamo il futuro nel nome dei nostri figli. Perché la Lega non la ferma nessuno. I nostri nemici comincino ad avere paura».
La platea applaude, tutti si alzano in piedi. È un trionfo. Ho parlato per circa un’ora e un quarto. Sempre in direzione ostinata e contraria, come diceva De André, sempre con il cuore. «E che Dio ce la mandi buona...» mi concedo alla fine, esausto, mentre il pubblico intona il coro «Matteo Salvini, là là là là là là, Matteo Salvini!». È andata.