Radio Padania
Quando ti infili le cuffie e alzi il fade del microfono [...] senti che puoi dire quello che vuoi, però sai anche che quello che dici dev’essere il massimo... e ti accorgi che ogni volta cresci un po’.
LIGABUE, RADIOFRECCIA
Non esiste politica senza comunicazione. Oggi il tablet rappresenta quasi una continuazione delle mie dita. Lo porto sempre con me, ovunque. Le nuove tecnologie ci permettono di commentare in diretta tutto ciò che accade nel mondo, i social network diventano la grancassa dei nostri pensieri, piazze virtuali in cui si può discutere, indignarsi, persino litigare.
A me è capitato spesso: ogni giorno tantissime persone mi consigliano, sostengono e incitano, ma altre mi insultano, sputano sul mio nome e su quello della Lega. Tutto ciò merita approfondite riflessioni a parte. Ma la mia storia è legata a doppio filo con i media.
Nei tardi anni Novanta iniziai una seconda gavetta, prima come cronista di un quotidiano, poi come conduttore radiofonico. In quel periodo, in cui i telefoni cellulari e Internet erano ancora agli albori, mi sono fatto le «ossa», ho imparato che la comunicazione è uno strumento fondamentale. Soprattutto quando è libera e senza compromessi.
Partiamo dal 1997. A quelle elezioni comunali ci presentammo da soli contro il centrosinistra che lanciò Aldo Fumagalli (chi se lo ricorda?), mentre Forza Italia puntò su Gabriele Albertini, favorito alla vigilia e poi vincente alle urne. Formentini, il nostro candidato, ottenne circa il 20% dei consensi, ma nonostante il buon risultato non arrivammo al ballottaggio. Solo otto consiglieri leghisti, dopo i trentasei di quattro anni prima, entrarono in consiglio. Tra gli esclusi figurava anche il mio nome, il primo dei non eletti. Una sconfitta dura da digerire. Ma non mi persi d’animo e sfruttai quel periodo di «inattività» per cominciare una nuova avventura che coniugasse le mie due grandi passioni: la politica e il giornalismo.
Un giorno Bossi si presentò con un regalo per me. Evento decisamente singolare, perché lui non è mai stato tipo da doni e complimenti. In effetti il «pacco», con tanto di dedica, non nascondeva un pensiero gentile: si trattava di un manuale su come svolgere al meglio la professione di giornalista. Per la serie: studia e impara...
La nuova sfida mi aprì orizzonti fino ad allora inesplorati: cominciai alla «Padania», quotidiano fondato nel 1997 e diretto all’epoca da Gianluca Marchi. Iniziò così la mia carriera di inviato, un incarico impegnativo, ma che mi piaceva: giravo per tutto il Nord a caccia di interviste e spesso facevo capolino a Palazzo Marino. Non risparmiavo critiche ad Albertini e alla sua giunta e da quel momento iniziò la reciproca antipatia con il sindaco, sentimento che negli anni più recenti si è trasformato in una conoscenza cordiale cementata dal rispetto reciproco.
In breve tempo finii a occuparmi di una rubrica particolarmente delicata: quella delle lettere. La «Padania» dava grande spazio alle opinioni dei lettori, un paio di pagine che lo stesso Bossi leggeva con attenzione. Non vi era alcuna censura: pubblicavamo di tutto, anche critiche e insulti. Per questo era necessario rispondere in modo ruspante, non banale, portando avanti le idee del partito, ma senza calpestare le opinioni di chi la pensava diversamente. Spesso arrivavano in redazione anche segnalazioni o richieste d’aiuto che giravo immediatamente a parlamentari, consiglieri o sindaci.
Intanto, nella gerarchia interna della Lega ero cresciuto, diventando segretario provinciale. E in quel periodo fui più volte vittima di una delle «fisse» di Bossi: le telefonate alle due o alle tre di notte. All’epoca non esistevano i cellulari, e quindi chiamava direttamente sull’apparecchio di casa. Vi lascio immaginare l’entusiasmo dei miei genitori... Nel cuore della notte, appena sentivo gli squilli, capivo che c’erano guai in arrivo. Mi alzavo, sgusciavo fino in cucina dove afferravo la cornetta e mi preparavo a una sonora lavata di capo. Frase tipica, della durata di cinque-sei secondi: «Non capisci un cazzo, è tutto un disastro, questa cosa non funziona, cazzo». Clic. A quel punto, con il morale a terra, mi ributtavo a letto senza più riuscire a chiudere occhio.
Nel 1999 iniziai a lavorare anche a Radio Padania Libera, di cui sono diventato direttore nel 2003, dopo aver superato l’esame di Stato per diventare giornalista professionista. A tanti anni di distanza, e vista l’evoluzione del mestiere di giornalista, oggi mi chiedo: ha ancora senso l’esistenza di un «ordine dei giornalisti»? Chi tutela? Come lo fa? Quanto costa? Il superamento dell’attuale forma degli ordini professionali deve essere discusso e affrontato velocemente. Per non parlare dei conflitti di interesse tra editoria e politica, fra grandi aziende che pagano e finanziano e giornalisti che dovrebbero informare.
Per me l’esperienza di Radio Padania si è rivelata un’incredibile scuola di formazione. Perfino Silvio Berlusconi, con mia grande sorpresa, mi ha fatto i complimenti: le mie presunte doti comunicative, a detta del Cavaliere, sono la conseguenza degli anni di gavetta passati davanti al microfono e a contatto diretto con la gente.
La redazione della radio, così come quella del quotidiano, si trovava all’interno del quartier generale di via Bellerio a Milano. Un complesso esteticamente brutto e decadente in zona Niguarda, incastrato tra i condomini e viale Enrico Fermi. La sede, ieri come oggi, si presenta come una sorta di scantinato buio: per accedere agli studi, piccoli ma funzionali, bisogna scendere nelle «viscere» del palazzo.
La radio si regge grazie all’eroico lavoro di pochi giornalisti e di tanti volontari. Fra i giornalisti Giulio Cainarca, straordinario, Pierluigi Pellegrin, preciso, Sammy Varin, esplosivo, Giuliana Bortolozzo, storica, e Alessandro Morelli, una certezza. Poi i bravissimi registi, Giulio Carnelli, Roberto Colombo e Vincent De Maio, per i quali non esistono sabati, domeniche o scontrini che tengano. A loro si aggiungono decine di volontari, splendidi e spontanei, e soprattutto le voci degli ascoltatori, molti dei quali nemmeno leghisti. Alcuni chiamano per discutere, altri per insultare: capita, visto che non esistono né filtro né censura.
Ci sono state le telefonate disperate di ascoltatori in difficoltà economica, che magari avevano perso il lavoro, la casa e che minacciavano di suicidarsi. In quei casi si scatenava il panico in studio: da una parte era necessario chiamare i soccorsi e verificare che l’interlocutore non ci stesse prendendo in giro, dall’altra era indispensabile rassicurare l’ascoltatore invitandolo a ripensarci. Grazie al cielo, per quel che ne so, nessuno ha mai dato seguito a propositi autolesionisti. L’elenco delle telefonate comprendeva poi insulti, proteste, minacce. Non mancavano ascoltatori che «profetizzavano» scenari politici contro di noi.
Come quando ci contattò un musulmano, che parlava un ottimo italiano.
«Pronto» dissi io.
«Pronto, buongiorno» rispose.
«Buongiorno» replicai.
«Vorrei sapere perché non vi rassegnate» continuò il mio interlocutore. «Ricordo che quindici anni fa, quando ci fu la costruzione delle moschee, avevate fatto di tutto, ma oggi sono centinaia e migliaia in tutta Italia. Anche per la scuola, l’importante è mettere la prima pietra e la prima pietra è già messa. Quindi tra dieci anni ci saranno migliaia di scuole arabe. Noi vi facciamo parlare, ma tanto andiamo avanti. Rispettiamo la Costituzione italiana che ci dà diritto a fare le scuole, e quindi fate pure le manifestazioni. È come per le moschee. Noi abbiamo il diritto di avere scuole, cimiteri, moschee. Grazie e arrivederci.»
Io esultai: «La ringrazio tantissimo! Sono le dieci e diciotto di questo giovedì 9 novembre 2006, chiedo al regista di utilizzare il suo intervento come spot perché è più esaustiva questa sincera telefonata di tante nostre parole».
Ancora oggi, a distanza di anni, proponiamo quell’audio prima di introdurre le trasmissioni. Il musulmano che ci aveva contattato si riferiva a una polemica infuocata che stava scuotendo Milano: gli islamici avevano aperto una scuola in via Quaranta, chiusa in seguito perché non rispettava i regolamenti didattici stabiliti dal provveditorato. Quindi avevano chiesto di creare classi separate. Infine, avevano aperto alcune aule (senza autorizzazione) per insegnare arabo e Corano. Era il 2006 e il pericolo del fanatismo islamico era già presente, ma non aveva ancora toccato i livelli di ferocia degli ultimi tempi.
Al di là di questi episodi, le dirette su Radio Padania erano importanti perché ci permettevano di tastare il polso della militanza leghista. Non esistevano provvedimenti, polemiche o manifestazioni che non venissero commentate da decine di ascoltatori, spesso perplessi e desiderosi di chiedere chiarimenti. Ricordo le numerose chiamate quando la Lega raccolse firme per chiedere l’abrogazione della Turco-Napolitano, la legge sull’immigrazione poi sostituita dalla Bossi-Fini.
Il filo diretto con gli ascoltatori era (ed è) molto seguito, tanto che, non di rado, alcuni giornalisti si sintonizzavano per capire l’«umore» del mondo leghista.
Un momento difficile fu nel 2004, quando Bossi rischiò di morire: fu portato d’urgenza all’ospedale di Cittiglio, nel Varesotto. La situazione si presentò subito drammatica: tra l’altro le strade erano innevate e quindi l’ambulanza non poteva viaggiare a tutto gas.
Poche ore dopo il nostro leader fu portato a Varese. Avevo appreso la notizia solo il mattino seguente, una volta arrivato in via Bellerio: la redazione del quotidiano, all’epoca diretto da Gigi Moncalvo, e ovviamente quella della radio erano state prese d’assalto da militanti e sostenitori letteralmente disperati. Fu difficile restare lucidi e concentrati, in attesa che arrivassero notizie più precise mentre la gente invocava chiarezza e desiderava conoscere – come tutti noi, d’altronde – le condizioni di Bossi.
La moglie Manuela, che era stata tra le fondatrici della Lega, non fece trapelare nulla per preservare la privacy del marito. Fu proprio in quei momenti che iniziò a costituirsi il famoso «cerchio magico», il gruppo organizzato per creare una barriera e rendere inavvicinabile il leader.
Tre mesi dopo, a giugno, la sua voce tornò finalmente a fare irruzione in radio con un suo messaggio raccolto su un registratore che venne consegnato alla nostra redazione. La notizia fu annunciata con qualche ora di anticipo, e quando arrivai in sede trovai già una folla di giornalisti che stazionava vicino all’ingresso a caccia di indiscrezioni. Io stesso ero curiosissimo. Credo non ci fosse militante o simpatizzante del Carroccio che quel giorno non si sintonizzò su Radio Padania.
La voce di Bossi sarebbe stata poi diffusa da tutti i telegiornali e dalle trasmissioni televisive, ma quello che ascoltammo in anteprima a Radio Padania fu un colpo al cuore per tutti noi. «Sto abbastanza bene» sussurrò Umberto. La voce sofferente, affaticata, sembrava poco più di un soffio. Uno choc per chi lo ricordava pieno di grinta nei corridoi della sede. Rammentavo benissimo quando lo avevo visto l’ultima volta: era stato invitato a Porta a Porta per commentare il Festival di Sanremo e si era pure lanciato in un duetto canoro con Mino Reitano. Quell’uomo esuberante e vulcanico ora appariva invece indifeso e inerme: ci chiese addirittura di rimandare l’incontro di Pontida, che si sarebbe tenuto a breve, perché, disse, «quella è la mia festa».
Nei mesi successivi, la lenta ripresa dell’Umberto fu descritta passo passo ai microfoni della radio. Prima fece pubblicare sulla «Padania» un biglietto con la scritta TORNO PRESTO, poi uscirono – sempre sul quotidiano – alcune sue immagini in ospedale in cui appariva spaventosamente magro. Infine, nel marzo 2005, andò in scena la sua prima uscita pubblica a casa di Carlo Cattaneo, uno dei padri del federalismo italiano, quando Bossi si affacciò da una finestra e salutò tutta la sua gente. Momenti che ricorderò per sempre.
Come ricorderò sempre l’11 settembre 2001, quando mi trovavo in redazione alla «Padania». Non so dove foste voi in quei momenti, ma io non posso dimenticarli. Una giornata qualunque, passata tra la stesura di articoli e la diretta in radio, finché, nel primo pomeriggio piombò la terribile notizia di un aereo finito contro una delle torri del World Trade Center di New York.
Nell’epoca presmartphone la comunicazione viaggiava soprattutto in TV e per radio: le cronache del primo incidente erano piuttosto confuse e nessuno aveva capito che quei tragici fatti avrebbero per sempre cambiato la storia mondiale.
La confusione, lo sbigottimento, il terrore regnarono sovrani quando giunse la notizia del secondo aereo dirottato contro il simbolo della «Grande Mela», aumentando a dismisura con il terzo dirottamento sul Pentagono e il quarto aereo precipitato chissà dove. Solo nel tardo pomeriggio quel quadro di morte, terrore e distruzione divenne più chiaro: si trattava del primo, violentissimo attacco portato dall’estremismo islamico nei confronti dell’Occidente.
L’11 settembre ha stravolto gli equilibri geopolitici internazionali e ha di fatto dato avvio a una guerra subdola e non convenzionale che negli anni successivi avrebbe insanguinato tutto il globo. Europa compresa, naturalmente: è ancora vivissimo nella mente di tutti ciò che è successo a Madrid, Parigi, Londra e Bruxelles.
Nel nostro continente anche la libertà di espressione e di stampa è stata messa a dura prova: nel 2004, in una via di Amsterdam, è stato ucciso il regista Theo Van Gogh, colpevole di aver girato il cortometraggio Submission, che a dire degli estremisti oltraggiava l’islam; nel 2005 alcune vignette pubblicate su un quotidiano danese hanno sollevato la reazione di molti musulmani in tutto il mondo contro coloro che avevano osato disegnare il profeta Maometto; infine l’attacco contro la redazione del settimanale satirico «Charlie Hebdo», il 7 gennaio 2015 a Parigi, in cui vennero assassinati il direttore e diversi collaboratori.
Elencare tutti gli attentati sarebbe quasi impossibile: ricordo con orrore la strage di Beslan, nel 2004, quando i terroristi (in questo caso ceceni) sequestrarono più di mille persone in una scuola, tra cui centinaia di bambini, portando a termine una vera e propria carneficina. In Africa, in particolar modo in Nigeria, è invece tuttora in corso un massacro senza fine di cristiani, notizie di cui si parla pochissimo perché non fanno «audience».
Quasi nessuno ricorda invece la tentata strage del 12 ottobre 2009 in Italia: un libico tentò di farsi esplodere davanti a una caserma di Milano, in piazzale Giuseppe Perrucchetti. Successe pochi minuti prima delle 8: l’aspirante kamikaze perse una mano e gli occhi, mentre un giovane caporale di guardia venne ferito, fortunatamente senza conseguenze.
Di recente, sono stato toccato anche personalmente, o quasi, dalla violenza di matrice musulmana. È successo il 22 marzo 2016 a Bruxelles. Mi ero alzato di buonora per recarmi all’aeroporto, visto che per le tredici ero atteso a Milano per un incontro con Stefano Parisi. Inoltre, volevo fare una sopresa a mio padre nel giorno del suo settantunesimo compleanno.
Ero salito in macchina e stavo smanettando sul mio iPad quando fui costretto a cambiare programmi. La polizia aveva chiuso l’area dell’aeroporto a causa dello scoppio di una bomba. Dovetti rientrare in città in tutta fretta senza però riuscire a contattare i miei famigliari, già in allarme per le notizie ascoltate al telegiornale: le linee telefoniche erano completamente intasate e il caro vecchio Nokia non dava segni di vita.
Nel giro di una ventina di minuti, fortunatamente, rientrai in Parlamento. Chiamai subito a casa perché Federico e Mirta, i miei cuccioli che erano già a scuola, fossero tranquillizzati. Messaggiai con le persone care e poi incontrai diversi collaboratori e parlamentari, visibilmente scossi. Lorenzo Fontana e la moglie Emilia sapevano che mi stavo dirigendo all’aeroporto e mi confessarono di aver passato una mezzora di passione: avevano cercato più volte di mettersi in contatto con me per avere notizie, ma il cellulare rimaneva muto come un pesce. Grazie al cielo, nessuno di noi rimase coinvolto in qualche modo negli attentati, ma le notizie delle esplosioni, prima in aeroporto e poi nella metropolitana, lasciarono tutti sgomenti e inermi.
In Italia qualche sapientone se l’è presa con me dopo le esplosioni di Bruxelles. Sui social sono fioccate ironie a getto continuo nei miei confronti. Prima mi hanno additato come uno scampato per un soffio alle bombe aggiungendo frasi del tipo: «Peccato, per un giorno che era lì per lavorare...» e altre amenità assortite. Poi, quando da giornalista sono andato in giro per la città documentando la situazione, mi hanno accusato di essere uno sciacallo: anzi, un «avvoltoio», come mi hanno definito Ficarra e Picone a Striscia la notizia, cercando di essere spiritosi. Addirittura, sui social è stato insinuato che una fotografia, che mi ritraeva davanti al Parlamento europeo con cellulare incollato all’orecchio, fosse falsa perché il telefonino non si vedeva: non possiedo uno smartphone, bensì un vecchio Nokia, piccolo, sottile e che nell’occasione era pure coperto dalla mia mano.
Qual è la tesi di questi professori? A loro parere è sbagliato utilizzare l’islam associato al terrorismo «perché i terroristi sono terroristi e la religione non c’entra», ma soprattutto è necessario predicare amore e integrazione. Chi osa discostarsi da questo conformismo e dalle patetiche esibizioni di chi esorcizza gli assassini con gessetti colorati, pupazzi e bandierine messe a mezz’asta, viene bersagliato come se fosse un criminale.
I cosiddetti buonisti mostrano il loro vero volto proprio in questi momenti. Non vogliono ammettere il fallimento delle politiche di integrazione, anche nei Paesi che fino a pochissimo tempo fa venivano presi a modello per la presunta capacità di inclusione. Guai a criticare l’islam dopo le stragi causate dal terrorismo islamico: in questo caso, secondo la sinistra e il suo esercito di opinionisti, comici e vippume vario, significa strumentalizzare chi ha perso la vita.
Ipocriti! Io ho il diritto-dovere di non stare zitto e di gridare che l’immigrazione senza freni è un pericolo e che l’islam non è una religione di pace. E che l’integrazione è fallita.
Una grande scrittrice come Oriana Fallaci è stata a lungo insultata, derisa e censurata, nonostante i suoi avvertimenti sul pericolo musulmano, in particolare dopo l’11 settembre. Fossi il ministro dell’Istruzione, renderei i suoi libri obbligatori nelle scuole.
Come si può intervenire contro l’islam radicale?
Innanzitutto congelerei la realizzazione di nuove moschee, controllerei i finanziamenti che arrivano alle comunità musulmane, obbligherei gli imam a predicare in italiano e li inserirei in un albo verificato dallo Stato per escludere gli estremisti.
E poi procederei con le espulsioni a raffica dei sospettati. In chiave europea, darei il via libera agli accordi per poter condividere più informazioni possibili con tutti i servizi di sicurezza del Vecchio continente, compresi i nomi di tutti i passeggeri che viaggiano in aereo, scelta approvata tardivamente da Bruxelles. Il tutto senza dimenticare il più prezioso alleato contro l’ISIS: la Russia. Contro il terrorismo islamico Mosca deve essere al nostro fianco.
Il governo italiano, invece, si è vantato perché tra la fine del 2015 e l’inizio del 2016 ha espulso qualche decina di sospetti terroristi: cifre ridicole, se si pensa che in una sola giornata sbarcano sulle nostre coste centinaia o migliaia di persone.
I mass media politicamente corretti li definiscono «migranti o disperati», ma nella stragrande maggioranza dei casi sono ragazzi trentenni. Le donne, i bambini o gli anziani sono una minoranza. Elenco i dati del Viminale, snocciolati nell’estate 2015 dai principali quotidiani italiani: fino al 21 agosto 2015 sono state presentate 44.784 richieste di asilo, a fronte di 110.136 arrivi (al 25 agosto). E delle 33.834 richieste esaminate, solo 15.666 sono state accolte contro le 16.921 respinte. Significa che la maggioranza di chi arriva è clandestino!
Nonostante questo, offriamo assistenza e sostentamento per ogni persona arrivata. Il tutto per un costo a carico dello Stato che si aggira sui trentacinque euro al giorno, cifra che può anche aumentare in presenza di minori. L’ho ripetuto fino alla noia e continuerò: chi scappa dalla guerra o dalle persecuzioni è mio fratello. Va accolto senza «se» e senza «ma». Ma chi non ha i requisiti non può restare in Italia e va espulso. In nessun Paese al mondo le frontiere sono aperte e chi entra non viene controllato.
Il rischio di accogliere delinquenti o potenziali terroristi è molto alto. Non lo dico io, ma il ministro degli Esteri Paolo Gentiloni. Lo ha spiegato nel gennaio 2015, durante un vertice londinese con i suoi omologhi europei: «Il rischio di infiltrazione di terroristi è notevole» salvo precisare che «nessun Paese democratico può avallare alcuna confusione fra fenomeni migratori e terroristici».
Segnalo, inoltre, che le nostre forze dell’ordine hanno confermato che nel 2015 transitò nel nostro Paese il kamikaze della metro di Bruxelles e che un algerino di stanza a Salerno è stato arrestato perché accusato di aver avuto contatti con i terroristi che hanno insanguinato Bruxelles e Parigi.
Vado avanti. Nel dicembre 2015 le indagini dei ROS hanno fatto emergere alcuni presunti integralisti islamici residenti a Bolzano che, al telefono, consigliavano altri compagni di fede: «Venite qui: la casa la paga il Comune». È il prezzo dell’integrazione, bellezza.
Dopo gli attentati di Parigi, una deputata del PD affermò in una trasmissione televisiva che non si trattava di «un problema religioso». Ovviamente mi indignai. L’arroganza di certa sinistra politicamente corretta è talmente galoppante che crede di insegnare ai terroristi islamici perché non sono terroristi islamici.
Credo che il «problema islam» vada affrontato anche proteggendo gelosamente i nostri valori e le nostre tradizioni, senza cedere di un millimetro.
La battaglia per i presepi nelle scuole durante il periodo natalizio o i crocifissi nei luoghi pubblici potrà sembrare banale, ma è invece molto importante perché ci permette di fissare dei paletti.
Nessuno vuole imporre agli altri una cultura diversa, ma vogliamo ricordare le nostre radici e la storia che ci hanno permesso di raggiungere i livelli di civiltà, benessere e democrazia di cui godiamo oggi. Sarebbe un errore, in nome dei principi di libertà e democrazia, dare l’impressione di essere molli e arrendevoli.
In Belgio, per tornare agli attentati, la società occidentale così aperta e a favore dell’immigrazione ha addirittura consentito la nascita di un partito che vuole introdurre la legge islamica. I musulmani vogliono fare leva sulle nostre norme per poi smontarle. Un progetto facilitato da chi, e sono tanti tra noi, pur non essendo islamico è schiavo dell’ideologia del politicamente corretto. E quindi pensa sia meglio non fare i presepi o strappare i crocifissi dai muri «per non urtare la sensibilità delle altre fedi». Ma tutti sanno che nessuno, dai buddisti agli ebrei, si è mai lamentato.
Io non mi rassegno: voglio pensare a un futuro di diritti e di libertà, non al ritorno al Medioevo. Poco dopo gli attentati di Bruxelles, un’altra tremenda notizia ha scosso il mondo: i terroristi hanno insanguinato la Pasqua in Pakistan, dove un kamikaze ha spazzato via più di settanta vite, la maggior parte donne e bambini. Erano colpevoli di essere cristiani.
Quando evocano «il tema sicurezza» io già inizio a innervosirmi, perché la sicurezza non è un argomento di discussione come un altro, buono per riempire una mezzora di rissa televisiva, ma dovrebbe essere la premessa per vivere in una società civile e non nel far west.
Poi ci sono quelli che iniziano a distinguere tra «sicurezza reale» e «sicurezza percepita», secondo il teorema per cui le persone si spaventerebbero senza ragione di un pericolo molto minore di quanto pensano: insomma cercano di far passare il popolo per un gregge di paranoici e danno colpa alla Lega perché fomenta la paura.
Io sono limitato per carità, però non riesco proprio a capire che differenza c’è tra sicurezza reale e sicurezza percepita. Forse finché non mi saccheggiano casa dovrei considerarmi tranquillo, anzi sollevato, e poco importa se il giorno prima hanno svaligiato la casa del mio vicino?
Bisogna aspettare di ritrovarsi parcheggiati nell’anticamera di una questura in attesa di sporgere denuncia per avere il diritto di dirsi preoccupati?
«Microcriminalità» la chiamano. «Microcriminalità», roba da matti: entrare nella casa di qualcuno, violare lo spazio più riservato di una persona, colpirlo nei beni e negli affetti più radicati sarebbe una questione di poca importanza, un tema da affrontare quando non c’è proprio nient’altro di cui parlare.
Finché non arriva la tragedia.
Graziano Stacchio, Giovanni Petrali, Antonio Monella, Ermes Mattielli e Rodolfo Corazzo sono solo alcuni esempi di persone che si sono difese da un aggressore con un’arma legalmente denunciata: per tutti e tre la ricompensa immediata dello Stato è stata un avviso di garanzia e l’iscrizione nel registro degli indagati.
«Un atto dovuto» – dicono sempre così gli inquirenti – che se fortunatamente per Graziano Stacchio si è risolto in un «non luogo a procedere», anche sull’onda della mobilitazione popolare, ad Antonio Monella, l’imprenditore bergamasco che aveva sparato per difendere la sua casa, è costato un processo lungo otto anni finito con la condanna a sei anni e due mesi di reclusione, oltre al risarcimento danni quantificato in centocinquantamila euro in favore dei familiari del ragazzo albanese rimasto ucciso.
Comunque la pensiate sul «tema sicurezza», provate a immaginare di finire in carcere perché avete difeso la vostra casa e la vostra famiglia. L’angoscia deve essere inimmaginabile, soffocante quanto la paura delle ritorsioni e delle intimidazioni che probabilmente i «colleghi» reclusi del ladro ucciso vi riserveranno ogni giorno.
Antonio Monella ha attraversato tutto questo inferno perché è una persona straordinaria e, quando sono andato a trovarlo prima sul lavoro e poi in carcere, mi sono sempre chiesto se al posto suo sarei riuscito a reggere. Ogni volta il suo unico pensiero era che alla famiglia non mancasse niente e che non si lasciassero sopraffare dallo sconforto: era lui – pensate – preoccupato per loro. E in carcere mi disse che la libertà di muoversi è una cosa che si dà per scontata finché non te la tolgono, che gli mancavano quelle cose semplicissime, anche quelle che a volte prima della tragedia aveva considerato sempre noiose: fare le commissioni in paese, comprare il pane...
Lo racconto perché proprio dopo uno di questi nostri incontri ho realizzato che tutta quella forza con cui affrontava il carcere la trovava essenzialmente in due cose: la propria famiglia e il proprio Paese. Il resto, le ideologie, i pensieri astratti, le teorie sociologiche, al confronto sono tutte balle.
La storia di Monella ha un lieto fine quando il 13 novembre 2015, il presidente della Repubblica Sergio Mattarella gli concede la grazia e può finalmente uscire dal carcere. Anche qui ci sono stati alcuni miei amici giuristi, leghisti e non, che quel giorno mi hanno fatto notare come la grazia fosse tecnicamente «parziale», altri ancora mi hanno sottolineato che aver giustizia per grazia ricevuta è roba da Medioevo. Forse avevano qualche ragione, ma solo in astratto, sul piano della teoria, sul piano delle balle anche qui.
In quel caso ho ringraziato il presidente Mattarella che, a differenza del suo predecessore, quella domanda di grazia l’ha accolta. Chi invece non ha avuto il tempo nemmeno di presentarla una domanda di grazia è stato Ermes Mattielli, rigattiere sessantaduenne di Arsiero, che aveva reagito all’ennesima rapina ferendo i ladri che erano entrati nella sua proprietà. Ladri che, guarda caso, erano rom. Dopo la condanna al carcere il suo cuore non ha retto ed è morto d’infarto il 5 novembre 2015. Lo ricordo bene perché l’avevo incontrato proprio il giorno prima della sua morte, a una cena organizzata dalla Lega per aiutarlo a pagare le spese legali. Un aiuto che purtroppo non è servito a nulla. Una vicenda assurda, con risvolti che definisco grotteschi perché tutti gli aggettivi che vorrei usare non verrebbero pubblicati.
Anche qui, come per Monella, oltre alla condanna al carcere si è aggiunta quella del risarcimento danni che nel caso di Mattielli, che non possedeva altro se non la sua casa-bottega, potrebbe risolversi nel passaggio di proprietà di questa in favore dei ladri feriti. Ladri che attualmente vivono tranquilli a casa loro. Sembra un film dell’orrore, ma è tutto vero, purtroppo. Perché Renzi, perché il Parlamento, perché la politica non approva la proposta di legge della Lega che vuole cancellare il reato di «eccesso di legittima difesa»? La difesa di se stessi, della propria famiglia e dei propri beni è sempre legittima. O forse dobbiamo aspettare che ci sparino o ci accoltellino prima di reagire? Il mio modello di riferimento è la Svizzera, Paese ordinato e sicuro, con otto milioni di abitanti e quattro milioni di armi nelle case, visto che il servizio militare prevede richiami periodici per tutti i cittadini. Quindi i criminali sanno che rischiano grosso e ci pensano due volte prima di aggredire o rapinare qualcuno.
Queste sono storie che tutti conosciamo, ma è sufficiente aprire i microfoni di Radio Padania Libera per sentire tante altre storie di far west quotidiano.
Nella mia esperienza con le persone che, al di là dell’orientamento politico, chiamano in diretta ho sentito migliaia di testimonianze e ammetto che non sempre riesco a fare attenzione ai dettagli di ognuna, anche se lo schema che seguono si ripete scientificamente. Tutte storie vere di vita quotidiana che raccontano una persona normale che sta facendo una cosa normale – sta in casa, va al lavoro, parcheggia, fa jogging al parco, prende il treno – e subisce un’aggressione o un’intimidazione da un’altra persona – spesso non di origini sudtirolesi – senza che lo Stato dia alcun segnale di tutela. E non certo per colpa dei poliziotti o dei carabinieri che ogni volta si trovano costretti a spiegare di non potere fare niente finché non si consuma un vero e proprio reato.
Quello che mi fa rabbia di tutte queste storie è che l’epilogo generalmente è a carico della vittima che decide per evitare grane di installare inferriate alle finestre di casa, di camminare in mezzo alla strada perché il marciapiede è occupato da soggetti poco raccomandabili, di pagare il pizzo al parcheggiatore abusivo, di abbassare lo sguardo sul treno, di correre sul tapis roulant della palestra perché il parco è diventato area off-limits.
Questo clima che condiziona tutti coloro che vivono fuori nel mondo vero è quello che nelle torri d’avorio chiamano «sicurezza percepita» e «microcriminalità». Se la gente è preoccupata è colpa di noi brutti, sporchi, cattivi leghisti che alimentiamo paranoie per terrorizzare le persone e spingerle a votarci.
Posso dirvi una cosa, da appassionato di politica fin da adolescente, prima che da segretario della Lega? A me piace convincere le persone a votarmi parlando di federalismo, di giustizia, di politica estera, di ecologia, di rivoluzione fiscale, di diritti dei lavoratori, di pensione. Forse Crozza non ci crederà, ma Salvini sarebbe molto più contento se non ci fosse bisogno di parlare di sicurezza e se tutti, da destra a sinistra, imparassimo anche a fare squadra per riconoscere che quando c’è un problema c’è un problema. E che noi politici, tutti, siamo pagati per risolverli i problemi, non per etichettarli come problemi di destra o di sinistra.
Ad esempio i campi nomadi.
Quando invito i giornalisti a seguirmi nell’ispezione di un campo nomadi, il risultato televisivo finale è che inquadrano me, fanno domande a me, poi se ne vanno lasciando che siano i commentatori del giorno dopo a dividersi tra favorevoli e contrari in base alle mie risposte.
Invece io vorrei che non inquadrassero Salvini, ma quello che si vede nei campi nomadi, e che mi chiedo se sia considerato accettabile da cittadino, da padre, prima che da politico. Bambini scalzi che giocano nella spazzatura, allacciamenti alla corrente di fortuna pericolosi prima che abusivi, roulotte arrugginite da cui spuntano antenne televisive a parabola, macchine di lusso, commerci fuori legge. Per non parlare di quello che nei campi non vedo, ma che ognuno di noi può constatare nelle strade di ogni città, dallo sfruttamento dei bambini per il racket dell’elemosina, fino agli episodi più gravi legati alla criminalità da cronaca nera.
È possibile considerare normale che un bambino di sette anni sia tenuto lontano dalla scuola e passi le sue giornate sulla strada, al freddo o sotto la pioggia, esposto a tutti i pericoli di una grande città perché costretto a mendicare denaro per i suoi genitori che spesso, come raccontano molti rapporti dei servizi sociali, non si fanno scrupoli a picchiarlo quando la cifra raccolta non li soddisfa?
Permettere che nelle nostre città si creino delle baraccopoli che sopravvivono con il racket dell’elemosina, i furti, la ricettazione e lo sfruttamento dei minori certamente non appartiene alla cultura della destra, ma non mi risulta sia nemmeno di sinistra.
Un Parlamento normale di un Paese normale, anche a guida centrosinistra (che comunque nel nostro esempio normale avrebbe dovuto vincere le elezioni) dovrebbe mettere all’ordine del giorno una legge in cui si disciplinano i campi rom. Come? Con che progetti? Quando? Quali alternative? Con le ruspe? Senza ruspe? Parliamone, maggioranza e opposizione, votiamo e facciamo delle regole che siano rispettate.
Vince il progetto di legge di una senatrice di sinistra che prevede un percorso di inclusione sociale e sradicamento partecipativo delle sottoculture tramite l’agopuntura? Non mi convince, ma almeno il problema è stato preso in considerazione. Quando si tornerà a votare i cittadini sceglieranno se l’agopuntura ha funzionato oppure se ci vogliono anche (sottolineo «anche») le maniere forti.
Diritti e doveri uguali per tutti, a questo penso. Sgombero di tutti i campi rom, da quelli abusivi a quelli cosiddetti regolari che purtroppo regolari non sono. Integrazione per chi accetta le regole della civile convivenza e quindi la casa la compra o l’affitta, fa il mutuo o si mette in fila come tutti gli altri. Per chi invece vuole vivere «da nomade», aree di transito attrezzate e a pagamento. Difficile da fare? No, volere è potere.