Affrontare la crisi economica

Un conto sono le statistiche sulla crisi economica, un conto, credetemi, è accorgersi del suo impatto incontrando tutti i giorni persone vere, in carne e ossa, ascoltandone le difficoltà, ad esempio in radio. Intendiamoci: telefonate in diretta in cui piccoli imprenditori denunciavano l’eccessivo carico fiscale oppure storie di persone che perdevano il lavoro ne abbiamo sempre avute, ma dal 2008 mi sono subito accorto che la situazione stava sfuggendo di mano.

Il primo campanello d’allarme importante sono state le storie degli ascoltatori che sempre più spesso intervenivano, per così dire, fuori tema; anche quando chiedevo un parere su questa o quella notizia di cronaca riguardante la politica estera, l’immigrazione o altri temi, continuavano comunque ad arrivare telefonate su telefonate di persone che raccontavano di avere appena perso il lavoro, oppure di commercianti che con la voce strozzata annunciavano che avrebbero presto chiuso bottega.

In un minuto di telefonata si concentravano anni di vita e di lavoro, storie diversissime tra loro, ma che avevano come unico comune denominatore la sofferenza di scoprirsi perduti e sconfitti. A questo spesso si aggiungeva, per un perverso meccanismo psicologico, il fatto che la gran parte dei protagonisti delle telefonate addossassero interamente su loro stessi la colpa del proprio fallimento, senza puntare l’indice sui responsabili politici ed economici di una crisi che ha finito per massacrare l’economia italiana.

Di quel periodo mi rimprovero di non essere riuscito a farmi ascoltare abbastanza su quanto stava succedendo: quando ancora Berlusconi minimizzava gli effetti della crisi e nella Lega prevaleva un pericoloso sentimento di invincibilità dopo i successi elettorali delle elezioni politiche 2008, erano già in molti coloro che stavano scivolando oltre la cosiddetta «soglia di povertà».

Peraltro la situazione al Nord era ancora più allarmante perché la crisi rappresentava un fattore inedito nella nostra storia e andava a intaccare quella dimensione del «fare» che molto spesso dalle mie parti coincide perfettamente con quella dell’«essere». A Milano più che altrove è comune sentir dire «io sono un imprenditore», più che «io faccio l’imprenditore».

Poco tempo dopo la stampa avrebbe iniziato, con grande fatica e ipocrisia, a raccontare lo stillicidio di suicidi per crisi, soprattutto tra i piccoli imprenditori.

E poi ci sono quelle cose a cui ormai ci siamo abituati, che consideriamo normali anche se normali non sono.

Durante la giornata non ci facciamo caso, perché spesso si nascondono in piccoli momenti di paura che, appena superati, tendiamo a dimenticare fino al giorno successivo.

No, non mi sto riferendo a quando si accelera il passo attraversando una strada mal frequentata, ma a quello sguardo preoccupato, talvolta accompagnato da un leggero senso di apnea, che rivolgiamo ogni giorno alla nostra casella delle lettere.

Tramontata l’epoca delle cartoline, oggi l’unico che ancora ci dedica le sue attenzioni epistolari è lo Stato. E non sono mai buone notizie, soprattutto quando la busta è marchiata AGENZIA DELLE ENTRATE.

I lavoratori dipendenti probabilmente non conoscono questa angoscia quanto chi ha una partita IVA, ma credo di raccontare un sentimento che alberga nei cuori di tutti.

Ogni anno qualunque cittadino conosce bene la documentazione fantozziana necessaria per espletare la propria dichiarazione dei redditi. Rivolgersi a un CAF oppure a un commercialista è la soluzione più gettonata dai profani che preferiscono pagare un costo aggiuntivo piuttosto che vivere nel terrore di aver commesso un errore. Fino all’anno successivo, e nella speranza che il fisco non intervenga lo stesso con richieste illegittime.

Quest’ultimo scenario non è da fantascienza, se teniamo conto che dalle ultime statistiche emerge come in Italia i contenziosi tra cittadini e Stato in materia fiscale si risolvano per il 40% dei casi a favore del cittadino: in un caso su due lo Stato spreme più di quanto previsto per legge. Un dato tanto più allarmante se proiettato anche su tutte quelle situazioni, che probabilmente sono la maggioranza, in cui il contribuente rassegnato non apre nemmeno il contenzioso per verificare la legittimità della richiesta dell’erario, ma si limita a pagare quanto richiesto.

Fin qui le torture fiscali ordinarie, ma per i liberi professionisti non sono che l’antipasto a corollario del ben più temuto e demenziale strumento di accertamento dei guadagni noto come «studi di settore».

Funziona così: esiste un software, chiamato GERICO, che elaborando una serie di dati inseriti da Agenzia delle entrate, ministero dell’Economia e associazioni di categoria, determina su base statistica e probabilistica quali sono i parametri di ricavo presumibili per attività di servizi, commercio, manifatture e professionisti. Su questi parametri si innesta l’aliquota di tassazione, senza minimamente prendere in considerazione l’effettivo ricavo delle singole realtà interessate, né quella fluttuazione imprevedibile delle entrate che ogni piccolo imprenditore e professionista sa bene essere la norma e non l’eccezione della propria attività, tanto più in anni di crisi. Per i contribuenti che non risultano congrui e coerenti con GERICO scatta l’accertamento induttivo.

Da tutti i miei incontri in giro per l’Italia, non torno mai a casa senza una nuova storia di terrore fiscale che racconta di un parrucchiere o un avvocato a cui lo Stato sta chiedendo conto di guadagni che non ha mai avuto, oppure di esperienze grottesche di fornai che devono dimostrare la quantità di pane prodotta in un anno; di commercianti che metro alla mano sono tenuti a dimostrare la lunghezza degli scaffali; di baristi che passano ore a inventariare le tartine degli aperitivi per rendere conto al fisco dei ricavi.

Anche solo la compilazione della documentazione non ha nulla da invidiare alle Romania di Ceausescu quanto a clima di terrore, dal momento che è sufficiente sbagliare anche un solo codice di esclusione per essere considerati alla stessa stregua degli evasori totali.

Un sistema demenziale, totalitario e paranoico che si perfeziona collegandosi a un altro strumento orwelliano, la cosiddetta anagrafe fiscale, recentemente salutata come un grande passo in avanti nella lotta all’evasione, capace di tenere sotto controllo tutti i movimenti bancari e postali dei cittadini italiani aggregando milioni di dati. Non sbagliano i giornali a chiamarla Grande Fratello Fiscale.

Eppure questo spiegamento di forze che semina angoscia in tutte le caselle delle lettere non riesce a erodere le centinaia di miliardi di euro che l’evasione fiscale ancora oggi varrebbe.

Qualcuno si è chiesto il perché?

La colpa è degli idraulici che non chiedono la fattura, degli studenti che fanno ripetizioni in nero alle superiori, dei panettieri, dei parrucchieri, degli psicologi? O forse questo apparato poliziesco è costruito su misura per colpire i pesci piccoli e risparmiare, se non favorire, quelli grossi?

Forse ricorderete il caso dei novantotto miliardi di euro di evasione totale che, secondo un’inchiesta del 2007 della Corte dei Conti, avrebbe riguardato dieci aziende concessionarie delle slot machine in Italia, accusate di non aver collegato gli apparecchi al sistema informatico di controllo dei Monopoli, gestito dalla Sogei, nei tre anni precedenti.

La prima sentenza, arrivata solo nel 2012, ha ridimensionato di molto l’importo con la sanzione ridotta a due miliardi e cinquecento milioni di euro. Da novantotto miliardi a due miliardi e mezzo! Ma non finisce qui.

Nel 2013, con il condono di Letta, le società coinvolte se la sono cavata liquidando solo il 30% del dovuto: da novantotto miliardi siamo così arrivati a quattrocentotrenta milioni di euro.

Nello stesso arco di tempo in Italia i governi «tecnici» adottavano la politica delle lacrime e sangue, della Fornero, delle tasse, della distruzione sistematica della piccola-media impresa con i livelli di saccheggio più alti della nostra storia recente.

Mentre in televisione girava quello spot dell’agenzia delle entrate che diceva: «Se tutti pagano le tasse, le tasse ripagano tutti». Oltre il danno, la beffa.

In questo quadro l’impossibilità di pagare tutto per un piccolo artigiano secondo voi è un crimine?

Io la chiamo sopravvivenza.

È per uscire da quest’incubo che come Lega abbiamo presentato l’unica misura che può rivoluzionare il sistema fiscale italiano: la flat tax. Aliquota unica universale al 15%.

Non è un’invenzione di Salvini, ma un modello teorizzato dal professore di Stanford Alvin Rabushka; con lui ho avuto l’onore di presentare a Milano la nostra proposta di legge sulla flat tax, insieme ad Armando Siri che l’ha elaborata armonizzandola ai nostri principi costituzionali e adattandola alle esigenze del nostro bilancio statale. Si tratta di un sistema fiscale adottato già oggi con successo in trentotto Paesi nel mondo, di cui sei dell’Unione Europea, e che capovolge il rapporto di sudditanza oggi esistente del cittadino verso lo Stato.

Parola d’ordine: semplificazione. Flat tax vuol dire segnare un «punto zero» del fisco con caratteristiche di choc positivo che non si riscontrerebbero con nessuna modifica parziale del sistema al momento in vigore in Italia. Peraltro se, come proponiamo, all’aliquota del 15% aggregassimo un sistema di deduzioni fisse su base famigliare che ne garantisca la progressività, coerentemente con quanto disposto dalla Costituzione italiana, gli effetti positivi si riscontrerebbero immediatamente in un maggior potere di spesa per le famiglie.

È risaputo poi che la maggiore ricchezza disponibile nelle tasche dei cittadini si tradurrebbe in nuovi consumi contribuendo a una vera ripresa economica del Paese, non quella degli «zero virgola» propagandata da Renzi.

Maggiori consumi si tradurrebbero in maggiore produzione, nuova occupazione e quindi un allargamento della contribuzione fiscale. Metteremmo così in moto un circolo virtuoso che avrebbe i suoi effetti positivi anche nelle maggiori entrate delle imposte indirette come l’IVA. Molte aziende che oggi hanno delocalizzato tornerebbero in Italia restituendo al nostro Paese risorse sotto forma di occupazione e prodotto interno lordo. Un aumento del PIL che contribuirebbe a diminuire la forbice con il debito pubblico producendo di conseguenza effetti positivi sul deficit.

L’Italia esce davvero dal tunnel della crisi solo se lo Stato torna al servizio dei cittadini, dei piccoli imprenditori, di quelli che Gianfranco Miglio chiamava i produttori e contrapponeva ai parassiti: meno tasse vuol dire più soldi in tasca, più fiducia, più consumi, più produzione, più lavoro. E quindi meno evasione, con buona pace dell’agenzia delle entrate.

È provato infatti che in tutti i Paesi nei quali c’è stato un drastico calo dell’imposta questo ha contribuito a liberare ricchezza e a far emergere nuova base imponibile nascosta. Basti pensare che l’economia sommersa in Italia è un terzo del PIL, circa quattrocento miliardi di euro, per immaginare la portata positiva di questa riforma. Non solo, questo sistema farebbe di colpo scomparire tutte le complicazioni fiscali che oggi ingrassano sia l’esercito della repressione fiscale, sia quello dei professionisti del cavillo. Renderebbe finalmente facile pagare le tasse, ma soprattutto ancora più facili e immediati potrebbero essere i controlli. Un evasore non avrebbe più scuse e sarebbe impossibile nascondersi dietro a interminabili discussioni su acconti, righi, detrazioni. Anche le sanzioni per chi persevera nell’evasione potrebbero diventare severissime.

Peraltro, su questo schema rigido nazionale, con il sistema delle deduzioni, si potrebbero anche creare e implementare le aree a fiscalità agevolata a livello regionale e provinciale, soprattutto in quelle zone di confine che oggi soffrono la concorrenza di Paesi con regimi fiscali vantaggiosi per le nostre aziende.

Infine non bisogna dimenticare come il vecchio sistema fiscale sia stato pensato in anni in cui la popolazione era per lo più composta da lavoratori dipendenti con stipendi stabili, mentre oggi il mondo del lavoro è fatto di forti oscillazioni di reddito, con compensi sempre più legati al successo di iniziative che spesso richiedono anni di investimenti, anche in formazione personale, per concretizzarsi.

Il sistema ad aliquota unica per famiglie e imprese darebbe ossigeno proprio alla nascita di nuove piccole attività economiche innovative, quelle che in giro per il mondo stanno facendo la fortuna di tante nazioni che hanno creduto nelle potenzialità e nella creatività dei loro cittadini, mentre in Italia si alternavano governi capaci solo di punire e criminalizzare l’impresa.

Capisco se qualcuno scuote la testa oppure alza le spalle e magari pensa «sarebbe bello, ma è impossibile». Lo capisco e tante volte ne ho avuto testimonianza diretta nelle piazze, nei gazebo oppure ospitando le telefonate del pubblico a Radio Padania: il nostro vero nemico infatti non è né Renzi, né gli azzeccagarbugli del potere costituito, ma la rassegnazione che ormai ha anestetizzato buona parte dell’opinione pubblica. La vera sfida del cambiamento non passerà mai dalla «fiducia» del Parlamento, se prima non si radica nella fiducia che ognuno di noi deve ritrovare per riprendersi le redini del proprio futuro, riscoprendo il diritto di vivere in un Paese normale.

Qualsiasi tentativo di arrestare la crisi e riavviare l’economia italiana, però, è destinato a fallire se non si interviene anche su un altro tema importante. Mi riferisco a un nuovo piano energetico nazionale: ci stiamo lavorando con esperti del settore, a partire da alcuni imprenditori, perché è insostenibile che in Italia ci sia il costo dell’energia più alto d’Europa. Per il futuro, non possiamo contare solo su qualche trivella sparsa nei nostri mari e poco altro...

In un Paese normale la sovranità appartiene al popolo: non alla grande finanza, non alle lobby internazionali, tantomeno alle banche. Eppure oggi gli istituti di credito detengono arbitrariamente gran parte del potere reale, basti pensare alla crociata contro il possesso di denaro contante iniziata dal governo Monti e dai suoi successori, oppure più semplicemente all’obbligo giuridico di farsi accreditare gli stipendi su un conto corrente.

Questi, che sembrano fatti banali, sono solo le prove più evidenti di una crescente influenza delle banche, che sono arrivate a svuotare di senso la nostra democrazia per sostituirla con un sistema centralizzato e autoreferenziale che ha pervertito la sua missione iniziale.

Un istituto di credito, infatti, dovrebbe «dare credito» alle persone, permettere investimenti di lungo periodo sia nell’acquisto di una casa o di un’automobile, sia nello sviluppo di nuove aziende. Oggi invece, come sa bene chiunque abbia chiesto un mutuo, i cordoni della borsa bancaria sono sigillati dal nodo scorsoio di clausole vessatorie che annichiliscono ogni vitalità economica e ogni aspirazione personale.

Nella storia osserviamo costantemente che, nei periodi di transizione, mentre le istituzioni tradizionali si sgretolano lasciando dietro di sé solo parole vuote come relitti – «democrazia», «giustizia», «diritti reali», «politiche economiche» – altre realtà, nel nostro caso le banche, si affermano riempiendo gli spazi di sovranità demoliti a colpi di decreti legge e direttive europee.

Negli ultimi anni infatti tutte le leggi d’ispirazione comunitaria e nazionale, congiuntamente all’attività di vigilanza della Banca d’Italia, hanno spinto il sistema verso un processo di aggregazione per creare banche sempre più grandi e deterritorializzate, sempre meno orientate all’intermediazione creditizia tradizionale.

Un piano apparentemente perfetto nella sua diabolica teoria, che si è dovuto però confrontare con la concretezza della grande crisi che dal 2008 ha contagiato le banche attraverso l’industria, con il risultato che oggi sono circa duecento i miliardi di euro di sofferenze nei bilanci del sistema creditizio italiano.

In questa congiuntura negativa le banche si sono dimostrate incapaci di ripensare criticamente la validità del modello europeo, ma al contrario, come un treno con il pilota automatico che corre sui binari, non hanno saputo far di meglio che accelerare con massicce ricapitalizzazioni per raggiungere i coefficienti richiesti dalle regole stabilite in Europa. Non solo hanno razionato il credito alle imprese, per definizione rischioso, ma hanno preferito l’alternativa dell’investimento in titoli di stato per la felicità del governo.

In numerose banche, addirittura, si è cercato di occultare la situazione cercando di reperire capitali attraverso la vendita di azioni e obbligazioni di varia natura ai risparmiatori, incapaci di valutare il profilo di rischio di tali investimenti.

In questa situazione hanno avuto un’influenza decisiva anche la confusione tra l’attività di banca commerciale e quella di banca di investimento, a causa della quale i risparmi sono stati indirizzati verso il portafoglio degli scommettitori della finanza speculativa, e la progressiva adozione dei vari accordi di Basilea, con i quali si è sostituito il funzionario bancario che aveva la conoscenza del cliente imprenditore con la fredda logica di un software, tarato e progettato per le grandi imprese.

Il recente attacco al sistema delle banche di credito cooperativo operato dal governo Renzi è solo l’ultima tappa di questo percorso, che ha deliberatamente perseguito lo snaturamento del tradizionale sistema di intermediazione creditizia che ha sempre funzionato nel nostro Paese.

Sradicata la banca dal territorio, distrutto il credito popolare e cooperativo, mancava solo l’ultimo colpo a quella parte di sistema più vicino agli artigiani e alle piccole-medie imprese nel momento della crisi.

Fino al gran finale del «bail-in», un meccanismo imposto dall’ Europa, ma sarebbe più giusto dire dalla Germania, che scarica sui privati – azionisti, obbligazionisti, correntisti sopra i centomila euro – tutti i costi dei salvataggi bancari. Il tutto giustificato dalla volontà di non mettere a carico del contribuente gli oneri relativi, peccato che ciò avvenga dopo che altri a casa loro hanno sistemato i pasticci utilizzando risorse pubbliche.

Risultato?

Le banche stanno male.

Le imprese stanno male.

I risparmiatori stanno male.

La Lega come sempre si batte per l’economia reale, fatta da tanti piccoli imprenditori che hanno bisogno di banche radicate e attente alle loro necessità e non di finanza speculativa senza volto e senza responsabilità. Il nostro obiettivo è approvare al più presto una legge sulla separazione bancaria che metta un freno al treno impazzito della speculazione prima che sia troppo tardi, ma che soprattutto riporti nelle nostre mani i nostri soldi.