Una promessa di libertà: il sogno federale
«Lasciate alle regioni e ai comuni tutti i loro denari, all’infuori di quelli che sono necessari al governo centrale per compiere le sue funzioni di interesse nazionale; e allora, solo allora le spese si ripartiranno egualmente, ma ognuno si terrà i suoi quattrini e li spenderà sul luogo come meglio crederà. Allora ci sarà una società libera, finché invece vi sarà un potere centrale incaricato di distribuire strade, ponti, acquedotti, istituti di istruzione, tribunali, reggimenti, vi saranno sempre ingiustizie fra le parti dello Stato.»
Con queste parole ho concluso il mio intervento dal palco di Bologna l’8 novembre 2015, al termine di quella giornata di memorabile mobilitazione in cui abbiamo riempito piazza Maggiore di migliaia di persone, famiglie, idiomi, culture e colori da tutta Italia al grido «Liberiamoci e ripartiamo». Una citazione del grande meridionalista Gaetano Salvemini che ho conservato nella tasca dei pantaloni per tutta quella mattina mentre mi godevo la piazza tra migliaia di persone, felice di perdermi tra saluti, abbracci, consigli, battute, risate.
È così che «preparo» i miei interventi dal palco, anche i più importanti. Ancora una volta a braccio, senza nulla di scritto, a parte quelle poche righe preziose per cercare di far capire una volta di più che battersi per il federalismo – per la difesa delle comunità territoriali che compongono uno Stato centrale burocratico e accentratore, ingordo e predatore, per la necessaria tutela e valorizzazione delle loro tradizioni e delle loro culture, per la difesa della loro sovranità – non equivale a separare il Nord dal Sud.
Al contrario, il federalismo è l’unica medicina per risolvere i grandi mali di questo Paese, è l’unica via per unire nel rispetto del pluralismo e delle differenze i due lembi di questo lunghissimo Paese.
Profeti del Nord e profeti del Sud: Gaetano Salvemini, Guido Dorso e Luigi Sturzo – ma anche Emilio Lussu e Camillo Bellini, Ettore Ciccotti, Napoleone Colajanni e Andrea Finocchiaro Aprile – sono stati profeti inascoltati delle ragioni del Sud, esattamente quanto Carlo Cattaneo e Giuseppe Ferrari, il comunista Guido Fanti e Gianfranco Miglio, Silvio Trentin e Adriano Olivetti, il partigiano Emile Chanoux, Bruno Salvadori e Gilberto Oneto lo sono stati per il Nord. Su tutti loro ha avuto facile gioco chi, governo dopo governo, ha ingrassato lo Stato centrale grazie al divide et impera.
Tra tutti, il pensiero di Salvemini è davvero una miniera di spunti e potrei proseguire con quest’altra citazione: «Il federalismo non è solamente l’unico sistema amministrativo che possa eliminare ogni artificiale squilibrio finanziario ed economico tra le singole regioni italiane, ma è anche l’unico mezzo adatto a fiaccare la reazione, alla quale l’Italia meridionale offre oggi la più solida base».
E ancora: «Supponete che gli interessi locali vengano discussi non a Roma in uffici che nessuno conosce, con criteri di cui nessuno sa nulla, ma vengano trattati nel comune e nella regione interessata, e suscitino l’attenzione di tutti, e tutti siano invitati ad occuparsene per via del referendum; date insomma all’Italia meridionale una costituzione federale». Per Salvemini il federalismo è l’unica via per la soluzione della questione meridionale ed è «moralmente» utile per tutta l’Italia. Anche, ovviamente, per il Nord.
Forse in passato anche noi della Lega abbiamo commesso errori che hanno contribuito a esacerbare la contrapposizione tra settentrione e meridione, ma è ormai un dato storico degli ultimi vent’anni che a ogni nostro tentativo di riforma in senso federale dell’Italia sia corrisposta una reazione isterica, violenta, a volte giudiziaria, dell’ordinamento centrale. In particolare, come rilevava in un suo articolo il professor Stefano Bruno Galli, invincibile è risultata la resistenza degli apparati burocratico-amministrativi dello Stato centrale.
È da qui, da una seria riforma della pubblica amministrazione, che dovremmo ripartire per varare un progetto di federalismo ragionevole e concreto, che valorizzi e liberi dal giogo romano le comunità territoriali.
Dalle false promesse della bicamerale, fino alla campagna di terrorismo mediatico del referendum costituzionale del 2006, senza dimenticare l’insabbiamento dei decreti sui «costi standard» operato dai Governi Monti, Letta e Renzi: potrei scrivere un intero capitolo, peraltro annoiando i lettori, solo per elencare tutte le volte che il sistema Italia ha mortificato le istanze autonomiste e indipendentiste dei territori.
Il risultato è che in moltissimi oggi considerano lo Stato come un nemico, un fastidio, un socio occulto e parassitario. Basti pensare che da un recente sondaggio risulta che la maggioranza dei cittadini veneti sarebbe favorevole a tornare sotto la bandiera di San Marco, mentre la Lombardia e la Liguria traboccano di circoli indipendentisti spesso autonomi dalla Lega quando non apertamente critici verso di noi; in Sardegna ci sono schieramenti indipendentisti che vanno dall’estrema destra all’estrema sinistra, così come in Sicilia, nel Salento e in Campania, dove l’indipendentismo riaffiora corroborato dal mito aggregante del «brigantaggio» ottocentesco. Senza dimenticare la Valle d’Aosta, il Sud Tirolo, la città libera di Trieste: tutti esempi di identità tanto più ostinate a resistere e ad affermarsi, quanto più ottuse e centraliste sono le leggi italiane che le governano.
Tutto ciò conferma quanto l’unità d’Italia del 1861 sia stata una forzatura economica e sociale, portata a termine da una classe politica miope e inconsapevole della realtà delle cose: all’unificazione giuridica e amministrativa di matrice centralista, deliberatamente ispirata al modello napoleonico, non corrispondeva affatto la fisionomia di un Paese che era l’espressione di antiche identità territoriali autonome e indipendenti e di una pluralità di consolidate tradizioni locali. Questa, infatti, era la fisionomia storica di un Paese che si configurava come il prodotto della stratificazione e della sedimentazione di valori «forti» ereditati dall’esperienza delle libere municipalità, delle signorie e dei principati, degli antichi Stati. Una fisionomia plurale, articolata e composita, che si è generata proprio dalla storia delle singole comunità territoriali. Lo Stato unitario e centralista, promosso per decreto il 17 marzo 1861, poggia ancora oggi su una mistificazione storica, sociale e culturale.
In alcuni casi, come il Veneto, parla la storia. In altri bastano i numeri: i cinquantaquattro miliardi di residuo fiscale che la Lombardia vanta ogni anno verso lo Stato, soldi che partono e poi spariscono.
Sono esempi di repressione fiscale, di una vessazione che si configura come una vera e propria rapina, non solo tributaria, ma anche culturale e istituzionale portata a termine dai governi italiani, che non ha fatto altro che alimentare l’esasperazione delle persone; sono politiche di un centralismo ottuso che ancora oggi continua a nutrire i sentimenti secessionisti, a Nord come al Sud, perché ne imbriglia le giuste ambizioni di autonomia, intesa come non dipendenza dallo Stato centrale, e di libertà.
Si prostituisce davvero il senso della politica quando si governa uno Stato imprigionando e soffocando i popoli che lo compongono. Si dimentica davvero che i governi centrali non sono altro che strumenti al servizio delle comunità, che sono libere in qualsiasi momento di cambiare con il proprio voto non solo l’orientamento politico, ma anche la forma delle proprie istituzioni.
Contrapporre sempre alla «ragion di Stato» il «furor di popolo» è stata la grande lezione che mi hanno trasmesso lo stesso Miglio e l’indimenticabile Gilberto Oneto.
Populismo? Non mi offendo, anzi. Piano piano si va infatti affermando una nuova percezione del termine «populismo», che sta finalmente abbandonando i tratti negativi che lo hanno sempre contraddistinto per affermarsi per quello che è: semplicemente la capacità di ascoltare le istanze del popolo. E una rapida panoramica del quadro europeo dimostra come qualsiasi tentativo di soffocare la sovranità dei popoli e delle comunità produce alla fine i risultati opposti a quelli sperati.
Basta prendere in considerazione due casi, speculari tra loro: la Catalogna e la Scozia.
La Catalogna ha strutturato nel tempo una prospettiva indipendentista seria e trasversale, fondata dal basso, sul recupero delle proprie radici. Da anni, l’11 settembre, giorno della festa dell’autonomia catalana, le strade di Barcellona si riempiono di milioni di persone che pacificamente rivendicano il proprio diritto all’autodeterminazione democratica, a cui Madrid ha sempre risposto con la sistematica delegittimazione degli esponenti indipendentisti, boicottando ogni via negoziale con le autorità catalane, fino a minacciare l’arresto di chi si ostina a mettere in discussione l’integrità della Spagna «una y grande».
Tuttavia questo dogmatismo non ha fatto altro che alimentare simpatie sempre più diffuse, condivise e condivisibili, verso la causa separatista, che da vivace minoranza culturale si è tramutata in breve tempo in una maggioranza elettorale che si manifesta ogni volta che i catalani sono chiamati alle urne. L’esasperato muro contro muro oggi ha addirittura portato al blocco istituzionale del Parlamento di Madrid che, proprio per l’ostruzionismo dei fronti indipendentisti basco e catalano, rischia di non riuscire a formare un governo centrale a distanza di mesi dal voto.
È paradossale, ma proprio quei Paesi che hanno più bisogno di cambiamenti radicali per uscire dalla crisi – come Spagna, Grecia e Italia – sono gli stessi in cui i politici hanno più paura delle urne, mentre altrove, dove i conti pubblici sono in buona salute, si ricorre sempre di buon grado al voto democratico, espressione della sovranità popolare.
Emblematico in questo senso è stato lo spirito con cui il premier inglese David Cameron ha affrontato il referendum per l’indipendenza della Scozia dal Regno Unito. Pur dichiarandosi contrario alla secessione, Cameron ha difeso fin dal primo minuto la legittimità di quella consultazione, dimostrando che la democrazia inglese non è una parola vuota, ma una prassi vitale a cui ricorrere ogni volta che il popolo si trova di fronte a un bivio.
Il Regno Unito non ha risposto con le manette o con campagne mediatiche isteriche, ma ha avuto il coraggio di guardare negli occhi le cause del malcontento e ha riconosciuto alla Scozia nuovi e più importanti spazi di sovranità oltre che maggiori risorse a disposizione. Risultato? I cittadini scozzesi hanno votato per rimanere nell’Unione.
Se l’Italia vuole imparare la lezione inglese deve prima di tutto smettere di parlare al singolare. Più che d’Italia, infatti, si deve parlare di Italie, territori che possono guardare a un futuro comune se riconoscono, da Aosta a Santa Maria di Leuca, da Agrigento a Bolzano, le loro differenze non più come una tara, un limite da superare, ma come punti di forza da cui ripartire per ricostruire un futuro comune.
Un futuro che non può che essere federale, facendo leva sulla tutela e sulla valorizzazione delle differenze, che rappresentano una vera e propria ricchezza. Il federalismo si può e si deve fare.
Federalismo vuol dire questo: avvicinare il governo al cittadino, applicando due sacrosanti principi ormai ineludibili, quello della responsabilità e quello del controllo.
Da un lato bisogna responsabilizzare i rappresentanti, vale a dire gli amministratori della cosa pubblica, che è cosa di tutti, lasciando le risorse sui territori, là dove sono state prodotte.
Dall’altro è necessario applicare il principio del controllo diretto da parte dei cittadini-elettori nei confronti dei rappresentanti e delle loro azioni-decisioni. Il controllo si può applicare in modo efficace e diretto solo ai livelli di democrazia più prossimi al cittadino, quelli della dimensione territoriale.
È l’esatto contrario di quanto sta facendo Renzi che, superando Monti e Letta, si è rivelato il più fanatico centralista della storia unitaria, capace peraltro di far passare lo smantellamento della sovranità dei territori come una nota di merito nella battaglia contro la casta.
Il primo colpo, infatti, è stato inferto alle province che, con tutti i loro limiti, garantivano comunque ai territori una coesione, e soprattutto tutelavano i comuni più piccoli, permettendo loro di farsi valere con gli enti superiori della filiera istituzionale come la regione o lo Stato. Alcune province sono addirittura nate prima dello Stato unitario, come per esempio quella di Milano nel 1860. Si tratta del soggetto istituzionale più antico dell’architettura statale. Non solo, ma conservano ancora oggi un forte valore identitario: quando qualcuno si definisce «milanese», «bresciano» o «bergamasco», il riferimento è quasi sempre alla dimensione provinciale. E in tempi di crisi, come quelli che da troppi anni stiamo vivendo, l’elemento dell’identità culturale è una risorsa molto importante.
Il PD ha smantellato la rappresentanza politica delle province – presidenti, consiglieri e assessori – senza però intaccare stipendi e privilegi dei dirigenti pubblici non eletti, dopodiché ha svuotato i bilanci che coprivano servizi fondamentali come l’edilizia scolastica, la tutela del paesaggio, la viabilità secondaria. Infine ha affidato il governo di questa bagnarola a una complicata elezione di secondo livello che ha come unico scopo quello di tagliare fuori i cittadini dalla partecipazione democratica.
Risultato: un risparmio economico, almeno? Nemmeno, secondo la Corte dei Conti infatti l’abolizione delle province costerà due miliardi e duecento milioni di euro in più di prima.
Dopodiché l’attenzione di Renzi è passata all’impianto costituzionale, che con la nuova riforma sarà ancora più centralista del passato: dalla Carta spariscono le competenze concorrenti tra Stato e regioni, la cui sovranità viene ricondotta alla semplice dimensione amministrativa, peraltro esplicitamente menomata dall’introduzione di una tirannica «clausola di supremazia» che permetterà allo Stato centrale di invalidare qualsiasi atto degli enti regionali non in linea con la politica del governo.
Nel frattempo il governo centrale ha fatto cassa con i soldi dei comuni, laureandosi campione dei tagli lineari con il record nel 2015 di otto miliardi e trecento milioni, incamerati sulla pelle dei sindaci e dei cittadini che hanno perso in servizi oppure hanno visto aumentare il biglietto dell’autobus, la retta della mensa scolastica e così via.
Eppure nessuno dei sindaci del PD, presidente dell’ANCI Piero Fassino in testa, ha mosso un dito contro questo saccheggio. Evidentemente è vietato disturbare il manovratore.
E continua a essere impedito agli italiani, per precisa scelta di Renzi, di potersi esprimere sui trattati internazionali e sulle scelte imposte da Bruxelles. Un’assurda direttiva europea che vorrei gli italiani potessero cancellare domani mattina è la Bolkestein, che mette a rischio il futuro di trentamila aziende balneari italiane, e con essa il lavoro di almeno sessantamila donne; nonché quello di centomila commercianti ambulanti che dall’oggi al domani rischiano di essere soppiantati dalla Coop o dalla multinazionale di turno.
Altro che democrazia: il futuro dell’Europa rimane affare di pochi potenti, meglio che gli italiani non sappiano e ubbidiscano, magari mentre il loro governo svende pezzi di mare pescoso in cambio di chissà cosa...
La controriforma Renzi, che smantella tutte le autonomie, rischia di farci precipitare non tanto nella terza, quanto piuttosto nell’ultima Repubblica. Quella in cui rimarranno in piedi solo delle istituzioni relitto, parole svuotate di ogni possibilità di intervento autonomo, mentre tutto il potere si coagulerà nella filiera delle prefetture, la stessa che oggi disciplina la gestione dei profughi senza alcuna trasparenza, a colpi di affidamenti diretti, con infiltrazioni mafiose di cui probabilmente le inchieste giudiziarie non ci hanno raccontato che la punta dell’iceberg.
Fortunatamente i padri costituenti, che venivano da vent’anni di dittatura e conoscevano molto meglio di noi i pericoli delle riforme legali a colpi di maggioranza, hanno previsto il passaggio referendario per le modifiche della Carta costituzionale.
Quello sarà il giorno dei giorni per la nostra democrazia, perché saremo chiamati a decidere non tra destra e sinistra, ma tra democrazia e servitù, tra autonomia e assistenzialismo, tra territori e palazzi, tra produttori e parassiti.
Io ci sarò e quando finalmente avremo rottamato Renzi, da Nord a Sud, volteremo pagina, e per una persona di buon senso sarà sufficiente un solo anno a Palazzo Chigi per ridare fiato ai territori con poche misure urgenti, come per esempio: far applicare la legge sui costi standard insabbiata da Monti, con cui razionalizzeremmo la spesa pubblica su parametri oggettivi (l’unica vera spending review ad ampio respiro); razionalizzare il numero delle province, ma soprattutto riportare la democrazia al loro interno con l’elezione diretta del presidente; chiudere le prefetture, spina dorsale dell’ossatura napoleonica prima e fascista poi dello Stato centrale, con un risparmio stimato fino a due miliardi di euro e con la possibilità di trasferirne il personale nelle questure per liberare poliziotti da impiegare in strada; riformare la filiera fiscale, distribuendo il gettito dei tributi sui territori come in Svizzera: un terzo a comuni e province, un terzo alle regioni e solo l’ultima parte in capo allo Stato per i servizi comuni e per garantire i servizi minimi; incoraggiare e finanziare l’assunzione delle competenze in capo agli enti locali delle materie in cui sono in concorso con lo Stato; rimodellare su base federale e territoriale le graduatorie del settore pubblico.
«Allora» per tornare a Salvemini «ci sarà quella società libera...»