Sono lombardo, voto lombardo
«Non importa che età avete, che lavoro fate, di che tendenza politica siete: quello che importa è che siete – e che siamo – tutti lombardi.»
LOMBARDIA AUTONOMISTA
Quando ripenso agli anni delle scuole superiori mi prende un groppo alla gola. È stato uno dei periodi più felici e allo stesso tempo più complicati della mia vita, il passaggio dall’infanzia alla consapevolezza. Tra i muri del Liceo classico «Manzoni» in via Orazio, nel cuore di Milano, ho imparato ad amare la storia, la letteratura e le lingue antiche, ma, soprattutto, ho avuto la possibilità di confrontarmi con persone ideologicamente agli antipodi. Ho sempre viaggiato in direzione ostinata e contraria, come mi piace ricordare, non ho mai seguito le mode. Forse, anche per questo, non ho cavalcato l’onda sinistroide che animava l’istituto. Insieme a due altri famosi licei milanesi – il «Berchet» e il «Parini» – il «Manzoni» si era infatti guadagnato la fama di essere una delle scuole più a sinistra nel panorama cittadino. Certo, i tempi erano ben diversi rispetto alle contestazioni studentesche di fine anni Sessanta e degli anni Settanta: mi iscrissi al liceo nel 1987, durante il massimo «splendore» della cosiddetta Milano da bere. La politica non era più al centro dei pensieri dei ragazzi, il tempo delle lotte aveva lasciato posto ad attività decisamente più goderecce: gli aperitivi, le discoteche, la moda. Colpa (o merito, a seconda dei punti di vista) di un illusorio nuovo «boom» economico che aveva proiettato gli italiani, e i milanesi in particolare, in una dimensione di benessere in cui la politica non aveva più un ruolo attivo e determinante come in passato. L’aria che si respirava al «Manzoni» tirava comunque a sinistra: una sinistra meno radicale rispetto a qualche anno prima – l’eskimo era ormai passato di moda e quasi più nessuno sventolava le bandiere di Che Guevara – ma tuttavia ancora presente tra le aule e i corridoi.
Mi iscrissi al liceo classico per scelta obbligata: già alle medie avevo capito di non amare le materie scientifiche e di preferire quelle letterarie. Al «Manzoni» mi innamorai del greco e del latino: non di rado riuscivo a strappare anche qualche sette e qualche otto, tra lo stupore di mio padre che non mi vedeva mai a capo chino sui libri. Ogni volta che si presentava al colloquio con i professori ripeteva la stessa tiritera: «I tuoi insegnanti sono contenti, ma davvero non riesco a capire come fai ad andare bene a scuola... Sei sempre in giro!».
Per raggiungere l’istituto mi dovevo sobbarcare un bel viaggio, tra metropolitana e bus. Quando uscivo, mi recavo dalla nonna paterna per il pranzo perché abitava in zona. In classe instaurai un ottimo rapporto con Raffaele, tuttora un grande amico. Al mattino, prima delle lezioni, si consumava il solito teatrino. «Hai fatto la versione di greco, me la passi?» mi chiedeva Raffaele. E io, come da prassi: «No, ho guardato la discesa di Tomba» oppure «la partita del Milan». Insomma, non ero proprio uno studente modello, ma durante le interrogazioni me la sono sempre cavata bene: in aula stavo molto attento, nonostante certi miei atteggiamenti suggerissero l’opposto. Raffaele raccontò infatti a un giornalista che in classe il sottoscritto «faceva un po’ il pirla, gli piacevano gli scherzi tipo rubare i cerchietti alle ragazze; però era sveglio e si vedeva». La storia dei cerchietti l’avevo rimossa...
Come per tutti i ragazzi della mia età, le mie attenzioni erano rivolte al calcio (al Milan in particolare) e... alle ragazze. Già, in quel periodo di ormoni impazziti, le «femmine» sembravano esseri irraggiungibili. Mi ricordo che mi piacevano alcune mie compagne di classe, Monica, Marcella e Alice. Ma i miei amici e io eravamo davvero molto imbranati, ancora troppo ragazzini per fare colpo su fanciulle che già erano donne. Eppure noi sognavamo e non demordevamo. L’occasione buona si presentò durante la gita scolastica a Monaco: eravamo convinti di riuscire a combinare qualcosa, ma nonostante i nostri sforzi di sembrare adulti e credibili, tornammo con la valigia colma di due di picche.
I professori erano preparati e all’altezza del ruolo. E, naturalmente, erano quasi tutti di sinistra. La mia classe però non pullulava di «compagni». Anche per questo gli scioperi non ci hanno quasi mai toccato: eravamo tra i pochi che non disertavano la scuola in occasione degli scioperi più assurdi, «battaglie studentesche» che in realtà erano una mera scusa per «bigiare», come si dice a Milano, per saltare le lezioni. Personalmente, lungi dall’essere uno studente giudizioso, le motivazioni degli scioperi mi sembravano davvero demenziali. Se dovevo «bigiare», preferivo farlo a modo mio. Una volta raggiunta la maggiore età, nel marzo del 1991, iniziai a «bruciare» i libretti delle giustificazioni, visto che potevo compilarli da solo senza più chiedere la firma di mamma o papà. Mi sentivo grande e spesso la scuola mi stava stretta: così capitava di dribblare le lezioni e passare le mattinate alla biblioteca Sormani per rivedermi i concerti del mio amato De André, oppure a giocare a biliardo in un fumoso locale di via Torino.
La mia carriera liceale non si rivelò comunque tutta rosa e fiori. Amavo la storia, il greco, il latino, ma le materie scientifiche mi hanno spesso dato diversi grattacapi. Non capivo una mazza di fisica e chimica. E al terzo anno mi beccai un meritatissimo esame di matematica a settembre. Passai un’estate terribile, trascorsa tra radici quadrate ed equazioni. L’esame poi andò bene, ma la matematica mi era indigesta, finché legata a meri calcoli lontani dalla vita reale. Diciamocelo, a cosa cavolo serve una disequazione? Altro è studiare, approfondire e voler applicare la flat tax al sistema fiscale italiano: questa è una matematica che mi piace.
Tornando a quegli anni, il mio tifo per il Milan si fece ancora più acceso. L’arrivo di Silvio Berlusconi alla presidenza del club aveva ridato entusiasmo a un ambiente ancora depresso per le due retrocessioni in Serie B di inizio anni Ottanta. Il Cavaliere fece le cose in grande stile e nel giro di poco tempo i rossoneri tornarono a dominare in Italia e nel mondo. Era il Milan dei tre olandesi – Van Basten, Gullit e Rijkaard –, di Tassotti, Costacurta, Baresi e Maldini e degli schemi futuristici di Arrigo Sacchi. Iniziai a seguire la squadra anche in trasferta. Ne ricordo una davvero terribile. A Bergamo, contro l’Atalanta, la cui tifoseria è storicamente nemica dei colori rossoneri. Arrivammo alla stazione con un treno speciale: ci fecero raggiungere lo stadio a piedi, camminando una manciata di chilometri nel cuore della città. Durante il tragitto, gli ultras bergamaschi ci tirarono addosso di tutto: sassi, accendini, lattine. Ho rimosso addirittura il risultato della partita, tanta fu la paura di quel pomeriggio che nelle mie intenzioni doveva essere semplicemente consacrato al calcio. Peccato invece non aver partecipato all’esodo di massa a Barcellona, quando, nel 1988, il Milan vinse la sua terza Coppa dei Campioni battendo 4-0 la Steaua Bucarest. Vidi la partita in televisione in via Procaccini, con il commento del mitico Bruno Pizzul, insieme ad alcuni amici. Non dimenticherò mai la notte passata a fare baldoria per le vie della città: per noi giovani milanisti, digiuni di successi da troppi anni, fu la partita della svolta, l’inizio della grande epopea rossonera.
La mia vita cambiò radicalmente durante il quarto anno di liceo, quando decisi di iscrivermi alla Lega. Era il 1990. Rimasi colpito da un manifesto sul quale troneggiava lo slogan «Sono lombardo voto lombardo».
In casa mia la politica entrava di rado, ma a scuola cominciai a scambiare opinioni con diversi amici e conoscenti. Nonostante la frequentazione di un ambiente «sinistroide», ero rimasto affascinato dai temi dell’identità e dell’autonomia, due baluardi attorno ai quali ruota tuttora l’ideologia leghista. All’epoca, la Prima Repubblica si trovava ormai al capolinea – a breve sarebbe arrivato lo «tsunami» Tangentopoli –, e nel Nord il vento leghista soffiava forte invocando il federalismo e contestando la classe politica. Il mio primo contatto con la Lega, come anticipato, avvenne in via Vespri Siciliani. Acquistai subito una sciarpa e un bel po’ di adesivi. Alla prima riunione riservata ai giovani ci presentammo soltanto in tre: io del «Manzoni», un altro Matteo che frequentava il «Berchet» e Guido del «Parini». Strano ma vero, eravamo tutti liceali. Mi ero infatuato del carisma di Umberto Bossi, del quale non perdevo un comizio in televisione, e avevo divorato il libro di Daniele Vimercati I lombardi alla nuova crociata. Così, spinto dal nuovo «vento del Nord», decisi di «scendere in campo» durante l’ultimo anno di liceo, quando si celebrarono le elezioni studentesche: lanciai una lista autonomista che addirittura osava utilizzare il simbolo della Lega! Oltre a me, si erano avventurati in quella «folle» iniziativa pochi altri impavidi, tra i quali una mia compagna di classe, Carmen.
La notizia fece il giro di Milano, e non solo: non era mai successo prima che al «Manzoni», liceo da sempre orientato a sinistra, si presentasse una lista apertamente schierata per il federalismo e, di fatto, associabile alla Lega. Ci guadagnammo pure un articoletto sul quotidiano «la Notte», segno che avevamo combinato qualcosa di clamoroso.
Le elezioni, come prevedibile, non furono un successo: conquistammo circa settanta voti su quasi ottocento studenti. Ma quell’esperienza mi servì per imparare a parlare in pubblico e a non aver paura. Volevo difendere e diffondere le mie idee. Il preside mi concesse – incredibile a dirsi, ma molto democraticamente – il permesso di appendere in corridoio un poster che parlava di federalismo e libertà. Firmai Matteo, seconda D (tecnicamente ero al secondo anno di liceo, l’equivalente della quarta superiore). Apriti cielo: pochi minuti dopo l’affissione del manifesto, nella mia classe fecero irruzione tre o quattro ragazzotti di sinistra, al grido «Il razzismo non entrerà mai in questa scuola». Il loro obiettivo era prendermi a pugni: la rissa non scoppiò per merito dei professori, che senza troppi complimenti misero alla porta quei quattro ceffi violenti.
Diventai una sorta di mosca bianca al «Manzoni». I manifesti che appendevo venivano stracciati a tempo di record e, in qualche occasione, mi beccai pure qualche bella spinta e fui oggetto di scritte poco gentili. Il mio impegno politico mi mise in cattiva luce davanti alla maggioranza sinistroide: mi chiamavano, sprezzanti, «Salvini il leghista». Non ero ben visto dall’«intellighenzia» liceale, tanto che, durante un’occupazione, fui cacciato in malo modo dagli estremisti di sinistra. Gli scioperi, come detto, non mi avevano mai appassionato, ma autogestioni e occupazioni erano momenti particolari. L’idea di partecipare a lavori collettivi e dormire fuori casa mi incuriosiva, e quindi mi presentai con il sacco a pelo per dare il mio contributo e passare la nottata a scuola. Ma avevo sopravvalutato il buonsenso e il finto buonismo dei «compagni»: per me, Matteo il leghista, non c’era posto e rientrai a casa.
La mia carriera liceale terminò nell’estate del 1992. All’esame di maturità ottenni 48/60 portando storia e greco, e nessuno può togliermi dalla testa il fatto che il mio impegno politico mi abbia danneggiato. A causa delle mie idee, non mi ero attirato le simpatie dei professori, fatto questo che mi viene confermato ancora oggi da molti studenti, ad esempio sul tema immigrazione: se non sono d’accordo con la professoressa di italiano passano dei brutti cinque minuti. Altro che «buona scuola» di Renzi, qui non si tratta di fare concorsoni truffa per assumere migliaia di docenti e lasciarne a casa altrettanti, magari più bravi ed esperti. Io penso a una scuola con più fondi, più legata alle realtà locali e al mondo del lavoro, dove venga premiato il merito, ma anche punita l’incapacità o l’ignoranza. Ci sono troppi bravi insegnanti mortificati nella dignità, più ancora che nel portafoglio, da un sistema scolastico immobile, centralizzato e sindacalizzato. Proprio in quegli anni ho imparato a combattere. Anche a casa non ho trovato terreno fertile: i miei genitori non mi hanno mai ostacolato, ma allo stesso tempo non hanno mai appoggiato in pieno la mia «svolta». Mamma e papà hanno sempre seguito la politica in modo piuttosto distaccato e, anche per questo, non riuscivano a concepire come potessi trascorrere intere nottate ad appiccicare manifesti in giro per la città. Mio padre era stato seguace del liberale Giovanni Malagodi, e poi iniziò a votare per i Repubblicani e infine per la Lega, ma mai nei panni di iscritto o di «militante».
Per raggiungere la sede della Lega in via Vespri Siciliani dovevo inforcare la bicicletta quasi tutte le sere, pure d’inverno con il freddo che tagliava le mani e paralizzava il viso. I miei genitori la consideravano una bizzarria vera e propria: «Ma esci con questo tempo?», mi chiedeva papà, mentre mamma mi osservava con sguardo preoccupato. Ma ormai avevo preso la mia decisione, e nessuno poteva fermarmi.
Insieme a Matteo e Guido, i due ragazzi che conobbi alla prima riunione, iniziammo a lavorare duro e a farci conoscere in sede, ubicata al primo piano di un edificio che ospitava comuni appartamenti. Anche il nostro «quartier generale» assomigliava a un’abitazione come tante: era composto da una sala all’ingresso – che utilizzavamo per le riunioni e che poteva ospitare una quarantina di persone –, un’altra stanzetta destinata a magazzino e il bagno, spazio trasformato in una sorta di laboratorio per preparare i secchi con la colla, fondamentale per attaccare i manifesti.
Il lavoro era piuttosto semplice: rovesciavamo dell’acqua nei contenitori a cui aggiungevamo una polvere e mischiavamo il tutto utilizzando delle vecchie scope. Il risultato dava vita a un liquido appiccicoso che finiva sui vestiti lasciando un alone biancastro. All’epoca i social network non esistevano e, raramente, gli esponenti della Lega venivano invitati ai dibattiti televisivi. I manifesti e le scritte sui muri erano il nostro principale strumento di comunicazione: altri tempi, altro «marketing».
Intanto, al di fuori della politica, nella mia vita iniziarono ad accavallarsi una serie di eventi che ritengo importanti. Intorno ai diciotto anni mi iscrissi all’AVIS come donatore di sangue, una scelta intelligente e di cui vado particolarmente orgoglioso. Sempre nel medesimo periodo, però, forse per sentirmi più grande, cominciai anche a fumare sigarette, la più grande cazzata che potessi fare. Non è finita: durante una vacanza in Val Rendena, in Trentino, nei giorni del ponte di Sant’Ambrogio, conobbi la prima fidanzatina seria, Francesca, che frequentava un altro liceo di Milano. Con lei ho passato anni bellissimi, ricordo la prima vacanza a Minorca con la musica dei Cranberries e il capodanno a Salisburgo sotto la neve a giocare e perdere al casinò. Oggi Francesca è sposata e fa il medico. Ha tre bambini e ogni tanto ci messaggiamo ancora. I miei genitori, e soprattutto mia sorella Barbara, tirarono un sospiro di sollievo, perché temevano che la passione politica mi condannasse a non trovare uno straccio di donna per l’eternità...
Ma l’incontro che mi cambiò la vita si consumò qualche mese dopo, nel 1991. In quell’anno conobbi personalmente Umberto Bossi. Ero emozionatissimo. Per me Bossi era un rivoluzionario. Lo incontrai nella sede milanese di via Vespri Siciliani e, per l’occasione, indossavo un’imbarazzante salopette. In ogni caso, il mio look bizzarro non scalfì l’entusiasmo di Bossi, che con il solito ardore spronò tutti gli iscritti a dare il meglio di loro stessi. Il suo ottimismo era prorompente. «Vinceremo!» disse a proposito delle elezioni comunali che si sarebbero tenute entro breve a Milano. Lo prendemmo tutti per matto, io per primo, ma la storia gli diede ragione. Il messaggio sul federalismo e sull’identità cominciava a fare breccia nei cuori della gente.
Ma cosa si intende per identità? È un concetto difficile da spiegare in una lingua, l’italiano, in cui la parola «patria» viene sempre utilizzata come sinonimo di «nazione», se non addirittura di «Stato». Io preferisco parlare di «radici», ossia quel sentimento che mi permette di entrare in contatto non solo con il mio passato, ma anche con le vite di chi prima di me ha percorso le stesse strade e gli stessi spazi dove cammino oggi.
L’identità è un impasto di territorio in senso fisico, di tradizioni, di lingue locali dure a morire. Si tratta di un termine fondamentale, di un baluardo a cui aggrapparsi soprattutto oggi, un periodo storico in cui si corre il grave rischio di finire trasformati in «risorse anonime», in pezzi di ricambio della globalizzazione, delocalizzabili e ricollocabili all’occorrenza a seconda delle necessità del mercato internazionale. I tedeschi usano la parola «Heimat» per indicare questo nido, necessariamente intimo, umano e paesaggistico insieme, che costituisce la radice della personalità di ognuno di noi. Per me, il nido, l’inizio di tutto, la radice, è la Milano di quand’ero bambino, dove ogni cosa mi sembrava immensa, come la prima volta che ho visto il Duomo; la Milano degli anni del liceo che percorrevo in lungo e in largo con gli amici; la Milano delle prime soddisfazioni e la Milano dove ho combinato anche le mie prime cazzate; la Milano dei derby allo stadio con mio padre; la Milano del primo bacio in via Melchiorre Gioia.
E la Milano che mi ha fatto incontrare la Lega, nel periodo in cui la «Milano da bere» stava per tramontare, e che a breve sarebbe stata soppiantata dalla «Milano delle manette». È difficile spiegare, come capita per tutti i grandi amori, cosa mi abbia spinto, ancora immaturo diciassettenne, verso la bandiera con il guerriero. Con il senno del poi, posso dire che all’inizio fui attratto soprattutto dalla «trasversalità liberatoria», la caratteristica principale della Lega degli anni Novanta. I miei coetanei si dividevano principalmente tra destra e sinistra: non ho mai avuto preclusioni di sorta, ho sempre frequentato persone di ogni idea, ma quando si finiva a parlare di politica venivo spesso assalito da un senso di noia, estrema proprio come le ideologie dei miei interlocutori. Nel giro di pochi minuti il discorso si imbottigliava sempre in direzione di un passato troppo ingombrante: la guerra, i partigiani, gli anni di piombo, gli Inti-Illimani...
A me invece interessava discutere di ciò che stava accadendo sopra le nostre teste di liceali sprovveduti e sognatori: del crollo dell’Unione Sovietica, del mio atlante geografico che nel giro di due anni sarebbe diventato un libro storico. La Lega era l’unico partito che affrontava a muso duro il presente: non poggiava su alcuna ideologia nostalgica e stantia, ma su basi concrete che permettevano di riscoprire e riaffermare la propria identità e anche la propria sovranità. E quindi, di conseguenza, rendeva legittima la possibilità di disobbedire, di ribellarsi nei confronti di un potere che si scopriva sempre più corrotto e sfruttatore. Il «vento del Nord» era inoltre alimentato dalle parole del professor Gianfranco Miglio, un altro baluardo imprescindibile della mia formazione.
Trasversalità, disobbedienza e il gusto di essere temuti dal potere costituito facevano della Lega un mondo a sé. I «dinosauri» della politica ci disprezzavano, allora come oggi, considerandoci «barbari incolti». Il quadro politico italiano, proprio come ora, assomigliava sempre più a un dipinto di stampo cubista: un panorama frammentario, sconnesso, fatto di ex leader scomposti, di seconde file in fregola di carriera, di parole confuse e incomprensibili. Ma, sopra tutti, si ergeva la Lega. Esattamente come in Guernica, uno dei capolavori di Picasso: in alto, al centro dell’opera, campeggia una lampadina accesa, una luce che illumina tutta la scena. La Lega era quella lampadina. E lo è ancora oggi.
Una volta chiusa la carriera di liceale, la passione politica aumentò ancora: sentivo l’esigenza di trasformare gli ideali in doveri concreti quotidiani, assumendomi direttamente la responsabilità. Fu una promessa di libertà che ancora oggi mi commuove e mi innamora: ciò che sono diventato lo devo alla perseveranza e alla passione di quel ragazzo che ha sempre creduto nei valori della Lega, della libertà e della giustizia, e che non ha mai chinato il capo di fronte alle difficoltà.
A lungo ho tenuto il piede in due scarpe: da una parte la politica, l’attività che assorbiva quasi tutto il mio tempo, dall’altra l’università. Dopo il «Manzoni» decisi infatti di iscrivermi alla facoltà di Scienze politiche della Statale di Milano. Il mio percorso iniziò nel migliore dei modi: diedi subito tre esami, ma pochi mesi dopo mi accorsi che quella non era la mia strada, anche per una questione ambientale. La prima volta che mi recai in ateneo, in via Conservatorio, venni colpito immediatamente dallo striscione del collettivo universitario di sinistra che aveva occupato stabilmente un’aula. Lo stesso collettivo aveva addirittura il potere di «veto» sugli incontri organizzati in biblioteca. Roba da matti. Inutile dire che me ne lamentai subito in presidenza, dove tutto era nelle mani di Alberto Martinelli che poi sarebbe diventato esponente del Partito democratico. Ovviamente Martinelli non mosse un dito, tanto che quando organizzai un incontro pubblico fu necessario l’intervento dei carabinieri perché gli estremisti rossi cercarono di gonfiarci di botte.
L’anno seguente passai alla facoltà di Lettere, ma il clima politico era lo stesso che avevo trovato a Scienze politiche. A soli cinque esami dalla laurea in Scienze storiche mollai il colpo: non aver portato a termine gli studi rimane uno dei miei grandi rimpianti. Ancora oggi ricordo con piacere alcuni professori, come quel Giulio Sapelli che mi diede trenta in Storia economica e che ancora oggi sento e stimo per la lucidità delle sue idee e per il coraggio con cui le espone. Ma avevo molti, forse troppi, interessi. Mi riposavo, per modo di dire, soltanto durante le brevi vacanze con gli amici. Ricordo in particolare un viaggio in Irlanda, bagnato da fiumi di Guinness: partimmo da Milano in quattro a bordo di una Fiat Tipo, non proprio la vettura ideale per percorrere migliaia di chilometri. Ma quando si è giovani, le comodità non contano: è importante lo spirito con cui si affronta l’avventura. Purtroppo non ho mai fatto un viaggio in interrail: è un’esperienza che mi manca.
Durante quelle estati spensierate visitai, sempre con lunghi viaggi in macchina, anche i Paesi Baschi, la Corsica, la Croazia e la Bretagna e insieme alla mia combriccola di amici partecipammo a parecchie edizioni dell’Oktoberfest a Monaco di Baviera. Un anno, a causa della pioggia incessante, il campeggio dove alloggiavamo si riempì d’acqua perché un lago era tracimato. Le nostre tende si ridussero a un ammasso di fango: per fortuna, trovammo alcune roulotte lasciate aperte e incustodite, perché i proprietari, alcuni tedeschi, erano finiti chissà dove dopo aver tracannato birra come marinai. Non dovrei confessarlo, ma dormimmo lì, beati e riparati dalle intemperie.
Allo svago dedicavo però solo pochi giorni all’anno. Sopra ogni altra cosa troneggiava la passione politica, davvero travolgente ieri come oggi. L’estate dopo il liceo, per pagarmi le vacanze, consegnai pizze a domicilio. Entrai in tante case, fu un’esperienza umana che ricordo ancora, come ricordo ancora che un cliente una sera, dopo la consegna, mi diede diecimila lire: tanto per quei tempi. Quel cliente era Gianfranco Funari, che allora abitava in corso Garibaldi e che in seguito mi intervistò tante volte. Lui magari non si ricordava di quella pizza, ma io sì, tanto che da allora cerco di non risparmiare mai un sorriso e una mancia ai ragazzi che fanno quel lavoro. Per le consegne utilizzavo la macchina di seconda mano che i miei mi avevano regalato per il diciottesimo compleanno. Si trattava di una Austin Metro azzurra: credo che in tutta Italia ce ne fossero una decina, non di più. Quell’auto mezza scassata si rivelò fondamentale durante la campagna elettorale a favore di Formentini, e non solo perché l’avevo tappezzata di adesivi della Lega (oltre a quelli del Milan, naturalmente): era il mezzo di trasporto per la colla e i manifesti. Una volta, durante una vacanza estiva in Trentino, per scommessa salimmo su quell’auto in dodici, per spostarci a venti all’ora dalla pineta al campo sportivo di Caderzone. Strada interna e deserta, nessun pericolo per noi e per altri, non preoccupatevi. Anzi ragazzi, vista la potenza delle macchine di oggi, occhio al volante: niente bottiglie e niente telefonino!
Nel 1993 collezionai per caso la mia seconda presenza televisiva. Sempre sulle reti Mediaset. Il solito colloquio conoscitivo si tenne addirittura a Roma. Mi presero e così diventai un concorrente del Pranzo è servito. Mi feci accompagnare all’ombra del Colosseo da un compagno di scuola, pronto per affrontare le domande di Davide Mengacci. Confesso: nei corridoi sognavo di incrociare Corrado, ma da alcuni anni non era più lui il padrone di casa.
Il gioco non richiedeva particolare preparazione, bensì una buona dose di fortuna: era necessario rispondere ad alcune domande e poi pigiare un tasto che azionava una specie di slot machine che attribuiva ai concorrenti varie portate. Per vincere era necessario allestire un menu completo, dal primo alla frutta, senza collezionare troppi doppioni. Fatali furono i formaggi – di cui peraltro sono golosissimo – che uscirono a raffica. Troppe calorie, la mia esperienza televisivo-gastronomica si concluse senza gloria.
Durante la chiacchierata preliminare di rito con il presentatore, dissi che arrivavo da Milano e quando Mengacci mi chiese di cosa mi occupassi, risposi scherzando: «In questo periodo, fra esami e lavoretti, sono un nullafacente». Una frase ironica, come è nel mio stile, ma che oggi i miei avversari politici puntualmente rispolverano per attaccarmi. E fatevi una risata ogni tanto!
A proposito di lavori giovanili, archiviata l’esperienza da pony-pizza fui reclutato tra i ragazzi del Burghy in Galleria Vittorio Emanuele, nel cuore di Milano, la catena italiana di fast food, tradizionale luogo di incontro dei «paninari», successivamente acquistata da McDonald’s. A casa conservo ancora la divisa, una salopette giallorossa.
Da Burghy ho imparato a fare di tutto, dalla pulizia del locale alla preparazione di panini e insalate, per non dimenticare i fagottini alla mela da riscaldare nel microonde. L’ambiente era pulito, giovane, divertente. Talvolta alcuni amici mi venivano a trovare e per loro scappava qualche patatina in più. Andai avanti parecchi mesi, tutto ciò a discapito degli studi: «Arriverà la nostra libertà prima della mia laurea» ho dichiarato in un’intervista ormai piuttosto nota. Non ho cambiato idea, per il dispiacere dei miei genitori. Purtroppo, o per fortuna, mi ero messo in testa di fare mille cose contemporaneamente. Lo studio doveva trovare spazio tra i numerosi lavoretti, la politica e persino il servizio militare. Non mi sono fatto mancare proprio nulla: fui arruolato nel 7° scaglione 1995, fanteria, centro di addestramento reclute a Casale Monferrato e poi nella caserma di corso Italia e in piazza Firenze, a Milano. Ricordo le zanzare di Casale Monferrato, le esercitazioni a Novara con un fucile Garand che pesava come una gru. Alcuni compagni di caserma che sento ancora oggi, le domeniche in fureria ad ascoltare Ligabue, l’armadietto che non si chiudeva con dentro di tutto. Dodici mesi forse oggi sarebbero troppi, ma io penso che quattro mesi di servizio civile o militare farebbero bene a tanti ragazzi per insegnare quello spirito di rispetto, sacrificio e convivenza che purtroppo è venuto a mancare.