XVIII.
— Già, io divago sempre — cominciò egli. — Ho molto riflettuto. Su molte cose ho adesso un punto di vista diverso e vorrei dire tutto ciò. Basta, ce ne andammo in città. In città la vita è meno penosa per gl'infelici. In città un uomo può vivere cent'anni e non accorgersi d'esser morto e putrefatto da un gran pezzo. Non ha mai il tempo di raccogliersi, è sempre occupato. Gli affari, le relazioni di società, la salute, l'arte, la salute dei bambini, la loro educazione. Ora bisogna ricevere i tali e i tal altri, ora andare da questi e da quelli; ora bisogna veder la tal cosa, o udire la tal altra. In città ad ogni momento vi è una persona celebre e a volte due e magari tre, che non si può mancare di conoscere. Ora bisogna curarsi, o curare qualcun'altro, il precettore, il ripetitore, la governante, e la vita è vuota, è tutta una vuotaggine. Dunque si viveva così e sentivamo meno la sofferenza di quel nostro vivere insieme. Oltre a ciò nei primi tempi c'era un immenso da fare: stabilirsi in una città nuova, in una casa nuova, e poi ancora occupazioni per trasferirsi dalla città in campagna e dalla campagna in città.
Passò l'inverno e nell'inverno seguente accadde una circostanza che non fu notata da nessuno e che pareva insignificante, ma che fu tale da trascinare dietro di sè tutto ciò che poi avvenne.
Mia moglie era sofferente e i medici le vietarono un nuovo concepimento e le insegnarono il mezzo di evitarlo. Ciò era per me disgustoso. Io lottai, ma essa con un'ostinazione piena di leggerezza rimase ferma nel suo proposito e io mi sottomisi: l'ultima giustificazione della nostra vita animalesca, i figli, era tolta via, e la nostra vita diventò ancora più abbietta.
Al contadino, all'operaio i figli sono necessari: per quanto sia loro penoso il nutrirli, pure ne hanno bisogno e quindi le loro relazioni coniugali hanno una giustificazione. Ma a noi che già abbiamo figli, altri figli non sono necessari: essi sono inutili preoccupazioni, spese, nuovi coeredi per i figli già nati, un peso, insomma. E la giustificazione della nostra vita animalesca è finita. O ci liberiamo artificialmente dei figli o li consideriamo come una sventura, come la conseguenza di un'imprudenza, il che è ancora più abbietto.
Nessuna giustificazione. Ma siamo così decaduti moralmente che non sentiamo più neppure il bisogno di una giustificazione.
La maggior parte delle persone dell'attuale buona società si dà a questo genere di turpitudine senza il minimo rimorso di coscienza.
Rimorsi non ne ha nessuno perchè col nostro modo di vivere la coscienza non esiste o esiste soltanto la coscienza dell'opinione del mondo e del codice penale, se questa si può chiamare coscienza. Ma in questo caso non si trasgredisce nè all'una nè all'altra: non c'è da aver rimorsi davanti all'opinione del mondo, tutti fanno così, e Maria Pavlovna e Ivan Zakharic. Altrimenti si creano dei mendicanti o ci si deve privare della possibilità d'una vita mondana. Aver paura o vergogna del codice penale, ma no! Le fanciulle dell'infima classe e le ganze dei soldati gettano i bambini negli stagni e nei pozzi; quelle lì, si capisce, bisogna gettarle in prigione, ma noi facciamo le cose a tempo e pulitamente.
Così vivemmo ancora per due anni. Il mezzo di quei dottori farabutti cominciava evidentemente a produrre i suoi effetti: mia moglie era fisicamente imbellita e ingrassata, come l'anno che sta per finire, riveste una nuova bellezza. Essa lo sentiva e si occupava molto di sè. In lei si andava sviluppando una certa bellezza provocante che turbava gli uomini. Essa era in tutta la pienezza della donna di trent'anni che non ha più figli, si nutre bene ed è eccitata. E comunicava la sua eccitazione. Quando passava in mezzo agli uomini attirava i loro sguardi. Era come una cavalla ben nutrita, che è stata un pezzo ferma, attaccata alla carrozza e a cui si sia tolto il freno. Non aveva freno come non ne hanno 99 su 100 delle nostre donne. Io lo sentivo e ne ero atterrito.