X.

Passarono ancora due settimane. Ivan Ilijc non si alzava più dal divano. Non voleva stare a letto e stava sul divano. E stava quasi tutto il tempo sdraiato, col viso rivolto al muro, e soffriva solo solo quelle indicibili torture, e solo solo ripensava sempre gli stessi inesprimibili pensieri. «». E una voce interna rispondeva: «». «». E la voce rispondeva: «». E oltre a questo nulla.

Dal primo cominciare della malattia, dal tempo in cui per la prima volta era andato dal medico, la sua vita s'era divisa in due opposti stati d'animo che si alternavano l'un con l'altro: ora era la disperazione, l'attesa della morte incomprensibile e tremenda: ora era la speranza, l'interessamento che provocava in lui l'osservazione del funzionamento del proprio corpo; ora gli si metteva davanti agli occhi talvolta il rene, talvolta l'intestino che da tempo si rifiutavano a fare il loro obbligo; ora era soltanto l'idea della morte, tremenda e incomprensibile, che non si poteva evitare.

Questi due stati d'animo si alternavano fin dal principio della malattia: ma quanto più la malattia procedeva tanto più incerta e fantastica diventava l'immagine del rene o dell'intestino e tanto più reale la coscienza della morte che si avvicinava.

Bastava che pensasse a quello che era tre mesi prima e a quello che era adesso, che pensasse come a grado a grado discendeva dalla montagna, perchè fosse distrutta ogni possibilità di speranza.

In quegli ultimi tempi, nella solitudine in cui si trovava, sdraiato col viso contro la spalliera del divano, solitudine nel centro di una città popolosa, fra i suoi molti conoscenti e fra la sua famiglia, solitudine della quale in nessun posto si sarebbe potuto avere una più completa, nè in fondo al mare, nè sulla terra, in quegli ultimi tempi di quella orrenda solitudine, Ivan Ilijc viveva soltanto con l'immaginazione nel passato. Uno dopo l'altro gli passavano davanti agli occhi i quadri del suo passato. Cominciava sempre col vedere quelli dei tempi più prossimi ed era poi ricondotto ai più lontani, a quelli della sua infanzia e in quelli si fermava. La marmellata di susine nere che ora gli davano da mangiare gli rammentava le susine crude, quelle susine francesi, tutte grinzose, della sua infanzia, quel loro sapore particolare, e la saliva che gli veniva in bocca quando arrivava al nocciolo: e questi ricordi dei sapori evocavano tutta una serie di ricordi di quel tempo: la bambinaia, il fratello, i giocattoli. «», diceva fra sè Ivan Ilijc e di nuovo tornava al presente. I bottoni della spalliera del divano e le pieghe del marrocchino. «». Di nuovo i suoi pensieri tornavano all'infanzia e di nuovo Ivan Ilijc ne soffriva e si sforzava di scacciarli e di pensare ad altro.

E insieme a questo giro di ricordi, nella sua mente sorgevano altri pensieri: come s'era aggravata, come era cresciuta la sua malattia. Più guardava indietro, più c'era vita. Più era buona la vita e più era intensa. Gioia e vita andavano insieme. «», pensava. Un solo punto luminoso laggiù, al principio della vita, e poi sempre più nero, più nero e il tempo fuggiva sempre più veloce. «», pensava Ivan Ilijc. E quest'immagine della pietra che cade giù con velocità sempre aumentata gli si ficcò in mente. La vita, catena di sofferenze sempre maggiori, precipita sempre più presto, più presto verso la fine, la sofferenza suprema. «». Trasaliva, si agitava, voleva resistere, ma già sapeva che era impossibile resistere, e con gli occhi stanchi dall'osservare ma che non potevano non osservare ciò che stava davanti a lui, guardava la spalliera del divano, e aspettava aspettava quella tremenda caduta, l'urto, la distruzione. «», pensava, «», diceva fra sè, ricordandosi tutta la correttezza, la rettitudine, il decoro della sua vita. «», e sorrideva, come se qualcuno potesse veder quel sorriso ed esserne ingannato. «».