XVII.
— Così vivevamo. Le nostre relazioni diventavano sempre più ostili, e finalmente giunsero a tal punto che non erano i dissensi che producevano l'odio, ma l'odio che produceva i dissensi: essa stava per dire una cosa e io già la contraddicevo prima che l'avesse detta, e lo stesso faceva lei.
Ma al quarto anno eravamo già a tale che comprendevamo l'impossibilità di star d'accordo. Smettemmo perfino di tentare di condurre un discorso sino alla fine. Sulle più piccole cose, specialmente quando si trattava dei bambini, ognuno rimaneva con la sua opinione. Come ora ricordo, le opinioni che io sostenevo non mi stavano talmente a cuore che non avessi potuto abbandonarle; ma essa era dell'opinione contraria e avrei dovuto cedere, cedere a lei. Questo io non potevo fare e lei neppure. Essa era sempre persuasa di aver ragione contro di me e io credevo sempre di esser un santo a paragone di lei. Sicchè eravamo quasi ridotti al silenzio o a conversazioni che anche gli animali, credo, potrebbero avere fra loro: «Che ore sono? È tempo di andare a dormire. Che c'è di pranzo oggi? Dove si va? Che c'è nel giornale? Bisogna chiamare il dottore. Mascia ha mal di gola». Bastava allontanarsi di un capello da questo stretto cerchio di argomenti per andar subito in furore. Avvenivano urti e ci scambiavamo espressioni di odio per il caffè, per una tovaglia, per una carrozza, per un giuoco di carte, sempre per motivi che non potevano avere alcuna importanza nè per questo nè per quello. In me, almeno, l'odio verso di lei spesso ribolliva terribilmente. A volte osservavo come lei mesceva il the, come dondolava un piede, come portava il cucchiaio alla bocca, come soffiava sui liquidi caldi, come li aspirava, e l'odiavo per questi suoi gesti come se fossero cattive azioni. Io non notavo allora che i periodi d'irritazione si succedevano in me a intervalli regolari, alternandosi con periodi che noi chiamavamo di amore: un periodo di amore, un periodo d'irritazione; un violento periodo di amore, un lungo periodo d'irritazione; un periodo più debole di amore, un corto periodo d'irritazione. Allora non capivamo che quest'amore e questa irritazione erano il medesimo animalesco sentimento, soltanto con differenti fini. Vivere così sarebbe stato terribile se ci fossimo resi conto della nostra situazione; ma noi non capivamo e non ce ne accorgevamo. La salvezza e insieme il supplizio dell'uomo stanno in ciò che, quando egli vive irregolarmente, può ingannare sè stesso per non vedere la miseria della sua posizione. Così facevamo anche noi. Essa tentava stordirsi sforzandosi di occuparsi, di esser sempre affaccendata: il maneggio della famiglia, la casa, i suoi vestiti e quelli dei bambini, la loro istruzione, la loro salute. Anch'io avevo la mia ebbrezza: ebbrezza pel mio ufficio, per la caccia, per il giuoco. Tutt'e due eravamo continuamente occupati. Tutt'e due sentivamo che quanto più eravamo occupati più cresceva la nostra ostilità uno verso l'altro. «Tu puoi bene far la smorfiosa — pensavo — ecco, mi hai tormentato con le tue scene tutta la notte e io domani ho una seduta». — «Tu te la spassi — essa non soltanto pensava, ma diceva — e io tutta la notte non ho dormito per via del bambino». Queste nuove teorie sull'ipnotismo, le malattie della psiche, l'isterismo, tutto ciò non è una semplice stupidaggine, ma una stupidaggine cattiva, turpe. Di mia moglie Charcot indubbiamente avrebbe detto che era isterica, di me avrebbe detto che ero un anormale, e di certo si sarebbe messo a curarci. Ma non c'era nulla da curare.
Così vivevamo in un continuo inganno senza accorgerci della situazione nella quale ci trovavamo. E se non fosse accaduto ciò che accadde, io avrei seguitato così fino alla vecchiaia, e, morendo, avrei creduto di aver menato una vita buona, non assolutamente buona, ma neppure cattiva, così, come quella di tutti: non avrei compreso la sventura senza fondo e l'ignobile menzogna nelle quali mi dibattevo.
Eravamo due galeotti che si odiavano l'un l'altro, legati alla stessa catena, avvelenando la vita l'uno dell'altro e sforzandosi di non accorgersene. Io allora non sapevo che 99 su 100 coniugi vivono in un tal inferno simile a quello in cui vivevo io e che non può essere diversamente. Io allora non sapevo queste cose nè per esperienza mia nè per conto d'altri.
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È strano come vi sieno tante coincidenze sia nella vita regolare che in quella irregolare! Ogni volta che la vita diventa insopportabile ai genitori per cagione dell'uno verso l'altro, diventa necessaria la vita di città per l'educazione dei figli. Ed ecco che si presenta il bisogno di trasferirsi in città.
Egli tacque, e due volte fece quello strano verso con la bocca che ora era proprio simile a un singhiozzo represso. Eravamo vicini a una stazione.
— Che ore sono? — chiese.
Io guardai l'orologio: erano le due.
— Non siete stanco? — domandò.
— No, ma voi forse siete stanco.
— Mi sento soffocare. Permettete, vado a bere un po' d'acqua.
E barcollando traversò lo scompartimento. Io rimasi solo e ripassai in mente tutto ciò che egli aveva detto, ed ero così assorto nei miei pensieri che non mi accorsi che egli era ritornato dall'altro sportello.