CAPITOLO 41
APRILE 1978
Nel tragitto per l’aeroporto Louisa studiò la fotografia arrivata per posta solo due giorni prima. Nei tre decenni trascorsi dalla sua storia d’amore con Eva, il viso di Bill si era fatto più pieno e i capelli corti e impomatati erano diventati una chioma venata di grigio e raccolta in una coda di cavallo. Era stato uno shock vedere com’era adesso, dopo aver avuto in mente per così tanto tempo l’immagine del giovane soldato americano.
Il tempo non era stato clemente con Bill. Né con sua madre, pensò Louisa. Il suo sorriso, tuttavia, era lo stesso. E gli occhi castani scuri brillavano con un’intensità che la vecchia fotografia in bianco e nero non aveva saputo catturare.
«Pensi che lo riconoscerai?» Michael la guardò mentre lasciavano la strada.
«Lo spero. Ha detto che indosserà un giubbotto di pelle nera con una rosa gialla nell’asola.» Il solo descriverlo le provocò un tuffo al cuore. Guardò l’orologio. Bill sarebbe atterrato entro mezz’ora. Mezz’ora! Negli ultimi due mesi aveva parlato con lui una volta alla settimana, ma finché non avesse potuto toccarlo, stringerlo fra le braccia, parte di lei non l’avrebbe mai creduto reale.
La bocca secca, tirò fuori un pacchetto di mentine dalla borsetta. Malgrado le loro lunghe conversazioni sentiva ancora di sapere ben poco di lui. Le aveva detto di vivere da solo e di non essersi risposato dopo la separazione da Cora-Mae. Questo l’aveva sorpresa. Si aspettava che avesse almeno un altro figlio, ma a quanto pareva non ce n’erano. I soli parenti stretti di cui aveva parlato erano sua sorella Martha e i figli adolescenti di lei, due maschi. Louisa non sapeva se sentirsi delusa o sollevata. Scoprire di avere una sorellastra o un fratellastro sarebbe stato emozionante, ma se le avessero serbato rancore?
Doveva ammettere di essere contenta che non vi fossero matrigne sulla scena, cosa che avrebbe potuto rendere la situazione molto imbarazzante. Con ogni probabilità una moglie sarebbe voluta venire con lui. Louisa sorrise. L’avrebbe avuto tutto per sé.
Michael la scaricò davanti agli arrivi e andò a parcheggiare la macchina. Lei si affrettò a raggiungere il tabellone nero delle informazioni, guardando accigliata le lettere e i numeri mescolarsi e poi ricombinarsi in nomi di località e orari. Con un gemito strozzato si rese conto che l’aereo era atterrato, che lui si trovava già da qualche parte nell’aeroporto. Schivò le frotte di turisti e raggiunse un gruppo di persone che allungavano il collo; alcune reggevano dei cartelli con sopra dei nomi. Avrebbe dovuto pensarci anche lei.
Dai gate uscirono alla spicciolata dei tizi dall’aria esausta, spingendo dei trolley. Turisti inglesi, decise, osservando i visi abbrustoliti dal sole. Decisamente non del volo proveniente da Detroit. Trasalì nel sentire qualcuno toccarle il braccio. Era Michael.
«Ehi, calmati!» Le prese la mano e la strinse forte. «Qualche segno di lui?»
Lei scosse la testa. Poi qualcosa attirò la sua attenzione. Una coda di cavallo, sottile e riccia, posata sul colletto di un giubbotto di pelle nero. L’uomo era chino sul suo bagaglio.
«Michael!» sibilò. «È lui?»
Osservarono l’uomo raddrizzarsi. Voltarsi leggermente. Aveva qualcosa di giallo sul bavero.
«Bill!» Louisa gridò il suo nome sbracciandosi.
L’uomo girò la testa. E di colpo lei gli stava correndo incontro, dimentica delle barriere di persone ai lati. Correva fra le braccia tese di lui.
Si strinsero l’uno all’altra, il viso di lei premuto nelle spalle di lui, gli occhi chiusi, la fragranza del cuoio caldo che si confondeva con il profumo della rosa nell’asola. Sentì il suo petto alzarsi e abbassarsi. Tutti e due trattenevano le lacrime.
Louisa si scostò di colpo quando si accorse che stava schiacciando la rosa, ma allo stesso tempo si rendeva conto che non aveva alcuna importanza. Si sentiva in imbarazzo, a disagio. Lui era un estraneo, ma era anche suo padre.
Si divisero pur restando abbracciati, guardandosi intensamente. Era alto. Molto più alto di lei. Gli occhi di Louisa arrivavano all’altezza della sua cravatta. Una cravatta strana: nera con una fantasia di croci bianche piccolissime. Mentre la lasciava, da dietro la cravatta spuntò una lunga catenina con una piccola croce d’oro. Lui si accorse che l’aveva notata e fece un sorriso. Un sorriso mortificato.
«Già.» Fece una smorfia. «Sono il reverendo Bill Willis. Non te l’ho detto perché a qualcuno potrebbe dare fastidio.»
«Oh no!» Michael sorrise andando a stringergli la mano. «Ho sposato la figlia di un vicario!»
Tutti risero, il ghiaccio si era rotto.
«Solo guardarti…» Bill scosse la testa fissando Louisa. «Non so dirti come…» Aveva gli occhi lucidi. «Ed Eva? Come sta?»
Louisa e Michael si scambiarono un’occhiata.
«Ci aggiorniamo su tutto mentre torniamo, d’accordo?» Michael prese la valigia di Bill. «Tom e Rhiannon non vedono l’ora di conoscerti: stanno contando i minuti!»
Mentre saliva sul sedile posteriore dell’auto, Louisa sentì una scarica di adrenalina. Era meraviglioso averlo seduto accanto a sé, ma temeva come la peste di dovergli dire che sua madre non voleva vederlo. Come l’avrebbe presa? Disse a stessa che, da uomo di fede qual era, doveva essere disposto al perdono. Si aspettava forse troppo?
Si accigliò mentre si allacciava la cintura di sicurezza. La sua rivelazione di essere un reverendo la lasciava perplessa. Le aveva detto che lavorava in ospedale. Per quale motivo aveva mentito?
«Scusami se ti ho fuorviata» disse, come leggendole nel pensiero, «ma non stavo mentendo. Sono cappellano all’ospedale universitario di Harper.»
Louisa rimase sollevata da quella spiegazione e si rilassò leggermente. E tuttavia, era ancora intimidita dalla croce, che luccicò al sole quando anche lui si allacciò la cintura di sicurezza. Aveva tanto agognato che arrivasse quel giorno, e quelli successivi, immaginandosi le lunghe chiacchierate che si sarebbero fatti, aggiornandosi a vicenda sugli anni perduti. Ma come poteva aprire il suo cuore a un sacerdote? Avrebbe disapprovato Michael, sapendo che era un uomo divorziato. S’intristì. Avrebbe disapprovato anche lei?
Mentre al volante Michael lasciava l’aeroporto, Bill tirò fuori un portafogli pieno di fotografie e iniziò a farle vedere a Louisa. Lei le studiò con sollievo. Nel lungo viaggio verso casa avrebbero potuto parlare della famiglia di lui anziché della sua. Le foto erano perlopiù di sua zia Martha e dei cugini Marvin e Leroy. Louisa rimase colpita dalla rassomiglianza fra Martha e Rhiannon. Lo disse a Bill che, raggiante, tirò fuori un’altra foto di sua sorella da bambina. Louisa rimase senza fiato. Era come guardare la gemella di Rhiannon.
Gli riferì i suoi timori quando la figlia aveva iniziato la scuola e di come la gente avesse ipotizzato che i suoi due bambini avessero padri diversi. Non spiegò che Michael non era il loro padre. Aveva bisogno di tempo per capire come comunicargli quella notizia.
Bill la guardò con un’espressione triste, tanto che lei pensò sarebbe crollato. «Ci ho pensato parecchio, sai, dopo che sei nata» disse. «Mi sono tanto preoccupato per come ti avrebbe trattata la gente, essendo mezza nera e mezza bianca.» Strinse le labbra. «Ti ricordi che al telefono ti ho raccontato di quella volta che, nel dopoguerra, ero di stanza in Inghilterra e sono venuto a cercarti a Wolverhampton?»
Lei annuì.
«Era il 1955… undici anni dall’ultima volta che ero stato in Gran Bretagna… e, ragazzi, che cambiamento. Avresti dovuto vedere le facce quando camminavo per le strade, come mi guardavano storto. Mi resi conto allora che le cose si erano messe male come a casa mia in Louisiana. E pensai a te che crescevi in quel posto, andavi a scuola e tutto il resto, e mi dissi: ho sbagliato a farla rimanere, sarebbe stata meglio a Chicago.»
A Louisa vennero le lacrime agli occhi. Non riusciva quasi a tollerare l’idea che lui l’avesse cercata, guidando per le strade della città senza sapere che era seduta in un’aula scolastica a sole cinque miglia di distanza.
«Le cose sono andate bene finché non ho compiuto dieci anni» disse ingoiando le lacrime. «Ti sembrerà pazzesco, ma in verità sono cresciuta pensando di essere bianca.»
Gli raccontò del trasferimento da Devil’s Bridge a Wolverhampton, dello shock davanti al rifiuto della donna al negozio di dolciumi di servirla. Lentamente, esitante, iniziò a raccontargli della vergogna che aveva provato per il suo colore e fin dove si fosse spinta per spacciarsi per bianca. Ma ogni parola era scelta con cura. Era una versione riveduta e corretta della sua vita.
Lui aveva tirato fuori un ampio fazzoletto dalla tasca e lei notò che si soffiava spesso il naso. Si rese conto che anche Bill si stava nascondendo, non voleva farle vedere che piangeva.
Quando arrivarono a casa di Michael l’atmosfera si alleggerì. Gina li stava aspettando con Tom e Rhiannon, che saltarono addosso a Bill non appena scese dall’auto. Avendo conosciuto un solo nonno, i bambini erano felicissimi di acquisirne un altro, specie Rhiannon, che gli fece arrotolare la manica per poter confrontare le braccia, annunciando orgogliosa che erano dello stesso colore.
Dopo pranzo Michael mostrò a Bill lo studio di registrazione, mentre Louisa sparecchiava. Rimasero assenti a lungo e quando lei ebbe finito di riordinare si lasciò cadere su una sedia, travolta da un’inspiegabile depressione. Bill e Michael sembravano andare molto d’accordo. E lui era evidentemente incantato dai bambini. Lei si sentiva fuori luogo in quella situazione e avrebbe voluto protestare a gran voce per quell’ingiustizia. Quello sarebbe dovuto essere il suo gran giorno. Sapeva che quello che provava era del tutto infantile, ma non riusciva a evitarlo.
Quando Michael sgusciò in cucina, la trovò che singhiozzava in un fazzoletto.
«Mi sento così stupida!» disse tirando su con il naso mentre lui le abbracciava le spalle tremanti. «È stato così emozionante quando l’ho visto in aeroporto, quando mi ha mostrato quelle foto è stato come veder combaciare i tasselli mancanti di un puzzle. Ma non riesco a parlare con lui, Michael! Non sono neanche sicura di piacergli!»
«Ma certo che gli piaci!» Michael scosse la testa. «Hai visto che faccia aveva all’aeroporto, sembrava avesse appena fatto jackpot!»
«M…ma… lui… non sa niente di me.» Singhiozzò. «E quando saprà si vergognerà di me, lo so che sarà così.»
Michael la strinse fissandola con i suoi occhi azzurri. «Non si vergognerà di te! Come puoi dirlo? Che accidenti hai fatto di cui vergognarti?»
«Tutta la mia vita» mormorò. «Come potrò mai spiegargli di Ray? Di Trefor? Di te, perfino?»
«Ascolta, Lou, lui potrà anche essere un reverendo, ma non è certo un moralista. Avresti dovuto vederlo nello studio! Ho suonato un paio di pezzi degli Stones e lui si è alzato in piedi a ballare con i bambini. È realmente appassionato di musica, sai.» Le strizzò le spalle. «E chiunque apprezzi come suono non può essere tanto male!»
Gli rivolse un pallido sorriso.
«Penso che tu sia troppo severa con te stessa e con lui» proseguì Michael. «È normale che sia una delusione all’inizio, non credi? Lo hai idealizzato così tanto. Devi dargli una possibilità, dare tempo a tutti e due per imparare a conoscervi.»
Più tardi quel pomeriggio Michael riportò i bambini alla fattoria. Bill avrebbe dormito a casa di Michael, per tenerlo alla larga da Eva ed Eddie. L’idea era che Louisa si trattenesse al granaio per poter passare un po’ di tempo da sola con lui. Ma mentre salutava gli altri fu sopraffatta dal terrore. Non sapeva come affrontare le ore che l’attendevano.
«Michael è senz’altro un bravo ragazzo» disse Bill quando la jeep scomparve su per il sentiero. «State assieme da molto?» Sorrise nel vederla farsi tesa. «I bambini non lo chiamano papà, no? E mi hanno detto che li stava portando a casa.»
«Scusami.» Louisa intrecciò le dita, gli occhi fissi sulle mani. «Avrei dovuto essere schietta con te. Michael è il mio secondo marito. Il primo si è suicidato dieci anni fa per colpa di…» Fece un respiro. «Per colpa di una cosa che scoprì del mio passato.»
Tacque, attendendosi un interrogatorio. Ma Bill non disse niente. Lei alzò lo sguardo. Il viso di lui era imperscrutabile.
«Ho conosciuto Michael quando ho iniziato a cercare te.» Esitò di nuovo. «Lui era… è divorziato. Abbiamo due case distinte perché in realtà la fattoria è di Tom, o lo sarà fra un po’ di tempo, quando compirà diciotto anni. Lui… insomma, è una situazione complicata.» Trattenne il fiato guardandolo in volto. Aveva gli occhi tristi.
«Dev’essere stata dura per te perdere il tuo primo marito così giovane.» Le prese la mano. «Come te la sei cavata, con i bambini?»
Anziché rispondere Louisa scoppiò in lacrime. Lacrime di sollievo perché lui non la stava giudicando e lacrime di dolore per i ricordi repressi che tornavano con prepotenza. «Ho tanta paura di raccontarti della mia vita» singhiozzò. «Volevo così tanto piacerti! Che mi volessi bene! Ma se tu sapessi la verità…»
«Tu raccontami quel tanto o quel poco che vuoi» mormorò lui. «Non cambierà minimamente quel che provo per te: tu sei mia figlia!» La strinse in un abbraccio e lei sentì le sue lacrime sulla pelle. «Ma ti dirò un’altra cosa, Louisa: quando sentirai della mia vita, non credo che nulla che tu abbia fatto ti sembrerà più così tremendo.»
Si stava facendo sempre più buio ma lei era troppo presa da quello che le stava raccontando per pensare ad accendere le luci.
«Quando lasciai l’esercito avevo trentadue anni. Mi resi conto che era arrivato il momento di accasarmi. Non avevo granché idea di cosa fare e così tornai a New Orleans. Finii per servire ai tavoli in un ristorante del centro. Non passò molto tempo che iniziai a frequentare Cora-Mae.» Si strinse nelle spalle. «Ci siamo sposati troppo presto. Lei voleva subito dei figli, io no.» Aggrottò la fronte. «Non ho mai sentito di averne diritto. Mi dilaniava il pensiero di aver fatto a te esattamente quello che mio padre aveva fatto a me.»
Louisa annuì lentamente. «La madre di Michael mi ha detto che tu e Martha avevate perso i contatti con vostro padre.»
«Avevo tre anni quando ci ha abbandonati. Martha era poco più che una neonata. Mai più visto da allora. Non so neanche se sia vivo o morto.»
Lei vide il suo sguardo tormentato e si domandò se avesse mai sognato il padre come lei aveva sognato lui.
«Crescere senza padre è stata un’autentica sofferenza.» Bill si diede dei colpi sul petto. «Non lo lasciavo mai trapelare, però. Mi tenevo tutto dentro. Quando Cora-Mae parlava di figli mi veniva una gran voglia di gridarle contro. Alla fine le ho raccontato di te. Ho detto: “Senti, Cora-Mae, da qualche parte, su qualche strada a migliaia di miglia da qui, sta camminando un pezzettino di me. Una bambina che non saprebbe neanche chi sono se mi passasse accanto. Come posso avere un altro figlio finché non avrò trovato quella che già ho?”.» Scosse la testa. «Gliel’ho detto tante di quelle volte che alla fine si è stancata di sentire. Litigavamo di continuo.» Fece un sorriso malizioso. «È decisamente strano che io debba ringraziare lei perché tu mi abbia trovato!»
Louisa ricambiò il sorriso. «Adesso è nonna, lo sapevi?»
«Ah sì?» Incrociò le braccia e tornò ad adagiarsi sulla sedia. «Sono contento. Meritava di meglio.»
Louisa lo osservò adombrarsi di nuovo. Perché ha un’opinione così bassa di sé? Possibile che sia tutto per colpa del padre assente?
«Cos’è successo quando ti sei trasferito a Detroit?» gli domandò.
Lui fece una risata. «Non molto, all’inizio. Martha e io pensavamo di andare nella terra promessa. Ero nauseato da come venivano trattati i neri al Sud. Credo che, viaggiando con l’esercito, avessi capito che non dovevo necessariamente subire quel trattamento, che non tutti ci consideravano come la feccia dell’umanità.» S’interruppe esaminandosi le vene sul dorso delle mani. «Dove arrivammo non era molto diverso, però. Non riuscivo comunque a trovare di meglio che servire ai tavoli. Ma almeno servivo i neri seduti accanto ai bianchi.» La guardò con gli occhi lucidi. «Sembra pazzesco, lo so, ma ero solito fare un piccolo numero in cui io e una delle cameriere ci mettevamo a ballare fra un servizio e l’altro ai tavoli. E una sera un nero, un tipo vistosissimo, entra nel ristorante e mi dice di avvicinarmi. Dice di essere il manager di una band e di aver bisogno di qualcuno che insegni a ballare ai componenti. Viene fuori che è Berry Gordy. L’hai mai sentito nominare?»
«Quel Berry Gordy?» Louisa rimase senza fiato. «Della Tamla-Motown?»
«Eh già.» Bill sorrise ma aveva perso la luce negli occhi. «Era il ‘55 e lui era appena agli esordi. Per me fu una cosa fantastica, lui scritturava sempre nuovi talenti, perlopiù ragazzini che si esibivano in strada. Io ero uno di quelli che studiavano le coreografie, che insegnavano loro a vestirsi, a muoversi e così via.»
Louisa sgranò gli occhi. «Avrai dunque conosciuto una marea di gente famosa!»
«Già, ne ho conosciuta un po’.» Abbassò gli occhi e si studiò di nuovo il dorso delle mani.
«Avanti, raccontami!»
«Be’, c’erano i Four Tops, li conoscevo piuttosto bene, le Supremes e Smokey Robinson…» Si strinse nelle spalle.
«Caspita! Devi aver vissuto dei momenti meravigliosi!»
«Be’, sì, credo.» Il tono lasciava intendere altrimenti. «Il problema è che la cosa mi diede alla testa. Era il classico mestiere per cui avevo sempre donne attorno… Non perché trovassero in me qualcosa di speciale, capisci? Pensavano che potessi farle diventare famose.» Fece un respiro. «Era piuttosto difficile resistere. Non sono certo orgoglioso di com’ero all’epoca. Il tutto mi si è ritorto contro ed è stato giusto così.»
«Cos’è successo?»
«Be’, venivo invitato a tantissime feste, e una delle donne che conoscevo mi introdusse alla droga. Iniziai a fumare l’erba e un paio di settimane dopo mi diedi alla cocaina.»
Louisa lo fissava, cercava le parole giuste. «È questo che intendevi quando hai detto che nella vita hai fatto delle cose brutte?»
Lui annuì. «Ho perso tutto, Lou. Il mio lavoro alla Hitsville, la sede della Motown, il mio appartamento. Martha cercò di aiutarmi ma io la tagliai fuori. Alla fine del ‘65 dormivo per strada. Lavoravo come lavapiatti ma non appena mi pagavano andavo in cerca della dose successiva. L’unica cosa che mangiavo erano gli avanzi della cucina.» Fece un sorriso ironico. «Se pensi che adesso io sia malmesso, avresti dovuto vedermi all’epoca!»
«Ma hai smesso con le droghe?»
«Solo perché sono stato costretto. Mi hanno beccato a rubare un paio di scarpe da Walmart. Mi hanno inserito in un programma di riabilitazione, e mentre ero lì ho avuto…» Esitò, scuotendo la testa. «Credo si possa chiamare una visione.» Prese a fissare la parete con gli occhi che guizzavano da parte a parte. «Non so se fosse l’astinenza dalla droga o cosa, ma sul prato di fronte a me ho visto un uomo dall’aria malvagia attorniato dalle fiamme. E poi ho sentito una voce. “A te la scelta, Bill. O me o il diavolo.” Questo ho sentito.»
Louisa non sapeva cosa dire. Non andava in chiesa da quando aveva dieci anni. Lo guardò imbarazzata. «Ed è per questo che… sei diventato un uomo di fede?»
Annuì. «Probabilmente, detto così, ti sembrerà strano… come al più della gente… ma per me fu del tutto reale. E intenso. Avevo già provato molte volte a smettere con la droga (vivevo per le strade da quasi cinque anni), ma quando mi sono svegliato l’indomani mattina il desiderio ossessivo non c’era più.»
«Perciò, da quanto tempo lavori in ospedale?»
«A breve saranno quattro anni.»
Lo guardò, domandandosi come esprimere al meglio quel che moriva dalla voglia di sapere. «E da quando ti… ti sei rimesso in piedi, non hai… insomma… conosciuto qualcuno?»
«Nossignora!» Sorrise. «Non bevo, non uso droghe e non…» Alzò le sopracciglia.
«Oh!» Lei si guardò i piedi, imbarazzata da ciò che l’aveva quasi indotto a dire.
«Mi sa che, per quanto riguarda le signore, sono una sciagura.» Fece una risata che era più un grugnito. «Adesso ho un cane come compagno. Ancora non si è lamentato di me!»
Louisa rise, anche se si sentiva in colpa per essere contenta della sua decisione di restare single. «Credi davvero che non conoscerai mai nessun’altra?»
«Ne dubito.» Una luce malinconica gli attraversò gli occhi.
Lei si domandò se stesse pensando a sua madre. Era quella la vera ragione per cui non aveva intenzione di risposarsi?
«C’è una cosa che devo chiederti» iniziò Louisa. «Provi ancora qualcosa per…» Fece una pausa, incapace di dirlo.
«Per tua madre?» Bill socchiuse le labbra. «Me l’aspettavo, questa domanda.» Sospirò. «Sono passati così tanti anni, ma sì, ho ancora dei meravigliosi ricordi del periodo che passammo assieme. La verità è che non ho mai conosciuto una donna come lei, né prima né dopo.»
Louisa sentì un nodo allo stomaco. Era quello che temeva più di ogni altra cosa. «Per me significa molto che tu le abbia voluto così bene» disse con un filo di voce. «Il guaio, però, è che non credo lei possa tollerare l’idea di rivederti.»
Vi fu un istante di silenzio, poi lui disse: «Be’, credo di poterlo capire. Senz’altro è un peccato, però. A me sarebbe piaciuto rivederla». La fissò intensamente, accorgendosi del suo sguardo impaurito. «In memoria dei vecchi tempi, tu capisci. Niente di più. Mi sarebbe piaciuto anche conoscere l’altro tuo papà. Mi piacerebbe avere modo di stringergli la mano, di dirgli che ha fatto un ottimo lavoro con te.»
Louisa trattenne le lacrime domandandosi come avrebbe reagito Eddie a tutto ciò. Gli aveva detto che Bill stava arrivando, assicurandogli che l’avrebbe tenuto ben lontano dalla fattoria. Quanto a dirlo alla madre, non aveva saputo cosa fare. Era ben conscia che sarebbe stato ingiusto aspettarsi che Tom e Rhiannon tacessero. Alla fine Eddie si era offerto di dirlo a Eva dopo che lei e Michael fossero partiti per l’aeroporto. Louisa si morse il labbro. Era quasi come se Eddie stesse dalla parte di Bill. Come faceva a essere così comprensivo? Si domandava se avesse la minima idea che la morte di David era collegata indirettamente alle azioni di Bill; si domandava se la madre gli avesse mai rivelato il vero motivo della sua visita ad Aberystwyth quel giorno fatale.
Come se le avesse letto nel pensiero, Bill le prese la mano nella sua. «Non mi aspetto che lui voglia vedermi, non più di quanto lo voglia tua madre. Ma ti sarei grato se potessi riferirgli ciò che ho appena detto.»
Lei annuì. «Non ti dà fastidio che io non ti chiami papà, vero? È solo che ci vuole un po’ di tempo per farci l’abitudine…»
«Certo che no!»
«Il mio… il mio altro papà, be’, non ti ha mai ritenuto responsabile dell’accaduto. Mentre la mamma…» Non terminò la frase e si strinse nelle spalle.
«Immagino che non mi abbia perdonato per averle sconvolto la vita, eh?»
Louisa scosse la testa. «Non è come pensi tu. Non ti incolpa della mia nascita. È stato quello che è successo in seguito a farla rivoltare contro di te.»
«In seguito?»
Lo vide intristirsi mentre lei ricostruiva la storia. «Cathy disse che era la prima volta che la mamma aveva tue notizie dalla fine della guerra» spiegò. «Era inviperita perché stava cercando di far funzionare il suo rapporto con papà ma era ancora innamorata di te, penso. A detta di Cathy, la mamma sperava che ti distaccassero in Inghilterra e quella era l’unica possibilità che avevate per stare assieme, perché mio padre non le avrebbe mai consentito di portare David negli Stati Uniti.»
Lui batté le palpebre, le rughe attorno agli occhi scavate dal dolore.
«Mi dispiace così tanto di avertelo dovuto dire.» Louisa strinse le labbra. «Dovevo farti capire perché lei ti è così ostile. Credo che alla morte di David lei abbia voluto… cancellarti dalla memoria e basta.» Deglutì, gli occhi velati di lacrime. «Mi disse che non riusciva neanche a ricordare il tuo nome.»
Adesso piangevano tutti e due. Bill la prese fra le braccia e rimasero stretti al buio.
«Non fu colpa tua» mormorò lei. «Ma capisci perché devo tenerti lontano da lei?»
Lo sentì annuire. «Non preoccuparti» le disse sottovoce. «Le starò lontano.»