CAPITOLO 10
Tre settimane più tardi la madre di Eva stava preparando un tè danzante per festeggiare il compleanno di Dilys. Eva la aiutava, anche se una festa era l’ultima cosa che si sentiva di organizzare.
La notizia dell’esecuzione di Jimmy avvenuta il giorno prima aveva scalzato la guerra dalla prima pagina dell’Express & Star. Eva guardò la madre spostare il mucchio di pane che aveva affettato e prendere il giornale. Il titolo strillava: STORICA IMPICCAGIONE DI UN SOLDATO AMERICANO COLPEVOLE DI STUPRO.
«Questo l’hai letto?» Senza alzare lo sguardo, la madre iniziò a leggere ad alta voce: «“Ieri, nella prigione di Shepton Mallet nel Somerset, un soldato americano è stato impiccato per aver violentato una sedicenne di Wolverhampton…”» Emise un gemito di sdegno. «“In Inghilterra è la prima volta che un uomo viene impiccato per il reato di stupro.”» Continuò: «“Il soldato, un uomo di colore del Commissariato Militare di stanza nelle vicinanze di Bridgnorth, è stato giustiziato sotto la giurisdizione dell’esercito americano”».
Eva rimase seduta immobile, fissando il coltello che la madre aveva appena intinto in un vasetto di crema di pesce.
«Dicono che lei sia incinta.» La madre alzò lo sguardo dal giornale, aspettandosi chiaramente una reazione a quel pettegolezzo. Eva tenne invece la testa china. «Immagina che ne sarà di quel povero bambino» proseguì la donna. «Non glielo lasceranno tenere, questo è certo. Ma chi lo vorrà? Non troverà mai nessuno che lo adotti.» A quelle parole seguì un sospiro pesante. «Suppongo finirà in un orfanotrofio.» Infilò il coltello nella crema di pesce e grattò sul vasetto di vetro. «Non credi?»
«Vado a controllare la torta» mormorò Eva precipitandosi in cucina.
Il salottino era pieno di persone, tutte contente di ripararsi dal vento sferzante di ottobre. Una baraonda di amici e vicini, alcuni con in mano dei regali, altri con delle razioni da donare per la festa. Cathy arrivò per ultima con una bella latta di ananas a fette, che fece esultare gli ospiti.
Dilys fece il suo ingresso in grande stile, entrando nella stanza sotto braccio ad Anton.
«Non fare quella faccia scioccata!» mormorò a Eva. «Adesso ho sedici anni, posso fare come mi pare e piace.»
«Non è di me che devi preoccuparti» sibilò Eva in risposta. «Come spiegherai la sua presenza alla mamma?»
Seguì qualche minuto d’imbarazzo, durante il quale la madre lanciò degli sguardi eloquenti a Eva. Meglio assecondare la finzione che sia una storia recente, pensò. Altrimenti sua madre avrebbe iniziato a chiedersi cos’avessero combinato davvero le figlie in tutte quelle lunghe passeggiate domenicali.
Mentre Anton incantava la madre, Dilys iniziò ad aprire i regali. Era un interessante assortimento. «Un paio di scarpe, tre paia di calze di nylon, una spilla, mezza dozzina di pompelmi e due tavolette Hershey! Non mi è andata troppo male, no?» Rise. «Queste te le ha date Bill?» domandò sottovoce, scartando una delle tavolette di cioccolato e prendendone un bel morso.
«Dil! Dovresti metterle da parte! E tutte queste cose da mangiare?» Eva accennò con la mano alla tavola.
«Ho dato solo un morso!» Dilys rise mentre tornava a incartare la cioccolata. «E comunque, devo mantenermi in forze.» Eva le lanciò uno sguardo preoccupato, ma la sorella era troppo impegnata a esaminare i regali per notarlo. «La prossima settimana inizio l’addestramento» disse senza alzare gli occhi.
«Quale addestramento?»
«Ho fatto domanda nell’Auxiliary Territorial Service» fu la risposta. «Non te l’ho detto? L’avevo in mente da secoli.»
Eva fissò la sorella. «La mamma lo sa?»
«Non gliel’ho ancora detto, ho pensato di aspettare fino a dopo la festa.»
«Oh, Dil…» Eva si morse il labbro.
«Ascolta» replicò Dilys, «mi dispiace che sia un po’ uno shock, ma così non posso andare avanti.» Si tastò la spilla di strass a forma di D regalatale da Anton per il compleanno. «A te potrà anche non importare di restartene imboscata qui, di nasconderti dalla gente, ma a me sì. Il campo dell’ATS è giusto in fondo alla strada della caserma di Anton. Potremo stare assieme, davvero assieme.» Aveva la stessa espressione che Eva usava da bambina per blandire il padre quando voleva qualcosa. «Lo capisci, vero?»
«Be’, sì… ma sei così…»
«Non devi spifferare una sola parola di tutto questo alla mamma» la interruppe Dilys, voltando il capo per guardarla, «ma Anton mi ha chiesto di sposarlo! Vuole che vada in Olanda assieme a lui, alla fine della guerra!»
«Cosa?» Eva rimase a bocca aperta. Le vennero in mente tante cose da dire, ma si sentiva intorpidita, paralizzata. Un piagnucolio dalla stanza di sopra ruppe l’incanto. «Questo è David» disse, «il rumore deve averlo svegliato.» Raggiunse la porta, contenta di avere una scusa per allontanarsi. Per la prima volta in vita sua aveva guardato la sorella e aveva provato invidia.
Prese David fra le braccia e lo cullò per confortarlo.
«Nonna più?» biascicò il piccolo indicando la porta. «Dilly più?»
«Sono di sotto, tesoro» gli rispose. «Andremo da loro fra un minuto. Prima vediamo di cambiarti.» Lo posò sul letto e gli slacciò il pagliaccetto. Lui scalciò con le gambine.
«Voio Dilly! Voio nonna!» strillò.
Eva lo zittì, domandandosi cos’avrebbe pensato Bill se avesse potuto vederla in quel momento. Cercò d’immaginarsi David chiamarlo per nome, seguirlo dappertutto come seguiva Dilys e sua madre. Chiamare Bill “papà”. La cosa la impauriva, sapendo quanto la desiderava, perché in quel luogo e in quel momento sembrava una cosa assolutamente impossibile.
Mentre svestiva il figlio, si ritrovò a pensare al bimbo che Philippa portava in grembo, un bambino o una bambina che non avrebbe mai visto il padre. L’ingiustizia dell’esecuzione di Jimmy l’aveva traumatizzata nel profondo. Gli americani dovrebbero essere nostri amici, pensò. Dovrebbero essere esattamente come noi.
Si ricordò quel che Bill le aveva raccontato della Louisiana, delle leggi umilianti che tenevano i neri segregati dai bianchi. Come sarebbe stato per il bambino che Philippa portava in grembo crescere in un posto simile? Un Paese in cui le leggi consentivano che un nero fosse impiccato per non aver fatto niente più di quello che stavano facendo lei e Bill? Sarebbero mai potuti essere una famiglia, in un posto simile?
Bussarono alla porta della camera da letto.
«Posso entrare?» Cathy fece capolino. Si sedette sul letto, facendo delle faccine a David finché lui non smise di scalciare e iniziò a ridacchiare. «Come sta Bill?» Il sorriso dell’amica svanì quando alzò lo sguardo. «Ho visto il giornale.»
«Non lo so proprio» rispose Eva. «Non lo vedo da sabato scorso.»
«Starà passando le pene dell’inferno.»
«Non lo diresti mai, però.» Smise di tentare d’infilare un calzino a David, che agitava le dita dei piedi, e fece un sospiro pesante. «Bill è talmente difficile da capire. Quando Jimmy è stato arrestato, era in condizioni pietose. Ma nelle ultime due settimane è stato piuttosto sereno.» Fissò il calzino che aveva in mano. «Una serenità innaturale, a dire il vero. La scorsa settimana era il suo compleanno, ventun anni, e non me l’ha neanche detto. Ma poi ha mandato un messaggio alla stazione per chiedermi un appuntamento, pur sapendo che Jimmy sarebbe stato…» Accarezzò le dita dei piedini morbidi e paffutelli di David.
«A quanto dici, pare non sia ancora sceso a patti con la situazione.»
«Mi ha chiesto di prenotare un tavolo nel miglior ristorante della città. Dice di voler dare un bel commiato a Jimmy.»
«Il dolore si manifesta in strani modi, a volte.» Cathy avvicinò il viso a quello di David e lui la prese per i capelli. «Ricordo quando ricevemmo la notizia di Stuart, mi ci volle parecchio tempo per accettare che non sarebbe mai più tornato a casa. La gente si complimentava perché stavo affrontando egregiamente la situazione, ma circa due mesi dopo il funerale me ne sono resa conto di colpo. Una mattina stavo pelando le patate e sono scoppiata in lacrime. Le stavo contando e ho pensato: è finita, per il pranzo della domenica non avremo mai più bisogno di altre patate oltre a queste, perché lui non tornerà.» Si sfilò un braccialetto d’argento dal polso e lo diede a David perché ci giocasse. «Bill avrà un gran bisogno di te» disse, «più di quanto, probabilmente, se ne renda conto al momento.»
Eva si alzò sui gomiti. «Io voglio stargli accanto. Certo che sì. Ma…» Non terminò la frase, cercava le parole per dire quello che temeva come la peste di esprimere.
«Non dirmi che hai intenzione di rompere con lui, eh? Dopo tutto quello che hai…»
«Oddio, no!» la interruppe. «Non è questo!» Distolse il viso angosciato da Cathy. Non poteva, non doveva dirglielo. Non doveva dirlo a nessuno. «Si tratta di Dilys» mentì, gli occhi fissi sul copriletto.
«Cos’ha che non va?» domandò l’amica. «Cinque minuti fa sembrava decisamente al settimo cielo.»
«Sì, lo è» disse Eva. «A quanto pare, Anton le ha fatto la proposta di matrimonio. Sta per entrare nell’ATS per potersene andare di casa e passare più tempo con lui. Ecco perché non potrò essere di grande aiuto a Bill» proseguì. «Non so neanche se riuscirò a vederlo quando Dilys non sarà più qui a fornirmi un alibi.»
Cathy rise. «Che furbetta che è! Spero sappia in cosa si sta impelagando!» Mise la mano sulla spalla di Eva. «Ehi, non preoccuparti del fatto di vedere Bill, puoi usare me come scusa se vuoi. E se tua madre si stanca di fare la babysitter, la sera puoi sempre portare questo ometto da me.» Fece il solletico a David facendolo di nuovo ridacchiare.
Eva provava vergogna davanti alla generosità di Cathy. «No, non potrei mai chiederti di guardarmelo, mi sento già abbastanza male all’idea di lasciarlo a casa.»
«Perché no? Mi divertirei.» Si allungò sul letto e diede uno spintone a Eva. «Lo so che sono una fallita vecchia e noiosa, ma ciò non significa che non voglia che gli altri si divertano!»
«È così che ti vedi, Cathy? Sul serio, voglio dire: non desideri… lo sai… conoscere qualcun altro?»
Cathy sospirò scompigliando i capelli di David. «Non lo so. Sono solo spaventata, credo. Ricordi quel tipo squallido al ballo? Quello che non teneva le mani a posto?»
Eva annuì. «Non puoi lasciare che una brutta esperienza ti allontani dagli uomini vita natural durante.»
«Lo so. E a volte ti guardo e penso: sì, datti da fare! Sii felice finché ne hai l’occasione. Ma poi guardo la foto di Stuart e… be’, non ci riesco proprio. Non riesco a immaginarmi di avere lo stesso rapporto con chiunque altro.»
«Vorrei fosse stato così anche per me ed Eddie» disse Eva sommessamente.
«Gli hai dato tutto ciò che potevi» ribatté Cathy. «L’hai fatto contento.»
«Sì? Non era contento di David.»
«Avrebbe superato la cosa. Semplicemente, non ne ha avuto la possibilità.» Accarezzò la macchia rosata sulla guancia del bambino. «David è l’eredità che ha lasciato al mondo. È il dono che tu gli hai fatto: non sminuirti così.»
Eva serrò gli occhi con forza. Non aveva mai pianto per Eddie. Farlo adesso sarebbe stata una vera e propria ipocrisia, e infatti le lacrime che stava trattenendo erano per se stessa.
Quando Eva e Dilys uscirono di casa, quella sera, faceva freddo ed era buio. Anton aspettava in macchina in fondo alla strada, pronto a portarle in città. Eva chiese di essere scaricata al solito posto. Riferire a Dilys della strana richiesta di Bill avrebbe sollevato troppi interrogativi imbarazzanti.
Giunta al ristorante lo trovò ad aspettarla davanti al locale. La salutò con un sorriso e un abbraccio. Non lasciava trapelare nulla di quel che aveva significato per lui il giorno prima: l’angoscia di restarsene seduto davanti a un orologio a guardar passare inesorabilmente gli ultimi istanti di vita dell’amico.
Il ristorante era pieno di gente, perlopiù americani bianchi con le loro fidanzate. Poche persone del posto potevano permettersi i prezzi del Victoria. Li accolsero parecchie dita puntate e mormorii, ma con sollievo di Eva nessuno si avvicinò al loro tavolo per sfidarli apertamente.
«Mi pare niente male, per essere l’Inghilterra!» rise Bill mentre studiava il menu. «Allora, cosa prendi?» Prima che lei potesse rispondere, lui tirò fuori un pezzo di carta dal taschino della giacca e glielo passò sul tavolo. «Pensavo che, dopo, potremmo andare a vedere questi ragazzi» disse. «Avanti, leggi!»
Sta parlando troppo, pensò Eva aggrottando la fronte mentre apriva il volantino, si comporta come se non avesse una sola preoccupazione al mondo. «“Civic Hall, Wolverhampton”» lesse ad alta voce. «“Ballo anglo-americano. A grande richiesta, il gradito ritorno dell’esuberante star di colore Stanley Carter e della sua orchestra da ballo ‘all-colored’ di Harlem, con la partecipazione di Vic Brown, il Bing Crosby nero…”»
«Mi pare perfetto, non credi?»
«Be’, sì… ma tu vuoi veramente andare a ballare?» Si accigliò, cercando di capire cosa gli passasse per la testa.
«Stai scherzando?» Bill fece un largo sorriso. «Lo sai quanto mi piace ballare… E comunque, è quello che avrebbe voluto Jimmy. A casa crediamo sia importante divertirsi quando c’è un funerale. Solo perché qui il funerale non ci sarà, non significa che non possiamo fingere di…» Aveva la voce sempre più flebile, quasi rotta dall’emozione. Ma prima che Eva potesse dire o fare qualcosa, era già saltato in piedi e l’aiutava ad alzarsi dalla sedia. «Vieni» disse, «saltiamo la cena e andiamoci subito!»
«Sei sicuro che sia una buona idea?» mormorò lei mentre passavano accanto ai negozi bui da dove brillavano le sigarette e dai quali provenivano voci sommesse.
«Perché no?» Bill affrettò il passo, trascinandosela quasi dietro.
«Hai visto com’era al ristorante» disse Eva riprendendo fiato. «Sarà anche peggio se la gente ci vede ballare.» Si impose di non aggiungere altro. Aveva quasi detto: “Specie con Jimmy su tutti i giornali”.
«Ti preoccupi troppo» replicò Bill. «Come ho già detto, è perfetto: un’orchestra tutta nera e un cantante nero. Con loro sul palco quale bianco avrebbe il fegato di toccarmi con un dito?»
Aveva ragione. Quando il cantante si accorse che Bill era l’unico nero sulla pista da ballo, lo chiamò sul palco per stringergli la mano. Da quel momento fu come se un po’ della “polvere di stelle” di Vic Brown fosse piovuta anche su loro due. Mentre ballavano il jitterbug e il jive per tutta la superficie della pista, il riflettore li seguiva passo passo, sfidando eventuali attaccabrighe. In sala c’erano dei soldati americani bianchi, ma per Eva erano solo una macchia indistinta di colore mentre Bill la faceva vorticare. E quando il riflettore lo illuminò in viso, si accorse che era trasformato. Per la prima volta dall’arresto di Jimmy, aveva l’aria felice e spensierata.
«Adesso possiamo riposarci?» domandò lei senza fiato. Si lasciò cadere su una poltrona e bevve un sorso di Shandy. «Nell’ultimo ballo credevo di finire sul soffitto!»
Bill rise. «Sei leggera come una piuma, ecco perché. Non pensavo che avrei mai avuto una compagna così facile da sollevare.»
A quelle parole Eva si rabbuiò e si chinò sul drink per evitare il suo sguardo.
«Ehi, cos’ho detto? Voleva essere un complimento!»
«Oh, niente.» Bevve un altro sorso della sua birra. «Vieni» disse prendendolo per mano. «Questo è un lento, credo di potermelo permettere.»
Mentre ballavano Eva seppellì la testa nella giacca di lui. Se gli avesse detto cosa le passava per la testa quel suo sorriso spavaldo sarebbe appassito come un bocciolo dopo una gelata. Malgrado stesse facendo del suo meglio per non darlo a vedere, sapeva che era ancora straziato dal dolore per la morte di Jimmy.
Sentì le sue mani scenderle sul girovita. Non ci avrebbe messo molto ad accorgersene da solo. E a quel punto?
Eva chiuse gli occhi e si concentrò sulla musica. La voce di Vic Brown sembrava cioccolato fuso. Cantava d’amore, ovviamente, di un amore troppo caldo per non raffreddarsi. Le parole della canzone erano come dardi di ghiaccio che le laceravano il ventre.