CAPITOLO 1

GIUGNO 1943

Eva percepì il suo arrivo prima ancora di vederlo. Lo avvertiva attraverso le suole degli stivali. Tirò il fiato e nell’aria sentì odore di fumo. Udì il rimbombo delle ruote. Era il ritmo delle carrozze, non il solito sferragliare dei vagoni di carbone. Si deterse la fronte con il polsino della giacca e si appoggiò al manico della vanga.

Anche le altre donne lo avevano udito. Gettarono da parte badili, rastrelli e picconi e si schermarono gli occhi dal sole. Alcune si tolsero i cappelli e i foulard, cercando di ravvivarsi i capelli afflosciati dal sudore nel caldo inatteso della mattinata estiva inglese.

Mentre il treno procedeva sempre più a rilento, dai finestrini si sporsero, smaniose, delle teste. Calzavano berretti schiacciati color sabbia e alcune mandavano baci. Un carico di uomini, carrozze intere. In procinto di riversarsi laggiù. In quella città.

Le donne iniziarono a esultare, ad agitare le mani, ma quelle di Eva non lasciarono mai l’asta di legno della vanga. Non ci riusciva. Non riusciva a imporsi di sorridere ai volti che le scorrevano davanti agli occhi. Vedere così tanti uomini in divisa le suscitava un dolore profondo al di sotto delle costole. Scrutava ogni carrozza che passava come se fra quei soldati americani potesse scorgere il viso di Eddie.

Idiota.

S’impose di smettere, di distogliere lo sguardo.

Non torna a casa perché tu non vuoi che torni.

Quelle parole le calarono sulla testa, chiare e brutali come un telegramma. Era vero? Era per una sorta di telepatia? Gli aveva portato sfortuna?

Un fischio lacerò il rumore della locomotiva. Una delle donne più anziane sbandierava il grosso sedere davanti agli uomini affacciati dalle carrozze, strappando una risata rauca alle colleghe schierate in fila. Qualcosa volò in aria e atterrò a qualche metro di distanza da Eva. Una confezione tubolare marroncina, simile all’anima in cartone di un rotolo di carta igienica. Si scatenò un leggero parapiglia in cui ebbe la meglio una donna dalla testa troppo grossa rispetto al corpo, gonfia di file di bigodini stipati sotto una cuffia da operaia. Agitò il tubo facendolo schioccare. Poi si mise la mano attorno alla bocca e strillò alla carrozza di passaggio.

«Che cosa sono?»

«M&M’s! Confetti al cioccolato!» gridarono gli uomini in risposta.

Eva aveva l’acquolina in bocca. Buffo come adesso potesse venirle al solo pensiero dei dolci. E quegli americani li buttavano dal treno. Deglutì e impugnò la vanga cercando di pensare ad altro. Ma non a Eddie. Non doveva pensare a Eddie.

«Ne vuoi un po’?»

Si girò a guardare. «Io?»

«Sì, tu!» La donna tese la mano, scoprendo un confetto perfettamente tondo e dello stesso giallo intenso dei bigodini che le spuntavano dalla cuffia. «E da dove vengono ce n’è in abbondanza, eh?»

Eva esitò. Il sorriso della donna era complice, l’insinuazione lampante.

«Cosa ti prende? Non sono mica avvelenati!»

Sentì lo stomaco brontolare. Aveva fatto colazione molte ore prima. Tese la mano. «Grazie…»

«Iris.»

Eva annuì. S’infilò il confetto in bocca. Quando la lingua lo portò a contatto del palato, il guscio di glassa si disintegrò rilasciando un sapore di cioccolata dimenticato da tempo. Cercò di centellinarlo ma lo sentiva sciogliersi, dissolversi a una tale velocità che fu costretta a ingoiarlo e basta.

«Mmh… Yankees in astinenza sessuale! Sì, per favore!» Iris alzò le sopracciglia e accennò con la testa al treno. «Finora tredici carrozze, e in ognuna devono essercene circa sessanta o settanta. È…» Si deconcentrò mentre davanti ai loro occhi passava l’ultima carrozza. «Lo vedi quel gruppo che sta arrivando adesso?» disse. «Nella carrozza di coda?»

Eva seguì lo sguardo della donna, temporaneamente accecata dal sole riflesso dai finestrini.

«Guardagli le facce…» Iris aveva un tono di smaniosa curiosità, come di un bambino che veda per la prima volta un corpo nudo. «Lo sai cosa sono quelli, vero?»

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Nella carrozza di coda uno dei soldati dormiva come un sasso, mentre un raggio di sole gli cadeva sul lembo di pelle fra il colletto e la mascella, facendolo luccicare come il carapace di una tartaruga. Bill sognava casa sua. New Orleans. D’infilare dei nichelini nel juke-box del drugstore in un pomeriggio indolente, quando ai primi battiti di Drum Boogie i bicchieri di frappè sul bancone traballavano e le ragazze uscivano ancheggiando dalla cucina per ballare un jive.

Erano lì nella sacca ai suoi piedi, le ragazze del drugstore, nella galleria di volti sgranati che sorridevano fra le pagine di carta velina di una Bibbia stampata dall’esercito: Alice e Pearl nella Genesi, sua madre e sua sorella nei Salmi e Rita Hayworth nel libro dell’Apocalisse. Solo Rita era a colori. Un patinato primo piano staccato dalla rivista Billboard.

«Svegliati, fratello!» gli stava gridando qualcuno all’orecchio. «Siamo arrivati! Fine della corsa!»

Bill aprì gli occhi e vide la nuca di Jimmy mentre questi si voltava sgomitando per trovare posto al finestrino aperto. Balzò in piedi e si tuffò nel marasma di divise finché non sentì sul viso una ventata d’aria contaminata dal fumo. Intravide scorci di ciminiere sporche, di un canale del colore del fango. E poi vide il motivo di tutto quel trambusto.

«Che razza di posto è questo?» Allungò il collo trattenendosi il berretto. «Hanno messo le donne a lavorare alla ferrovia!»

«Accidenti!» Jimmy si era alzato in punta di piedi e cercava di vedere meglio. «Cosa stanno facendo?»

«Sistemano le rotaie, a quanto pare.»

«Non ci credo!» Jimmy fece un fischio. «Non cè da stupirsi che abbiano bisogno di noi. Ehi, Bill, guarda! Ci stanno salutando.»

«Be’, senz’altro hanno dei bei sorrisi.» Con un ghigno ironico stampato in faccia, Bill scrutò la fila di donne in cappello, giaccone e pantaloni larghi. «Ehi, ma vedi anche tu quello che vedo io?»

«Cosa?» gridò Jimmy in risposta. Faticava a farsi sentire fra gli applausi e le grida entusiaste.

«Niente musi neri, neanche uno!»

Jimmy si sporse un altro po’stringendosi il berretto in testa, le nocche tese come la pelle di un tamburo. «Mosè Santo» grugnì. «Cosa gli faremo, alle donne?»

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Eva cercò di non fissare il treno che scaricava sul binario l’ultimo gruppo di soldati americani. A parte nei film, una sola volta aveva visto una persona con la pelle del colore degli uomini che scendevano dall’ultima carrozza. Era venuto a casa a vendere delle spazzole, lei doveva avere otto o nove anni. Sua madre era indaffarata in cucina e l’aveva chiamata quando era suonato il campanello. Eva aveva cacciato un urlo quando aveva visto la faccia dell’uomo, supponendo avesse addosso una maschera. L’aveva fatta pensare a una mela avvolta nella carta e riposta per Natale in un angolo buio della dispensa, dimenticata lì e poi riesumata molto tempo dopo, ormai marrone, vizza e immangiabile.

Al grido di Eva la madre era accorsa dalla cucina e, agitando come una frusta lo strofinaccio che aveva in mano, aveva colpito l’uomo sull’orecchio. Dopodiché gli aveva gridato contro degli improperi, mentre quello indietreggiava barcollando sotto il peso delle spazzole che portava sulla schiena. Eva ricordava ancora l’espressione dei suoi occhi, uno sguardo di rassegnata cautela, come se quel trattamento non fosse niente di diverso da ciò che si aspettava. E lei aveva provato una strana sensazione, di paura mista a vergogna, nel vedere la madre inveire contro un essere umano che, per quanto bizzarro, dava l’idea di essere molto, molto vecchio.

Gli uomini che adesso scendevano dal treno erano piuttosto diversi da quello cacciato via dalla madre. Giovani. Sicuri di sé. Eleganti nelle loro divise chiare. Mentre lei se ne stava lì a guardare, un soldato si mise a ballare un piccolo jive, facendo ondeggiare le spalle e i fianchi in un movimento fluido e ipnotico. I suoi amici ridevano, battevano le mani e facevano schioccare le dita, finché un sergente non saltò su per metterli in riga. Mentre si allontanavano a passo di marcia sorridevano ancora. Sembravano persone capaci di divertirsi.

Eva raccolse la vanga. Una ciocca di capelli ramati, madida di sudore, sbucò dal colletto del giaccone. Di colpo imbarazzata, se la infilò di nuovo sotto la cuffia prima di mettersi a vangare la terra secca e granulosa che aveva sotto i piedi. Non riusciva a immaginarsi cos’avrebbero pensato di lei vedendola con quegli abiti da lavoro cascanti, i capelli raccolti sotto una cuffia e la faccia imperlata di sudore. Sarebbero stati in grado di dire che era una donna?

Nelle ore diurne era una strana creatura asessuata che vestiva e faceva un lavoro da uomo. Di sera, come una sorta di vampira, tornava a essere donna. O, a dire il vero, una persona che portava la gonna anziché i pantaloni, le scarpe anziché gli stivali. Una persona che aveva un figlio cui badare. Trasalì nel rendersi conto che non si sentiva più una donna. Conficcò la vanga nel terreno schizzandosi addosso una manciata di terra.

«Eva? Tutto bene?»

Chi aveva proferito quelle parole aveva la testa avvolta da una sorta di turbante, un foulard di seta leopardato e sbiadito, legato e rimboccato sulla nuca. Sul fazzoletto, all’altezza dell’occhio sinistro, si vedevano un paio di fori di tarme grandi come piselli.

«Cathy! Pensavo facessi il turno di notte.»

«Infatti. Ma mi hanno chiamata. Per sostituire una o due lavative, a quanto pare: non si sa se per via del maltempo o degli yankees

«Li hai visti? Io ho perso il conto delle carrozze.» Eva sorrise. «Erano centinaia, tutti con quelle…»

«Divise aderentissime?» Le sopracciglia di Cathy si alzarono fino a scomparire sotto il turbante. «Impossibile credere che siano troppo dinamici con quella roba addosso, non credi? Pensa quanto resisterebbero a fare quello che facciamo noi!» Con un ampio gesto della mano abbracciò i mucchi di terra sbancati dalle operaie. «Comunque sia, come va? Te la cavi?»

«Più o meno.» Eva distolse lo sguardo. Nella squadra di operaie alla ferrovia, Cathy Garner era l’unica con cui aveva fatto una conversazione degna di questo nome nelle due settimane da che aveva iniziato, l’unica che sapeva tutto di lei. «All’asilo David sembra essersi ambientato. Mi sento ancora in colpa ogni volta che ce lo lascio, ma penso sia…» Non riusciva a dirlo. Si vergognava ad ammettere che, per qualche motivo, era più facile affrontare la situazione lavorando alla ferrovia anziché starsene a casa tutto il giorno con il figlio.

«Lo so» disse Cathy assentendo con il capo. «È difficile convincersi che è meglio così quando si avvinghiano a te in lacrime. Ricordo com’era quando Mikey aveva quell’età. Però devi pur avere qualcosa con cui distrarti.» Prese Eva sottobraccio. «Vieni. Non so tu, ma io muoio di fame.»

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Le pareti della sala mensa alla stazione erano irrimediabilmente impregnate dell’odore di cavolo e montone. Indipendentemente da ciò che offriva il menu, l’aria era intrisa di quell’odore acidulo, tanto che quando entrò Eva avvertì una leggera nausea. Aveva comunque fame. Come del resto tutte le operaie impiegate alla ferrovia. Troppa fame per curarsi dell’odore, delle stoviglie scheggiate e delle macchie sulle tovaglie.

«Ci sono frittelle di sardine o cavolo in agrodolce con tortini di salsicce» lesse ad alta voce sulla lavagna sopra il bancone del self-service. «Seguiti da purea di simil-banane.»

«Ah, le sardine no!» Cathy prese un vassoio e alzò lo sguardo sul menu. «E cosa caspita è la purea di simil-banane? Dal nome fa letteralmente ribrezzo!»

«Pastinache con latte in polvere, probabilmente» disse Eva con una smorfia. «Non so perché ci mettano tanto impegno. Io preferirei mangiarle così come sono, con la pietanza.»

«Anch’io!» Cathy fece scivolare il vassoio sulla passerella metallica. Mentre posava i tortini di salsicce sul piatto, guardò di sottecchi Eva. «Hanno detto che gli yankees lanciavano dolci dal treno. Sei riuscita a prenderne qualcuno?»

Lei fece una risata che era più uno sbuffo. «Non sono mai stata brava a prendere le cose al volo. Li hanno divisi, però. Mi ero dimenticata di quant’è buona la cioccolata.»

«Cioccolata? Caspita! Pensavo fossero gomme da masticare o qualcosa del genere.»

«No. Erano tipo gli Smarties… te li ricordi?»

«Che fortunella sei! Quanti ne hai presi?»

«Solo uno.»

«Bene. Non dovrò ucciderti per non avermene tenuto nessuno, allora.»

Portarono i vassoi a un tavolo vicino alla finestra affacciata sul binario, deserto adesso che i soldati americani se n’erano andati. Per un paio di minuti pranzarono in amichevole silenzio. Una delle cose che Eva apprezzava di Cathy era che non le domandava mai di Eddie. Le altre persone che incontrava (il vecchio del negozio all’angolo, le mamme all’asilo di David) iniziavano o concludevano le conversazioni con domande tipo “Qualche notizia?”. Le loro intenzioni erano buone, certo. Lei allora sfoderava quel sorriso coraggioso che sapeva tanto di falso e scuoteva la testa.

Cathy però era diversa. La prima volta che si erano incontrate, Eva le aveva detto di essere sposata, con un figlio di diciotto mesi il cui padre era disperso, presunto morto. Da allora Cathy non le aveva più chiesto nulla in proposito. Fra loro era stato siglato un tacito accordo: avrebbero parlato di qualsiasi cosa tranne che dei loro uomini.

«Guarda che unghie che ho» disse Cathy allungando la mano per prendere il sale. «Da non credere che una volta lavoravo da Beatties al reparto bellezza, eh?»

«Be’, non sono certo peggiori delle mie!» Eva divaricò le dita. «Ti manca? Quello che facevi prima, intendo.»

«Non proprio.» Cathy si strinse nelle spalle. «Era… be’, non lo so. Non mi è mai sembrato di fare qualcosa di particolarmente utile.» Ingoiò un boccone di salsiccia. «Tu avevi un impiego prima di questo?»

«Ho lavorato in una biblioteca, dopo aver finito la scuola.»

«E ti piaceva? Scusami se te lo dico, ma non sembra molto consono alla tua immagine.»

«No?» Eva sorrise. «Be’, ero un tantino sovversiva, mi sa. La prima settimana mi hanno quasi licenziata.»

«Cos’avevi fatto?»

«Avevo messo un libro sul controllo delle nascite in mezzo alla letteratura rosa.»

A Cathy andò di traverso il boccone. «Ma davvero?»

Eva annuì. «S’intitolava Quello che madri e figlie dovrebbero sapere. Arrivò una mattina per posta e io pensai andasse messo in evidenza. Passai grossi guai con la capo bibliotecaria; suo fratello era il vescovo cattolico di Birmingham…»

Uno strillo al tavolo accanto le fece voltare.

«È vero? Sono lunghi? E pelosi?» Era Iris, la donna che aveva diviso i confetti. Aveva le mani sui fianchi e le lacrime agli occhi per il gran ridere.

«E come accidenti faccio a saperlo? Mica vado in giro a infilare la mano nelle braghe degli uomini!»

Eva non aveva mai visto la donna che aveva appena parlato. Aveva le sopracciglia esageratamente depilate e un sorriso malizioso stampato in viso. Fece una pausa per accertarsi di aver calamitato tutta l’attenzione delle altre sedute al tavolo.

«Me l’ha detto mio padre. A quanto pare hanno la coda come le scimmie. La settimana scorsa questo yankee ha fatto visita alle Pattuglie di Vigilanza Antiaerea, illustrando cosa fare se incontrano un soldato americano di colore. Siate educati ma non troppo amichevoli, ha detto così, perché quelli la notte ululano e se gli salta la mosca al naso fanno a pezzi la gente. E quando si fa sera inizia a fremergli la coda.»

Iris e le sue amiche si contenevano a malapena. Con i piatti intatti davanti a loro, faticavano a trattenere le risate isteriche.

Eva e Cathy si scambiarono un’occhiata.

«Li ho visti uscire dalla stazione» disse Cathy sottovoce. «E tu?»

Eva annuì, fissando il proprio pranzo mangiato per metà. Si sentì avvampare sul collo e poi in viso, che prese a scottarle.

«Eva? Tutto bene?»

«Sto benissimo. Il cibo è un po’ caldo, tutto qui: avrei dovuto aspettare che si raffreddasse.» Come poteva spiegare a Cathy le sensazioni che quello stupido discorso aveva smosso dentro di lei? Fin dalla nascita di David si era sentita esposta all’interesse altrui come un’ostrica che crea una perla da un granello di sabbia. Gente irriguardosa che fissava il passeggino e smetteva di colpo di sorridere quando vedeva il visino fare capolino dal lenzuolo. E lui allungava le mani verso di loro come fanno i bambini, ma nessuno voleva toccarlo.

Avrebbe voluto scuotere l’amica di Iris fino a farle battere i denti, lanciarle un piatto di purea di simil-banane su quella faccia malevola e ridanciana. Guardò le macchie di sporco sulla tovaglia e infilò meccanicamente la forchetta nel pastone che si rapprendeva nel piatto.

«Sabato cè un ballo alla Civic. Ti va di venirci?»

Eva alzò lo sguardo. Cathy aveva tirato fuori i lembi del turbante sollevandoli come due orecchie da coniglio. Impossibile non sorridere. «Non lo so» rispose. «Non ballo da non so più quanto.»

«Bene. Siamo in due.»

«Be’… Dovrei trovare una babysitter.»

«Non potrebbe pensarci tua madre? O magari tua sorella… è abbastanza grande, no?»

«Abbastanza grande per fare la babysitter, sì; abbastanza grande anche per i ragazzi. Se scopre che c’è un ballo, col cavolo che la vedrò.»

«Be’, la mia vicina si è offerta di guardarmi Mikey; sono sicura che non le dispiacerebbe badare a un altro bambino.»

«Mi pare di percepire una certa insistenza o sbaglio?» Eva alzò gli occhi al cielo. «D’accordo, chiederò a mia madre. A una condizione, però.»

«Quale?»

«Che tu non mi scarichi per il primo americano con una tavoletta di cioccolato e un pacchetto di sigarette.»