MONSIEUR IN INTIMITÀ
Thomas Mann, in Morte a Venezia, dice: “È certo buona cosa che il mondo conosca solo l’opera bella, non le sue origini, le circostanze della sua nascita; perché la conoscenza delle fonti dalle quali l’ispirazione è scaturita lo turberebbe, lo riempirebbe di sgomento, annullerebbe gli influssi dell’Egregio”.2
Il che vuole significare che di un autore è meglio non conoscere troppo la vita. Ma come fare con Marcel Proust, che ha scritto la Ricerca condendola con una forte componente autobiografica? Impossibile. E che dire di coloro che, dopo averne riconosciuto la grandezza, hanno scandagliato ogni angolo della sua infanzia e della sua maturità passando per ogni piega della sua vita? E così di Monsieur Proust sappiamo persino quello che ci racconta la sua ultima cameriera Céleste (vedremo più in là, almeno dal nostro punto di vista – quello culinario –, quanto poco questa donna se ne intendesse di cucina).
Marcel nacque da una famiglia agiata: un padre medico celebrato e onorato, il primo a lasciare la natia Illiers, dove i Proust erano tra i notabili sin dal XVI secolo; una madre di ottima famiglia ebraica, i Weil, con un ministro fra i suoi parenti prossimi. Nella casa della famiglia della madre, a Auteuil, viene alla luce Marcel, il 10 luglio 1871. Due anni dopo arriva suo fratello Robert. Nel romanzo l’amata Combray è l’unione fantastica di Illiers e di Auteuil. Scopriremo che anche la celebre figura di Françoise, a servizio dalla zia Léonie del Narratore, è “la cuoca delle cuoche”, quella che unisce i “tipi” delle cuoche di casa Proust. Dunque, con cuoche così, si può capire perché il padre di Marcel affermasse: “Sono stato felice tutta la mia vita”. Forse conta anche il fatto che avesse una vita fortunata dal punto di vista professionale e personale. Ricordando Tolstoj che attacca Anna Karenina con la frase lapidaria: “Tutte le famiglie felici sono simili fra loro, ogni famiglia infelice è infelice a modo suo”3, non ci occupiamo della felicità domestica del Signor Proust padre, diciamo solo che con Marcel la madre fu troppo protettiva.
Marcel era cagionevole di salute e ciò lo portò presto alla tomba. Marcel era quel che si dice un ragazzo troppo sensibile e ciò ha dato adito ai soliti pettegolezzi sulla sua sessualità. Marcel non trovò mai un lavoro stabile perché non gli interessava poi così tanto e ciò gli ha fatto, forse, perdere un po’ il senso delle cose pratiche. Marcel rimase sempre attaccato a quattro angoli della terra, Parigi, la Bretagna e la Normandia, qualche viaggio a Venezia, Belgio e Olanda, le acque a Evian e ciò lo ha forse reso un po’ troppo claustrofobico.
Ma Marcel ci ha dato la Ricerca. Marcel aveva un occhio lungo per le psicologie: osservava, ascoltava, riportava, interpretava. Come un pittore fiammingo, non perdeva di vista il valore simbolico dei suoi personaggi e come un pittore impressionista, tratteggiava in modo lieve e acquoso i loro confini lasciandoli intravedere nello spazio. Leggerezza e profondità: che grande raffinatezza!
Nel 1911 compie il primo grande passo, completando La strada di Swann, che però rifiutano di pubblicare nell’ordine: Le Figaro (per una pubblicazione a puntate), Fasquelle, Gallimard e Ollendorf. Lo pubblicherà Grasset nel 1913. Ma già nel 1914 la Nouvelle Revue Française (Gallimard) si pente, ne riacquista i diritti e prenota i successivi volumi. Dal 1919 sino al 1922, anno della sua morte, si pubblicano All’ombra delle fanciulle in fiore, I Guermantes I e II, Sodoma e Gomorra I e II. Postumi, sino al 1927, escono La prigioniera, La fuggitiva e Il tempo ritrovato. Quali sono i fatti e gli elementi cruciali della vita di Marcel? Il liceo Condorcet a Parigi, l’anno volontario nell’esercito, le tante amicizie, i viaggi con la madre, la morte di quest’ultima, i Balletti Russi, l’Hotel Ritz, il suo segretario Alfred Agostinelli, il compositore Reynaldo Hahn, il premio Goncourt e così via.
Nel romanzo c’è tutto. Già in opere precedenti Proust espresse i suoi interessi verso l’ambiente aristocratico come in I piaceri e i giorni o in Jean Santeuil, inoltre fu studioso e traduttore dell’autore inglese John Ruskin. Ma quando iniziò a scrivere la Ricerca, si ritirò sempre di più nel suo appartamento, nel suo letto, lontano da quel mondo e da quella mondanità che lo avevano tanto attratto. Incontrò negli ultimi tempi, casualmente, il grande scrittore irlandese James Joyce, dopo la prima del Renard di Stravinsky, a casa del romanziere inglese Sydney Schiff. Pare che, pur conoscendosi di fama, nessuno dei due avesse letto i libri dell’altro. Si parlarono poco: emicrania per Joyce, bruciori di stomaco per Proust, ma entrambi confessarono la predilezione per i tartufi.
Noi golosi siamo salvi: anche se la conversazione non fu gran che, il gusto per la leccornia vien sempre fuori.
Alla domanda, che gli posero alcuni giornalisti, su quale mestiere avrebbe fatto, se obbligato, tra quelli manuali, Proust rispose: “Il panettiere. Poiché è cosa di grande onore dare agli uomini il loro pane quotidiano”. Certo scherzava, ma guarda caso ancora su un cibo. Ma per venire alla conclusione a proposito di un uomo tanto controverso e combattuto, che di sicuro non potè lanciarsi nella stessa dichiarazione di suo padre sulla vita e sulla felicità, citiamo ciò che egli stesso scrisse nel suo Contro Sainte-Beuve e che potrebbe completare ciò che abbiamo riportato dal romanzo di Thomas Mann.
Proust, attaccando la celebre teoria del filosofo Sainte-Beuve, secondo cui l’opera di uno scrittore dovrebbe essere innanzitutto il riflesso della sua vita e tramite essa essere spiegata, scrive: “Un libro è il prodotto di un altro me stesso, diverso da quello che manifestiamo nelle nostre abitudini, in società e nei nostri vizi”.
2 Thomas Mann, La morte a Venezia, Rizzoli, 1959. Traduzione italiana di Bruno Maffei.
3 Lev Nikolaevic Tolstoj, Anna Karenina, Garzanti, 1965. Traduzione italiana di Pietro Zveteremich.