Capitolo otto

«No-no-no!».

«Sì-sì-sì», urlai a mia volta, mostrando tutta la mia maturità. «Un minuscolo pezzettino di carota e poi una cucchiaiata di spaghetti. Era questo il patto».

Gibby rise e scosse la testa, entusiasta del nostro gioco. Intanto Ben, seduto davanti a noi, sorrideva. Probabilmente perché non era lui quello che doveva convincere il piccoletto a mangiare la verdura. Il braccio di ferro virtuale per vedere chi dei due cedeva per primo, rendeva il momento dei pasti sempre super divertente. Per Gib, non per me. Di solito perdevo sempre io. Anche se avevo scoperto che se gli confiscavo piatto e cucchiaio prima dell’inizio delle trattative, ci sarebbe stato meno cibo sparso ovunque. Un bene per tutti, in particolare per me.

«Ti sei comportato bene tutta la mattina». Scossi la testa. «Adesso sono triste. Stai facendo diventare triste la zia Martha. Mi auguro che tu sia fiero di te, ometto».

Gibby batté le mani. «Sì!».

«Ci avrei scommesso».

«Ha preso da te». Ben sorrise oltre il bordo della tazza di caffè. «A volte gli spuntano anche delle piccole corna sulla testa. Assomiglia tutto a te, sorella».

«Sogni! È sputato suo padre, sembra fatto con lo stampino».

«Tesoro, mangia un pezzetto di carota», disse, rivolgendosi di nuovo al figlio. «Su, i coniglietti mangiano le carote».

«’oniglietti?», domandò Gib dal seggiolone, improvvisamente interessato.

Annuii. «E i coniglietti fanno salti spettacolari. Sanno saltare molto in alto! Vuoi essere bravo a saltare come un coniglietto?».

Dopo un attimo di esitazione, il bambino aprì la bocca. Non persi tempo, gli ficcai dentro la carota. Vittoria.

«Detto ciò», continuai, riprendendo la conversazione tra adulti, «anche tua moglie è una fottuta peste».

«Fottuta», borbottò Gib, la bocca piena di una poltiglia arancione.

Ben e io trasalimmo, ma poi ci stringemmo nelle spalle. Aveva ripetuto cose peggiori in passato. Ne avrebbe ripetute di peggiori in futuro. Visto che buona parte del tempo viveva circondato da rockstar, era già sorprendente che non andasse in giro camminando da spaccone e dandosi delle arie, e non imprecasse in varie lingue.

«Tutta farina del suo sacco l’idea di trascinarti a casa di David e Ev ieri sera, io non c’entro nulla», disse Ben. «Anche se so che è andato tutto bene».

«A quanto pare, superati i trent’anni, posso dire di essere ufficialmente in grado di compiere piccoli gesti di maturità. Chi l’avrebbe mai detto?»

«Buon per te».

«Bah. Sarà».

Ben sorrise.

«Come va con la scelta dei brani di Adam?»

«Benone. Il ragazzo ha del potenziale, te l’assicuro».

«Ti credo. L’ho sentito e sono sicura che farai un ottimo lavoro con l’album».

«Grazie. Comunque non siamo noi gli unici a pensare che il ragazzo farà strada», disse. «In questo momento sta parlando con Adrian vicino alla piscina».

Sbattei le palpebre, incredula. «Aspetta. Hai lasciato Adam da solo con Adrian?».

Ben mi guardò con espressione altrettanto confusa. «Perché non avrei dovuto?»

«Perché Adam è un ragazzo inesperto e Adrian ci metterà due nanosecondi a fargli firmare un contratto capestro che gli riconosca ogni diritto?». Posai il cucchiaio e mi asciugai le mani in uno strofinaccio. «Porca puttana, Ben. Come hai potuto?»

«Puttana», disse Gib.

«Guarda tuo figlio mentre io vado a prendermi cura di un altro bambino», gli ordinai, poi mi alzai e mi diressi verso il corridoio più vicino.

«Ha venticinque anni. Sa badare a sé stesso».

«Oh, certo, come no».

E senza perdere altro tempo, mi misi a correre. Quel povero ragazzo rischiava di essere già stato manipolato da Adrian. Probabilmente lo aveva convinto a legarsi a lui a vita – una specie di schiavo, in pratica – riconoscendogli anche una commissione stratosferica. Per impressionare la sua preda, di sicuro Adrian aveva indossato un completo grigio e si era messo una di quelle orrende collane di oro massiccio che non gli stavano affatto bene.

Adam si stava grattando la testa, lo sguardo fisso su un cospicuo mucchio di documenti posati sul tavolo. «A me interessa solo suonare le mie canzoni, sa?»

«Ma certo», disse Adrian porgendogli una penna.

«Fermo!», urlai, scostando da sotto il tavolo una delle sedie eleganti accanto a Adam. «Non firmare un cavolo di niente, tonto».

«Martha», il sorriso affabile di Adrian divenne velenoso. «Che bello vederti. Qualche problema?»

«Adam, guardami». Il tempo trascorso con un moccioso di due anni era pur servito a qualcosa. «I ragazzi fanno verificare ai loro avvocati tutto quello che Adrian propone e comunque non accettano mai la sua offerta iniziale riguardo al periodo di validità del contratto. Mi hai capito?».

La risata del manager risultò forzata e falsa. «Ma in questo caso la situazione è diversa. Adam è solo agli inizi e, in tutta onestà, può già ritenersi fortunato se io…».

Sollevai una mano. «Taci. Hai avuto modo di parlare a tuo tempo. Adesso tocca a me».

«Be’, cosa mi consiglia di fare?», mi chiese Adam con un gran sospiro.

«La sua può essere la prima proposta che ricevi ma non vuol dire che resterà l’unica».

«Forse».

Alzai gli occhi al cielo. Raccomandandomi sinceramente a Lui. «Stanne certo. Hai talento. Perché pensi che Adrian sia volato da Los Angeles e stia cercando di impressionarti ostentando tutto quell’oro?».

La mano di Adrian volò sulla pesante catena d’oro massiccio e il manager finse una profonda indignazione. O forse era sincera. Comunque, i denti e l’abbronzatura di sicuro non lo erano. Impossibile che avesse di natura faccette dentali cosi esageratamente bianche e la pelle arancionata. Puah!

«Chiunque ti incoraggi a firmare qualcosa senza aver prima sentito un parere legale non è la persona giusta con cui lavorare».

«Stavo cercando di far risparmiare soldi al ragazzo», disse Adrian.

«Invece un uomo d’affari senza scrupoli potrebbe approfittarsi della situazione e abbindolare il malcapitato facendogli un’offerta talmente ridicola che nel giro di cinque minuti il poveretto si pentirebbe d’averla firmata. Non trovi?».

L’espressione di Adam si fece sconsolata. «Merda. Adesso non so più cosa fare».

«Ben ti farà parlare con il suo avvocato. Non preoccuparti». Gli diedi qualche buffetto sul braccio. «Capisco che tutto ti sembri eccitante e che tu lo veda come una splendida opportunità. Ma non devi mai essere precipitoso nel firmare un contratto se prima non ne conosci bene i termini. Mai. Intesi?».

Annuì convinto.

«Vuoi davvero seguire il consiglio di una donna che indossa una maglietta con dei cani a cartone animato e che ha tra i capelli avanzi di spaghetti al pomodoro?», biascicò Adrian.

Gemetti e piegai la testa. «Pensavo di averli tolti tutti. Adam, per piacere, ci pensi tu?»

«Certo». E iniziò a pulirmi ciocca per ciocca. Ah, che stile.

«E poi sono Super Cucciolotti, non cani. Attento a come li chiami».

«Può farmi lei da manager?», mi chiese Adam ancora impegnato a pulirmi i capelli. Le dita dei chitarristi a volte si rivelano davvero utili. «Mi spaventate entrambi e mi mettete un po’ in soggezione, ma con lei riesco a gestire l’ansia. Voglio dire, riesco a parlare senza confondermi e senza andare nel panico per ogni minima cosa. In più, quei festival a cui l’altro giorno mi ha consigliato di partecipare, sarebbero perfetti. Mi piacerebbe se riuscisse a iscrivermi».

«Lo farò senz’altro».

Sorrise. «Magnifico. Ah, penso di averle tolto tutti gli spaghetti. C’è rimasto un po’ di sugo, quindi dovrà comunque lavarsi i capelli».

«Grazie», gli dissi. «Senti, ancora non ho riflettuto bene se farti o meno da manager. Lascia che ci pensi un po’ su, okay?».

Dall’altra parte del tavolo il viso di Adrian si era acceso di una spiacevole tonalità viola. «Vuoi che Martha ti faccia da manager? Sei impazzito? Per l’amor del cielo, è una segretaria».

«Assistente personale, prego», scattai. «E con molta esperienza. Quindi se pensi che negli anni in cui ho lavorato con la band io non mi sia occupata di tutto quello che facevano i ragazzi e non abbia sempre controllato che nessuno li fregasse o li mettesse nei casini, be’, ti sbagli di grosso».

«Cosa stai insinuando, esattamente?»

«Oh, non ti scaldare subito», gli dissi. «Sei un bravo manager, Adrian. Non lo nego. Ma non è detto che tu vada bene per qualsiasi artista. Forse nessun manager potrebbe pretendere tanto».

L’uomo corrugò la fronte, decisamente incazzato.

«Qualunque cosa Adam decida di fare, deve prendersi il tempo necessario per informarsi bene sulle sue responsabilità e sui termini di qualsiasi contratto che firmerà da adesso in poi». Incrociai le braccia. «Non sei d’accordo, Adrian?»

«B-be’, ovviamente nessuno vuole approfittarsi di lui».

«Certo che no».

«Bene. Okay», disse Adam, facendo un bel respiro. «Leggerò tutti i documenti, mi farò dare un parere legale e la richiamerò. Grazie».

Adrian grugnì. Quando si dice “non essere esattamente il ritratto della felicità”.

Io, invece, sorrisi soddisfatta e Adam sembrò molto più rilassato. Compiere delle buone azioni era figo, ci stavo prendendo gusto, chi l’avrebbe mai detto. Forse avrei potuto essere una brava manager. Urgeva una ponderata riflessione sull’argomento.

I problemi legati alla possibile frequentazione (o come altro si volesse definire il nostro rapporto) tra me e un addetto alla sicurezza divennero evidenti quattro giorni dopo, durante i quali non vidi mai Sam. Neppure una volta.

Si rincorrevano ormai le voci sul nuovo album in uscita. I paparazzi avevano iniziato a seguire i membri della band e le loro compagne per cercare di saperne di più. Per complicare ulteriormente le cose, una vecchia fiamma di Jimmy, una famosa attrice di Hollywood, aveva appena annunciato il suo fidanzamento. Così tutti volevano anche un commento da parte del cantante.

Un paparazzo in particolare, molto zelante, si stava rivelando una vera rottura di coglioni. Era stato così coscienzioso nello svolgimento del suo lavoro che più di una volta aveva strattonato David per la camicia, afferrandolo da dietro, o si era buttato davanti alle auto per cercare di scattare una foto. Per rimpolpare gli uomini necessari a tenere d’occhio il fotografo/stalker perennemente in agguato, vennero assunti altri addetti alla sicurezza. L’atmosfera era diventata elettrica.

Una situazione che avrei saputo gestire senza alcuna difficoltà, se Sam non fosse scomparso del tutto. Mi aveva scritto solo un fottuto messaggio. Tutto qui.

«E poi?», chiese una delle gemelline di Jimmy e Lena. Non saprei dire quale. Non riuscivo mai a ricordarmi come si chiamavano.

Mi trovavo di nuovo in un angolo della sala prove, seduta coi bambini e un batterista idiota, circondati da un impressionante assortimento di giocattoli. Nel frattempo Ben e Jimmy erano impegnati nella sala di registrazione. David sedeva su uno dei divani con la chitarra in grembo e un foglio e una penna di lato. Era perso nel suo mondo, come avveniva tutte le volte che scriveva una canzone.

Dal momento che le case erano tra i pochi posti sicuri in cui i componenti della band riuscivano a ritrovarsi, stavamo spesso tutti insieme. Per me andava benissimo. In questo modo erano tutti felici, grandi e piccini, perché potevano giocare e suonare assieme.

Gib si tolse il pollice dalla bocca. «Puada».

«Giusto», dissi dandogli il cinque per congratularmi con lui. «Poi i Super Cucciolotti indossarono gli occhiali da sole della nuova collezione di Prada e corsero incontro a nuove divertenti avventure, giochi e cose del genere, sapendo che grazie ai loro meravigliosi consigli di moda e alle opportune missioni di salvataggio, i criceti avrebbero vissuto felici e contenti per sempre. Fine».

La gemella che mi aveva invitata a proseguire la storia, mi guardò perplessa. Immagino che non fosse ancora abituata al mio modo di raccontare le favole.

«Devo ammettere», disse Lena, mentre passava in rassegna i vari scatti nella sua fotocamera di ultima generazione, «che per un attimo mi sono davvero preoccupata vedendo che il criceto non sapeva decidere quale modello di jeans prendere».

«Quelli a zampa d’elefante sono stati una scelta coraggiosa, per quanto io sia fermamente convinta che torneranno di moda», affermai. «Harry il criceto sarà il più figo e il più popolare del suo quartiere».

Mal annuì mentre finiva di fare una terza minuscola treccina a una delle gemelle. «La tua favola mi ha tenuto col fiato sospeso, Marty, come quando si guarda un film appollaiati sul bordo del divano. Il che è tutto dire considerato che sono seduto per terra. Okay, ecco completata un’altra acconciatura di successo. Un applauso per lo zio Mal!».

I bambini batterono le mani.

«M-A-L, è il migliore. Sì, lo è». Il batterista si produsse in una sessione completa di gridolini, incitamento, balletto, saltelli, movimento delle mani, tipico delle più esperte cheerleader. «Urrà per lo zio Mal!».

Lena si limitò a scuotere la testa. «Martha, vieni a vedere questa foto. Penso potrebbe essere perfetta per la copertina dell’album».

«Arrivo», dissi balzando in piedi.

«Adesso posso smetterla di fissare il muro con sguardo leggermente tenebroso per quanto espressivo?», chiese Adam.

«No, resta fermo così», ordinò Lena. «La luce è perfetta».

Mentre riflettevo se diventare o meno manager di Adam (con Sam scomparso dalla circolazione avevo un mucchio di tempo per pensare a cose serie), per quel giorno avevo scelto di occuparmi della sua immagine come stylist di fiducia. Si era offerto anche Mal, ma noi gli avevamo permesso di esercitarsi solo sui bambini. Ecco da dove venivano tutte quelle acconciature folli in testa ai presenti di età inferiore ai tre anni. L’altra gemellina sfoggiava una pettinatura alla moicana mentre Gib aveva i capelli sparati in alto. Per ottenere un miglior risultato erano stati adoperati lacca, gel e vari altri prodotti di bellezza. Lizzy e Ben avrebbero dovuto fargli il bagnetto quella sera. Mio nipote aveva la tendenza a urlare come un ossesso quando veniva l’ora di lavarsi i capelli. Non mi sarei mai offerta volontaria per dare una mano.

«Bella», dissi, esaminando la foto.

«La parete sarà tagliata fuori dall’inquadratura, ma ora capisci cosa intendevo quando ho parlato della luce?».

Annuii. «Luci e ombre creano un gioco perfetto. Molto d’impatto».

«Mi sento uno stupido», borbottò Adam vestito con una camicia nera e un paio di jeans strappati. Avevamo azzeccato il look giusto per valorizzare al massimo i capelli spettinati e il fisico allampanato.

«E lo sei», disse Mal. «Tranquillo».

Dave ridacchiò. «Abituatici. La sessione fotografica è imbarazzante da morire. Ti ricordi la volta in cui hanno cercato di farmi indossare dei pantaloni rossi con le paillettes?»

«Spettacolari. Anche se il completo a scacchi era il mio preferito».

«In realtà, a me piacevano entrambi».

«Davie, sei proprio un narcisista».

«Buon pomeriggio, signore e signori». Una voce profonda, alquanto familiare, si udì entrare nella stanza. «E a voi bambini, naturalmente».

Alzai la testa di scatto, socchiudendo gli occhi.

Sam si bloccò. «Amore mio, che bello vederti. Qualcosa non va?»

«Già, davvero bello rivederti», dissi, allontanandomi dalla fotocamera e dirigendomi verso l’addetto alla sicurezza. «Direi addirittura sorprendente».

«Che significa quel tono di voce?»

«Prova a indovinare».

«Che sei molto, molto arrabbiata». Mi fece scivolare un braccio attorno alla vita. Non glielo tirai via. Non ancora, almeno.

«Quattro giorni, Sam. Quattro giorni senza quasi darmi una caz…». Abbassai lo sguardo giusto in tempo per vedere Gibby che mi si attaccava a una gamba. «Una cavolo di notizia».

«Sam-Sam-Sam». Il marmocchio gli sorrise, allungò le braccia e cominciò a battere delicatamente le manine sui pantaloni neri di quella montagna d’uomo. Che al momento era in guai piuttosto seri, direi con la merda fino al collo.

«Ciao, Gibby». Sam sorrise poi sospirò. «Martha, sono stato impegnato a casa di Jim e Lena. Ti ho mandato un messaggio per avvisarti».

«Un unico messaggio. È tutto quello che sei riuscito a fare».

Il suo pomo d’Adamo ondeggiò. «Ah…».

Non dissi nulla.

«Avrei dovuto almeno fare di tutto per telefonarti. Hai ragione».

«Continua», lo incoraggiai. Ancora senza sorridere.

«È possibile che abbia un po’ la tendenza a lavorare troppo. Be’, siamo stati molto impegnati… e, ehm…». Si guardò attorno un tantino agitato, forse per cercare ispirazione o per implorare l’aiuto di qualche adulto presente. Che bello avere così tanti testimoni dell’ennesimo momento cruciale della nostra relazione.

«Posso ricordarti che sei stato tu a dire che lavorare ventiquattro ore al giorno sette giorni su sette non ti interessava più?», dissi. «Che volevi avere tempo per dedicarti anche ad altro nella vita? Tipo una relazione seria, magari?».

Dischiuse leggermente le labbra, ma non disse nulla.

«Considerato il detto “il buongiorno si vede dal mattino” secondo te scomparire per quattro giorni mandando solo uno striminzito messaggino significa avere una relazione seria?»

«Ribadisco che avrei dovuto fare il possibile per mettermi in contatto con te». S’inumidì le labbra. «Ho sbagliato. Adesso me ne rendo conto».

«E la prossima volta che dovesse esserci un’emergenza?»

«Ti chiamo?»

«Non mi basta», dissi, voltandomi dall’altra parte.

«Amore…».

«Se vuoi che io mi impegni e creda in noi due, devi fare di tutto per impegnarti anche tu. Potranno sempre esserci imprevisti, problemi di lavoro da risolvere, per i quali sarà necessaria la tua presenza. Lo capisco». Cercai di abbassare un po’ i capelli di Gibby. Non funzionò, ma accarezzargli la testa mi aiutò a rilassarmi. «Non puoi parlarmi di matrimonio e bambini, anche solo per scherzo, e poi scomparire per giorni».

«Non stavo scherzando», disse Sam, la voce profonda e seria.

«Matrimonio e bambini?». David sgranò gli occhi. «Davvero?».

Sam si schiarì la voce. «Sì, Dave. La amo. È un problema?».

Porca puttana. Rimasi impietrita.

«No. Solo che… no», disse David. «Voi due? Giusto. Ehm, non sono fatti miei. Scusate, io…».

«Direi che adesso è meglio che tu stia zitto, amico», suggerì Mal in modo piuttosto saggio.

«Già».

Sam mi prese il viso tra le mani, un’espressione intensa sul viso, la fronte corrugata. «Amore, mi dispiace. Hai ragione, ho fatto un casino ma è vero che voglio rallentare un po’ con il lavoro: non mi va più di essere impegnato ventiquattro ore su ventiquattro tutta la settimana, rinunciando ad avere una vita privata. Ma sei tu il capo, quindi dimmi solo come risolvere la questione e lo farò».

«Decide Marty?», chiese Mal, una nota sbigottita nella voce. «Sul serio, amico?»

«Sssh», sussurrò Lena in un sibilo.

Feci del mio meglio per non prestare attenzione a nessuno di loro e cercai di concentrarmi solo su Sam, fermo davanti a me, in attesa. Perché ero io il capo. Almeno in quel momento. La responsabilità richiedeva che riflettessi bene su quanto stavo per dirgli. «Non voglio decidere io della tua vita, però voglio sicuramente farne parte. Ma sono certa che se continui ad avere questi ritmi di lavoro, il problema si ripresenterà».

Annuì. «Vuoi che prenda in considerazione l’idea di ritirarmi?»

«No», dissi, scuotendo leggermente la testa. «Tu sei come me, credo. Senza qualcosa che ti tenga occupata la mente, piano piano impazziresti».

«Forse».

«Di sicuro».

«E allora?», domandò. «È il momento di cambiare professione?»

«Ma sei bravo nel tuo lavoro e ti piace farlo. Cavolo, sei il migliore».

«Cavolo», ripeté Gibby, sempre attaccato alla mia gamba.

«Quindi… che ne dici di metterti in proprio?», chiesi, continuando a riflettere a voce alta. «Che ne dici se invece di stazionare fisso all’ingresso o per strada a tutte le ore, non diventi il responsabile della sicurezza che gestisce e organizza il lavoro in ufficio e poi è operativo solo in certe occasioni?».

Nello sguardo di Sam lessi che la mia proposta lo intrigava ed era degna di essere presa in considerazione. «Sai… non è affatto una cattiva idea».

Sorrisi.

«Potrei creare una mia società di sicurezza nel settore privato». Mi baciò delicatamente le labbra. «Per questo sei tu il capo, amore. Bellezza e intelligenza: un mix letale».

Mal si schiarì la voce. «Scusate se vi interrompo, ma… Sam, tu lavoreresti ancora per noi, giusto?»

«Lavorerei per voi, Malcolm, ma come consulente per la sicurezza. E vi farei un prezzo di vero favore».

«Un prezzo ragionevole», lo corressi. «Non esageriamo».

«Uh», disse il batterista. «Allora, okay. Proseguite pure».

«Quando non sarai impegnata con Adam, mi daresti una mano?», mi chiese Sam. «Organizzare il lavoro al meglio e controllare che tutto fili liscio sarà impegnativo e avrò bisogno di un aiuto».

«Davvero? E vuoi coinvolgere anche me? Una specie di socio?»

«Certo».

Sorrisi. «Ne sarei felicissima».

«Non scomparirò mai più, promesso», disse, e mi baciò di nuovo. Un bacio più intenso, più carnale, stavolta. Ma comunque non così passionale da schiacciare il marmocchio che era ancora attaccato alla mia gamba. Mi baciò come se gli fossi mancata addirittura più di quanto lui era mancato a me. Perché era ovvio che mi fosse mancato. Accidenti. Forse allora era vero che, dopo tutti i casini che avevo combinato, da adesso in poi le cose sarebbero andate alla grande.

Quando finalmente ci staccammo per riprendere fiato, avevo ancora lo stesso sorrisetto sulle labbra. «Hai detto che mi ami».

«Per quale altro motivo ti chiamerei amore, eh?». Anche lui mi sorrise. «E, a quanto vedo, la cosa non ti spaventa più né mi sembri andata nel panico. Ne sono davvero sorpreso».

Feci spallucce. «Eh. Avendo avuto tanto tempo a disposizione per riflettere su varie cose, mi sono resa conto che non mi sarei arrabbiata tanto quando sei “scomparso dai radar” se non ci fosse stato qualcosa di davvero importante tra di noi».

«Caspita, ammissione molto coraggiosa da parte tua, amore».

«Grazie. Condivido».