Capitolo uno

«Non ci posso credere», dissi con voce stizzita. «I miei stivali di Valentino si appiccicano letteralmente al pavimento. Questo per dire quanto è sporco il locale».

Lizzy si limitò a sorridere. «Te l’avevo detto di vestirti casual».

«L’ho fatto».

Il sorriso si allargò.

«Un jeans e una maglietta sono casual».

«Una maglietta? È di velluto, Martha». Si portò la bottiglia di birra alle labbra e ne bevve un sorso. «Te l’avevo detto che saremmo andati in un posto informale. Se hai sbagliato mise è solo colpa tua».

«Ma il velluto è di moda!».

«La smettete di parlare, voi due? Sto cercando di ascoltare», disse Ben, mio fratello. Quello stupido capellone stava stravaccato sulla sedia e intanto muoveva la testa al ritmo della musica.

Lizzy mi si avvicinò con fare cospiratorio. «Lo so perché ti sei vestita così carina».

Non dissi nulla. Non c’era nulla da dire.

Spostò lo sguardo sull’uomo in piedi di fronte a noi in fondo al bancone del bar. No, no, non avrei voltato la testa. Non avrei abboccato alle sue stronzate. Dopotutto, ero riuscita a evitare con successo quell’uomo nelle quarantott’ore, o giù di lì, che erano trascorse dal mio non troppo onorevole ritorno a sorpresa sulla West Coast. Pur trovandoci entrambi sotto lo stesso tetto, di una casa decisamente grande, però.

A ogni modo, c’era da dire che stasera stava davvero bene vestito con un paio di jeans, una maglietta bianca e una giacca di pelle nera. Samuel Rhodes, meglio conosciuto come Sam. Non si poteva definire un bell’uomo, con quel viso dai tratti spigolosi e il collo taurino, ma qualcosa in lui mi affascinava. Aveva la testa rasata e il fisico atletico e muscoloso, e le mie stupide dita fremevano dal desiderio di esplorarlo.

Okay. Prima o poi era scontato che girassi la testa. Merda, mi beccò proprio mentre lo stavo guardando.

Sollevò appena gli angoli della bocca, giusto il necessario per scombussolarmi un po’, poi tornò a fare il suo lavoro: controllare, con una certa disinvoltura, la sala gremita. Il mio cuore non aveva accelerato i battiti per qualcosa che aveva fatto lui. Evidentemente avevo ancora un po’ il fiatone nonostante fossimo arrivati nel locale già da una mezz’oretta. Tutto qui. Da notare che lui, a differenza di qualunque altro maschio eterosessuale a cui potevo interessare, non ci aveva mai provato con me. A pensarci bene, mai lanciato alcun segnale in tal senso. Punto.

Cosa poteva significare, allora, quello strano sorrisetto? Niente di che. Lui aveva ben altro a cui pensare e non stava certo in giro a perder tempo. Sam era quasi maniacale quando si trattava di svolgere con professionalità e dedizione il suo lavoro. No, Lizzy doveva essersi sbagliata, non aveva nessun debole per me. Un po’ di chimica e qualche leggero imbarazzo non dimostravano proprio un bel niente. A meno che non fosse lui a prendere l’iniziativa. Perché di sicuro io non avevo intenzione di far nulla, visti anche i miei complicati trascorsi in campo sentimentale.

«Oooh, beccata», disse Lizzy. «La guardia del corpo ti ha colta sul fatto mentre lo stavi guardando».

«Smettila». Sollevai appena il mento, cercando di non corrugare la fronte, perché fa venire le rughe. «Io e Sam ci conosciamo da anni e non è mai successo niente. Sei completamente fuori strada».

«Davvero?»

«Proprio così, non c’è niente tra noi».

«Allora perché lo stavi fissando?».

Decisi di non risponderle. «E poi lo sai che preferisce essere chiamato “l’uomo della sicurezza” invece che guardia del corpo».

Lizzy rispose al mio commento con una risatina e un guizzo malizioso nello sguardo. Quanto mi piaceva mia cognata negli ultimi tempi.

Irritato, Ben ci lanciò un’occhiata torva. Lo ignorammo entrambe.

Naturalmente sapevo che forse Sam ci sarebbe stato. È un affare delicato quando una rockstar si fa vedere in pubblico. La gente di solito impazzisce. E se è facile gestire una persona che chiede un autografo, può diventare problematico se invece te ne vengono addosso venti o trenta all’improvviso. Avendo fatto parte anch’io dell’entourage, mi era capitato di assistere a scene di fan scatenati per Ben e gli altri membri degli Stage Dive, ed ero diventata piuttosto diffidente. Non ci si può affidare a normali addetti alla sicurezza. Le rockstar hanno bisogno di essere protette da fan un po’ troppo scalmanati, ma d’altro canto non vogliono che gli stessi vengano picchiati o feriti in alcun modo. Serve quindi trovare il giusto equilibrio: pieno controllo della situazione, esperienza ed eccezionali doti fisiche. In altre parole, Sam.

Portland, comunque, in generale sembrava meno folle rispetto alla Los Angeles dei bei tempi andati. Anche i ragazzi adesso erano più stabili e conducevano un’esistenza più tranquilla, lontani anni luce dalle continue sregolatezze della vita notturna che si erano goduti in passato. Senza contare l’effetto che avevano su di loro mogli/compagne e figli. Il più grande gruppo rock del mondo era stato ufficialmente addomesticato.

Una cosa adorabile. O triste. Non saprei.

«Scusa, non era mia intenzione turbarti», mentì. «Che ne pensi del nuovo protetto di tuo fratello?».

Su un piccolo palco sistemato in un angolo del locale, un ragazzo, accompagnandosi con una chitarra acustica, stava mettendo a nudo il suo cuore. Un dolore straziante per una ragazza che lo avrebbe cercato solo dopo mezzanotte per fare sesso. Solo una vera rockstar è in grado di trasformare una semplice sveltina in una canzone struggente, che comunque era davvero bella. Il ragazzo aveva talento. Quand’ero più giovane ne avevo già conosciuti un mucchio di tipi del genere. Doveva avere più o meno venticinque anni. Alto, magro, pieno di tatuaggi. Il tipico Principe Azzurro dell’universo rock. Da far venire quasi la nausea. Al momento il mio tipo era più… be’, quello che cercavo o che volevo in un uomo era un vero mistero.

Non spostai di nuovo lo sguardo su Sam. Non l’avrei fatto per nulla al mondo.

«Non è male», dissi, riprendendo il filo del discorso. «E ha una buona presenza scenica, che al giorno d’oggi è ciò che conta di più. Quindi direi che è già molto».

«Non è male?», intervenne Ben in tono ironico. «È dannatamente bravo».

Lizzy sorrise e sollevò le mani disegnando un cuore con le dita.

«Ti ho vista», grugnì suo marito.

«Adam è il nuovo genio della musica». Si portò di nuovo la birra alle labbra e ne bevve un bel sorso. «Si trasferisce nella nostra dépendance perché la sua spietata e crudele ragazza lo ha sbattuto fuori casa visto che era più interessato alla musica che a passare del tempo con lei. Da allora il poveretto si fa ospitare a casa di amici pronti ad accoglierlo».

Scossi la testa con aria fintamente contrariata. «Donne».

«Roviniamo sempre tutto, eh? Ma cosa abbiamo che non va?»

«Da dove iniziare… potremmo stare qui all’infinito…».

Ben soffocò un sorriso. «Andateci piano. È giovane, ha ancora un mucchio di tempo per trovarsi una ragazza e fare cazzate più in là».

«E fare cazzate», ripeté Lizzy. «Il tuo romanticismo mi commuove fin nell’intimo».

«Vieni qui che ti coccolo un po’».

Data la prestanza fisica, mio fratello sollevò con facilità la moglie dalla sedia e se la mise sulle ginocchia. Le infilò le mani tra i capelli e la baciò con trasporto. Dio, quanta passione in quelle lingue, e davanti a tutti per giunta. Coppie sposate. Coppie in generale. Di sicuro potevo vivere senza dover assistere a spettacoli del genere. Solo quando mi voltai, vidi che Sam mi stava osservando quasi con un certo interesse. Cosa significava l’espressione dei suoi occhi? Mi sarebbe piaciuto saperlo. Qualcosa nel cellulare che teneva in mano lo distrasse e il nostro breve scambio di sguardi cessò.

Sul palco Adam, il tormentato genio della musica, terminò la sua canzone e la sala proruppe in applausi, fischi, grida, urla. Di certo sapeva come conquistare il pubblico. Guidato nel modo giusto, sarebbe arrivato lontano.

Finalmente, dopo un cospicuo scambio di saliva, mio fratello e mia cognata si fermarono per riprendere fiato. Era bello che il loro matrimonio fosse così solido. All’inizio non avevo creduto nel loro amore, adesso ero contenta di essermi sbagliata. Erano ancora innamorati e felici come due stupidi romanticoni. Per certe persone dev’essere bello.

«Il pubblico lo ama», dissi.

Ben annuì. «Adrian è interessato a scritturarlo».

«Come uomo lascia molto a desiderare. Ma è un grande manager».

«Non ci serve che abbia un fascino magnetico».

«Giusto», annuii. «Hai invitato quel ragazzo a trasferirsi da voi? Non è un tantino rischioso? Cosa sai davvero di lui?»

«Sam ha controllato. È a posto. E comunque la casa è grande».

«Vero».

Il giovane aveva ripreso a pizzicare le corde della chitarra e intanto teneva il tempo battendo piano il piede sul pavimento del palco. Ma fu quando Adam aprì la bocca che si compì la magia. Il ragazzo sapeva cantare.

«Ciao», disse un’altra voce… che conoscevo fin troppo bene. David Ferris, primo chitarrista e paroliere della band, nonché mio ex, si accomodò nel posto che Lizzy aveva appena lasciato libero accanto a me. Come il tizio sul palco, anche lui era alto e dinoccolato. Bello, a suo modo. Ci bloccammo nello stesso istante, scambiandoci un’occhiata sofferta. Una storia incasinata e triste, la nostra. Un amore adolescenziale finito male per colpa di un tradimento. Da parte mia, non sua. Mi piace pensare che nei dieci anni trascorsi da allora io sia andata avanti con la mia vita, abbia imparato dalle esperienze vissute, e sia cresciuta. In realtà, però, credo di essermi limitata a vivere senza concedermi mai la possibilità, nemmeno per un istante, di innamorarmi di nuovo. È chiaro comunque che io e l’amore non siamo fatti l’uno per l’altra, visto che quando mi innamoro, perdo il controllo e faccio stupidaggini. Forse questo, però, può contare come “imparare dalle esperienze vissute”. Due su tre è già un buon risultato.

«Martha», disse.

«Ciao, David». Il mio sorriso era così fragile da far male. «Come stai?»

«Bene. E tu?».

Mi limitai ad annuire.

Scambiati i convenevoli, scostò leggermente indietro la sedia per allontanarsi da me e si rivolse a mio fratello. «Benny, è lui il ragazzo che volevi farmi sentire? È bravo».

«Sì, gli ho parlato prima. Ho intenzione di produrre il suo album d’esordio».

«Grande».

«Abbiamo attrezzature, strumenti, impianti, possiamo usare quello che ci serve», disse mio fratello. «Così mi terrò occupato mentre tu lavori al nostro prossimo album».

«È un’ottima idea».

Lizzy mi rivolse uno sguardo a metà strada tra il preoccupato e il dispiaciuto. Dio, l’ultima cosa di cui avevo bisogno. La storia tra me e David era finita da moltissimo tempo. Ormai non soffrivo più per lui, ma ritrovarmelo davanti agli occhi non era esattamente piacevole. Voglio dire, perché mai qualcuno dovrebbe essere contento di rivangare alcuni dei momenti più tristi della propria vita? Certo, ne avevamo vissuti anche di splendidi insieme. Quanto meno non si era portato dietro la moglie.

All’improvviso mi resi conto che avevo bisogno di stare un po’ da sola. «Il ghiaccio è tutto sciolto. Vado a prenderne dell’altro».

«Vuoi che ti accompagni?», mi chiese Lizzy.

«No, tranquilla».

Con passo legnoso, leggermente imbarazzata, attraversai la calca. Uomini che non conoscevo mi seguirono con sguardo interessato, ma li ignorai. Al momento flirtare con sconosciuti – con tutto ciò che ne poteva seguire – non era in cima alla lista delle mie priorità. Fortunatamente il bancone del bar non era lontano. Il locale era affollato ma l’aria condizionata funzionava a palla quindi il trucco non mi si era rovinato. Grazie al cielo. Stavo aspettando al bancone da un nanosecondo quando apparve Sam al mio fianco. Capii subito che non doveva ordinare nulla perché aveva gli occhi puntati nella direzione sbagliata, verso Ben, David e la folla. Ebbi conferma della mia giusta intuizione quando mi chiese: «Tutto a posto?»

«Sto bene».

Sollevò appena il mento.

Lo fulminai con lo sguardo. «Hai bisogno di qualcosa?»

«No».

«Allora non dovresti tornare a lavorare?».

Ricomparve quel sorrisetto sornione. «Non c’è bisogno di ricominciare subito a comportarsi da stronza appena qualcuno si preoccupa per lei, Martha».

«Chi ha detto che ho mai smesso?».

Il suo sorriso si allargò quasi impercettibilmente. Me ne accorsi guardandolo con la coda dell’occhio.

«È bello vedere che gli anni trascorsi a New York non l’hanno cambiata affatto», disse.

Non ne ero così sicura.

«Sono rimasto sorpreso nell’apprendere del suo ritorno».

«È stata una decisione improvvisa».

Si limitò ad annuire e mi fissò socchiudendo leggermente gli occhi. Come se riuscisse a leggermi nel pensiero, o qualcosa del genere. Dio non voglia!

Battei nervosa la punta degli stivali di Valentino su quell’orrendo pavimento appiccicoso, pieno di schizzi di birra, e gli lanciai un’altra occhiata gelida. C’era qualcosa in quell’uomo che mi faceva girare le scatole. Faticavo ad accettare di avere anch’io dei punti deboli. Era una cosa che proprio non sopportavo. Lui sapeva troppe cose. «Sam, questo posto fa schifo».

«Non è poi così male».

«Non ti scoccia dover sempre aspettare?»

«Non sto aspettando, sto lavorando», disse. «E in più, lui è pure bravo». Indicò con un cenno del capo il giovane sul palco.

«Adesso abbiamo anche sviluppato un orecchio che sa riconoscere gli artisti talentuosi?»

«Questo lo lascio fare a Ben e Dave. E a lei». Si appoggiò con la schiena al bancone del bar. «Ricordo ancora la volta in cui lei scovò Jimmy Page che suonava in quell’album di punk texano. Stupì tutti. Davie non sapeva se essere fiero di lei o geloso da morire perché la sua ragazza aveva scoperto quel genio prima di lui».

Cercai di nascondere il sorriso che mi stuzzicava le labbra. «Non ho fatto niente di speciale».

«Niente? Per un mese Mal è andato avanti convinto che lei avesse doti musicali fuori dal comune e ogni volta che la sentiva parlare lui ammutoliva affascinato. Un fatto davvero eccezionale riuscire a lasciare quell’uomo senza parole».

Era carino da parte di Sam ricordarselo, anche se in realtà non avevo fatto nulla di così sensazionale, e oltretutto quell’episodio risaliva a molti anni fa. Qualche tempo dopo l’uscita del primo album degli Stage Dive, Mal aveva iniziato a interessarsi al punk texano, fra tutti i generi che poteva scegliere. Trascinato dal suo solito entusiasmo esagitato, fingeva di accompagnare con la batteria i brani registrati nella cassetta che ascoltava a ripetizione in pullman durante il tour. Da sempre Jimmy detestava il punk e non ne faceva mistero, quindi, come logica conseguenza, Mal si incaponì ancora di più. Il punk texano divenne così l’unica musica che ascoltavamo tutti.

A dir la verità, non era affatto male. Ma non l’avrei mai ammesso davanti a Mal. Non date da mangiare agli animali: ecco il mio motto quando ho a che fare con batteristi folli.

Quell’assolo di chitarra spuntò dal nulla, proprio nel bel mezzo della compilation. Ipnotico e melodico, ma perfettamente integrato alla cacofonia frenetica, martellante e incalzante degli altri strumenti. Da togliere il respiro. Come mio solito, avevo fatto un commento del tutto fuori luogo del tipo: «Impossibile che in una band che si esibisce in un garage ci sia qualcuno capace di suonare la chitarra in questo modo». Mal mi aveva portato la copertina dell’album ed era venuto fuori che il cantante aveva mandato la canzone a un amico; questi faceva parte di una band a cui lui una volta aveva fatto da supporto, e il brano era piaciuto così tanto che l’amico aveva registrato un assolo di chitarra prima di mandarglielo indietro.

Quell’amico era Jimmy Page. Un anno o due prima che fondasse i Led Zeppelin. Il rock’n’roll non è qualcosa di realmente pazzesco?

Sam sembrò indugiare nel ricordo, un leggero sorriso sulle labbra mentre scuoteva la testa. Arrossii un po’, imbarazzata nel constatare quanto tenessi alla sua stima. Era arrivato il momento di riportare la conversazione su un terreno più sicuro. «Allora come fai a dire che è bravo?».

Si strinse appena nelle spalle. «Lei riesce a fiutare i talenti nascosti. Io capisco subito chi ho davanti. Il novanta per cento del mio lavoro consiste nell’avere la situazione sotto controllo e nel saper valutare bene e rapidamente rischi e minacce. Il ragazzo tiene bene la scena: il pubblico pende dalle sue labbra. E questo mi semplifica la vita».

Aveva senso. «Ma se qualcuno riconoscesse Ben e Dave?»

«Due o tre persone li hanno già notati, ma li hanno lasciati in pace. Di sicuro aiuta che il giovane sul palco sia così magnetico. Ma se avverto che cambia qualcosa, li faccio uscire dal retro dove li attende Ziggy con l’auto pronta».

«Per questo hai il cellulare?», gli chiesi indicando con un cenno del capo il telefonino che teneva in mano.

«Ci teniamo in contatto».

«Per essere pronti a ogni evenienza».

«Sono pagato per questo».

«E pensare che credevo che un gorilla come te servisse solo per farli sembrare importanti».

«Crede che Dave abbia bisogno di me per sembrare importante?». Accidenti. Sparo a zero sul suo lavoro e subito Sam rigira l’arma contro di me e mi colpisce nel mio vecchio punto debole. A volte mi chiedo se per lui il mondo non si riduca a un eterno botta e risposta. Valutare costantemente la situazione, trovare i punti deboli dell’altro, passare dalla difesa all’attacco. E mantenere sempre il controllo.

Spostò lo sguardo di lato. «La barista aspetta il suo ordine».

«Mmh? Oh». Mi voltai e mi rimisi in carreggiata. «Un Vodka lemon».

Sam fece schioccare la lingua. «Attenta alle buone maniere».

«Grazie», aggiunsi con un sorriso forzato. La donna dietro al bancone, che aveva già iniziato a dedicarsi al mio cocktail, si limitò a sollevare un sopracciglio.

«Mostrarsi gentili con il prossimo non ha mai ucciso nessuno, Martha».

«Potrebbe esserci sempre una prima volta, perché rischiare?». Quindi diedi alla barista una banconota da dieci dollari, il costo del mio drink più una buona mancia, grazie tante. A dimostrazione che sapevo essere gentile nelle cose che contano. Ma Sam aveva già ripreso il suo posto in fondo al bancone, per trovarsi più vicino ai ragazzi.

Era arrivato il momento di tornare al tavolo. Sarei voluta sprofondare sotto terra.

Mi stampai un bel sorriso sulle labbra e mi feci largo tra la folla. Se qualche idiota mi avesse schizzato gli stivali con un drink qualsiasi, lo avrei mutilato. Al momento non avevo soldi per comprarmene un altro paio.

Lizzy era ancora seduta sulle gambe di Ben, quindi la mia sedia accanto a David era libera. Evvai! Mi sedetti e subito mi accorsi che lui serrava la mascella. Cazzo. Avrebbe cercato di far conversazione. E invece io avrei tanto desiderato che non lo facesse. «Allora, Martha, per quanto tempo ti fermi in città?»

«Ancora non ho deciso». Bevvi un generoso sorso del mio Vodka lemon. Il momento richiedeva il sostegno di quel magico distillato di patata.

«Ci aiuterà a badare a Gib ora che Lizzy ricomincia l’università», intervenne Ben. «Non abbiamo trovato nessuna baby-sitter che ci soddisfi, e così…».

«Sono contentissima di occuparmene io».

David aggrottò la fronte con espressione preoccupata e perplessa. «Ti prenderai cura di un bambino di due anni? Tu?»

«Sarà bravissima!». Nemmeno se si fosse messa d’impegno Lizzy avrebbe potuto sfoggiare un sorriso più raggiante o un’espressione più convincente. «Una zia affettuosa che trascorrerà del tempo insieme al suo amato nipotino».

«Esatto», confermai. «E poi, mica sarà così difficile, no?»

«Cosa sai di bambini tu?», chiese David. «Voglio dire, non sei riuscita a tenere in vita nemmeno un topolino».

«Non è stata colpa mia». Ecco qual è il problema a frequentare persone che ti hanno conosciuto da ragazzina. «Si è ammalato».

«Hai ucciso un topolino?». L’espressione di Lizzy mutò, diventando molto meno convinta.

Ben si strofinò la barba. «Me ne ero dimenticato».

«Gli davi da mangiare e da bere ogni giorno solo perché te lo ricordavo io», disse David, che al momento avrebbe fatto decisamente meglio ad andare a farsi fottere. Non mi era per niente d’aiuto. D’altro canto, non mi aspettavo certo che lo sarebbe stato.

«Prima o poi me ne sarei ricordata da sola». Ecco che si stava avvicinando il mal di testa, riuscivo già a sentirlo. «Avevo sedici anni. A quell’età siamo tutti un po’ imbranati, dei veri incapaci».

«E che scusa hai per i dieci anni successivi?». Ben ridacchiò, quasi a volersi congratulare con sé stesso per la sua battuta geniale.

Come qualunque brava sorella che si rispetti, gli diedi una botta sul braccio. Ma non gli feci niente, brutto bastardo coi muscoli d’acciaio: fui io a farmi male alla mano. Parenti ed ex, meglio tenersene alla larga. Forse sarei dovuta tornare a New York. All’improvviso un brivido mi corse lungo la schiena. No. New York non era un’opzione da contemplare.

«Sono sicuro che non avrai alcun problema», disse mio fratello, dandomi qualche pacca sulla testa. Come se ci avessi messo un attimo a farmi quella perfetta coda di cavallo coi capelli tutti tirati all’indietro. Idiota. «Scusa, Martha. Sono sicuro che non farai morire mio figlio come hai fatto con quel povero topolino innocente. Che riposi in pace».

Dopo una battuta simile, gli occhi della madre del bambino si colmarono d’apprensione.

«Non succederà nulla a Gibby, te lo giuro», dissi, afferrandole una mano. «Ti fidi di me, vero?»

«Certo. Naturalmente». Ma il suo tono non era affatto convincente. E l’occhiata allarmata che lanciò a mio fratello contribuì a far vacillare ulteriormente la fiducia che avevo in me stessa. Forse era stata una cattiva idea. Di certo non ero una moderna Mary Poppins, per quanto amassi davvero il bambino in questione.

«Tesoro, andrà tutto bene». Ben la baciò sulla guancia, stringendola a sé. «Sul serio, rilassati. Stiamo soltanto prendendo un po’ in giro Martha, per farla arrabbiare. Ma lei è una donna adulta e responsabile, e poi ci sarò anch’io in casa qualora ci fosse qualche problema. E ci sarà anche Sam. E un mucchio di altra gente pronta a dare una mano, se necessario».

«Okay». Stavolta per lo meno il sorriso fu più convinto e meno terrorizzato. Avrei voluto che non fosse stato necessario menzionare Sam per rassicurarla riguardo alla mia eventuale incapacità di badare al figlio. Ma così è la vita.

Spalle dritte e petto in fuori, li guardai mostrandomi assolutamente fiduciosa e sicura di me. «Ce la posso fare».