Capitolo tre

Un attimo. Un brevissimo istante, durante il quale eliminai la gran parte dei miei contatti newyorchesi dal cellulare, e il bambino scomparve. Ovviamente il problema fu che la grande stanza dove di solito guardavamo a ripetizione i cartoni animati coi cani e dove il piccoletto sparpagliava ovunque la sua collezione di giocattoli, non aveva porte. Era collegata, però, a un corridoio che girava tutt’attorno alla casa. Lo stesso nel quale ora stavo correndo io in cerca del piccolo diavolo. E tutti sapevamo da chi aveva preso quel lato pestifero del carattere. Da sua madre, ecco. Non certo dalla mia famiglia. Nemmeno per sogno.

«Gib?», continuavo a chiamarlo mentre superavo le varie stanze. «Gibby, dove sei?».

Per due giorni e mezzo eravamo andati d’amore e d’accordo, mio nipote e io. Soprattutto grazie alla mia abilità di corromperlo coi suoi cibi preferiti. Biscotti con scaglie di cioccolato (fatti da Greta, la governante che veniva durante il giorno), crocchette di pollo e uva. Una dieta vagamente sana. Dopotutto, i cinque gruppi di alimenti erano presenti, grosso modo. Quel giorno, però, i miei tentativi di corruzione non avevano funzionato. Per chissà quale ragione Gib era di pessimo umore e aveva deciso di sfogarsi su di me. Mi fece venire in mente un episodio successo qualche anno prima quando lavoravo per una modella molto famosa che in un momento di rabbia mi aveva tirato in testa una Louboutin della nuova collezione. Per fortuna, portavamo lo stesso numero di scarpe. Se la cavò così: raccolsi la scarpa, presi la sua compagna e le considerai una specie di risarcimento per lo spiacevole incidente, risparmiandole di farmi delle scuse formali.

Ma torniamo alle bizze del moccioso.

Non troppo distanti dalla stanza in cui stavamo, giungevano a noi il mormorio sommesso di voci confuse, gli accordi di una chitarra e il ritmo di una batteria. Una specie di canto delle sirene in chiave rock. Soprattutto per un bambino di due anni e mezzo che voleva stare con chiunque, tranne che con me. «Oh, no».

Lo studio e la sala prove della band, così come la sala per i giochi, quella multimediale con il grande schermo, l’enoteca casalinga coi vini pregiati, la palestra, la sauna e la seconda cucina (perché, chi mai non possiede una seconda cucina?) si trovavano nell’ala sinistra della casa, a cui si accedeva da un ingresso a parte. Di conseguenza, fino a quel momento, ero stata ben contenta di evitare di incontrare gli Stage Dive al completo. Anche Sam viveva nella dépendance sul retro, la cui seconda camera era occupata da Adam, il genio della musica. Così, a parte mia cognata, la dispettosa e irritante psicologa, e quell’idiota di mio fratello, ero sempre stata per conto mio. Perché non c’era nulla di male nello stare soli, in barba a quel che diceva Lizzy. La solitudine mi andava perfettamente a genio e mi faceva sentire al sicuro. Soprattutto considerata la mole di persone che frequentava la casa.

E ora eccole qui, tutte riunite sotto lo stesso tetto.

Jimmy sedeva spaparanzato su un divano in pelle e stava guardando David, il fratello, intento ad accordare una chitarra, seduto davanti a lui su un grosso amplificatore. Mal, lo sciroccato dai biondi capelli, sedeva alla batteria e picchiava sui tamburi senza troppa foga ma con un ritmo costante. E infine ecco Gib tra le braccia di suo padre, sano e salvo. Grazie a Dio.

Strinsi la coda di cavallo che si era un po’ allentata e raddrizzai le spalle. Non mi sentivo a mio agio con indosso jeans e maglietta, che non costituivano il mio abbigliamento consueto, ma almeno non avevo nessun rappresentante di uno dei cinque gruppi alimentari spiaccicato tra i capelli.

«Dovevi stare con la zia Martha. Ne avevamo già parlato», disse Ben accigliato. «E se si perdesse? È arrivata da poco. Non conosce la casa bene quanto te».

«Zia Martha là». L’espressione di chi non si è lasciato affatto convincere dal ragionamento paterno, Gib puntò il ditino verso di me, in piedi sulla soglia.

Sollevai una mano a mo’ di saluto. «Mi è scappato».

Mal ridacchiò, quel cretino.

Ben si limitò ad annuire. «Già, l’avevo intuito. Sembra Houdini quando si mette in testa di voler stare dove ha deciso lui. In effetti mi sorprende che tu sia riuscita a tenerlo a bada tanto a lungo».

Fiuu!

«Badare ai bambini non è così semplice come potrebbe sembrare», disse Jimmy con un velato sorrisetto. Non un vero e proprio sogghigno, il che era già tutto dire. Lo si sarebbe potuto definire quasi un sorriso gentile. Il matrimonio e la paternità dovevano averlo addolcito.

«Me ne sto rendendo conto», dissi.

David mi guardò e sollevò appena il mento. Per niente imbarazzato.

Con una chitarra elettrica in mano, il nuovo giovane acquisto, Adam, stava in piedi lì vicino, in attesa. Guardava leggermente stupito e incantato gli uomini che aveva accanto. Comprensibile. Qualunque giovane rocker sconosciuto sacrificherebbe i suoi stessi gioielli di famiglia per trovarsi in compagnia degli Stage Dive.

«Che ne pensi?», chiese a Ben, lo sguardo speranzoso ma preparato al peggio.

Mal si schiarì la voce. «Dunque, definiresti il tuo genere musicale come una sorta di rock, pop, soul standard con un pizzico di sound tipo Americana, giusto?».

Adam sbatté le palpebre. «Ah, be’…».

«Non fraintendermi. Nonostante non ci sia nulla di particolarmente nuovo o interessante in quel che fai, non sei da buttare. Non del tutto», disse Mal, serio. «Mi auguro tu riesca a trovare un tuo stile personale da proporre, figliolo».

«Ignoralo», gemette David. «A meno che tu non voglia lanciargli addosso qualcosa. Il che andrebbe comunque bene».

«Ehi!». Mal alzò le bacchette e compose una croce. «Vade retro, satana. Sono un maestro ninja con in mano due bacchette magiche. Posso distruggervi tutti senza il minimo sforzo».

Ben annuì, passandosi una mano sul viso, ormai esausto. «Concordo: ignoralo. Ti giuro che noi lo facciamo già. Adam, il tuo sound è ottimo. Sei davvero bravo. Per questo sei qui».

Adam aggrottò le sopracciglia e si guardò attorno, un po’ confuso. «Okay».

Mal ridacchiò. Quell’uomo era davvero una specie di Puck o Loki del rock’n’roll. Il dio dell’inganno e delle malefatte, e in più fastidioso da morire. «In effetti, la verità è che vai alla grande. Ma noi non amiamo la concorrenza, per quanto leale, quindi l’unico modo che ci è venuto in mente per battere un artista di talento come te, è lasciare che Ben produca il tuo primo album».

Per preservare l’innocenza di due piccoli orecchi che di sicuro stavano in ascolto, Ben bofonchiò sottovoce un commento poco delicato.

«Così anch’io ho deciso di suonare nel tuo album, Adam. Ma con uno pseudonimo», disse Mal. «Sarà fantastico. Userò un nome d’arte figo, tipo Capitan P. Niss*. Capito?»

«Sei un idiota», disse Jimmy impassibile.

Con somma sorpresa, il batterista parve sinceramente punto nel vivo. «Anne pensava che fosse spassosissimo».

«Tua moglie è una creatura davvero gentile e magnanima».

«Basta. Suonerai usando un nome d’arte», disse Ben ponendo fine alla discussione.

«Ma il talento non si cela tanto facilmente. I veri cultori della buona musica riconosceranno subito il mio stile. Diranno “di sicuro alla batteria non può essere che Malcolm Ericson”. Diglielo, Marty».

«Ben, voi dovete lavorare. Lascia che lo prenda io». Ignorai l’invito di Mal e mi avvicinai a mio fratello, le braccia tese verso “il terremoto di due anni”. Ovviamente Gib mise il broncio e si girò dall’altra parte, nascondendo il viso nell’ampia spalla del padre. Come se io fossi la strega da cui fuggire. Uffa. E pensare che credevo davvero che io e lui fossimo diventati più affiatati negli ultimi giorni. Certo, la nostra complicità si fondava su un sistema di corruzione illecito e lusinghe a base di biscotti con scaglie di cioccolato, ma da qualcosa bisogna pur cominciare.

Si aprirono le porte che davano sulla piscina e sul giardino, ed entrò Sam. All’improvviso mi sentii ancora più tesa. Decisamente non era la mia giornata fortunata.

«Hai perlustrato i dintorni, Sam the Man*?», chiese Mal. «Siamo di nuovo sotto attacco da parte di qualche orda di fan sfegatate, o qualcosa del genere?».

Il mio occhio destro era meno rosso, però mantenni lo stesso il viso rivolto in basso. Con tutto il correttore che avevo usato, era improbabile che qualcuno si accorgesse del livido. Ma di solito l’uomo della sicurezza notava cose che gli altri non vedevano.

Nonostante lo sfottò del batterista, Sam non cambiò espressione e si mantenne professionale come sempre. Dio solo sa dove trovava tutta quella pazienza. Erano anni che lavorava con la band. Immagino che ormai ci avesse fatto l’abitudine. «Solo qualche fan e un gruppetto di paparazzi al cancello principale. Li tiene d’occhio Ziggy. Altrimenti, Malcolm, posso sempre occuparmi io della sua sicurezza».

«Succede spesso?», chiese Adam. «L’orda di fan sfegatate, intendo».

Sam scosse la testa. «Nah. Non si tratta più di ragazzine scatenate, sono cresciute d’età, come sono cresciuti loro. Oggi come oggi sono interessate a fare quattro chiacchiere e scattare qualche foto. Sono da tenere d’occhio solo quelle un po’ più strane e leggermente fuori di testa».

«Come la tipa che l’anno scorso è entrata a casa di Jimmy e Lena. Si è fatta la doccia nel loro bagno poi ha schiacciato un pisolino sul loro letto», disse Mal. «Una città di matti».

Adam lo guardò ancora più stupito, gli occhi sgranati.

«Avrei capito il mio, di letto, ma quello di Jimmy? Quella donna aveva bisogno di un bravo psicologo». Mal s’interruppe e si perse nei ricordi. «Poi c’è stato il tizio che mi ha seguito l’anno scorso e mi ha inviato delle poesie. Discreto talento letterario».

«Com’era quella che parlava dei tuoi occhi?», ridacchiò Jimmy.

«Ti prego, non dargli spago», gemette David.

Mal sorrise e lasciò andare un sospiro profondo. «Già, è stato tutto rose e fiori finché non ha cercato di strapparmi un ciuffetto di capelli per ricordo. Voglio dire, capisco da dove gli veniva tanta foga nei miei confronti, essendo io un dio del sesso e tutto il resto. Ma ha spaventato a morte Anne. Per avvicinarmisi le ha dato uno spintone così forte che avrebbe potuto farle male sul serio».

Jimmy colse l’espressione seriamente preoccupata di Adam. «È stato più o meno a quell’epoca che abbiamo ingaggiato Ziggy e Luke perché dessero una mano a Sam», disse con un tono di voce rassicurante, disinvolto. «Avevamo sempre avuto addetti alla sicurezza personale durante i tour, ma con mogli e figli al seguito… la prudenza non è mai troppa. Ci proteggono, si alternano e controllano che tutto proceda a dovere». Jimmy si sfregò la barba incolta sulla mascella. «Poi io e Lena abbiamo preso una casa con un sistema di protezione ancora più sicuro. D’altronde le nostre figlie avevano bisogno di più spazio, di un giardino più grande dove giocare, e cose del genere».

«Oh, ma per favore, la tua vecchia casa era una specie di orrendo mausoleo».

«Non è vero. Ha vinto anche un premio di architettura».

«Era fredda e brutta», disse Mal. «È stata Lena a farvi trasferire, ammettilo. È tua moglie che comanda, e ne aveva le scatole piene di quella casa brutta, coi marmi monocromatici, che faceva letteralmente cagare. Ecco qual è la verità».

Dopo aver controllato che Gib non lo stesse guardando, Jimmy mostrò il dito medio a quell’idiota di Mal.

Il bambino, però, aveva già trovato qualcosa di sconveniente a cui attaccarsi. «Cagare! Cagare-cagare-cagare!».

«Ottimo lavoro», borbottò Ben.

Mal scoppiò a ridere, dando man forte al piccoletto. C’era da aspettarselo. Avendo entrambi la stessa maturità mentale.

«Sei sicuro che non vuoi che lo prenda io?», gli chiesi, sollevando un sopracciglio.

Ben scosse la testa e posò a terra Gibby che aveva già iniziato a smaniare, desideroso di mettersi a esplorare un po’. Dopo aver urlato qualche altra volta “cagare”, corse dallo zio Mal che subito se lo mise a sedere in grembo e gli posò sulla testolina un paio di cuffie “formato bambino”, appese alla batteria sicuramente in attesa proprio di Gibby. Poi, senza perdere tempo, Mal gli mise in mano le bacchette e lo aiutò a esercitarsi a suonare. Il risultato fu un rumore sgraziato, privo di ritmo, sorprendentemente assordante. Sarebbe stato bello se Mal avesse avuto a portata di mano un paio di cuffie anche per noi. Quanto meno, però, adesso Gibby era distratto e non gli interessava più di ripetere a squarciagola qualche bella espressione colorita.

«Qualche ripensamento sui tuoi sogni di gloria?», chiesi a Adam, avvicinandomi.

Il giovane si strinse nelle spalle. «Voglio solo suonare. Poi, come si dice? Sarà quel che sarà».

Sam era rimasto in disparte, presenza silenziosa e discreta ma sempre vigile. Di tanto in tanto lanciava un’occhiata fuori, verso la piscina, per assicurarsi che non ci fossero intrusi. Essendo tutti i componenti della band riuniti sotto lo stesso tetto, la sicurezza doveva essere più serrata di quanto non fosse di solito. Sam quel giorno indossava dei grossi stivali neri, un paio di jeans e una maglietta dello stesso colore. Stava bene vestito tutto di nero, gli conferiva un’aria da duro che gli si addiceva.

Avrei avuto molte buone ragioni per distrarmi e perdere il filo del discorso, ma all’improvviso qualcosa attirò la mia attenzione. «Cos’hai detto?».

Ben mi guardò. «Ho detto che Adrian stava pensando di far partecipare Adam al Mackee Festival».

«Pessima idea».

«Perché?»

«Hanno cambiato gli organizzatori e a quanto pare quelli di adesso sono degli incompetenti del caz… del cavolo. Si vocifera che il festival sarà un vero flop. Adrian sta dando i numeri?».

Jimmy inclinò la testa e, non so perché, mi guardò con un certo interesse.

«Anche se vivo dall’altra parte del Paese mi tengo comunque aggiornata sulle novità del settore discografico».

«Tu cosa consiglieresti?», mi chiese Ben.

Sentii tutti gli occhi puntati su di me. Incrociai le braccia e mi misi solo un tantino sulla difensiva. «I festival sono utili, Adrian ha ragione. Faranno conoscere Adam su vasta scala e lo aiuteranno a crearsi un suo pubblico. Potrei parlare con Tyra perché lo faccia partecipare al festival di Newport o magari al Rock’n’Waves alla fine dell’estate. Per il momento sei interessato solo ai festival negli Stati Uniti, giusto?».

Adam deglutì. «Ah, immagino di sì?»

«Non ha la più pallida idea di quel che stiamo dicendo, è adorabile», rise Mal. Davvero sorprendente come riuscisse a seguire la conversazione mentre aiutava Gib a fare tutto quel baccano sui piatti della batteria.

Jimmy intanto continuava a guardarmi, cosa di cui avrei fatto volentieri a meno.

«Che c’è?», lo apostrofai fulminandolo con lo sguardo.

«Mi era solo venuta in mente una cosa…», disse.

«Cosa?».

Dalla sua postazione vicino alla finestra, anche Sam mi lanciò un’occhiata e per un attimo la sua consueta espressione professionale e impassibile si fece dubbiosa. Calò una strana atmosfera nella stanza e mi sentii un po’ agitata.

«Scommetto che sei rimasta in contatto anche con tutti quelli che conoscevi, no?», mi chiese Jimmy. «E comunque dovrebbe essere facile per te riprendere i rapporti. Sei sempre stata brava a intrecciare relazioni sociali utili e a coltivarle, riuscivi a far fare a tutti quello che volevi. Sei un vero portento in tal senso, se ben ricordo».

All’improvviso anche mio fratello sembrò riscuotersi e inarcò le sopracciglia, stupito. «Ehi. Forse non ci sarei arrivato da solo, ma hai ragione, Jim. Non è affatto una cattiva idea. Intelligente, arguta, ben organizzata, ha esperienza o almeno una certa conoscenza pratica di quasi tutto ciò che riguarda l’industria discografica».

«Ma di che cavolo state parlando?», sbraitai.

«Cavolo!», urlò Gib, facendomi trasalire. Evidentemente avevo alzato talmente la voce da penetrare attraverso le sue minicuffie. Anche se, a essere sinceri, in una lista di parole sconvenienti, “cavolo” non poteva certo essere peggiore di “cagare”.

«Ha sempre avuto tutto sotto controllo. Voglio dire, era brava nel suo lavoro», disse David, riprendendo il discorso, anche se il complimento gli uscì distintamente un po’ forzato. «Sei sicura, Martha, che questo lavoro come baby-sitter faccia per te?»

«Non è una soluzione a lungo termine, ma per il momento è perfetta. Perché?».

Sam si schiarì la voce. «Pensano che lei sarebbe un’ottima manager per Adam. Guarda caso, sarei d’accordo anch’io».

«Una manager? Io?»

«Certo, perché no?». Ben si avvicinò e mi si parò davanti, le labbra ridotte a una linea sottile, l’espressione seria. «Hai il tuo bel caratterino, ma anche Adrian ha il suo. Tu però sei molto più brava di lui a parlare, e molto più convincente. Adam potrebbe combinare qualche disastro».

«E così io avrei un bel caratterino, eh?», gli domandai, inarcando un sopracciglio.

«Lo sai che non sei affatto un tipo facile», disse Jimmy dal divano. «Sei una rompipalle da sempre».

«Tutti questi complimenti finiranno col darmi alla testa», scherzai.

«Palle!», gridò Gib.

Stavolta fu Ben a trasalire. «Liz mi ucciderà. Senti, Martha, pensaci, va bene?»

«Adam non ha diritto a dire la sua?».

Il baby rocker si guardò attorno, gli occhioni innocenti ancora più sgranati e spaesati del solito. Quanto meno il ragazzo sarebbe venuto bene sulle copertine delle riviste. Anche se bisognava lavorare un po’ su abbigliamento e capelli. «Mi sembra che lei sia più carina e gentile di Adrian, no?»

«Martha gentile? Sei proprio uno spasso», disse Mal, rimettendo a terra Gibby.

Il bambino corse immediatamente verso il divano, vi montò sopra e andò a sistemarsi tra David e Jimmy. I due alzarono subito una mano ciascuno e Gibby iniziò una specie di gioco complicato nel quale batteva il cinque a turno sul palmo di ognuno dei due uomini. Era adorabile vederli interagire con quel marmocchio. Così tranquilli e sereni con quel cucciolo nel mezzo.

«Comunque», proseguì Mal, «tu non hai bisogno di una persona carina e gentile. Nell’industria discografica, se non stai attento, ci sono squali pronti a sbranarti alla prima occasione. Quindi hai bisogno di una persona come Martha che ti guardi le spalle e difenda i tuoi interessi».

«Ma allora è vero che mi stai elogiando?», domandai scioccata.

Il pazzoide sollevò un angolo della bocca. «Marty, tesoro… entrare nel mondo degli impresari discografici fa proprio al caso tuo. Perché tu puoi anche essere bella come il sole, ma sei soprattutto una bulletta prepotente e manipolatrice, e una vera mascalzona. Lo sei sempre stata e sempre lo sarai».

La stanza si riempì di sogghigni e sorrisetti. Perfino Sam cercò di mascherare una sonora risata con il peggior finto attacco di tosse che si fosse mai sentito. Bastardi. Ma non reagii andando su tutte le furie. Rimasi in silenzio per un attimo a ripensare a quanto aveva appena detto quell’imbecille di batterista. «In realtà, Malcolm, ho deciso di considerarlo un complimento».

«E penso che tu faccia proprio bene». Ben mi posò un braccio sulle spalle e mostrò tutto il suo affetto fraterno stampandomi addirittura un bacio sulla guancia. «Martha?»

«Mmh?»

«Hai un occhio nero», disse, la voce tesa.

Dannazione. Mi ero distratta e avevo lasciato che si avvicinasse più del dovuto. Uno strano silenzio calò nella stanza. Feci immediatamente un passo indietro per allontanarmi da lui e mi coprii il lato destro del viso con la mano. «Non è niente. Dio, Ben, ne stai facendo un affare di Stato e così mi metti in imbarazzo. Ho solo sbattuto…».

«No. Non dire bugie». Lo sentivo incombere su di me, la sua rabbia quasi palpabile nell’aria. «Cos’è successo?».

Rimasi muta, incapace di articolare parola, mentre un inutile, stupido senso di panico mi invadeva poco alla volta. Ma per l’amor del cielo, era mio fratello. Per quanto fosse sconvolto e arrabbiato, non mi avrebbe mai fatto del male. Eppure ero terrorizzata, combattuta tra l’istinto di difesa e la voglia di fuggire via.

«Ben, amico, faccia un passo indietro. Le lasci spazio, non le stia addosso». La voce di Sam, calma e decisa, al mio fianco. Non sapevo quando mi si fosse avvicinato. Ma evidentemente era stato rapido. «Così la spaventa. Guardi il suo viso».

«Non ho paura». La mia voce risuonò un’ottava più alta del normale. «Non ho paura di niente».

«Certo», disse Sam con voce rassicurante, il suo viso, dai tratti spigolosi e familiari, così gradito ai miei occhi. Non so perché il suo sorriso mi rasserenò, ma rilassai le spalle e ricominciai a respirare con calma. «Lei è una combattente, eh, Martha? Adesso, perché non ci dice cos’è successo al suo viso? E come le ha chiesto suo fratello, la verità, per cortesia».

Sospirai e girai la testa. «Sono stata aggredita».

Accanto a me sentii mio fratello ribollire di rabbia. «E pensavi di non dovermi dire…».

«Ben», disse Sam con la sua proverbiale pazienza.

«Abbassate la voce», gridò Gib, senza un briciolo di ironia, ficcandosi il pollice in bocca.

«Giusto, Gibby». Sam annuì e sorrise. «Adesso stiamo buoni e ci calmiamo e abbassiamo tutti la voce mentre la zia Martha ci racconta quello che le è successo, va bene?».

Il bambino annuì deciso e subito gattonò in grembo a Jimmy, per trovare conforto. La tensione nella stanza doveva averlo impaurito. Senza dire una parola, il cantante strinse a sé quel cucciolo indifeso, lo cullò e si mise ad accarezzargli la schiena.

«Scusate». Ben si lasciò crollare contro la parete, un’espressione preoccupata sul viso. «Cercherò di calmarmi».

Sam si voltò verso di me, in attesa.

«Caz… cavolo. Sinceramente è una situazione imbarazzante, si tratta di una stupidaggine, non vale la pena farne una tragedia». Ficcai le mani nelle tasche dei jeans, ma mi sentii a disagio, così le nascosi dietro la schiena. «Non possiamo far finta di nulla? Dimenticare quel che è successo? Stiamo turbando il bambino».

Nessuno aprì bocca, aspettavano tutti che fossi io a parlare. Non sarei riuscita a evitarlo neppure se mi ci fossi messa d’impegno. Accidenti. Con movimenti lenti ma decisi, Sam mi tolse le braccia da dietro la schiena e mi prese le mani nelle sue: erano grandi e calde. Non mi incalzò, non mi fece alcuna pressione. Mi tenne solo le mani e attese che decidessi io quando iniziare a parlare.

«La scorsa settimana stavo tornando a casa a piedi dal lavoro quando un ragazzo mi è venuto incontro correndo e mi ha afferrato la borsa. Ha tentato di… strapparmela di dosso», dissi facendo del mio meglio per mantenere la voce calma e modulata. Ben presto però i lineamenti del mio volto tornarono tesi. «Ma non l’ho mollata».

Sam sbatté le palpebre, perplesso. «L’ha tenuta stretta al fianco?»

«Era una borsa di Gucci. Non gliel’avrei lasciata per nulla al mondo».

Notai un leggero fremito nella mascella della guardia del corpo, ma Sam non aprì bocca.

«All’improvviso quello mi ha dato un pugno. Allora sono intervenuti due ragazzi per aiutarmi perché io comunque non avevo allentato la presa. Immagino che a quel punto il tizio abbia pensato che la cosa si stava mettendo male e non valeva la pena di rischiare tanto, e così è scappato via», dissi, con un profondo sospiro. «E poi dicono che a New York tutti sono scortesi e si fanno gli affari propri. Ecco la dimostrazione dell’esatto contrario».

«Okay». Sam si inumidì le labbra, pericolosa fonte di distrazione per me in quel momento. Immagino però che il mio stato d’animo fosse tale per cui mi sarei distratta comunque con una certa facilità, perché qualunque cosa sarebbe stata meglio che ripensare a quell’episodio. «È tutto?».

Annuii.

«Di certo questo spiega perché negli ultimi tempi lei fosse tanto nervosa».

«Credo di essere rimasta un po’ scioccata. Non ero mai stata aggredita prima d’ora». Gli strinsi la mano e lui mi attirò a sé, abbracciandomi con delicatezza. La guancia poggiata sul suo petto, gli sentivo il cuore battere forte. Strano. Non sono mai stata un’amante di abbracci e coccole. Ma suppongo che tutti abbiamo momenti di… non direi vera e propria debolezza. Di qualcos’altro.

«E io farò di tutto perché non le accada mai più», disse, le parole che salirono dalle profondità del suo torace massiccio.

«Siamo seri?», chiese Mal. «Nessuno ha intenzione di dire la cosa più ovvia che ci sarebbe da dire in questo momento?».

Dal divano Dave scrollò una spalla. «È un po’ strano che Martha e Sam si stiano abbracciando, ma d’altro canto la giornata è stata ricca di emozioni».

«Non intendevo questo. Caspita, e poi dite che sono io l’idiota del gruppo».

Mi ritrassi dalle braccia fin troppo accoglienti di Sam e raddrizzai la schiena. «Lo spettacolo è finito, signori, si ritorna alla vita di sempre».

Mal schioccò la lingua. «Un momento. A proposito, Davie, da quel che hai appena detto si deduce chiaramente che non hai ancora superato quel che è accaduto tra te e Marty tempo fa. Sappi, amico, che per tutti noi è ormai acqua passata. Hai perdonato Jimmy, puoi perdonare anche lei».

«Gradirei che tu non usassi quel nomignolo», borbottai.

«Speranza vana», disse Mal, l’espressione seria, una volta tanto. «Allora, Marty, tesoro. Ascoltami un attimo con attenzione. Ti prometto di comperarti ogni dannata borsa di Gucci che c’è nel Paese se la prossima volta che tentano di scipparti tu lasci andare la tua. Okay? Mi hai capito?»

«Grazie», disse Ben, appoggiato alla parete, ancora un po’ teso sebbene stesse facendo del suo meglio per controllare la rabbia. Penso di non aver mai visto mio fratello tanto nervoso. Almeno non con me. O non tanto a lungo. «La tua vita vale più di una borsa», disse. «E se quel tizio avesse avuto un coltello o una pistola?»

«Be’», dissi, pensando in tutta fretta a una risposta sufficientemente intelligente da dare. «Non ce li aveva».

«Ma avrebbe potuto. Sei fortunata a essere viva».

«Ben…».

«Suo fratello ha ragione», intervenne Sam.

Stavolta fulminai lui con lo sguardo. «Pensavo tu fossi dalla mia parte».

All’inizio quella montagna d’uomo puntò appena il mento in fuori, poi strinse lentamente i pugni. «Martha, visto che a quanto pare non lo hai notato, lascia che ti ricordi una cosa importante. Anche quando hai fatto cose talmente stupide da non riuscire a capire dove fosse finita la tua cazzo d’intelligenza, sono sempre stato dalla tua parte».

Inconsciamente spalancai la bocca.

Intanto il silenzio nella stanza si era fatto assordante. Durò solo un attimo, poi Gibby tirò fuori il pollice dalla bocca e urlò: «Cazzo!».

Sam sospirò. «Chiedo scusa, Ben. Vado a controllare come vanno le cose all’entrata principale. Con permesso».

Ben annuì.

Ancora silenzio. Sentivo gli sguardi dei presenti trafiggermi. Grazie al cielo Adam, il giovane rocker, senza dire nulla, prese a suonare la chitarra. Un attimo dopo Mal si unì a lui, il ritmo della batteria, un sussurro delicato. «Che scena imbarazzante».

David grugnì.

«Ovvio», disse Mal. «C’è sempre un po’ d’imbarazzo quando sotto sotto ribolle una tensione sessuale irrisolta e mai soddisfatta. Comunque avrò parecchie cose da raccontare ad Anne stasera. Prima spettegoleremo un po’ su di voi e poi ci dedicheremo a mettere in cantiere un bambino. Uno o due round. Magari anche tre, se mia moglie è fortunata. Ma bisogna ricordare che la ragazza è nata con la camicia».

Jimmy premette le labbra fra loro, manifestando un chiaro disappunto. «Penso che sia meraviglioso che tu abbia intenzione di allargare la famiglia. Ma sinceramente posso vivere anche senza ricevere aggiornamenti quotidiani sulla tua vita sessuale, amico».

«Ma non devi farlo, Jimbo. Ecco qual è il bello: io sono ben contento di rendertene partecipe». Evidentemente Mal era in grado di punzecchiare Jimmy anche mentre accompagnava il delicato arpeggio di Adam.

Ben mi mise un braccio sulle spalle, lo sguardo ancora molto preoccupato. «Stai bene? Sei andata dal medico dopo l’aggressione?»

«Oh, sto bene», dissi, leggermente distratta. «È solo un occhio nero, tranquillo. Ci ho messo del ghiaccio sopra e l’ho coperto con una buona dose di correttore. È tutto a posto».

«Se lo dici tu. Mi dispiace di aver alzato la voce».

Mi strinsi nelle spalle. «Avrei dovuto dirtelo».

«Devi imparare a fare come me, Marty: parla di più delle tue cose», affermò Mal. «Per esempio, potresti dirci quali sono i tuoi piani rispetto a Sam. Saltargli o non saltargli addosso, questo è il dilemma. Se sia più nobile portare il bodyguard a scopalandia o lasciarlo struggere d’amore all’infinito per un bocconcino delizioso come te».

«Non avevo idea che leggessi Shakespeare».

«Sono colto. Conosco anch’io stron… cose simili», disse Mal. «Comunque, dopo che tu e Davie avete toccato il fondo con la fine disastrosa della vostra storia una decina d’anni fa, eravamo tutti d’accordo che nessuno in famiglia avrebbe più avuto storie di sesso. Quindi tu, piccola ribelle, stai infrangendo ogni regola».

Decisi che non avrei reagito in alcun modo. Ogni muscolo del mio corpo avrebbe voluto afferrare il piccolo Gibby e fuggire da quella stanza e da quell’insopportabile terzo grado sul mio passato e, a quanto pareva, su quello di Sam. Ma non riuscivo a pensare a nessun modo plausibile per farlo senza che sembrasse una fuga. Non l’avrei permesso per niente al mondo. Anche se in effetti era proprio quello che avrei voluto fare: scappare, ovvio.

Non mi mossi, mantenni la calma e fulminai tutti gli astanti con lo sguardo.

Dopo essersi grattato per un bel po’ la testa, David si voltò verso di me, la fronte perennemente corrugata, suo nuovo tratto distintivo. Quanti pensieri cupi dovevano rincorrersi in quella testolina. «Da quanto tempo va avanti esattamente tra te e Sam?»

«Non c’è alcun bisogno di sembrare tanto sconcertato all’idea che qualcuno si interessi sul serio a me, David». Ero davvero arrabbiata. Uomini. Che idioti. «E comunque non sono affari tuoi».

«Scusa», borbottò. «Sono solo rimasto sorpreso. Non ha più o meno dieci anni più di te?»

«Ne ha quarantadue. Ormai è quasi sul viale del tramonto».

«Già, ma… è davvero una brava persona».

«Mentre io sarei l’esemplare peggiore che l’universo femminile ha da offrire, vero?»

«Non ho detto questo», rispose lui, stizzito. «Non mettermi in bocca parole non mie. Tutti noi nutriamo un profondo rispetto per Sam. Non vogliamo che soffra».

«Sei diventata un po’ una “sciupauomini”, Marty: li prendi e li molli in un batter di ciglia», sentenziò Mal con disapprovazione. «Una vera rubacuori. Noi ti chiediamo solo una cosa: non spezzare il cuore di Sam. Nessuno vuole una guardia del corpo che soffre per amore. Sarebbe molto triste. E forse pericoloso».

«Lo terrò a mente», dissi. «Adesso possiamo parlare d’altro?»

«Sam e Martha… ah», disse Jimmy, come se si riscuotesse solo in quel momento.

Accanto a me, Ben sembrò avere un’illuminazione ed esclamò: «Tempo fa Liz mi ha detto che Sam era innamorato di Martha».

A quanto pareva nessuno di loro aveva capito cosa significasse non impicciarsi dei fatti altrui. Strinsi i denti e cercai di non lanciare nessuna occhiataccia perché cominciava a farmi male il viso. Stupido occhio nero.

Senza smettere di suonare, Mal spostò i lunghi capelli biondi dietro le spalle. «Siete proprio degli ottusi. Sam sta con noi ventiquattro ore su ventiquattro, sette giorni su sette, e non vi accorgete neppure di quando c’è qualcosa che lo turba. Datemi retta: da sempre, ogni volta che guarda Marty, il poveretto è decisamente turbato».

«Davvero?», domandai, mio malgrado.

«Eccome. È teso e nervoso come se gli si fossero infilati i boxer in mezzo al sedere. Piuttosto divertente».

Facendo volare le dita talentuose sulla tastiera, Adam passò a un ritmo più incalzante. «In effetti la guarda spesso».

«Vedi?», chiese Mal. «Perfino il giovane Aaron l’ha notato».

«Il mio nome è Adam».

«Se lo dici tu. Forse. Anche se penso che ti starebbe meglio Aaron. Sono bravo a trovare il nome giusto alle persone. Chiedilo a Marty».

Se bastasse un’occhiataccia per uccidere qualcuno, avrei avuto Mal sulla coscienza. Probabilmente già quindici anni fa, a pensarci bene.

In grembo a Jimmy, Gibby aveva chiuso gli occhi, cullato forse dal suono di voci familiari e dalle note delicate che riempivano la stanza. Immagino che avremmo dovuto capire che si era addormentato visto che nessuna vocina aveva più ripetuto le parolacce scappate dalla bocca di Mal. E pensare che avevo passato ore nel tentativo di convincerlo a fare un sonnellino. Jimmy era in grado di battermi anche a occhi chiusi. Ero proprio una frana come tata.

«Lo porto su a letto», disse Ben, prendendolo dalle braccia del cantante.

Grata di avere finalmente una buona scusa per fuggire, lo seguii, ansiosa di allontanarmi da quella pericolosa e ambigua raffica di argomenti di conversazione. Fuori dalla sala prove, la casa era tranquilla, immersa nel silenzio. Un balsamo per i miei nervi scossi. «Pensi davvero che potrei fare il manager?»

«Penso che tu possa fare qualunque cosa ti metta in testa», rispose Ben con un tono di voce altrettanto basso. Gentile da parte sua, davvero. Non credevo che avesse così tanta fiducia in me. Camminando, i suoi grossi stivali affondavano nel tappeto beige senza fare rumore. «Adesso non cominceremo a parlare di Sam, vero?»

«No».

«Okay, bene. Perché lui è un mio dipendente e tu sei mia sorella. Tengo molto a entrambi ma, se per te va bene, preferirei restare fuori da tutta questa storia».

«Gradirei che tutti ne restassero fuori e non s’intromettessero in affari che non li riguardano, visto che si tratta di una questione privata». Le parole mi uscirono più brusche di quanto avessi voluto. Ma quella giornata era andata tutta storta. Forse sarebbe stato meglio se mi fossi nascosta di nuovo nella mia stanza di notte e avessi tenuto Gib lontano dalla sala prove di giorno. D’altronde, se mi fossi tuffata dietro un divano ogni volta che compariva Sam, avrei destato più di qualche sospetto. Forse affrontare situazioni difficili non rientrava nella lista delle mie specialità. Almeno non quando c’era in ballo un uomo in particolare.

Ben rise sommessamente. «Dai, li conosci. Le probabilità che non ficchino il naso…».

«Magnifico», dissi, sconsolata, mentre mi trascinavo su per le scale. «Pensi che parlasse sul serio quando ha detto che è sempre stato dalla mia parte?».

Ben riportò lo sguardo su di me, uno sguardo dolce, comprensivo direi. «Sorella, che tu sappia, Sam ha mai detto cose che non intendeva dire?»

«No».

«Appunto».

*Gioco di parole per assonanza tra P. Niss e penis (pene). (N.d.T.)

*Sam the Man è il soprannome di Sam Taylor, sassofonista e leggenda del jazz. (N.d.T.)