Capitolo due
«Ha dello yogurt tra i capelli».
«Me l’ha tirato lui». Esausta, mi misi a sedere sul tappeto, mentre il televisore sparava a tutto volume un’orrenda trasmissione per bambini. «Non ce la posso fare. Quel bambino mi odia».
«Martha». Sam sospirò. «Ha due anni e mezzo e non la conosce. Abbia pazienza».
Il marmocchio in questione, Gibson Thunderbird Rollins-Nicholson, fissava rapito lo schermo mentre alcuni cani animati compivano un’audace operazione di salvataggio. Nome assurdo per un bambino. Immagino che essere figlio di un musicista comporti qualche rischio, tipo avere il nome dello strumento preferito di tuo padre. L’uomo della sicurezza, intanto, si era appoggiato al muro, le braccia incrociate sull’ampio torace. Aveva un asciugamanino gettato sopra una spalla muscolosa e indossava una tuta. Deduco che avesse appena usufruito della palestra privata.
Ben e Lizzy non avevano badato a spese. La loro casa era una vasta magione in stile coloniale di epoca georgiana in uno dei quartieri più eleganti di Portland. Naturalmente l’antico salone delle feste/campo da pallacanestro al coperto era stato convertito in uno studio di registrazione e sala prove per la band. Mio fratello amava solo due cose nella vita, la musica e la sua famiglia, quindi non c’era da meravigliarsi che avessero fatto quel genere di ristrutturazione. Non mi aspettavo certo che avrebbero dato chissà quali feste faraoniche per farmi divertire. L’epoca folle fatta di feste, uscite e divertimento sfrenato con groupie, modelle e stelle del cinema era finita da un pezzo. Forse per sempre.
«David aveva ragione, non so nulla di bambini», dissi, commiserandomi profondamente. «Pensavo che dopo aver passato anni a correre dietro a delle rockstar, soddisfacendo ogni loro capriccio, non doveva essere tanto differente, no? Lui è più piccolo, certo, e ancora non sa esprimersi bene. Ma d’altronde anche Mal mi parlava sempre farfugliando cose insensate. Alcuni giorni dovevo praticamente asciugare la bava dal mento a quel pazzoide. Dopo un tipo del genere, Gibson doveva essere una passeggiata, no?»
«E invece non è proprio così, eh?»
«Per niente».
«Cos’ha fatto all’occhio? È un po’ arrossato», mi chiese, chinandosi.
«Eh? Oh, mi ci è andato dello yogurt», mentii voltandomi dall’altra parte. «Devo essermelo strofinato un po’».
«Ah».
Grazie al cielo, lo spesso strato di trucco sul viso copriva bene tutto quel disastro. Sam tirò fuori un kleenex dal portafazzoletti e si avvicinò per dare un’occhiata ai miei capelli imbrattati di fermenti lattici. Mentre si chinava su di me fui investita da un’inebriante fragranza virile: sudore puro. La vecchia canottiera grigia che aveva indosso era consumata. Ma, buon Dio, era perfetta per lasciare in bella mostra i bicipiti guizzanti. La pelle luccicava e io mi sentii alquanto scombussolata, mentre una strana morsa mi stringeva la bocca dello stomaco. Ero decisamente agitata. Anche se non avevo affatto una cotta per lui. Che assurdità!
Allungò una mano verso di me e io mi spostai leggermente indietro. Dannazione.
La mano si bloccò un istante a mezz’aria e, per quanto lo guardassi di sottecchi, riuscii a sentire il suo sguardo penetrare nella mia carne, scavare tra i lineamenti del mio viso. “Capirà”. Certo che avrebbe capito. Nessun make-up, per quanto pesante, avrebbe potuto nascondere agli occhi di Sam la verità. Con tutti i suoi pregi e i suoi difetti, quell’uomo era davvero bravo nel suo lavoro. E il suo lavoro aveva a che fare con la violenza. Come riconoscerla e come impedirla. Al di là di tutto, però, mi dava molto fastidio mostrare anche solo il minimo segno di debolezza. Preferivo di gran lunga essere una stronza orgogliosa ed egocentrica piuttosto che una povera creaturina indifesa e ferita.
La mano si rianimò e riprese a muoversi verso di me. «Desidero solo pulirla», disse, la voce più profonda dell’oceano.
«Sì, io…». “Merda”. «Grazie».
Molto delicatamente, sollevò una spessa ciocca di capelli neri e me la pulì. I suoi movimenti erano più cauti e lenti del solito. Non so quando la sua espressione si era fatta impercettibilmente più preoccupata.
«Forse dovrei iniziare a rasarmi la testa come te», scherzai, a disagio per quel silenzio pesante cresciuto tra di noi. «Caso mai il piccoletto prendesse l’abitudine di lanciarmi il cibo».
Un grugnito virile.
«Scommetto che così potrei ridurre drasticamente i tempi per la piega e risparmierei un mucchio di shampoo».
«Sam-Sam-Sam-Sam-Sam». Gib si lanciò sulla schiena dell’omone e gli strinse il collo taurino con le tenere braccine. Era evidente che quel bimbo lo adorava. Detestava solo me, il sangue del suo sangue. Che amore.
«Ehi, amico. Stai facendo il bravo?».
Gib annuì entusiasta, muovendo la testolina in su e in giù con convinzione, quel piccolo Pinocchio.
«Allora perché la povera Martha ha dello yogurt tra i capelli?».
Il bambino fece spallucce. «Voglio mamma».
«La tua mamma è all’università. Torna più tardi».
«Papà?»
«In questo momento sta lavorando», disse Sam in tono conciliante. «Starai un po’ con la zia Martha. I tuoi genitori verranno presto, va bene?»
«No!».
«Gibby…».
«No-no-no».
«È bravo a ripetere le parole», dissi impressionata dalla sua veemenza. Per avere polmoni tanto piccoli, quel bambino era davvero dotato di una voce potente.
«Ti divertirai con la zia Martha». Il sorriso di Sam era molto fiducioso. «Stare con la zia Martha è proprio fantastico, sai, amico?»
«No-no-no».
«Non mi sarei mai aspettata una risposta del genere!», mormorai. «Anche se, a voler essere sincera, ha un po’ ragione».
Sam inarcò un sopracciglio e si fece pensieroso. «Lei potrebbe essere divertente… in certe situazioni».
Strinsi forte le labbra per non avere neppure la più remota possibilità di aprire la bocca.
«Se solo lo volesse».
«Oh, davvero?». Alzai leggermente la testa. «Se volessi trovarmi in certe situazioni o se volessi essere divertente?»
«L’una o l’altra. Entrambe».
«Ah».
Amorevole e affettuoso, Gib batté sulle poderose spalle di Sam. Accidenti. Quell’uomo aveva dei muscoli che parlavano da soli. Quanto tempo passava in palestra? Di sicuro non si metteva in mostra né aveva un atteggiamento tronfio. Non ho mai incontrato nessuno così poco interessato al proprio aspetto fisico. Per Sam si trattava solo di lavoro-lavoro-lavoro.
«Cosa fanno oggi i cani?», chiese a Gib.
Immediatamente il piccoletto sollevò il mento e lanciò un “auuh” con tutto il fiato che aveva nei polmoni. Un ululato davvero niente male. Completata la performance, saltò giù da quella montagna d’uomo e corse a riprendere il suo posto davanti al televisore.
Sam sorrise. «I bambini sono un po’ fissati con certe trasmissioni. Negli ultimi tempi la sua preferita è questa».
«I cani che parlano sono piuttosto fighi, immagino».
Per un attimo mi fissò.
«Ho ancora dello yogurt tra i capelli?»
«No, gliel’ho tolto tutto».
Annuii e abbassai lo sguardo sulle mie mani. Più semplice che guardarlo negli occhi o tenere a bada lo scombussolamento interiore che la sua presenza mi provocava. Era l’ora di andare dalla manicure. Avevo l’unghia di un pollice scheggiata. A essere onesti, quella mano rovinata si addiceva perfettamente alla battaglia-a-suon-di-cibo che avevo ingaggiato con quel moccioso. Stilisti e influencer sarebbero morti d’invidia.
«In passato non è mai stata nervosa quando mi aveva vicino», disse in un sussurro.
«Nervosa io se mi sei vicino? Ma scherzi?», ribattei con sufficienza. «Forse se non mi stessi tanto appiccicato…».
Non si mosse di un dito. Idiota. «Non abbiamo avuto modo di parlare più di tanto ieri sera. Come mai è tornata nella West Coast?»
«Volevo rivedere la mia famiglia».
«Tutto qui?»
«Ti sembra tanto strano?»
«Oltre al fatto che si è offerta volontaria per badare al piccolo Gib, be’, un po’ sì».
Mi trattenni dal dirgli che era uno stronzo. Solo quello, però. «Cos’è, un interrogatorio? Sei preoccupato che possa rivelarmi una specie di minaccia per la sicurezza di qualcuno, o qualcosa del genere?»
«Certo che no. Il mio compito è fare in modo che tutti siano al sicuro», disse. «Che stiano bene. Inclusa lei. Perché anche lei fa parte della famiglia».
«Be’, grazie, ma non preoccuparti per la mia incolumità. Io sto bene».
Mi guardò senza ribattere.
«Non stacchi mai dal lavoro?», gli domandai.
«Smetterò di pensare al lavoro quando il mondo sarà un posto sicuro e nessuno avrà più bisogno di me. Ma sappiamo entrambi che il mondo non lo è».
«Fa molto Superman, Sam. Comunque, non credo che resterò tanto a lungo».
«Vedremo». Si alzò in piedi e senza aggiungere altro s’incamminò verso il corridoio. Grazie al cielo, Gib era troppo preso dalla sua trasmissione per far caso a quella conversazione alquanto bizzarra. Non che mi lasciassi intimidire da un bambino o da quello che pensava di me. Né dall’opinione dell’uomo della sicurezza, se è per questo.
Stavo bene. Era tutto a posto. Feci un bel respiro per cercare di calmarmi, girai la mano e nascosi lo smalto sbeccato. Lo avrei sistemato più tardi.
Fissai sovrappensiero il contenuto del mio guardaroba. Prossimo compito da svolgere nella lista delle cose non particolarmente necessarie da fare in camera mia da sola. Avevo iniziato con un bel pediluvio, mi ero fatta la pulizia del viso e avevo letto le ultime notizie del mondo dello spettacolo sullo smartphone. Poi mi ero ritoccata le sopracciglia, avevo risposto a qualche email e mi ero messa la crema idratante sul viso e su tutto il corpo. E adesso… la questione era cosa tirar fuori esattamente dalla valigia. Gli abiti adatti alla vita notturna di New York non erano appropriati se si doveva combattere con la furia scatenata di un ragazzino pieno di energie, e quelli che avevo usato nel mio ultimo lavoro rientravano più o meno nella stessa categoria. Nessuno di essi avrebbe sopportato la dura vita a cui certi mocciosi ti sottopongono. Battaglie a suon di cibo. Gattonamenti in giro per casa per raccogliere giocattoli e altri oggetti sparsi ovunque. Corse dietro a marmocchi pestiferi che scappano da una parte all’altra perché non vogliono mangiare le verdure o detestano fare il bagnetto.
Onestamente facevo fatica a riconoscere me e la mia vita. Ma avevo bisogno di un lavoro. E cosa ancor più importante, avevo bisogno di tornare a casa.
«Ciao», mi salutò Lizzy, entrando in camera senza bussare. Sembrava quasi che fosse casa sua. «Che fai?»
«Sto cercando di organizzarmi». Beccata senza il trucco pesante, tenni il viso abbassato. Nella speranza che, lasciandolo in ombra, Lizzy non si accorgesse di nulla.
«Non sei venuta a cena».
«Non avevo fame».
«Se cambiassi idea, sai dov’è la cucina», disse. «Volevamo guardare un po’ la televisione. Ti unisci a noi?»
«Al momento sarei un po’ occupata», svicolai. Perché una cosa era riconoscere, seppur con una certa riluttanza, che avevo bisogno di stare con la mia famiglia, e tutt’altra era arrendersi all’evidenza. «Comunque grazie dell’invito».
«Okay. Basta che sai che non devi nasconderti nella tua camera».
«Non mi sto nascondendo». Notai il baby monitor che mia cognata portava su un fianco e sospirai. «Dovrò indossarlo anch’io?».
Sbuffò. «Non ci aspettiamo certo che tu sia disponibile ventiquattro ore su ventiquattro, sette giorni su sette, Martha. Tranquilla».
Mi strinsi nelle spalle.
«Di solito è questo che pretendono nel tuo lavoro?». Lizzy si sedette in fondo al letto e si mise comoda.
«Mi occupo per lo più di public relation ma faccio anche l’assistente personale. Generalmente di persone un tantino egocentriche, che possiedono un mucchio di soldi e hanno agende fitte d’impegni. Appartengono soprattutto al mondo dello spettacolo», dissi. «E mi capita spesso di essere chiamata alle quattro del mattino».
«Riconosco che il mio bambino possa essere alquanto impegnativo. Ma saremo io o suo padre a risolvere qualunque fesseria si presenti alle quattro del mattino». Sorrise. «Ti va bene la camera?»
«Sì, è bella. Di sicuro più grande dell’appartamento che ho a New York».
«Bene. Sono contenta che ti piaccia. Vogliamo che qui tu ti senta a casa».
Mi appoggiai contro l’armadio antico, le braccia incrociate al petto.
«Magari potresti sentirti così tanto a casa e a tuo agio da raccontarmi, prima o poi, da dove viene quel livido che hai sul viso».
«Lizzy…».
«Non preoccuparti», disse. «Anche se fremo dentro di me e sono in pensiero, non ho intenzione di insistere perché tu mi dia risposte per le quali ancora non sei pronta. E, solo per tua informazione, sappi che sono davvero molto in pensiero».
«Apprezzo che tu non voglia farmi pressioni».
«Per il momento». Fece un respiro profondo e restò in silenzio, riflettendo evidentemente su quel che avrebbe aggiunto. Che situazione imbarazzante. «Martha, sei mancata a tuo fratello, lo sai, vero? Tu sei praticamente la sua sola, vera famiglia».
«Ha i ragazzi».
Lizzy scosse la testa. «Non è la stessa cosa. Tu sei sua sorella, ti vuole un bene dell’anima, e da quando è nato Gibby ti abbiamo vista pochissime volte. E invece mio figlio dovrebbe avere una zia che sappia riconoscere subito. Sarebbe carino».
«Be’, adesso sono qui».
«Sì, ma per quanto?». Lanciò un’occhiata alla valigia ancora quasi intatta che giaceva aperta sul pavimento. Un vero casino. Definizione decisamente appropriata anche per descrivere la mia attuale vita. «Dai, Martha, tira fuori i vestiti. Vieni a vivere da noi e fidati, dacci una possibilità».
La mia risata suonò esitante e falsa anche alle mie orecchie. Dubitai, quindi, che Lizzy se la bevesse. La sua bella laurea in Psicologia non glielo avrebbe permesso. Anche se non aveva intenzione di farmi il terzo grado per l’occhio nero, il suo sguardo continuava a posarsi su quel marchio ignobile. Quanto meno non mi guardava con commiserazione né con altre strane espressioni imbarazzate che non avrei gradito.
«Dico sul serio».
«Non ho bisogno di essere protetta, malgrado possa sembrare il contrario. E poi, è impossibile che desideriate sul serio che resti a vivere qui da voi: mi avreste costantemente tra i piedi», dissi. «La casa è grande, ma non abbastanza. Fidati, vi stanchereste di me».
«Scherzi? Da quando Jimmy e Lena sono andati via e lo studio è stato trasferito a casa nostra, siamo diventati il quartier generale della band. C’è sempre gente. Ecco uno dei motivi principali per cui abbiamo preso questa casa». Incrociò le gambe e iniziò a dondolare pigramente un piede. «A meno che ti dia fastidio imbatterti di continuo in qualcuno dei ragazzi».
Non dissi nulla.
«E poi c’è anche Sam, ovvio».
Ancora nulla. Avevo la bocca sigillata.
«E il tris di mogli».
«Stai cercando sul serio di psicanalizzarmi?», le chiesi. Il suo sorriso mi colse di sorpresa ed era così pulito e innocente che faticai a mantenere l’espressione corrucciata. Fortunatamente potevo contare su un’esperienza pluriennale di comprovato caratteraccio. «Ti prego, lascia perdere».
«Il fatto che in passato tu abbia avuto rapporti complicati e burrascosi con certe persone non significa che in futuro tu non possa costruire relazioni positive con loro». Dopo quello che le avevo detto, Lizzy doveva aver pensato che fosse ormai giunto il momento di lanciarsi senz’indugio nei panni della brava psicologa coscienziosa. «Scusarsi e cambiare leggermente atteggiamento, smussando alcuni lati del carattere, può già bastare».
«Dolce Bambino Gesù, fulminami», dissi alzando gli occhi al soffitto bianco. «Fammi morire subito».
«Non pensi che sia chiedere un po’ troppo a un bambino?»
«Dopo aver corso dietro a tuo figlio tutto il giorno, mi sento di dire che dovrebbe accontentarmi».
Sogghignò. «Vedi, Martha, sento che noi non siamo solo cognate. Abbiamo tutte le potenzialità per diventare migliori amiche e credo che sarebbe un peccato se le sprecassimo».
«Oh, lo pensi sul serio ora?»
«Sì. E poi, se non altro, immagina quanto darebbe fastidio a tuo fratello se facessimo comunella contro di lui». L’idea le sembrò così divertente che le scappò una risatina dispettosa. La capacità di questa donna di essere diretta e franca pur restando simpatica e solare era davvero impressionante.
«Ottima ragione».
A quel punto, con la dovuta grazia, Lizzy si alzò dal letto e s’incamminò verso la porta. «Dimmi che ci penserai».
Non risposi.
«Accidenti, quanto sei testarda. Proprio come tuo fratello». Spalancò la porta della mia camera quasi volesse lasciarvi entrare il mondo intero. «E invece ci penserai e alla fine deciderai di restare. Pensa, Martha, non dovrai più stare sola».
Aggrottai la fronte, la scelta delle parole mi sembrava infelice. «Non mi definirei propriamente sola. Frequentavo delle persone. Si potrebbero dire “conoscenti”… e per un breve periodo sono anche uscita con un uomo, senza impegno».
Si limitò a guardarmi, in silenzio. Ma sentivo pesare su di me il suo giudizio. Che assurdità. Non poteva certo sapere che da quando avevo lasciato la East Coast nessuno si era dato la pena di chiamarmi.
«Ti informo che una settimana sì e una no comparivo nella cronaca mondana e nei blog di vari fashion influencer. La mia vita era meravigliosa e rutilante, prima di questo piccolo incidente».
«Wow», disse con voce piatta – evidentemente l’avevo lasciata del tutto indifferente. «Quindi, ricapitolando: non avevi amici ma conoscenti, sei stata una o due volte con un tizio “senza impegno”, e lavoravi per gente che ti succhiava il cervello e pretendeva da te cose assurde. Davvero una vita piena, meravigliosa, dalle mille sfaccettature, non c’è che dire».
«Non ricordavo fossi tanto sarcastica».
«E io non ricordavo tu avessi certi brutti lividi in viso».
Imprecai con un filo di voce, solo un flebile sussurro. Immagino che passare del tempo con un moccioso mi avesse già insegnato qualcosa. «Usa la tua abilità come strizzacervelli su qualcun altro. Non ho bisogno di un’analista, Lizzy».
«No? E di un’amica?». Data la stoccata finale, uscì dalla mia camera.