III. Il filosofo
Max Weber non ha delineato un sistema filosofico. Sarebbe impossibile esporre la sua filosofia come dottrina. Egli non voleva essere chiamato filosofo, ma per noi, nel tempo in cui è vissuto, fu il vero filosofo. Poiché non è una scienza progressiva che conosca una verità fuori del tempo, la filosofia deve di volta in volta attuarsi come vita storica che si svolge nell'assoluto in vista della trascendenza: Weber non insegnò nessuna filosofia: era lui una filosofia.
1. Le posizioni filosofiche espresse
Soltanto al limite dei suoi studi Weber, in base alla sua coscienza critica che non senza fondamento tollerava lo svolgersi di questi studi, offri espressamente dissertazioni filosofiche: intorno al significato della scienza, intorno alle possibili posizioni ultime, intorno a ciò che nelle ricerche egli non voleva.
La scienza divenne per lui la necessaria intuizione empirica e logica che nel progredire infinito non arriva mai a compimento. Diceva: il dotto lavora per essere superato; può bensì avere la soddisfazione di conoscere qualcosa che è certo e definitivamente trovato, ma questo è un punto singolo nel fiume infinito del conoscibile. La scienza non può mai conoscere la natura dell’essere, ma soltanto indagare dati di fatto e rapporti nell’interminabile marcia in avanti; non può mai dire che cosa dobbiamo fare, ma indicare soltanto, quando ci si proponga un fine, i mezzi per realizzarlo. Una volta la scienza era considerata la via per giungere al vero essere, alla vera arte, alla vera natura, al vero Dio, alla vera felicità, ma oggi nessuno ci crede. La scienza ha disincantato ogni cosa. Presuppone sempre che qualche cosa di origine diversa abbia importanza; per esempio in medicina, sul piano pratico, che la vita umana debba essere assolutamente conservata, la sofferenza assolutamente diminuita; in astronomia, sul piano teorico, che metta conto di conoscere le leggi degli eventi cosmici. Che la scienza abbia senso, non si potrà mai dimostrare mediante la scienza stessa.
Con ciò Weber trasse inesorabili conseguenze dall’effettivo cammino della scienza. In una citazione allude all’atteggiamento di Platone espresso (all’inizio del VII libro della Repubblica) nella similitudine: in questa vita gli uomini sono come incatenati entro una caverna con lo sguardo rivolto alla roccia e vedono soltanto le ombre dell’essere riflesse sulla parete; ma quando uno si libera, può anche voltarsi a vedere il sole. «Egli è il filosofo, mentre il sole è la verità della scienza, la quale però non cerca di acchiappare parvenze e ombre, bensì il vero essere.» Di questa posizione oggi non si crede più niente: proprio ciò che Platone intendeva, la scienza non dà.
Dunque - così concludeva Tolstoj - la scienza è assurda: «E' assurda perché non dà alcuna risposta all’unica domanda che a noi importa: che cosa dobbiamo fare? Come dobbiamo vivere?» e anche perché così la morte diventa assurda; non ci dovrebbe essere, dato che la scienza non può conchiudersi e la vita che ad essa si dedica, per il suo senso immanente, non dovrebbe aver fine.
Max Weber però, che contro Platone, o almeno contro la concezione della sua filosofia come scienza, dichiara senz’altro incontestabile che la scienza non risponda alle domande di Tolstoj, non rinnega, come quest’ultimo, l’importanza della scienza. Senza seguire né Platone né Tolstoj, dà questa risposta: la conoscenza universalmente valida di ciò che è empiricamente reale e logicamente necessario è qualcosa di insostituibile nell’uomo vero e indipendente: è la dedizione a una causa riconosciuta priva di interesse personale; la scienza insegna a vedere i fatti sgraditi; l’uomo dà prova di sé nello sperimentare che cosa egli possa sopportare di sapere. La scienza dà chiarezza, mostra fatti dai quali dipendono le mie azioni e fa intendere la posizione razionale dalla quale consegue un agire sensato. E' vera, nel senso della necessaria e universalmente valida verità che le è propria, solo quando è libera da profezie. Al profeta si può credere o non credere; l’intuizione scientifica è obbligatoria per tutti, o non esiste affatto.
Tra le possibilità scientifiche la più appassionante è il problema delle posizioni ultime. Nel chiarire razionalmente le posizioni dalle quali consegue il mio agire o l’agire di un altro, Max Weber prende le mosse «da una situazione fondamentale: che la vita, fin tanto che ha una sua base ed è intesa per se stessa, conosce soltanto la perpetua lotta degli dei tra di loro o, fuori di metafora, l’inconciliabilità e l’impossibilità di dirimere la battaglia delle ultime possibili posizioni rispetto alla vita, la necessità, dunque, di risolversi per l’una o per l’altra». «Come una volta il greco offriva sacrifici ad Afrodite e poi ad Apollo, e soprattutto ciascuno sacrificava agli dei della sua città, così avviene anche oggi senza l’incanto e senza la veste della plastica mitica, ma interiormente vera, di quell’atteggiamento. E su questi dei e sulla loro battaglia impera il fato, ma non certo una scienza.»
Chiarire le ultime posizioni le quali fanno nascere questo conflitto inconciliabile e quindi stringono tutte le azioni umane in un nodo tragico, sicché l’uomo possa rendersi conto del significato ultimo delle sue proprie azioni: ecco il compito della scienza; ma di quale scienza? «La disciplina della filosofia pura e le trattazioni di principio, essenzialmente filosofiche, delle singole discipline sono quelle che cercano di farlo.»
Ma sarebbe vittima di un malinteso chi volesse attribuire a Weber la pura e semplice identificazione della filosofia con questa scienza. Dove egli tratta più ampiamente dei conflitti ultimi per servirsene come di tipi ideali al fine di chiarire scientificamente la realtà sociologico-religiosa, si vede come sussistano tensioni fra le particolari leggi politiche, erotiche, intellettuali, religiose e come esse si escludano. Ma tutto questo ragionamento è ridotto espressamente a una mera possibilità; «i tipi, costruiti dal pensiero, di conflitti tra gli ordini della vita dicono soltanto: in questo punto sono possibili e adeguati questi conflitti interiori; ma non già: non esiste alcuna posizione, dalla quale possano considerarsi annullati».
In questo modo l’aspetto vitale di un insolubile conflitto tra le possibilità del mondo è, per ogni considerazione di orientamento scientifico, un aspetto ultimo, ma non è l’ultimo per la coscienza dell’essere. Ciò che è razionalmente ultimo sotto un angolo visuale non è l’ultimo in senso assoluto. Quando parla, Weber parla da sociologo e questo suo discorso fu da lui limitato soltanto con osservazioni marginali.
Se dunque volessi argomentare che riflettendo sulle posizioni ultime io possa sviluppare lo schema di un nominabile e definitivo numero di ordini di valore che, quando mi decido per l’uno o per l’altro, indichino il mio punto di vista filosofico, non seguirei l’opinione di Weber. Per lui tutte le costruzioni sono orientamenti relativi, passi dopo i quali rimane aperta la successiva strada verso la chiarificazione. In quanto universali non sono, infatti, mai sufficienti per la realtà dell’agire in una situazione. Anzi Weber nutre per lo più un segreto e talvolta anche palese disprezzo per le universalità filosofiche. «Così dette posizioni ultime? Chiacchiere e nient’altro. E, anzi tutto, dopo lunghissime esperienze e anche per convincimento io occupo questa posizione: che solo saggiando la propria presunta presa di posizione circa il comportamento di fronte a problemi ben precisati e del tutto concreti, il singolo vede con chiarezza la propria reale volontà.» Qui la filosofia viene tuffata nella vita; nel concreto essa diventa chiarezza della vita che si rende conto di sé. Ma proprio qui Weber smette di fare riflessioni sulla filosofia. Solo raramente egli interrompe la sua analisi con una parola del limite.
Qui va menzionata anche la sua convinzione di scorgere negli studi sociologici soltanto cause e dati di fatti empirici, senza voler esprimere che cosa significhino sul piano metafisico. Egli ebbe certamente un senso profondo del segreto che avvolge le cose, riconobbe Hegel e Burckhardt nella loro peculiare profondità, con cui svelano quel segreto; ma per conto suo, nella scienza, egli non si pone questo compito. «E' vero che l'andamento dei destini umani colpisce in pieno colui che ne scorge il settore; ma egli farà bene a tenere per sé i suoi piccoli commenti personali, come si fa infatti alla vista del mare e dell'alta montagna.»
Weber non filosofava espressamente; il suo filosofare va invece ricercato in ciò che egli fece in effetti come politico, come studioso, come uomo. E' filosofia reale prima della sua interpretazione, non filosofia pensata come tale, che anche senza realtà può apparire nel puro pensiero.
2. Weber uomo
La figura, di Max Weber fu contraddittoria. La persona imperiosa, col largo gesto e con la parola affascinante e -rispetto al mondo - l’anonimo della sua quasi nascosta esistenza. La grazia dei suoi movimenti, il calore del cuore, l'infantile semplicità dei suoi interessi puramente umani - e la tenebrosa inesorabilità del vero, che in certi momenti arrivava persino a bestemmiare Iddio.
Lo studio appassionato come volontà di sapere che si sobbarcava a qualunque fatica - e l'indifferenza davanti ad ogni conquista.
Il moto costante nelle apparenti esteriorità dell’indagine tecnica - e le radici affondate nella vera e propria verità dell’essere.
La risolutezza del sapere metodico - e la relativizzazione di ogni cosa saputa.
Il crudele distacco nel momento concreto in cui l’altrui contegno morale gli dava una delusione - e la bontà illimitata, il perdono per ogni torto sofferto.
La lotta senza quartiere con l’avversario - e la cavalleresca disposizione a riconciliarsi nell’istante in cui la vittoria gli pareva sicura.
L’agitazione di vedere per due decenni avvicinarsi la sventura - e la perfetta calma nella catastrofe del 1918.
La capacità di essere felice nel presente, la superiore serenità dell’esistenza - e la collera smisurata e irruente. Il rigore assoluto nell’adempiere il postulato morale come legge del giorno - e l’aperta chiaroveggenza di fronte ai demoni della notte.
Queste contraddizioni fanno parte dell’uomo in quanto uomo; ma se mantennero il loro sopravvento, la causa doveva essere dell’epoca. Weber non contrappose se stesso al suo tempo come se egli fosse qualcosa di meglio. Ma l’epoca stava sfasciandosi. Splendido per i suoi trionfi esteriori, grandioso per i progressi tecnici e le scoperte scientifiche, l’uomo non vi si riconosceva più. Era in balia di un meccanismo che non riusciva neanche a comprendere. In quotidiano progresso nelle cose tangibili, questo mondo, con tutto il suo sapere, non era però veritiero. In tale epoca neanche le cose grandi potevano assumere una forma di bellezza visibile e valida per un mondo che in essa potesse vedersi cosciente di sé. L’epoca reclamava a gran voce una personalità: non potè servirsi della più grande che possedeva. La coerenza con cui seppe escludere Max Weber è in certo modo rivelatrice dell’epoca stessa e oggi non ha più nulla di rivoltante. Il dissidio tra il mondo e l’esistenza fece di lui effettivamente la realtà dell’epoca la quale è appunto questo dissidio, ma essa non si riconobbe in lui. Inconsapevole del proprio sfacelo, essa si abbandonava ai desideri, alla ricchezza, ai successi; tollerava soltanto in singole persone ciò che Weber attuava nel profondo. Egli fu come soltanto un uomo eterno poteva essere in un'epoca simile: uno che infrange ogni forma apparente e rivela l'origine dell’essenza umana! Il destino dell'epoca e la sorte della Germania divennero realtà in un uomo che non stava in disparte, ma era lui stesso quel destino e contribuiva a comprenderlo. Egli soffriva e sperava come il cuore palpitante dell'Europa che era in procinto di perdere una vita spirituale e umana.
Agli altri Weber fu orientamento e misura, non modello. L'uomo che sta sulla linea di confine fra i tempi può suscitare, ma non plasmare. Perciò in contrasto con tutti i più deboli che si spacciavano per capi e assumevano atteggiamenti profetici, l’amore di verità impose a lui, il più potente di quanti vivevano allora, di non fare proseliti. Gli sarebbe stato facile avere seguaci come quelli che molti altri avevano in quel tempo. Egli invece si poneva davanti a chiunque da pari a pari e soffocò in germe ogni forma di imitazione e di proselitismo.
La persona di Max Weber sembrava collocata fra una epoca morente e un'epoca che stava sorgendo. Egli potè sentirsi epigono e già viveva in un tempo che non c'era ancora. Ma l'esser uomo gli era certo presente, sia pure senza valida oggettività, senza la forma di un mondo, senza monumentalità: «È destino del nostro tempo, con la razionalizzazione e intellettualizzazione che gli sono proprie, soprattutto col disincanto del mondo, che proprio i valori ultimi e più sublimi si siano ritirati dal pubblico e trasferiti nella fraternità di rapporti diretti tra i singoli individui. Non è un caso se oggi entro le più ristrette cerchie, tra uomo e uomo, pulsa in pianissimo quel qualche cosa che corrisponde al soffio profetico che una volta circolava con fuoco impetuoso nelle grandi comunità e le cementava».
Mentre Weber vedeva nella storia il reale, dovunque fosse, con obiettività sempre uguale, una risonanza particolare tradiva la vibrazione delle sue corde personali. I profeti ebrei e la loro solitudine gli diedero da pensare specialmente nei momenti più critici della guerra. La vista del soffitto di Michelangelo nella Cappella Sistina gli fece sentire i primi indizi della guarigione dalla sua malattia. Il quadro di Rembrandt all’Aia, che rappresenta Saul e Davide, gli piaceva in modo particolare. Egli si ritrovava nel mondo di Eschilo e di Shakespeare, ma onorava e stimava quell’altro, quello che culmina in Goethe; le epoche di decadenza e gli uomini che in esse si salvano erano per lui come specchi. Una volta sentendo esaltare Boezio perché, nell’universale rovina del VI secolo, aveva saputo conservare la propria certezza filosofica nella dignità romana e nella sapienza greca, Weber approvò con insolito calore.
Condannato a non usare le proprie energie in un’epoca decadente o a sprecarle come per caso, Weber s’incamminò per superare i punti negativi, contento, anche nel venir meno delle forze, di avere la testa limpida e il cuore vivo. E' il cammino della ragionevolezza nel quale l’uomo supera un compito non già rassegnandosi, rendendosi ottuso con l’abitudine o sopportando per inerzia, dimenticando e isolandosi, ma soffrendo interamente, sperimentando e arrivando alla chiarezza. La ragione, origine dell’essere uomo, è una cosa incolore, quando la si voglia osservare. Non la si può caratterizzare come tale quando le mancano la limitazione e la particolarità di un carattere. Pensata nella sua perfezione, non è che un’immagine vana, ma come realtà è tutto ciò che costituisce la dignità dell’uomo. Non è mai perfetta nel tempo, bensì umanamente soltanto la via in salita. La sua natura consiste nel diventare di più, non nell’originario essere di più.
L’incremento si compie nella volontà di sapere in quanto essa afferra senza riserve la necessaria possibilità di sapere e si orienta nel possibile, in modo però che non sia il solo intelletto a determinare, a subordinare, a conchiudere, bensì la ragione, nelle situazioni limite dell’esistenza, a guidar l’intelletto con l’impulso verso l’essenziale. Di qui l’infinito dilatarsi delle indagini di Max Weber e la loro coesione mediante l'essenziale che concerne l'uomo in quanto uomo. La mente aperta alle cose, anche all'irrazionale e all'antirazionale, o per accoglierlo come dominato o per riconoscerlo come diverso, gli creò il vasto spazio e nello stesso tempo la vicinanza all'uomo, anche al più estraneo che gli capitasse d'incontrare. E se avanzava dappertutto fino ai limiti e cercava la chiarezza per agire con buona volontà, lo doveva alla sua ragione. Ragione però è libertà.
Come Weber in sé e intorno a sé voleva la libertà quale condizione di tutto ciò che per lui era essenziale, così l'inafferrabile, il fatto commovente di sempre nuovi rapporti nelle comunicazioni umane, di conflitti esplorativi, di accordi spontanei, era ciò che motivava la massima fiducia in lui. Nel mondo non si può definire la libertà come un modo dello spirito, né come idealismo o liberalismo o germanesimo; essa è semplicemente l'essere uomo che tante volte intristisce ed è tradito o non arrischiato e perciò, quando viene incontro davvero, è come l'uomo stesso che si manifesta, benché appartenga e sia possibile a ogni uomo in quanto uomo.
Perciò Weber non diventò un capo per coloro che volevano assoggettarsi. La potenza della sua ragione risvegliava quella degli altri. Egli non agiva mediante l'autorità, mediante la superiorità del sapere e della capacità, mediante uno scuro carisma - questi sarebbero fascini estetici - ma suscitando nel prossimo lo slancio della conoscenza di sé. Egli non può essere oggetto di culto, ma è soltanto l'uomo ragionevole per tutti coloro che vogliono essere ragionevoli, essere liberi, comprendere a loro volta. Egli fu unico nel far coraggio, perché ognuno può e deve percorrere la via fino al punto in cui egli l'ha percorsa.
Weber professò quelle idee del secolo XVIII che in seguito si chiamarono liberali: cioè tutto quanto consegue dalla possibile libertà dell’individuo, l'intangibilità della sua esistenza personale, i diritti dell’uomo e la dignità umana. Tormentoso e assillante era per lui immaginare come, in un avvenire burocratizzato, meccanizzato e imbarbarito, quando le masse umane nelle pianure del Mississippi e della Siberia saranno costrette e legate in corporazioni come in un nuovo medio evo, l’uomo singolo potrà rimanere essere ragionevole e personalità.
Se consideriamo l’epoca sua e nostra, nel processo di universale illusione e fanatismo, in cui l'irragionevolezza è esaltata da falsi profeti, da imbroglioni imbrogliati, da despoti violenti, Max Weber è l'inestinguibile presente della ragionevolezza.
Ma nel processo di un’intellettualizzazione o di riduzione della ragione a mero intelletto, a scienza senza fondo e a sofistica, capaci soltanto di negare e distruggere, Weber è l’uomo la cui stessa umanità è il fenomeno storico della ragione.
La ragione è impersonale; diventa umana attraverso il suo moto nel tempo. Cosi, nelle situazioni storiche essa diventa progresso nella solidarietà tra gli uomini, nella battaglia per la giustizia, nella sincerità che ai limiti vede la propria limitazione, e nel rischio di esporsi, sia impegnandosi in una realtà, sia facendo l’opposizione. Per delineare la ragione umana di Max Weber bisognerebbe narrare all'infinito ciò che faceva, come si comportava, come giudicava e che cosa amava. E se anche egli non propugnò nessuna «grande causa», se non intervenne nella storia, non per questo si tenne in disparte. Degne di nota erano per lui le cose apparentemente piccole, affascinante il fatto che egli intraprendesse con veemenza e risolutezza ciò che ad altri pareva poco importante. L’aiuto prestato a chiunque ne avesse bisogno, la sua parte di avvocato degli amici, la sollecitudine con la quale seguiva gli aspiranti all’abilitazione universitaria e i comuni studi scientifici, i numerosi e vani tentativi di esercitare un’azione politica, tutto ciò riempì una gran parte della sua vita. Dalle lontananze della sua attività di studioso egli ritornava ogni momento al presente e ai rapporti con gli uomini che amava o stimava. In ciò consisteva quindi, fossero gli avvenimenti grandi o piccoli, il peso delle sue azioni; di fronte a Dio, infatti, non c'è alcuna differenza tra chi governa il mondo e chi aiuta un uomo nella sua solitaria necessità, quando ciò sia realmente fatto impegnando un'intera esistenza.
Weber fu lontano dall'altezzosa indifferenza verso il mondo; non permise che la sua indipendenza diventasse un gradito isolamento. L’atto di inserirsi nella professione e nelle associazioni era, secondo lui, senza voler esagerare, un elemento vitale positivo. Perciò si addolorò, sia pure moderatamente, quando per esempio, in occasione del suo precoce allontanamento dall’attività di docente per malattia, la facoltà non gli offrì, secondo una proposta del governo, di continuare a farne parte con la carica e col voto; o quando, durante la guerra, non venne invitato a partecipare all’istituzione di una periodica serata politica da parte di un cospicuo numero di professori. Era così alieno dalla vanità che non aveva bisogno di considerare indifferenti queste piccole cose.
Chi si aspettasse che questo tedesco cosi fermo abbia odiato o disprezzato altre nazioni, sarebbe in errore. Col suo cuore appassionato partecipò invece al loro destino, specialmente a quello dei russi e degli anglosassoni. In guerra provvide cavallerescamente a tutti i prigionieri che potè raggiungere e non si peritò di dar battaglia agli istinti nazionalistici dell'odio, allora dominanti, e della paura delle spie. L'uomo singolo fu per lui sempre un uomo e come tale giustificato e intangibile.
Weber combattè per la giustizia. Se uno scienziato era aggredito e offeso a torto, se al proprio editore era mosso un rimprovero ingiustificato, se a una persona dotata delle qualità necessarie veniva preclusa la carriera accademica, un appello al suo aiuto non era vano. Egli teneva in dispregio l’antisemitismo. Benché tutta la politica fosse, secondo lui, subordinata alla politica estera e alla potenza nazionale, i suoi sentimenti nelle questioni sociali erano di una rara fermezza. Preso anche lui, nei due ultimi decenni del secolo scorso, dal movimento sociale, non negò mai le pretese che l'uomo ha da porre come uomo. Le sue battaglie erano però aliene dalla volontà di potenza. Per quanto questa gli fosse nota, non la attuò mai. Non sfruttò né consolidò alcuna vittoria personale; a lui mancava ciò che rende ammirevoli, ma anche umanamente difficili da sopportare, i grandi uomini politici - Cesare e Napoleone, Cromwell e Bismarck - cioè la intelligente volontà di potenza.
Persino la sua ragione era senza volontà di potenza. Essa si limitava da sé. Assolutamente ligio alla legge morale della ragione in senso kantiano, permetteva che il suo giudizio morale della ragione fosse limitato dalla realtà dell'uomo che incontrava. Non accettava, è vero, nessun compromesso col giudizio morale, ma lo sottoponeva a sempre nuove inquisizioni, pretendendo l'assoluto soltanto da se stesso e non atteggiandosi a giudice altrui, pur essendo un inesorabile accusatore. Ma di fronte alla servilità e alla volgarità era di una tacita intolleranza, pronto a combattere solo quando gli pareva che ci fosse da difendere una causa. Una volta egli si era convinto che un docente avesse mentito in pubblico e fosse una vergogna per il corpo insegnante. Anche altri lo supposero, ma non sentirono né la vergogna né il dovere di portare alla luce lo stato delle cose. Weber intentò un processo in tribunale. Anche persone a lui vicine dissero che passava i limiti del ragionevole. Qualcuno, dolente, osservò che era come se il Niagara si riversasse in un mastello. Altri, di parere contrario, dissero che era ridicolo e che oltre a tutto egli avrebbe fatto cattiva figura. Weber, abile e superiore davanti ai giudici, diventò di fatto il presidente spirituale del dibattimento e raggiunse le prove della verità. Testimoni che non volevano rivelare si tradirono loro malgrado sotto il fuoco di fila delle sue interrogazioni. La conseguenza fu che il docente venne espulso dall’università. Allora si vide che quell'intervento era giusto e il caso fu effettivamente considerato scandaloso.
Il rischio di far brutta figura e la disposizione a impegnarsi anche a costo di rendersi ridicolo, pur di salvare nel contatto col mondo la sostanza dell'essere, erano l'espressione del suo senso di responsabilità storicamente presente. Ciò che è vero qui e adesso deve avvenire. Il lasciar andare, il considerare piccole e insignificanti le cose, è la via che porta al non essere, all’interiore rottura del mondo. Egli disse a tutti che cosa dobbiamo fare: «Svolgere il nostro lavoro e ottemperare alle esigenze del giorno - sia umanamente, sia professionalmente. Queste però sono schiette e semplici quando ognuno trova il demone che regge il filo della sua vita e gli obbedisce».
Un’espressione della coscienza di sé era la sua ripugnanza a farsi effettivamente valere. In un’epoca in cui ogni persona colta teneva alle proprie prestazioni intellettuali e doveva giustificare se stessa producendo qualcosa di proprio e sentiva di essere qualcuno pubblicando libri, Weber, pur essendo un vero creatore nel regno del pensiero, era indifferente all’idea di far valere se stesso. Quando morì, ancora poche cose sue erano accessibili, i suoi lavori più cospicui erano nascosti nelle riviste. Marianne Weber raccolse in dieci volumi il tesoro delle opere, ricavandole dalle stampe disperse e dai manoscritti postumi. Weber non teneva a scrivere «libri». Cominciò a farlo malvolentieri verso la fine della vita quando parve che la causa e il compito prefisso lo richiedessero. Istintivamente scelse una forma di esistenza letteraria che lo rendeva personalmente irriconoscibile. Anche in questo si trovò al confine tra due mondi: un mondo al tramonto nel quale contava soltanto l’oggettività che anche lui stimava negli altri, e un mondo in divenire il quale vede l’oggettività sotto l’aspetto tecnico e nel quale il vero rimane un palese segreto. Di qui la pacatezza di Weber, a lui stesso ignota, di fronte agli studi coltivati però con passione, quando disse: «ciò che non faccio io lo fanno gli altri». Ciò che è oggettivo è sostituibile, l’anonimo nella sua storicità è l’essere.
La rinuncia a farsi valere, che fu il suo modo di agire, si manifesta anche nel linguaggio weberiano. Alla prima lettura il suo stile può meravigliare. Con la penetrazione del pensiero, la densità dei concetti, la cura dell’elaborazione delle idee va di pari passo l'indifferenza verso l’opera nella sua forma linguistica, nella composizione, nella mole e nelle proporzioni.
Weber non elaborava il suo stile. Buttava giù nell’intenso lavorio del pensiero e con la forza della raffigurazione, ma non limava. Perciò, secondo l’argomento del discorso, lo stile diventa spesse volte scialbo, ma anche allora rimane suo personale.
In quanto al contenuto, s’incontrano ripetizioni, digressioni e poi ritorni all’argomento, enumerazioni talvolta non proprio necessarie, periodi complicati, trovate occasionali.
E' significativo che Weber fosse alieno dal rivedere i suoi manoscritti o magari le sue cose stampate: non si compiaceva dell’opera, ma andava avanti nel campo in cui l’opera segnava soltanto un passo.
Siccome era tutto preso dall’argomento e non si soffermava all’espressione, gli riusciva senza volere di toccare l’origine vera e propria anche nella lingua, cioè i suoni veramente spontanei dello spirito umano nel tempo presente. E poiché in un’epoca nella quale in genere si badava alla forma, gonfiandone il fiacco contenuto, egli era informe, la forma da lui ottenuta possedeva quella genuinità che è l’espressione adeguata del pensiero veramente originale e dell’attuata essenza umana.
Nel linguaggio, come dappertutto, Weber è prodigo, aperto e senza pretese: si dà come in questo momento realmente è nella sua disciplina oggettiva e nella sua umanità, senza mai camuffarsi. Perciò Weber si presenta per così dire svestito. Egli ha l’ardire di mostrarsi e non monta mai su un piano di espressione artificiosa.
3. Fede e verità
Max Weber non volle mai fare causa comune coi combattenti per la fede; diceva che con loro non si può discorrere. Il loro fanatismo si aggrappa a contenuti fissi.
Lui invece propugnava la illimitata ragionevolezza che col suo moto infinito giunge al limite dove bisogna veramente decidere combattendo. Sotto questo aspetto i combattenti per la fede si pascono di delusioni; si presentano con modi di pensare che si vantano di conoscere il tutto. Il concetto di totalità, relativamente giustificato come tutte le categorie, appartiene, in quanto è predominante, sia all’idolo del pensiero reazionario, sia all’utopia del pensiero rivoluzionario. Nell’intuizione immanente del quadro assoluto dell’essere, nella fiduciosa consapevolezza dell’armonia, nella certezza che infine le cose procedono da sé per la via giusta secondo la necessità e il volere degli uomini nella indiscussa sicurezza del proprio diritto, la fede fanatica ha perduto tanto l’originario riferimento alla trascendenza, quanto la facoltà di comunicare con gli altri.
E se si ergeva contro queste ondate di illusioni, di storture, di suggestioni, contro gli assolutismi intellettuali, Weber si oppose con non minore risolutezza all’incredulità del nichilismo. Certo avrebbe potuto disperare e nel suo isolamento diventare un misantropo. Lo sorresse invece la sua fede, quella fede schietta, ignara, che dalla più profonda origine sapeva essere sempre affermativa e cercava di trovare ciò che nella rovina generale era ancor degno d’amore, persino nel riconoscimento di ciò che gli era estraneo. Non aveva mai voluto rinunciare alla vita, né la vita come tale fu mai per lui la cosa ultima. Egli nutriva una profonda stima e venerazione per la morte in guerra, perché con essa l’uomo può conferire un significato a ciò che tutti noi dobbiamo subire soltanto passivamente.
Quanto peggio andavano le cose, tanto più la sua fede aumentava. Mentre, quando apparentemente andavano bene, era l’inesorabile pessimista in cerca della salvezza, una volta subentrata la sciagura diventava calmo: allora rimane qualche cosa che è, che è possibilità, che ridiventa. Volgarmente si direbbe ottimismo ciò che in verità è una credente e indistruttibile affermazione nell’incessante battaglia per l’essere essenziale. Nel 1919, quando nel suo discorso di congedo da Heidelberg non potè proprio trovar nulla che infondesse coraggio quale visibile sostanza della natura tedesca, il cui volto anzi era del tutto sfigurato, parlò dei boschi tedeschi che rimangono e sono ciò che erano sempre, né lontane grandezze monumentali, né sentimentali idilli, bensì ciò che il tedesco può essere: essere se stesso nelle diverse forme particolari, essere il silenzio della riflessione, l'eco di tutto ciò che è umano. E ancora una volta professò ciò che aveva fatto nei giorni belli e nei brutti: ringraziò Dio di essere tedesco.
Nonostante tutte le riflessioni Max Weber era un ingenuo. Sorpassando la misura di ciò che era normalmente possibile, continuò fino all’ultimo a interrogare, indagare, pensare. Ma le scoperte e i pensieri finivano coll'essere un mezzo nelle mani di colui che li possedeva e ne era posseduto - ed era più di tutto ciò. Egli rimase nel progresso dell'esperienza, della ricerca e della distinzione: ogni distinzione però si annullava in una non più consapevole unità del suo vero e proprio essere se stesso. Nulla di definitivamente esprimibile rimaneva come contenuto della fede, che persino come sostanza era incrollabilmente presente in ogni esperienza e in ogni pensiero.
Se nonostante tutto vogliamo definire questa fede dobbiamo ricorrere alle parole che morendo egli pronunciò come un mistero: «Il vero è la verità». Per noi non è una tautologia, ma quasi una formula magica, l’espressione di un'esistenza, la cui verità considera anche i modi del sapere, come il sapere empirico, soltanto quale funzione in un processo responsabile, la cui origine e la cui meta restano ignote, ma vengono affermate.
La ricerca della verità appare per Max Weber anzitutto nella lotta. Nell'atmosfera di Treitschke e di Bismarck egli apprese da giovane «che il lavoro serio, coscienzioso, incurante del risultato, interessante soltanto alla verità, è in ribasso». In seguito la sua battaglia per il vero è diretta contro coloro che nel sapere come tale pretendono un contenuto e un carattere, ma proprio così confondono, contrariamente al vero, valutazione e scienza, decisione e intuizione; inoltre contro coloro che pretendono l'assolutezza del sapere e con ciò diventano non veri, perché ogni sapere è valido soltanto su una posizione e sotto certi aspetti; la lotta è diretta contro i razionalisti perché non osservano con occhio critico le mete del sapere, e contro gli irrazionalisti perché misconoscono il significato del sapere e il suo insostituibile modo di impadronirsi della verità; egli combatte contro la insincerità filosofica che armonizzando copre gli abissi negli schematismi concettuali; le sue collere violente investivano quello stile «da Gartenlaube», come egli lo chiamava. In cambio Weber è preso di mira per il suo relativismo, per la sua fredda oggettività, per la presunta impossibilità della libera valutazione, per la insoddisfazione che la scienza lascia quando non valuta. Ma dietro ai postulati weberiani sta la passione della verità che, mediante la chiarezza di ogni modo di sapere, vuol arrivare risolutamente al punto in cui non si conosce attraverso lo studio, bensì attraverso l'azione e la produzione nel mondo. Questa libertà di valutazione è altrettanto in rapporto con la purezza dello studio quanto con l'originalità dell'azione. Il senso weberiano della verità era lontano e dal soddisfatto mondo attuale e dalla ottimistica fede investigatrice del liberalismo, mentre come condizione di tutti i valori del mondo la personale responsabilità del libero individuo era per lui intangibile e ogni forma di costrizione delle coscienze era respinta.
Singolare è nelle indagini di Max Weber l'azione di un'assoluta volontà del vero. Egli non presenta se stesso nella storia, né la storia è lontana da lui come qualcosa di diverso. Egli vi entra con gli occhi del suo proprio presente, avvezzi alla realtà, ma vede in questo presente l'altro mondo, come se egli fosse contemporaneamente qui e là. Da ciò deriva l'oggettività delle sue analisi storiche e il fatto toccante che ci riguardano direttamente. Di qui la sconvolgente ambiguità di tutte le possibilità di valutazione. Si è pensato che nei suoi studi sul calvinismo ci sia una segreta esaltazione all'ascesi da lui stesso approvata; altri hanno pensato che in essi l'orrore di Max Weber dinanzi alla meccanizzazione moderna conduca a smascherarne la natura fino alle origini: l’una cosa e l’altra possono essere apparentemente motivate, entrambe sono erronee. Chi per errore crede che Weber tanto nel calvinismo quanto nei profeti ebrei, nei grandi demagoghi, ecc. rappresenti se stesso affermando e ammirando questi fenomeni, vedrà presto e dappertutto la luce ambigua nella quale essi si presentano. Quanto più Weber va in fondo in un’indagine, tanto più viva si fa questa luce ambigua, di modo che a un esame accurato non si capisce se nel valutare egli dia un giudizio affermativo o negativo. Si direbbe che la natura stessa delle azioni umane sia discussa attraverso la illimitata giustizia e libertà di vedute di questo studioso che non pesa, non dà un po’ ragione e un po’ torto, ma senza valutazioni universali svela ciò che è accaduto, nella sua visibile origine, nelle sue possibilità e nelle reali conseguenze come fatalità storica. In questi studi è contenuta la comunicazione indiretta della recondita valutazione dell’esistenza stessa, la quale in parole di valutazione razionale si manifesterebbe sempre in forma non vera.
4. Fallimento
Weber fu bensì un grande scrittore politico, il fondatore dell’odierna sociologia, il riconosciuto studioso e creatore di opere straordinarie, il compagno della sua consorte e l’amico dei suoi amici, un uomo che conosceva la felicità; ma l’azione politica gli fu negata, le sue opere rimasero giganteschi frammenti, la sua esistenza fu scossa nella salute per molti anni e limitata assai nella sua esplicazione.
Questo modo di considerare il fallimento di Max Weber nelle cose esteriori della vita come un semplice fatto non colpisce il vero e proprio significato della sua persona. Egli era circondato da un’atmosfera di fallimento in un senso più profondo. Il suo fallimento non coincide con ciò che egli non fu capace di fare né le sue prestazioni coincidono con ciò che egli sapeva compiere. Il suo fallire fu un subire, che è come una volontà attiva, fu il vero fallimento dell'uomo nel momento storico a lui imposto.
Nel campo politico un incompiuto destino della sua natura naufragò in mere possibilità. La sua intuizione politica era quella di Cassandra che non può persuadere nessuno, e perciò non può mutare nulla, ma soltanto soffrire. Come Machiavelli o Mirabeau, i quali con uguale spietato realismo ebbero le intuizioni politiche del loro tempo, egli non potè esercitare grande efficacia. Ma fu nello stesso tempo un uomo dotato di quel carattere, la cui mancanza portò quelli a fallire sul piano umano. Egli pretendeva il massimo: di agire politicamente in base a una chiamata, senza una propria volontà di potenza. Il suo fallimento fu essenziale perché egli voleva ciò che umanamente è vero, ma di fatto è impossibile.
Come studioso produsse un’opera che pur rimase frammentaria, non già per mancanza di forze, ma per la verità nel sostenere il proprio compito: egli si sentì fallire nel suo infinito sapere appunto perché il senso del sapere vuole che si fallisca sui confini per lasciare via libera a una più profonda verità nel fare e nell’essere. Egli cercò il punto in cui il fallimento diventa il vero. La natura della scienza consiste nell'impossibilità di arrivare a compimento; in essa il frammento straordinario è più di qualunque compimento, che infine è soltanto apparente.
Nel suo essere uomo filosofante Weber subì i limiti del finito; nonostante la realtà del suo agire falli esteriormente per mancanza di un'ampiezza adeguata e dell'importanza storica di ciò che gli riusciva: egli cercava l'oggettività, cercava la totalità e ciò che nel mondo è valido, cui potersi abbandonare per essere veramente se stesso... e gli avvenne di sentirsi respinto dall'ampio presente verso di sé, per poter stare sulle proprie basi come uno cui siano tolti il mondo e lo spazio. Ma per lui questo fallimento non fu un fallimento. Le forze non gli vennero mai meno, dovunque stesse egli svolse il suo compito impegnando la propria esistenza tutta intera. E se questa azione, sia che abbracci brevi o larghe zone della realtà, manifesta la relatività soltanto al limite, soltanto dove questo intero impegno è assunto e rivela il suo carattere simbolico e diventa quasi indifferente, questo fu il suo vero fallimento in quanto ritorno all'origine.
Se Weber falli in ogni senso obiettivo, troppo stretto per la sua grandezza, questo fallimento è proprio l'appello della verità. Se nell'ultimo senso interiore dell’uomo fallisce ciò che oltrepassa l'intimità dei suoi buoni convegni col prossimo e la fedeltà sulla quale può contare, Weber come uomo è quasi la comparsa dell’origine nel perpetuo presente, la perfezione nello spazio minimo, perché qui sta ogni possibilità.
Non si può comprendere quello che egli fu come uomo, qualora lo si inserisca in un tipo psicologico, sociologico o storico. Quelli che lo definirono un outsider, un soggettivista presuntuoso, quelli che lo dissero liberale, nazionalista, democratico, quelli che ne fecero il rappresentante di una borghesia individualistica la quale invece lo mise da parte, e il prototipo di un’epoca alla quale invece, secondo la descrizione che ne fecero, era contrario, o coloro che videro in lui una prevalenza di ascetismo, uno scetticismo eroico, o infine, senza alcun rispetto per il vero destino e la vera grandezza, parlarono di un suo rifugiarsi nell'eroismo, che sarebbe la forma più eminente dell'imboscamento, tutti sono in errore. Il metodo di comprendere uomini e realtà spirituali in concetti universali di epoche, di classificarli e collocarli in un dato punto della storia dello spirito, il metodo di suddividerli in coppie antitetiche apparentemente caratterizzate, questo metodo fu combattuto da Weber con i propri studi e con la sua riflessione logica; egli lo intese come facile conversazione senza vero valore agli effetti della conoscenza, come applicazióne di etichette, come barbarie spirituali. Meno che mai lo si può applicare a lui stesso. Coloro che lo fanno credono di aver afferrato il panorama del suo pensiero e si privano da soli della possibilità di vederne il fondo.
Conta invece scorgere attraverso quest'uomo l'origine delle possibilità umane, vedere nel fenomeno temporale ciò che l'uomo è.
Altrettanto però errano coloro che lo prendono per guida e modello, cosa che forse nessun altro grande ha rifiutato nettamente come lui. Egli è l'indistruttibile esigenza di cercare e di trovare il vero attraverso la comunicazione con gli altri, procedendo nel tempo, non già di ricavare il vero come fatto compiuto e di accettarlo con ammirazione. Nel fallimento egli porge la fiaccola, la libertà della libertà.
L'uomo che nacque nel mondo di Omero e dei profeti ebrei non si è già perduto in Nietzsche. Egli ha trovato l'ultima, per ora, grande apparizione in Max Weber, l’apparizione del nostro mondo il quale si trasforma con un ritmo così veloce che i contenuti particolari del mondo weberiano, nonostante la brevità del tempo, sono già tramontati, mentre non lo sono i problemi fondamentali dell'essere uomo, della possibilità di sapere, dei compiti risolutivi. Non possediamo più un grande uomo che in questo modo sappia avvicinare noi a noi stessi. Egli è stato l'ultimo. Perciò la nostra vita si orienta ancora riguardando a lui che già lentamente si ritrae nella storia ed è presente soltanto per coloro che lo conobbero vivo, mentre rappresenta una possibilità di acquisto per i posteri che cercheranno l'uomo tedesco nella sua vera libertà.
Nel suo livellamento e nella sua incredulità, il tardo mondo antico offri un sostegno all’individuo nella filosofia stoica. Chi indicò il cammino alla filosofia era Socrate perché nella sua realtà di uomo era stato, aveva fatto e aveva sofferto ciò che ora la filosofia cerca di comprendere attraverso i secoli. Nel mondo nel quale entriamo, in un'epoca di accumulazione di masse e di dominio delle masse, di sfruttamento di ogni cosa, della miseria umiliante e della volgare felicità, l'individuo si troverà un'altra volta davanti al compito di cercare filosoficamente la sua verità. Nessun fatto oggettivo gliela insegnerà. Toccato dal palese segreto di un uomo come Max Weber, potrà darsi che egli si accenda. Ma se ciò avviene, si può dire che più di tutti gli si avvicina colui che comprende il fallimento e la morte. Egli rimarrà invece incomprensibile a chi, tenendo lo sguardo fisso al mondo bello che anche Max Weber seppe godere in pacata serenità, dimentica la morte.