II. Lo scienziato
L’aver elaborato un’enorme quantità di nozioni, l'essersi introdotto nelle scienze più svariate, l’aver afferrato tanto i metodi delle scienze naturali, quanto quelli delle scienze dello spirito, l’aver acquisito la giurisprudenza come professione, l’aver imparato la teologia, il sentirsi come a casa propria nella realtà storica dei millenni, in Cina e nell’india, nell’oriente e nell’occidente: tutto ciò dimostrerebbe soltanto la rara capacità intellettuale di Max Weber. I suoi studi però trovarono un asse centrale soltanto nel continuo riferimento all’uomo, e precisamente all’uomo nella società e nelle sue trasformazioni storiche. Sia che attraverso studi esatti egli indaghi la psicofisica del lavoro industriale, sia che ricerchi i collegamenti razionali dei dogmi teologici, sia che faccia studi comparati sull’importanza delle forme della città in tutti i paesi civili, sempre gli si presenta il problema degli uomini che sono determinati da dipendenze conoscibili e, agendo in un senso voluto da loro, producono ciò che non avevano affatto voluto in quella forma. Invece di abbandonarsi al disperato tentativo di portare a un’evidenza veramente valida il significato che sta alla base di tutti gli eventi o di trovare la norma che domina tutte le cose o la totalità dell’essere, afferrò il significato determinabile come quello voluto e prodotto dall’uomo reale nelle sue dipendenze e conseguenze che di volta in volta si possono conoscere solo relativamente in singoli rapporti. Perciò i suoi studi sono apparentemente dispersi in un mare infinito, benché si riferiscano a un'unica idea la cui attuazione rimane un compito senza fine. Perciò non si possono indicare adeguatamente i suoi studi esponendone i risultati o tracciando un quadro complessivo, ma si può soltanto tracciarne il cammino.
1. Esempi di intuizioni weberiane
Si può farsi un’idea del particolare genere di intuizioni che Weber acquistò intorno ai rapporti fra le cose umane, osservando anzitutto questi esempi:
a) Da Montesquieu e Gibbon in poi il tramonto del mondo antico è oggetto di stupore e di indagini. Weber intuisce la dimostrabile inesattezza di chi considera cause della decadenza la scomparsa della moralità e la degenerazione della razza. Egli pone per contro in maniera convincente un fattore in tutta la sua singolarità: verso la fine della repubblica romana la civiltà antica si volse secondo il sistema capitalistico all'economia delle piantagioni con continui nuovi acquisti di schiavi. In precedenza gli schiavi erano tenuti ancora su un piano patriarcale: avevano famiglia e discendenti. Ora furono trattati con modi capitalistici: tenuti in caserme, portavano catene ed erano spinti al lavoro da sorveglianti. Siccome c'era bisogno di continui rifornimenti di schiavi, quella forma di economia si mantenne fino alle guerre di Traiano, fin tanto cioè che grandi guerre portavano sul mercato sempre nuovi schiavi. Pacificato l’impero, l'afflusso di schiavi cessò, se ne senti la carenza e si dovette abbandonare quella forma di economia. Gli schiavi poterono aver famiglia per procreare discendenti. In questo modo da inquilini della caserma diventarono coloni, uomini legati alla terra, di nuovo partecipi della propria esistenza con interesse proprio, ma viventi in economia naturale. Cosi la sovrastruttura dell’economia capitalistica divenne sempre più sottile. Ma poiché essa aveva sorretto infine lo Stato romano e l’esercito e il traffico economico della zona mediterranea diventata orbis terrarum, il ritorno all’economia naturale significò, sul piano economico, il passaggio al medioevo con la rottura dei rapporti che collegavano tutti i paesi; sul piano militare, la fine dell’organizzazione romana dell’esercito basato sul soldo; sul piano politico, l’impossibilità di mantenere l’unità dell’impero. Da qui la sempre meno efficiente resistenza dell’impero romano a partire dal terzo secolo.
Nelle sue intenzioni Weber non pensava di aver spiegato cosi il tramonto del mondo antico, ma ne aveva messo in luce una causa dimostrabile.
b) Un altro esempio ci avvicina direttamente a quel problema che per Weber finì col diventare universale. Lo spirito dell’economia capitalistica, che regge la nostra esistenza presente, lo si trova in questa forma soltanto qui, e non è mai esistito realmente altrove nella storia. Dappertutto si cercò bensì di arraffare senza riguardi, si manifestò la fame dell’oro; più volte si ebbero anche imprese capitalistiche nel senso che investendo una grande riserva di denaro si ottenne per calcolo un grande guadagno. Ma in nessun luogo si presentò il fatto odierno: che attraverso calcoli precisi, esatti nelle cifre, dei costi preventivi e del guadagno si sia soddisfatta la maggior parte dei guadagni vitali delle masse mediante una tecnica incomparabilmente sviluppata in una organizzazione di aziende che hanno la loro esistenza e la loro durata indipendentemente dai singoli individui. Perché ciò fosse possibile occorsero parecchi presupposti: in primo luogo la reale possibilità di calcolare tutti i costi, per esempio anche i salari nel contratto di lavoro (contrariamente all’impossibilità di calcolare i costi del lavoro degli schiavi); in secondo luogo la possibilità razionale di prevedere le future decisioni del giudice, la quale previsione è possibile soltanto con la validità di un diritto formale, non già nell'irrazionale amministrazione della giustizia alla quale si arriva imprevedibilmente attraverso la buona volontà umana di un cadì che abbia ascoltato le parti; in terzo luogo l’ordine statale nel quale regna la legge razionalmente conoscibile, non già un partito né un despota né, in genere, l’arbitrio. La scomparsa della schiavitù, il diritto formale, il legale ordine nello Stato sono condizioni che hanno in comune la razionalizzazione dell’esistenza in favore della calcolabilità.
Ma tutte queste condizioni non sarebbero state sufficienti a far sorgere lo spirito di un’efficace mentalità capitalistica del lavoro. In proposito Weber trova invece un coefficiente originariamente diverso e, secondo lui, decisivo: la mentalità del lavoratore - che, invece di servire una persona, preferisce dare il suo lavoro pagato e regolato da un contratto a un’azienda impersonale, e sul lavoro promuove instancabilmente l’opera che gli è stata affidata, ma nel resto è libero - è intimamente affine alla mentalità dell’imprenditore che consuma la vita nella costruzione della sua fabbrica, reinveste ogni guadagno per ampliare e rinforzare la sua azienda, serve la propria opera, ma in fondo non arriva a godere il suo guadagno. Considerato sotto l’angolo visuale del godimento della vita, il lavoro di entrambi è, a rigore, insensato; entrambi coltivano un concetto professionale. Oggi questo spirito si presenta per lo più come specializzazione e come inane, sempre calcolatrice e logorante lotta per il successo, con l’aggiunta del valore etico dell’idea professionale. Ci si domanda donde venga questo impulso spirituale che non si è mai visto così nel mondo. Esso è di origine religiosa, per quanto questa sia oggi scomparsa nella mentalità professionale, diventata ormai puramente laica. L’idea professionale deve la sua origine a Lutero, la sua singolare formazione, dalla quale sono derivate quelle strane conseguenze, al calvinismo. La dottrina religiosa diceva: l’uomo non deve servire Dio come il monaco, mediante un’ascesi che lo allontana dal mondo verso l’ozio senza amore, ma Dio vuol essere glorificato nel mondo, sempre però mediante l’ascesi. Perciò l’uomo deve lavorare per gli altri, perché la volontà di Dio sia fatta in questo mondo con la produzione di opere efficaci; egli non deve lavorare per godere il guadagno e aver successo, ma anzi senza goderne. Deve operare in un’ascesi entro il mondo e non ha se non il guadagno personale seguente: Dio ha predestinato tutti gli uomini o al perpetuo stato di grazia o alla perpetua dannazione; nessun uomo può mutare questo stato di cose; può invece cercare dei sintomi per scoprire a quale stato egli sia destinato dall’imperscrutabile giudizio di Dio; è vero che neanche attraverso tutti i sintomi lo potrà mai sapere con certezza; si troverà sempre davanti a un problema. Ora, un sintomo è quello di aver successo nel mondo con la propria attività; l’instancabile progettare e produrre da parte dell’imprenditore e del lavoratore non mirano quindi al guadagno e al godimento, ma alla ricerca di un indizio che determini l’assegnazione allo stato di grazia. Se l’imprenditore incominciasse a godere il suo guadagno invece di impiegarlo ad allargare ancora il suo successo e a glorificare pertanto Dio nel mondo, egli avrebbe un indizio del contrario. L’incertezza dello stato di grazia, che resta pur sempre anche nei più grandiosi sintomi di successo, lo incalza senza posa. Questo pensiero religioso, accolto nella mentalità di molti, divenne un incomparabile motore del lavoro governato da presupposti razionali. Ne derivò quel regime economico che è nello stesso tempo laico e ascetico e la cui forma meramente laica, avendo ormai l’ascesi perduto ogni significato, sopravvive oggi come un fantasma in unione con nuovi motivi.
Più complicata e convincente di questa esposizione schematica è l’analisi dei rapporti nel più compiuto lavoro scientifico di Max Weber, quello sull’etica protestante e sullo spirito del capitalismo. Ma a chi domanda se egli creda di aver individuato cosi la causa del capitalismo moderno Weber risponde: niente affatto. Egli mette soltanto in chiaro, con tutti i mezzi dell’indagine empirica e dell’interpretazione intelligente, le condizioni e un coefficiente positivo che all’insaputa degli uomini ottenne effetti ai quali nessuno aveva pensato quando avvenivano. Questi studi allargano la coscienza, illuminando un nesso che era nascosto e poteva agire così soltanto perché era nascosto; e riescono a comprendere l’involucro rimasto quando la sostanza dell’origine è scomparsa.
L’interessamento di Max Weber è rivolto, in genere, a ciò che l’occidente ha di particolare e al perché ciò sia avvenuto in questa forma qui e non altrove. Il modo della scienza razionale (presso i Greci), la liberazione dalla magia (presso gli Ebrei), le città nella loro indipendenza borghese, il carattere degli uomini politici di professione e dei demagoghi, lo Stato costituzionale, lo Stato razionale burocratico, lo sviluppo tecnico ecc. sono oggetto dell’indagine che, sul piano economico, possiamo considerare fondamentale, come quella che diede anche la spinta allo studio dell’etica protestante: perché abbiamo il capitalismo in occidente? Perché soltanto qui, mentre le possibilità esistevano pure quasi dappertutto? Un tratto essenziale del capitalismo è il razionalismo: il calcolo esatto, la calcolabilità in genere. Razionalismo ci fu dappertutto nel mondo, ma da noi fu illimitato. Un’altra, più vasta questione è quindi quella dell'origine e delle conseguenze della razionalizzazione dello spirito umano. La risposta a tali questioni è data dalla storia universale nella forma in cui si presenta a Max Weber.
2. Lo storico
Lo scienziato Weber vuol sapere ciò che è perché questo sapere lo riguarda. Vivendo nel presente vuol sapere in quanto uomo politico o politico potenziale. Chiese, per esempio, sul piano politico da che cosa dipendesse la decadenza del governo tedesco e domandò che cosa, in fondo, volessimo in politica. Ma per la curiosità sociologica di Weber la nazione è soltanto uno dei punti di partenza. Si tratta, in genere, della nostra situazione nel mondo. Per comprendere quest’ultima occorre la storia universale: d’altro canto, per comprendere qualunque evento storico è necessario, viceversa, penetrare nel presente del proprio mondo. E appunto concentrandosi sul presente in quanto propria esistenza storica, Weber diventa uno studioso della storia universale. L’impotenza della sua volontà politica trasforma la sua energia mettendo le ali alla sua altrettanto appassionata volontà di sapere. L’interessamento storico, incominciato già col destarsi della sua coscienza, gli fu di aiuto fornendogli una singolare familiarità con tutte le epoche e tutte le civiltà.
Meta della sua storia universale non sono le grandiose vicende di epoche e civiltà passate, non è il teatro della storia del mondo. Ogni quadro è per lui soltanto un mezzo. Pur essendo egli un descrittore di efficacia inaudita, la descrizione ha una parte esigua in tutte le sue opere. Chi vi ricorre sperando di trovare racconti e descrizioni facilmente comprensibili o figure ben delineate rimane deluso: con difficoltà riesce a farsi strada nel groviglio delle cose citate e accennate. Weber presuppone nel suo lettore la conoscenza e la visione della storia. Ma, confrontate con la penetrazione e con la precisione oggettiva di queste intuizioni storiche, la maggior parte delle descrizioni degli storici cadono nell’approssimativo, nell’incerto, in un’atmosfera vaga.
Come storico Max Weber non cerca nemmeno la totalità del mondo umano. Egli sa che l’esistenza di essa è problematica, in ogni caso infinita e, per chi studia, inesauribile. Poiché va in cerca di fatti concreti nella catena degli avvenimenti, conosce soltanto totalità relative, non già la dominante costruzione dell’insieme delle cose umane. Confrontata con la storia universale, anche la più ricca totalità nella filosofia della storia sembra povera, se anche seducente per la sua comoda grandiosità.
Nemmeno in queste rinunzie Weber diventa un raccoglitore di fatti storici. Egli non cerca un quadro enciclopedico di tutto ciò che sappiamo. In confronto della intensa varietà delle prospettive wèberiane, una siffatta enciclopedia appare dispersa.
D’altro canto egli non si lascia indurre a perseverare nella contemplazione dei personaggi o nella diretta osservazione di rapporti di dipendenza. Come meta ultima non cerca l’appagamento culturale nel presentare la realtà umana di grande valore spirituale. In rapporto alla relazione tra le intuizioni weberiane e l’impegno di un’esistenza umana che si decide nel mondo, questa cultura fa l’effetto di un beato e non impegnativo godimento della grandezza nella disperazione inattiva, ma valorosa e scettica.
Perciò Max Weber non è uno storico universale né come descrittore al pari di Ranke, né come filosofo della storia al pari di Hegel, né come raccoglitore di fatti al pari di Schmoller, né come evocatore di personaggi al pari di Burckhardt - ma come sociologo. La descrizione, la costruzione, la raccolta, la visione sono per lui mezzi di importanza limitata. Poiché non si lascia avvincere da nessuno di essi quale meta da raggiungere, il mondo delle cose umane è veramente aperto alla sua ricerca delle cause. La sua sociologia è storia universale in virtù dell’irrealizzabile ascesa alle questioni fondamentali, attraverso le quali si possono comprendere le grandi decisioni, le cause ultime del mutamento delle cose umane. Egli vuol capire, in base a coefficienti determinabili, in che modo sia divenuta l’esistenza umana. Vuol sapere, ma anche chiarire di volta in volta il limite del sapere. Perciò, nonostante il suo sapere che ad altri potè sembrare una compiuta penetrazione nelle cose, ha una continua soggezione di fronte alla realtà che non viene mai conosciuta in se stessa, ma soltanto per riferimenti.
3. Il metodo. (Possibilità, confronti, tipo ideale)
Come la storia diventa un mezzo per trovarci la chiarezza della presente coscienza della realtà e del volere, cosi Weber cerca di concepire il passato di volta in volta come un presente. La sua coscienza del presente era essenziale per il fatto che egli non considerava ancora il presente come fosse già storia e si svolgesse necessariamente così: chi fa queste considerazioni non è affatto presente, ma è spettatore immaginario di ciò che è pur sempre passato. La coscienza del passato diventava per lui un altro presente e con ciò una vera realtà: chi considera la storia soltanto come passato la rende, senza volere, falsamente simile al proprio presente. Soltanto così Weber potè raggiungere, attraverso lo studio della storia e del presente, la massima chiarezza dei punti veramente decisivi.
Egli stesso cosi definì il metodo che vi è essenziale: bisogna vedere le possibilità per afferrare il reale. Nel presente il disegno del possibile è lo spazio nel quale io acquisto la certezza di ciò che decido; senza possibilità non ho alcuna libertà; senza vedere il possibile agisco ciecamente; soltanto conoscendo il possibile so che cosa faccio realmente. Analoga è la categoria della «possibilità oggettiva» nella concezione storica di situazioni passate. Lo storico si rende presente una situazione. La misura del suo sapere gli consente di costruire ciò che allora era possibile. Su queste costruzioni egli calcola quali possibilità erano coscienti alle persone che allora agivano in maniera decisiva. Poi egli misura sulle possibilità ciò che è realmente accaduto, per chiedere quale sia stata mai la causa particolare per cui tra vari possibili proprio quella é diventata realtà. Lo storico ritrasforma in possibilità ciò che è già avvenuto di fatto, per trovare il momento critico della decisione attraverso la quale è avvenuto. Riferendosi a lavori logici altrui Weber chiama la causa da lui trovata per l’avvenimento realmente avveratosi «causa adeguata», che sarebbe come dire: nemmeno così l’accaduto appare assolutamente necessario in base a norme rigorose; ma secondo norme a nostra conoscenza possiamo comprendere che sia avvenuto cosi, perché, se noi stessi vi avessimo parte, ce lo aspetteremmo.
Una delle vie per trovare il possibile è il confronto. Come storico Weber mette continuamente in relazione tra loro i più svariati avvenimenti. Confronta sviluppi nella Cina, nell'india, in occidente, non già per trovare leggi storiche o tipi sociologici come astrazioni dell’identico o del simile: la concordanza è invece un mezzo per arrivare a una risolutiva comprensione delle distinzioni vere e proprie. In situazioni storiche simili, si possono avere eventi simili. Sennonché nel succedersi dei tempi avvengono fatti diametralmente opposti o soltanto differenti. Attraverso le somiglianze e in contrasto con esse, possiamo trovare l’origine del particolare che a sua volta è pensato come possibilità. In questo modo Weber raggiunge la più limpida scienza di ciò che è avvenuto di volta in volta, e vi arriva necessariamente soltanto per le vie della storia universale. Questa e la precisa comprensione del nesso concreto stanno in correlazione tra loro. Perciò nelle analisi sociologiche weberiane ricorre sempre questa forma: confronti e limitazioni del possibile accentuano ciò che in qualche senso fu determinante per lo svolgimento dei fatti. Sia che egli tratti la nascita delle profezie ebraiche e l’importanza storica dell’ebraismo o la mancanza di progresso in India, sia che esponga l’importanza delle battaglie di Maratona e Salamina, egli mette sempre davanti agli occhi il cardine con la larghezza di vaste indagini empiriche, soltanto in base alle quali ciò che infine è semplice diventa anche intuitivo.
Per poter fare un confronto tra cose umane devo afferrare i dati di fatto attraverso concetti che colgano il significato: preteso significato dei personaggi in azione, o significato possibile nella sua importanza per altre cose, o significato oggettivo ed esatto. La realtà è un infinito tessuto di cose che hanno un significato, e di altre che non ne hanno. Per afferrarla, occorrono concetti costruiti che, svolti in sé secondo un senso logico, servono per la realtà soltanto quali misure per chi voglia vedere fino a qual punto essa corrisponde a questi concetti. Weber chiama questi concetti costruiti «tipi ideali». Essi sono il mezzo tecnico della conoscenza per accostarsi alla realtà, non già la realtà stessa; non sono concetti specifici che comprendano il reale, ma concetti di significato coi quali esso viene misurato, affinché lo si possa cogliere pienamente in quanto ad essi corrisponde, e affinché si possa far apparire chiaramente come dato di fatto ciò che ad essi non corrisponde. Non sono meta della conoscenza, né leggi degli eventi, bensì mezzi per intuire con la massima chiarezza ciò che ogni realtà umana ha di caratteristico. La dovizia delle intuizioni weberiane si fonda sulla costruzione di siffatti tipi ideali che si dimostrano fruttuosi per la conoscenza concreta del reale, come sarebbero, ad esempio, i tipi del dominio tradizionale, carismatico, burocratico, i tipi di Chiesa e setta, i tipi di città, ecc. I concetti dei tipi ideali vanno delineati con precisione; tra di essi ci sono dei salti; la realtà invece è fluida e nei passaggi tutto sembra che vi diventi impreciso.
4. Le distinzioni
La non critica volontà di sapere ha l'inestirpabile smania di cogliere nel vero conoscibile e universalmente valido un totale definitivo col quale io so che cosa è bene, che cosa devo fare, e che cosa è l'essere stesso. La conoscenza critica di Weber punta contro questa smania monistica. Egli vuole un sapere empirico necessariamente valido e, come studioso, insiste su distinzioni che pretende siano mantenute al servizio, sia di un genuino conoscere, sia di un genuino filosofare. Perciò combatte per l’effettivo mantenimento della distinzione tra sapere empirico e giudizio valutativo; tra particolare unilaterale conoscenza e tutti i modi di afferrare la totalità; tra realtà empirica e natura dell'essere.
a) Max Weber ripeteva inesorabilmente che nessuna indagine empirica può stabilire che cosa abbia valore e che cosa io debba fare. Premesso uno scopo, il sapere empirico può bensì indicare i mezzi che possono favorirlo od ostacolarlo e i risultati secondari di un’azione la quale nuoce ad altri valori; non può invece mai provare che il valore e lo scopo stesso siano impegnativi per tutti. La chiarezza della conoscenza empirica e quella della decisa scelta e valutazione dipendono invece dalla netta distinzione tra l’una e l’altra. La libertà, che la scienza possiede, di valutare equivale alla possibilità di non pronunciare i propri giudizi per poter vedere, di fronte a fatti graditi o magari scomodi, lo stato di fatto con chiarezza e da tutti i lati. Il dovere scientifico di vedere la verità dei fatti e quello pratico di far valere i propri ideali sono doveri di diversa natura. Ciò non vuol dire che l’adempimento dell’uno sia possibile senza adempiere l’altro. Il nostro autore è soltanto contrario alla confusione di essi, poiché soltanto la distinzione consente la pura attuazione di entrambi.
Obiettività scientifica e mancanza di carattere non sono affini, ma la loro confusione distrugge tanto l’obiettività quanto il carattere. Weber ripudia il metodo di parlare apparentemente in modo obiettivo e di presumere che il giudizio valutativo sia desunto dall’oggetto con validità universale: metodo imperfetto che da una parte non può rinunciare al giudizio valutativo, dall’altra cerca di evitare la responsabilità dei propri giudizi. Soltanto distanziandosi dall’oggetto e da se stessi si può interrogare pacatamente il reale; ma le nette valutazioni, che pur non vengono pronunciate, sono a loro volta condizioni essenziali della conoscenza, perché educano alla sensibilità verso ogni valutazione possibile.
Dunque, la libertà che la scienza ha di valutare non significa per Max Weber che nella vita non si debba valutare, ma, al contrario, che soltanto dalla passione del valutare e del volere nasce, quale propria illuminazione e autoeducazione, la vera obiettività nei possibili studi. Libertà di valutare non significa inoltre che le valutazioni, tanto le realmente eseguite quanto quelle possibili, non debbano essere oggetto dell’indagine; esse sono anzi l’oggetto essenziale per lo studio delle cose umane; soltanto la libertà di valutare produce quella pacatezza nello studio di ogni valutazione, del suo significato, della sua origine, delle sue conseguenze, la quale può realmente darne la chiarificazione. La libertà di valutare non significa infine che la scelta dei problemi che ci accingiamo a studiare non sia fondata su una valutazione; anzi la valutazione di ciò che lo riguarda è la premessa dell’autentica passione di uno studioso.
b) Max Weber vide che ogni indagine è particolare e che il totale ci è precluso. Se potessi sapere l’universale delle cose umane, sia in quanto leggi naturali invariabilmente uguali a se stesse, sia in quanto totalità, sia in quanto univoco principio evolutivo, potrei derivarne gli eventi particolari come conseguenze necessarie. Io però riconosco sotto relativi angoli visuali regole e norme che toccano soltanto qualche lato del reale; afferro soltanto totalità relative, e non mai il tutto. Sotto qualsiasi forma la realtà è individuale, infinita, inesauribile; le norme che valgono per essa non offrono il modo di derivarne il reale. Né esiste uno stato primordiale nel tempo, né cosmico, né umano, dal quale, in quanto stato generale, non turbato da alcuna contingenza storica, si evolva l’individualità nella storia. La realtà è in ogni tempo ugualmente individuale nella molteplicità storica e infinita. Non esiste dunque né concettualmente né temporalmente un universale, non esiste un principio, una sostanza, una umana situazione primordiale o essenza primordiale, non esiste un’esistenza ancora individualmente indeterminata dalla quale si possa derivare ciò che è reale. Questo è l’orizzonte che Weber aveva davanti agli occhi quando diceva: «Il fiume degli incommensurabili eventi scorre senza fine incontro all'eternità». Perciò l’uomo può penetrare nella realtà soltanto attraverso una scienza empirica, non può derivarla o afferrarla come totalità. Da questa intuizione consegue per un verso la decisa comprensione della realtà empirica, per un altro il ripudio di ogni insinuazione metafisica nel sapere empirico.
La realtà empirica dev’essere chiaramente identificabile: nelle azioni umane essa è soltanto il significato inteso da uomini (a differenza di un preteso obiettivo significato della storia, ignoto a chi agisce); è poi il significato inteso da individui e numerosi individui (mentre totalità di gruppi umani che agiscono inconsciamente non si possono stabilire empiricamente come tali); empiricamente reale è soltanto l’azione dei singoli. La sociologia empirica non ha il compito di produrre idee di totalità; essa le studia in quanto idee attive negli uomini secondo la loro importanza funzionale; le trova bell’e fatte; non le considera esclusive, né nega la loro realtà se è motivata diversamente e allora non è universalmente valida, né pretende che non si debbano usare nell’azione. Il suo metodo individualistico non è una valutazione individualistica, come il suo razionalistico carattere di formare concetti non è la fede nella prevalenza di motivi razionali nelle azioni umane. L’indagine empirica dissolve inevitabilmente la concezione sostanziale dello Stato, della Chiesa, del matrimonio, ecc., senza intaccarli come forme di fede, anzi studiandoli come tali nella loro obiettività in quanto idea intesa da uomini e motivo per loro efficiente. Per la sociologia stessa dunque la sostanza creduta si trasforma in oggetto di conoscenza razionale, in quanto significato inteso e voluto da uomini reali; lo Stato, per esempio, è «soltanto una probabilità che azioni, reciprocamente coordinate secondo il suo significato e in maniera definibile, hanno avuto o hanno o avranno luogo [...]. Nessun altro significato evidente può accompagnare l’affermazione che uno Stato esiste ancora».
Weber in quanto sociologo empirico è quindi contrario a concetti metafisici, come spirito popolare, come idea in quanto forza esistente; è contrario al concetto di evoluzione necessaria, contrario alla concezione materialistica della storia, in quanto univoca determinazione dell’andamento storico del mondo. Egli non ammette alcuna visione d’insieme della storia umana, alcuna costruzione della storia universale, ma rimane in una illimitata penetrazione metodica mediante l’indagine empirica. Non si arriva a maturare un’unità totale. Se egli possedesse un sistema, esso potrebbe essere di volta in volta soltanto un sistema di metodi e concetti fondamentali. Ma nemmeno questo conchiuso sistema di concetti è una meta sensata. «I punti di partenza delle scienze culturali sono sempre mutevoli nel tempo illimitato fin tanto che un irrigidimento cinese della vita spirituale non dissuefaccia l’umanità dal porre nuovi interrogativi alla vita sempre ugualmente inesauribile.»
La relatività di tutti i concetti adatti alla conoscenza della realtà empirica unisce l’ampiezza delle possibilità di conoscenza alla rispettiva unilateralità; la densità di ciò che è di volta in volta inteso unisce la concretezza all’astrattezza. Le presunte intuizioni della totalità quale sviluppo complessivo della storia universale, quale vera e propria realtà dalla quale dipende tutto il resto, sono bensì accettate da Max Weber, ma soltanto come costruzioni di tipi ideali che sono possibili, e come tali vengono esaminate per vedere se possono fruttare una concreta conoscenza di fatti. Cosi egli accettò le costruzioni marxiste rifiutandone l’esclusivismo e la totalità filosofica; cosi cercò di indicare, sullo stesso piano, la spontaneità dei coefficienti religiosi nei loro limitati effetti sulla storia dell’economia e della società, e di chiarire fino a qual punto, in uno studio empirico, ciò che ad altri sembrava soltanto sovrastruttura dipendente, potesse invece avere un’importanza causale primaria.
Esaminando tutti i concetti e le costruzioni in quanto presentano problemi che con lo studio empirico portano a risultati essenziali, Weber si procurò la possibilità di acquisire questi risultati, e si rese così accessibili tutti i punti di vista per l’esame di ogni dato di fatto. Appunto perché non ammetteva alcuna perfezione del sapere, e non lasciava passare per scientifica alcuna visione totale, e non riconosceva alcun sapere dei «veri e propri» coefficienti di ciò che accade, si acquistò quelle illimitate prospettive e quegli orientamenti che sono l’essenza del conoscere spregiudicato. E vero che, secondo lui, nessun mondo umano può essere interamente spiegato e che esso rimane un problema senza fine, ma in questo modo egli ottiene un sapere sicuro ed è in grado di evitare le diffuse illusioni derivanti dalla contemplazione del totale, tutti gli esclusivismi di considerazioni unilaterali. Occupandosi delle fondamentali unilateralità rappresentate da tutte le intuizioni, egli vinse, mediante la conoscenza dell’unilateralità, il dominio che essa esercita, dominandolo invece da parte sua.
c) Siccome nella sua qualità di ricercatore empirico era contro la totalità e per la conoscenza particolare, contro le generalità e per il determinato, contro la riflessione meramente teorica e per l’indagine concreta, contro lo sguardo panoramico e l’applicazione di etichette e per l’intuizione penetrante, contro la visione descrittiva e per l’analisi causale, contro la mera descrizione e per la costruzione intellettuale, contro le sostanze e per la scomposizione in coefficienti empiricamente afferrabili, Weber, nel concepire la realtà empirica, si tenne lontano dal nocciolo delle cose (questa purezza del mondo scibile diventa altrove condizione dell’amore per l’essere vero e proprio). La sua straordinaria vicinanza alla realtà non significa conoscenza essenziale. In nessun caso Weber crede di aver colto la realtà stessa fin nell’intimo. Nel caso che egli esaminò più a fondo attraverso un materiale empirico, cioè nella dipendenza del capitalismo moderno dall’etica protestante, individuò un coefficiente causale, ma affermò chiaramente: qui si dimostra che esiste un coefficiente causale, ma non si dimostra se la sua importanza quantitativa sia grande o piccola; io la reputo grande. Poiché l’essere non può diventare senz’altro oggetto di indagine empirica, Weber contempla ciascuno dei modi dell’essere empirico, non si perde in nessuno di essi, cerca di ricavare da ciascuno il suo significato causale. Le condizioni naturali, i mezzi tecnici, le situazioni, come pure le idee e gli scopi intesi dall’uomo, le concezioni religiose nelle loro conseguenze, come pure il pragma di potenza nei rapporti politici: tutto diventa per lui oggetto empirico d’importanza relativa. Così facendo Weber, attraverso l’indagine empirica raggiunge più che mai le origini dalle quali, in quanto premesse incomprese, egli deve prendere le mosse.
5. La scienza della sociologia
L’indagine weberiana è la più pura azione della moderna conoscenza realistica (che soltanto nelle scienze naturali e nella matematica è arrivata a essere univoca al di sopra di ogni dubbio) sull’insieme dell’esistenza umana. Egli chiamò queste indagini «sociologia» e le collocò fra i tentativi che vanno sotto questo nome, benché egli non debba ad essi più di quanto non debba alle scienze storiche, alla filosofia della storia e alla giurisprudenza. Ma la sociologia in quanto scienza empirica non doveva essere sconfinata: ed egli la limitò al piano del significato delle azioni umane in quanto queste azioni si riferiscono al comportamento altrui. Non è possibile esporre brevemente in che modo egli abbia coltivato questo campo con la sua inaudita erudizione; il più concreto studio particolare serve all’infinito progresso della universale comprensione di ciò che gli uomini hanno fatto e possono fare.
Max Weber fu professore di economia politica. Era contrario all’istituzione di cattedre di sociologia, poiché non si nascondeva che si tratta di una scienza la quale posa sempre sulle spalle altrui e richiede notevoli esperienze proprie delle altre singole scienze, nonché una straordinaria dote di spirito critico. «La maggior parte di ciò che passa per sociologia è impostura» disse nel discorso di congedo a Heidelberg.
6. Il non sapere nel sapere
La scienza di Max Weber ha due lati. Non si comprende l’uno se si trascura l’altro.
L’empirismo universale vuol sapere ciò che in genere è possibile sapere. Esso mette le mani dove c’è qualche cosa che può essere dimostrato. Per esso tutto procede secondo norme causali che sono comprensibili, e secondo rapporti razionali che sono logici. Tutto?
Soltanto ciò che si può sapere; tutto, in quanto tutto e ciò che si può sapere sono identici. Al sapere possibile non può presentarsi nulla se non ciò che cade sotto la sua relativizzazione. Il sapere però incontra limiti. Con la scienza di Weber è collegata la coscienza di ciò che non si sa. Già l’infinità di ogni individuo è inesauribile. Questa poi, in quanto unicità storica, ha in certi casi un significato la cui interpretazione non può essere portata a compimento. L’origine infine è in qualche modo sempre presupposta: le prime concezioni di una religione non si possono comprendere nella loro genesi, quand’anche si siano stabilite le circostanze e le situazioni, senza le quali quelle non sarebbero sorte.
Di fronte a questa duplicità di sapere e non sapere, di cui il sapere empirico quale «disincanto del mondo» sembra quasi essere despota nelle opere di Weber, si può arrivare a malintesi. Questo gigantesco sapere tramutato in indagine è erroneamente inteso come sapere dell’esistenza umana in sé; di esso ci si accontenta stoltamente o ad esso ci si ribella.
A Weber si rinfaccia, per esempio, di non aver comprensione per la religione, per la filosofia indiana, per il mondo dei contadini e dei proprietari terrieri, per la totalità e sostanzialità dello Stato, ecc. Ma tutti questi rimproveri derivano dall’aver scambiato il sapere universalmente valido di una cosa con l’essere in una cosa, il quale si esprime attraverso il pensamento di un significato. In quanto saputa, nessuna origine è più se stessa, bensì appare sotto forma di qualcosa di relativo, di scientemente creduto. Weber purifica il sapere in quanto sapere empirico, ma non per limitare ad esso il pensiero, bensì per rendere chiaramente e decisamente possibili gli altri modi del pensiero col loro significato diverso e la loro validità sempre storica, non già universalmente valida. Per il suo amore alla verità egli non fa concessioni a quel modo di rappresentanza di interessi che, mentre non vuol sapere i dati di fatto, spaccia la propria causa per interesse generale, che può essere saputo; e non fa concessioni alla negativa aspirazione dei non credenti i quali nel sapere cercano, come possesso, ciò che hanno perduto nella fede: va notato che i veri credenti non si scandalizzano delle analisi weberiane nell’ambito della sociologia religiosa, e che persone radicate nella politica statale non trovano niente da obiettare contro le sue fredde costatazioni empiriche. Afferrando lo scibile nella sua relatività si fa emergere tanto più pura la fede.
Altra obiezione: si afferma che il sapere nella forma dell’indagine weberiana va a rotoli perché uomini viventi non possono più dominare una mole così ingente; che il sapere diventa assurdo e non serve a niente, dato che si disperde senza sostanza nell’infinito; che i risultati ottenuti da Weber sono gli ultimi e questo svolgimento ha raggiunto il termine. Sennonché questo rimprovero scambia l’infinito della vuota intellettualità con l’infinito del processo di indagini ricco di contenuto.
Le obiezioni asseriscono infine il fallimento di Max Weber scienziato. Infatti egli è fallito, ma di quel vero fallimento che è insito nel significato della scienza genuina. Non vero è il fallimento dell'intellettualità di pensiero qualunque e di schemi panoramici che, in quanto intellettuali, danno per qualche tempo una soddisfazione apparente, ma poi lasciano quel vuoto dell’assurdità che vi si celava. Non vero è il fallimento che rinuncia, che abbandona la via della possibilità di sapere, soltanto perché non domina l’infinito. Non vero è un fallimento che, deluso, rinuncia al sapere in genere perché pretendeva erroneamente di afferrare nel sapere l’essere stesso. Il fallimento non vero afferma di non sapere e abbandona il campo. Nel suo sapere illimitato, determinato, empirico, aderente alle cose e ai materiali, il fallimento di Max Weber consiste nell’afferrare positivamente il non sapere ve ro e proprio e nell’aprire la possibilità di un essere, in quanto essere vero e proprio, non in quanto saputo. Il fallimento porta tanto più addentro nell'essere quanto più il sapere diventa vasto: perciò i progetti di Weber scienziato sono cosi giganteschi che egli non avrebbe mai potuto portarli a termine, e nonostante l’ampiezza le sue opere rimangono frammenti grandiosi, interrotti edifici di un titano. Se nella sociologia Weber ripudiò la metafisica anche in ogni forma mascherata, se rese, per cosi dire, ascetico il carattere scientifico, vuol dire che ammetteva la possibilità del vero fallimento e impediva una non vera soddisfazione nella scienza che falsifica se stessa. Non si deve facilitare con un preteso sapere ciò che riesce solo quando è seriamente creduto. La relatività del sapere sembra che provochi la caduta nell’abisso senza fondo, ma proprio questa caduta, nella vera derivazione dal presente storico della volontà e della fede, dà la coscienza del fondo che diventa puro solo quando nel fuoco della illimitata volontà di sapere si consolida in amore di verità e ragionevolezza. Il più vasto orizzonte porta la propria radice a libera crescita.
Eppure la scienza di Max Weber, che nel suo sviluppo va oltre le forze umane, non si chiude in se stessa, ma è funzione di un’esistenza della quale si mette al servizio. La sociologia è soltanto un braccio di quella sua profonda natura che egli teneva nascosta e che appare solo indirettamente: la natura del filosofo.