I. Il politico
Max Weber non diventò un uomo di Stato in posizione direttiva; si limitò a scrivere di politica. Ma pur non essendo arrivato al punto di agire, visse tenendosi sempre pronto. Il suo pensiero era la realtà di un uomo politico in ogni sua fibra, era una politica volontà di agire al servizio del momento storico.
Sennonché la verità politica e l'azione politica sono divise da un salto. Nella storia è accaduto non di rado che l'intuizione fosse impotente e divenisse soltanto un retaggio dei posteri. Un'occhiata all'atteggiamento di Weber di fronte alle situazioni e agli avvenimenti durante la sua vita porta a questa domanda: perché non ebbe alcuna efficacia? che cosa avrebbe potuto avverarsi se egli fosse arrivato a un posto direttivo? quali esigenze pone il suo pensiero politico?
1. La lotta contro il sistema
Già in gioventù - quando la Germania viveva nello splendore dell'epoca bismarckiana i cui avvenimenti egli conobbe, nella casa patema a Berlino, attraverso i contatti con uomini politici nazionali-liberali (nationalliberal) e progressisti (freisinnig) - nutriva apprensioni imprecisate.
Ammirava Bismarck, ma vedeva con terrore «la spaventevole distruzione di convinzioni indipendenti che Bismarck aveva provocato tra noi». Deplorava allora il Da-naergeschenk, «il dono funesto del cesarismo bismarckiano; il suffragio universale», che di fatto non era, secondo lui, un diritto uguale per tutti nel vero significato della parola. Egli era contrario a ciò che allora tutti consideravano valido: «l'adorazione della brutalità militaristica e di altro genere, la cultura del cosiddetto realismo e il meschino disprezzo di tutte quelle aspirazioni che sperano di arrivare alla meta senza fare appello alle cattive qualità dell’uomo, in particolare alla crudeltà». Egli non poteva approvare il Kulturkampfy né il modo della sua sospensione. Nella pace senza cerimonie era contenuta, secondo lui, la confessione del torto. Se si diceva che da parte di Bismarck la lotta aveva soltanto motivi politici, se dunque non era ima questione di coscienza, ma soltanto di opportunismo, la coscienza del popolo cattolico era violentata; non c’era stata coscienza contro coscienza. «Noi dunque abbiamo agito senza appellarci alla coscienza e siamo sconfitti anche moralmente, che è il lato peggiore della sconfitta.» Il fatto che nel periodo bismarckiano la decadenza morale e la mancanza di sincerità andassero aumentando non consentiva all'adolescente di sperare niente di buono per l'avvenire.
Fattosi adulto, Weber votò per i conservatori ed entrò nell’Associazione pangermanistica (Alldeutscher Verband); la vita e la potenza del popolo tedesco erano per il suo occhio politico le condizioni di tutto il resto. Poco dopo, quando notò che quell'Associazione anteponeva l'interesse dei latifondisti per le poco costose forze lavoratrici polacche all'interesse che la nazione aveva di impiegare gli autoctoni contadini tedeschi, diede le dimissioni.
Quando poi l'imperatore, dopo il congedo di Bismarck, col suo dilettantismo politico portò la Germania all’impotenza nella politica mondiale e al rischio di una catastrofe, mentre il partito conservatore, interessato al potere delle classi che lo costituivano, difendeva il sistema nel quale soltanto era possibile quella pericolosa attività del monarca, Weber divenne un accanito avversario di questo partito che, a suo parere, comprometteva l’avvenire della nazione.
Assai presto egli vide che la via intrapresa portava all’abisso politico. Adesso le sue preoccupazioni divennero precise: «la politica europea non si fa più a Berlino». «Quasi per miracolo sfuggiamo ora, con la diplomazia, a situazioni veramente serie» (1892). Da quel tempo fino allo scoppio della guerra mondiale, il pensiero politico di Max Weber gira intorno a quest’unico punto. Di quando in quando, in determinate situazioni egli cerca di aprire gli occhi alle personalità che riesce a raggiungere, per esempio nel 1906 e nel 1908... sia pure con lettere private. Tutte le persone bene informate sembravano concordi nel giudicare l’imperatore; l’uno lo diceva all’altro e lo sapevano anche le alte cariche militari: che cioè, dovunque mettesse le mani, combinava un malanno. Molti vedevano anche chiaramente ciò che affermava Max Weber: che il punto decisivo non era la persona del monarca; che nelle monarchie ereditarie ogni sovrano è un dilettante in politica, quando non sia per caso un Federico il Grande; che il punto determinante è il sistema. Si sapeva bensì che la costituzione politica tedesca era un costituzionalismo apparente; ma Weber non la combatteva per motivi dottrinali o derivanti dal diritto naturale, per una libertà politica in sé, sibbene per motivi di potenza e di onore nazionale. A quel sistema doveva infatti ascriversi la colpa dell’incapacità politica di coloro che erano alla testa. Si era data bensì la possibilità che un’unica volta ne sorgesse come eccezione un Bismarck, il quale aveva perfezionato il sistema come mezzo del proprio potere; ma in esso era anche possibile che Bismarck senza incontrare opposizioni tollerasse intorno a sé soltanto creature sue e nessun uomo di carattere, e che per decenni potesse agire in modo che, allontanato lui, non ci fosse nessun successore. Tutto sta, secondo Weber, in che modo, in una monarchia costituzionale, uomini di Stato autentici prendono in mano il timone: soltanto allora la nazione può fare una politica mondiale ed evitare una catastrofe.
Chi sa però se cambiando il sistema un popolo esprimerebbe dal suo seno uomini di Stato? Ecco il quesito fatale.
Già nella prolusione accademica del 1895 Weber chiedeva da dove potessero venire i capi politici. Proponeva il quesito della maturità politica delle classi, cioè della loro capacità di porre i durevoli interessi economici e politici della nazione al di sopra di tutte le altre considerazioni. Soltanto con questa norma politica si potevano valutare le classi. Ma gli sembrava che questa maturità non ci fosse: gli Junker, diceva, che ci hanno guidati finora non si assumeranno più il compito della politica mondiale. È pericoloso, e a lungo andare inconciliabile con gli interessi della nazione che una classe in decadenza economica tenga le redini della politica. La forza degli istinti politici degli Junker sarebbe, sì, uno dei cospicui capitali che si possono impiegare al servizio della potenza statale, ma ora gli Junker si stanno dibattendo nell'agonia economica dalla quale nessuna politica economica dello Stato potrebbe riportarli al loro vecchio tipo sociale. D'altro canto i compiti del presente sono diversi da quelli che essi potrebbero assolvere. A capo della Germania si è avuto per un quarto di secolo l'ultimo e il più grande degli Junker, ed è tragico che sotto di lui l'ente da lui creato, la nazione alla quale ha dato l'unità, abbia irresistibilmente modificato la sua struttura economica. Ciò ha provocato, in fondo, il parziale fallimento dell'opera di Bismarck: quest'opera infatti cui egli aveva dedicato la vita avrebbe dovuto condurre all'unità non solo esteriore, ma anche interna della nazione, e questa non era raggiunta.
Le altre classi che insieme col potere economico potevano aspirare al dominio politico erano in quel tempo, secondo Max Weber, meno che mai mature in politica. Quando parla della borghesia egli si arrovella perché la creazione di Bismarck avrebbe ispirato alla borghesia tedesca, ebbra di trionfi e assetata di pace, uno spirito impolitico. Egli lamenta il quieto tramonto della grande borghesia politica intorno alla metà del secolo che rimase inefficace e, nella maggior parte delle sue grandi personalità, politicamente anonima» Ora, a sentir lui, la borghesia, presa in massa, era mutata: siccome con le realizzazioni dei millenni passati la storia tedesca le pareva giunta alla fine, la generazione soddisfatta aveva l'impressione che la modestia vietasse alla storia universale di occuparsi, dopo i trionfi della nazione tedesca, del suo solito andamento quotidiano. Weber ondeggia fra questa collera per la viltà della borghesia, capace soltanto di pretendere un nuovo Cesare o di sprofondare nella meschinità piccoloborghese, e la collera contro Bismarck che in parte era causa di questo stato di cose. «Il sole meraviglioso che stava allo zenit della Germania e faceva brillare il suo nome anche sugli angoli più lontani della terra era, si direbbe, troppo grande per noi e ha incenerito il discernimento politico della borghesia il quale veniva lentamente evolvendosi.»
Rimane il quesito se, mancati gli Junker e i borghesi, sarebbe stata la classe lavoratrice a produrre i capi che potessero prendere il timone della politica mondiale. Allora però (1895) questa classe sembrava a Max Weber tanto innocua quanto immatura. Essa non possedeva «alcuna scintilla di quella catilinaria energia di azione» che avevano avuto gli uomini della rivoluzione francese. Le mancavano i forti istinti del potere.
A proposito di questa situazione Weber osservava: «Dobbiamo renderci conto che l'unificazione della Germania fu una ragazzata che la nazione ha commesso nella sua tarda età e, dato il prezzo, avrebbe fatto meglio a tralasciare se doveva essere la conclusione, anziché il punto di partenza di una politica della Germania quale potenza mondiale».
Scopo degli sforzi politico-sociali non sarebbe quindi la felicità, bensì l'unificazione sociale della nazione, spezzata dalla moderna evoluzione economica, per affrontare le gravi lotte dell’avvenire. Se si riuscisse a creare un’aristocrazia di lavoratori, esponente di un programma politico, «soltanto allora si potrebbe porre su quelle spalle più larghe la lancia per la quale il braccio della borghesia non sembra ancora abbastanza robusto». Ciò che conta è lo sviluppo del senso politico-nazionale nei capi dei lavoratori; Weber infatti vede sparire l’«illusione di ideali politico-sociali indipendenti», davanti ai grandi problemi del potere nella politica mondiale.
Nella situazione doppiamente sconfortante per cui all’orizzonte non apparivano classi capaci di fornire i dirigenti dello Stato e, d’altra parte, un sistema, il quale non portasse alla testa gli uomini di Stato venuti eventualmente dal popolo, doveva essere sbagliato, Weber considerava unicamente essenziale il pericolo della decadenza tedesca in fatto di politica estera. Nel periodo della prosperità nazionale ben pochi pensarono con l’acume di Weber all’imminente sciagura. Per evitare la rovina magari all’ultimo momento egli si decise per un parlamentarismo che fin dal 1917 elaborò nei suoi scritti come l’unica via possibile per arrivare alla selezione dei capi politici. Da quell’anno egli insiste perché si agisca immediatamente su un piano di politica interna. Tutto dipende, sia nella politica estera sia nell’interna, dal prendere senza indugio i giusti provvedimenti. Weber si batte per una democrazia dalla cui fiducia l'uomo di Stato, messo alla testa, dipende talmente che, sostenuto da questa fiducia, esercita bensì un governo autoritario, ma si assume la vera responsabilità attraverso il pericolo personale, impegnandosi di fronte al popolo che eventualmente chiede la sua testa. La questione della costituzione politica è in questo caso esclusivamente un problema di tecnica, non di concezione filosofica; egli chiede quale azione debba svolgersi per salvaguardare la potenza nazionale che va assicurata soltanto con la superiore intelligenza degli uomini di Stato. Egli è sicuro che soltanto un governo sostenuto dal popolo può portare le energie popolari al potenziamento supremo. Ecco pertanto il quesito fondamentale del suo pensiero politico: come si possa trovare un vivo accordo tra l’inevitabile democrazia e la guida autoritaria degli uomini di Stato realmente competenti e responsabili. Durante la guerra e nel periodo del crollo nasce la serie dei suoi grandi scritti politici nei quali egli esamina fin nei minuti particolari tutto ciò che riguarda bensì il momento, ma d’altra parte costituisce una norma per tutti i tempi.
Più di vent’anni passarono tra la prima chiara visione di Max Weber e lo scoppio della grande guerra che trovò la Germania in un isolamento politicamente colpevole e per il momento distrusse la sua posizione di potenza mondiale. Durante quegli anni si presentarono più volte situazioni di politica interna nelle quali, nonostante fosse ostacolato dalla malattia e dalla carica che occupava, Weber tentò di dire la sua parola; un mutamento era pur possibile. Quando, per esempio, il Reichstag fu sciolto nel 1906 perché il centro e la social-democrazia avevano respinto all’imperatore il bilancio preventivo delle colonie, Weber cercò di far capire ai liberali che ora non si trattava di ottenere un voto di fiducia all’imperatore; si doveva invece muovere contro il centro, non solo a causa dell’opposizione al bilancio coloniale, ma anche perché questo partito non voleva l’effettivo potere del parlamento contro il governo, bensì unicamente la facoltà di disporre delle cariche. Contava invece il potere del parlamento perché mettesse alla testa uomini politici ed eliminasse le stravaganze del monarca politicamente inetto. «Quel tanto di disprezzo che l’estero ci dimostra in quanto nazione (e giustamente! questo è il punto principale) perché accettiamo il regime di quest’uomo, è diventato per noi un coefficiente di primaria importanza nella politica mondiale [...]. Noi veniamo isolati.»
2. Max Weber e il crollo della Germania
Per due decenni il pensiero politico di Max Weber batte lo stesso chiodo. Ciò che egli pensa è infinitamente semplice; infinitamente difficile ne è l'attuazione. Egli riesce a vedere, ma non a mutare la causa decisiva del destino tedesco. Nessun governo lo cerca né lo seguirebbero le masse, se egli fosse alla testa.
Nel 1914, allo scoppio della guerra, Weber s’infiamma appassionatamente. Ciò che ha previsto da due decenni prende il suo corso. Ma anche ora, come sempre, reputa possibile stornare la sventura. I trionfi militari in una situazione che tutti i non tedeschi consideravano disperata per la Germania, consolidano la sua speranza, ma non gli offuscano lo sguardo. Persino nel momento della massima superiorità militare della Germania, crede possibile soltanto una pace senza annessioni in Europa; la sola conservazione della Germania, in queste condizioni, significherebbe la più grande vittoria e aumenterebbe incomparabilmente il prestigio della Germania nel mondo. Contro la politica dell’avidità egli si pronuncia in favore di richieste raggiungibili, oggettivamente possibili; contro la «politica dell’aplomb», in favore di una diplomazia ragionevole che sappia trovare il tono giusto; contro la demagogia delle agitazioni per la guerra sottomarina senza quartiere, in favore dell’esclusiva responsabilità dei capi; contro le eccessive promesse, in favore di un pacato e onesto quadro della situazione. In ogni caso egli si batte contro la stupidità politica che ci fa perdere ciò che potremmo ottenere.
Il pessimismo di Weber non diventa mai scoraggiamento - soltanto il pauroso ha bisogno del chiasso per vivere e pretende che lo si faccia intorno a sé e ad altri - ma è amore di verità per poter pensare a tutto ciò che potrebbe dare una piega favorevole agli avvenimenti. La sua profonda fede nella Germania prorompe interamente soltanto nel crollo, ma con un contenuto non definito.
Già nel momento in cui si dichiara la guerra sottomarina a oltranza ed è quindi certa l’entrata dell’America in guerra, Weber vede la svolta: «Adesso soffro meno che in tutti i venticinque anni nei quali ho visto la vanità isterica di questo monarca guastare tutto ciò che mi era sacro e caro. Adesso è nelle mani del destino ciò che prima era colpa della stupidità umana. E col destino si può spuntarla».
Quando poi, dopo la lunga insincera montatura degli animi durante il crollo, larghe parti del popolo si buttano da un'illusione in un'altra, quando al «folle rischio di Ludendorff segue questa rivoluzione come contraccolpo», egli sa che un ordine nuovo, risultato di questa tremenda sconfitta e vergogna, difficilmente potrà stabilizzarsi. Egli parla della rivoluzione come di una specie di narcotico, aborre «dalle numerose frasi, dalle vaghe speranze e dalla tendenza a baloccarsi da dilettanti con un avvenire più felice»; si volge contro il masochismo politico di un pacifismo senza dignità che grufola voluttuosamente nei sentimenti di colpa, «come se l'esito della guerra dimostrasse qualcosa nell'intimo, fosse quasi un giudizio di Dio, e come se il Dio delle battaglie non fosse coi battaglioni più numerosi (ma non sempre, come abbiamo dimostrato noi)». Nel 1919 tutto ciò che, secondo lui, costituiva la grandezza della nazione gli parve in rovina; ed egli ebbe l'impressione di dover vedere la perdizione morale di questo popolo. La nazione, diceva, si era piegata davanti all'imperatore che era un dilettante senza dignità; ora prendeva il carnevale cruento del crollo per rivoluzione e ne era addirittura orgoglioso; e per giunta questi uomini bramavano di andare a Versailles per esserci anche loro, mentre ogni tedesco avrebbe dovuto cercare di star lontano dai luoghi dove si svolgevano quelle trattative e quelle scene; la schietta decenza che possedevamo parve perduta; e tra coloro che in politica e sul piano militare avevano commesso gli errori, le cui conseguenze questo popolo aveva sopportato per quattro anni con una forza veramente singolare, c'erano addirittura persone che a questo popolo calpestato osavano rimproverare di aver perfidamente, alle spalle, o per vigliaccheria, resa impossibile la vittoria. Così parlò Weber inorridito, al suo ritorno da Versailles, dove il governo l'aveva chiamato per stendere un parere intorno all'opportunità di accettare o respingere le condizioni, e poi per collaborare a una nota intorno alla questione della colpa. Lui però, che in certi momenti non vedeva veramente più nulla né sulle vette né nelle bassure della nazione, comprese che la fame e le illusioni che per quattro anni si erano volute far accettare a questo popolo superavano le possibilità umane. Disumano quindi formulare accuse.
Senza fede, secondo coloro che credevano in un avvenire socialista, Weber scorgeva l’avvenire della Germania nell’uomo tedesco: come fin dall’inizio della guerra il suo amore per il tedesco s’infiammava alla vista dello schietto valore dei combattenti e del carattere dei reduci rimasto onesto nonostante le terribili esperienze, cosi vide ora la schietta ragionevolezza della gente semplice, nelle officine e nelle caserme, che ebbe occasione di conoscere a Heidelberg nel consiglio degli operai e dei soldati. Nonostante tutto la nazione come tale è infatti, disse, un popolo disciplinato; se ne erano viste tutte le debolezze; ma anche tutta la bravura e la capacità di abbellire la vita quotidiana, in contrasto con la capacità degli altri di abbellire l’ubriacatura o il gesto. Come centodieci anni prima avevamo mostrato al mondo che noi - soltanto noi -nonostante il dominio straniero potevamo essere uno dei grandissimi popoli civili, cosi dovremmo fare ora un’altra volta. Egli andava ripetendo sempre in nuove variazioni: «Io credo nella robustezza imperitura di questa Germania e mai ho considerato un dono del destino quello di essere tedesco come in queste ore tenebrose della sua vergogna». Quando lanciava lo sguardo nella vastità degli evi diceva: La Germania è l’unico popolo cui la storia abbia donato due volte una nuova giovinezza, dopo le due complete disfatte del 1648 e del 1806. Avrà ora una terza giovinezza dopo la notte glaciale che deve attraversare.
3. Il compito dei tedeschi nella storia universale
La fondazione del Reich nel 1871 è per il giovane Weber un fatto decisivo, presagio dell’avvenire. Esso implicava un compito nella storia del mondo, ma pareva che nessuno se lo assumesse. Questo compito non consiste, secondo lui, nell'esercizio della potenza, bensì nel creare la coscienza di un impegno sensato, cioè nel mantenimento della civiltà europea «tra i regolamenti dei funzionari russi da una parte e le convenzioni della society anglosassone dall’altra». Soltanto per questo compito la potenza tedesca era una necessità storica.
Questo compito storico, posto dalla fondazione del Reich, contiene, secondo lui, il significato della guerra mondiale. «Se non volevamo arrischiare questa guerra», scrive nel 1916, «ebbene, avremmo potuto anche fare a meno di fondare il Reich e potevamo continuare a esistere come un popolo di staterelli [...]. La guerra l’avremmo avuta lo stesso: gli uni avrebbero potuto combattere come Stati della Lega renana per gli interessi francesi, gli altri come satrapia russa per gli interessi russi, cedendo anche il territorio per farvi la guerra. Allora però non avremmo conosciuto la solennità di una guerra tedesca. Il fatto che ormai non siamo un popolo di sette, ma di settanta milioni, ecco la nostra fatalità. Questa creò l’inesorabile responsabilità di fronte alla storia. Il peso di questo destino che dobbiamo sostenere portò la nazione, su per l'erta dell'onore e della gloria donde non si poteva tornare indietro, nella limpida atmosfera dello sviluppo della storia, nel cui volto arcigno, ma grandioso essa doveva e poteva guardare, a imperitura memoria tra i posteri».
Interrogato intorno al preciso significato della potenza mondiale tedesca, Weber ripetè che essa significava la decisione circa il carattere della civiltà avvenire. Questa non doveva essere suddivisa, senza combattimento, tra le convenzioni anglosassoni e i regolamenti burocratici russi. Le generazioni future non ne avrebbero resi responsabili i danesi, gli svizzeri, gli olandesi, i norvegesi, ma noi. Nostro dovere di fronte ai posteri è di opporci a che quelle due potenze inondino il mondo intero.
Il pericolo maggiore però è sempre rappresentato, secondo Weber, dalla Russia. L'Inghilterra e la Francia, dice nel 1916, non possono distruggere per sempre la nostra esistenza in quanto nazione e grande potenza. L’unica potenza dalla quale ci può venire questa minaccia è per motivi geografici e politico-nazionali la Russia, e lo diventa sempre più. Nel 1918, dopo il crollo della Germania, davanti allo spiacevolissimo dominio mondiale anglosassone, egli si rende perfettamente conto: «Una cosa molto peggiore - il knut russo! - l’abbiamo stornata noi. Questa è gloria nostra. Il dominio mondiale dell’America era inevitabile come, nel mondo antico, quello di Roma dopo la guerra punica. Speriamo che rimanga cosi, che non lo si spartisca con la Russia. Questa è per me la meta della nostra futura politica mondiale, poiché il pericolo russo è scongiurato soltanto per ora, non per sempre».
Nel 1895 Weber aveva conchiuso la sua pessimistica prolusione: «Non riusciremo a sgominare la maledizione che abbiamo addosso: di essere i posteri di un’epoca politicamente grande [...] a meno che si sia capaci di diventare qualcos’altro: i precursori di un’epoca più grande ancora. Sarà questo il nostro posto nella storia?». La risposta venne nel 1918, ma Weber non la considera definitiva. Con lo sfacelo della nostra potenza mondiale i nostri compiti sono diventati più ristretti, ma il loro vero significato riappare a lui in forma imprecisa. Egli non ha predetto come questa forma si svilupperà, ma non ha rinnegato la sua fede in essa. La continuazione della storia tedesca rimase per lui fino all’ultimo una possibilità ancora incompiuta.
4. La sicurezza del giudizio politico in situazioni concrete
Condizione dell’azione politica è la chiara visione di ciò che bisogna fare nel momento presente. Nelle numerose riflessioni sulle ragioni del tutto e dei particolari, nelle configurazioni infinitamente possibili del presente, nelle quali già lo si allontana senza esserne parte, il nucleo semplice, che è quello che conta, è nascosto da deviazioni verso punti secondari. Come l’intervento sicuro in una situazione fisica, così il pensiero in situazioni politiche sta nel vedere il nucleo semplice che si deve e si può fare. Nessuno comprende il complicato e il molteplice; lì non si riesce a muovere un passo avanti. Il semplice è bensì il risultato di un pensiero complicato, ma in quanto risultato è ciò che chiunque può comprendere per agire in conformità, perché quando sia compreso da tutti è appunto ciò che tutti aspettavano. La sorte di Max Weber fu di sapere e di esprimere questo semplice, più volte a tempo debito, fin dal primo momento, ma di non essere ascoltato finché, in seguito, e certe volte molto presto, tutti lo compresero quando era troppo tardi. Alcuni esempi:
Alla fine del 1915, quando la Germania aveva riportato i massimi successi sul campo e l’Inghilterra non aveva ancora introdotto il servizio militare obbligatorio, quello era forse per la Germania (oggi lo sappiamo) l’unico momento possibile di fare la pace. E, se mai, ciò era possibile solamente qualora la Germania non intendesse di annettersi nemmeno un metro quadrato. Weber cercò di far valere la sua idea mediante lettere e conversazioni con le persone che incontrava, dato che allora era vietato discutere in pubblico i fini della guerra. In Germania invece si volevano risultati dalla guerra, e quella pace era definita pace rinunciataria. Poco dopo l’occasione era perduta definitivamente.
Tra l’inizio del 1916, quando fu affondato il «Lusitania», e il principio del 1917, quando fu introdotta la guerra sottomarina a oltranza che portò l’America a fianco dei nemici della Germania, Max Weber fece notare ripetutamente in memoriali e lettere l’importanza dell’entrata in guerra dell’America. Egli pretese che si facessero i necessari calcoli sotto responsabilità personali, prima di prendere decisioni intorno al problema della guerra sottomarina e lo pretese con tale chiarezza che qualunque ascoltatore intelligente avrebbe potuto capire.
Quando la Germania offrì l’armistizio e si vennero a sapere i postulati dell’Intesa che, come condizione per l’armistizio, imponeva ai tedeschi il disarmo completo, mentre si discorreva di mille altre cose, Max Weber (Frankfurter Zeitung, ottobre 1918) scriveva: «Se il presidente Wilson permettesse il disarmo della Germania, escluderebbe larghissimamente anche se stesso dal novero dei coefficienti chiamati a fissare le condizioni della pace. La sua posizione di arbitro del mondo è dovuta soltanto al fatto che la potenza militare tedesca significa per lo meno che, senza la collaborazione delle truppe americane, essa non può essere costretta ad arrendersi. Se cosi non fosse, gli elementi intransigenti negli altri Stati nemici sarebbero in grado di mettere nettamente da parte il Presidente con cortesi ringraziamenti per l'aiuto dato finora. Egli avrebbe finito di recitare la sua parte». Un giornale pubblicò bensì la notizia che questo articolo aveva fatto grande impressione nell'America del nord, ma, benché fosse una cosa semplicissima e facile da capire, in questo caso fu l'America nella persona di Wilson a non agire cosi, e la conseguenza fu che a Versailles Wilson fu effettivamente escluso e l'America quale potenza belligerante non ebbe più alcuna parola di rilievo da buttare sulla bilancia.
Dopo l'offerta di armistizio Weber incominciò subito, sin dall’11 ottobre 1918, a scrivere a tutti gli uffici accessibili che l’imperatore doveva abdicare. «Se se ne va subito, senza pressioni dal di fuori, se ne va con onore [...]. La dinastia conserva le sue posizioni. Confesso sinceramente di aver osservato con netta contrarietà il suo modo di regnare. Ma nell’interesse dell'idea imperiale, non posso desiderare che un imperatore finisca con disonore [...].» Weber vuole, in quanto monarchico, che l'imperatore rinunci al trono, perché altrimenti si danneggerebbe la dinastia «che pur vogliamo conservare». Se l'imperatore desse anche ora cattiva prova rimanendo, per poi andarsene costretto, le conseguenze si ripercuoterebbero su più generazioni. Weber suggerisce in che modo lo si dovrebbe far capire all'imperatore: questi non dovrebbe fare una confessione di colpa, ma dichiarare semplicemente: il destino è stato contro di me, mi ritiro perché voglio facilitare il cammino della nazione germanica. Scarsa fu l'eco di questa iniziativa. «Finora tutti mi danno ragione» lamentava Weber, «ma nessuno ha il coraggio di trarre le conseguenze». Dopo non molto i nemici chiesero il ritiro dell'imperatore e questi varcò la frontiera, fuggendo in Olanda.
Quando i nemici minacciarono di chiedere la consegna dei nostri capi militari, Weber fu del parere che questi, prevenendo le richieste, dovessero consegnarsi volontariamente al nemico per essere giudicati da un regolare tribunale internazionale. L'atto eroico avrebbe dato uno slancio morale alla nazione e, d'altra parte, avrebbe messo i nemici nel massimo imbarazzo. Egli scrisse a Ludendorff; la lettera provocò un personale scambio di idee con esito negativo.
5. La mancanza di efficacia politica
I memoriali, gli articoli e le lettere di Weber sono consigli, intuizioni, considerazioni, ma non azioni. Si può dubitare che la sua chiaroveggenza politica, la quale quasi sempre trovò conferma negli avvenimenti successivi, sia stata l’espressione di una capacità politica.
Ascoltandolo, gli amici erano del parere che fosse lui l'uomo chiamato a guidarli. Spesse volte, sempre più durante la guerra, appassionatamente durante la rivoluzione, si augurarono che egli facesse di tutto per prendere in mano le redini.
Egli sembrava pronto, ma era pronto soltanto nel caso che lo si volesse chiamare. Non allungava la mano verso il potere. Non possedeva l'innata volontà di potenza dell'uomo politico che vuole il dominio perché esso è la sua vita. Soltanto nei momenti in cui la Germania era ridotta al peggio, la sua buona disposizione diventava volontà positiva. Ma anche allora stette in attesa. Chiamato, senza impegno, da amici politici a Berlino, non ci andò: «A Berlino vengo soltanto quando si voglia qualcosa da me. Non soltanto per scaldare le seggiole e far chiacchiere».
Qualche volta potè sembrare che il suo istinto agisse inconsciamente in modo da impedirgli di assumere posizioni direttive. Ma nel 1919, per esempio, era veramente disposto a farsi eleggere dall'Assemblea nazionale, e vide con dolore che certi funzionari del partito democratico lo impedirono. Vero è che nel 1917, quando un amico gli domandò perché non facesse nulla per indurre il governo a servirsi di lui nel campo politico aveva dichiarato nettamente di non volere: «Un uomo politico dev’essere a tutte le ore del giorno e della notte sicuro di sé e presente a se stesso; io non posso fidarmi di me; io commetto errori».
Si aggiunga un altro punto che forse fu decisivo. La sua intuizione della linea semplice e in quel momento necessaria, per quanto colpisse nel segno, aveva un difetto: era, sì, una verità, ma non teneva conto della cieca passione e dell'ottusità delle masse popolari, fosse la massa delle persone colte, degli ufficiali, o quella dei proletari, di quelle masse che in tutte le situazioni acute hanno di fatto il potere, quando la facoltà di agire deve democraticamente tener conto delle future elezioni e dell'eco presente nella pubblica opinione. Tutto ciò Weber vedeva chiaramente, ma nel modo in cui vedeva le verità scientifiche. Proprio in questi casi si fermava lontano da ciò che aveva riconosciuto per giusto, e nella sua sovrana intuizione non possedeva l'ingenuità, la scaltrezza istintiva, la noncuranza dell'uomo politico, ma neanche il possibile rendimento del raro uomo del popolo che, in mezzo alle effettive potenze della vita, non solo le vede ma le accoglie nel proprio spirito come energie motrici.
Soltanto così si può comprendere la proposta, vera in un mondo eroico, che i capi tedeschi consegnassero se stessi; egli aveva dimenticato un istante che in un mondo come quello di oggi un fatto simile rasenta l’impossibile. Cosi si può anche capire che durante la rivoluzione egli si sia messo presto a parlarne in pubblico con disprezzo; ne consegui che, quando Weber fu proposto al governo di allora per una posizione direttiva, la proposta venne respinta; il governo repubblicano, come a suo tempo quello monarchico, non poteva servirsi di lui. Egli stesso si rese conto della situazione. Nella sua opera La politica come professione descrisse le qualità dell’uomo politico che anche lui possedeva: passione, senso della responsabilità, occhio critico. Ma poi si accorse come la sincerità manifesta non si accordi con l'attività politica; come esista un costume dell’uomo politico che deriva dalla responsabilità per le effettive conseguenze delle sue azioni nel mondo come è. Lo intralciava sempre la passione per la verità, l’odio contro le cose meschine e volgari. Nella chiarezza del suo pensiero egli sapeva come bisognava fare, ma i suoi impulsi morali annientavano la buona volontà di mentire, di non essere veritiero, di illudere, tutte qualità che sono quel velo davanti alle cose del quale le masse hanno bisogno. Non solo a causa dei suoi disturbi nervosi, ma in un senso molto più profondo, aveva ragione di dire che commetteva errori.
6. La mancata eventualità che Max Weber fosse un capo
Tuttavia qualcuno ha pensato: che cosa sarebbe successo se Max Weber fosse stato a capo della Germania? Si è risposto: in politica avrebbe combinato praticamente soltanto malanni; era troppo caparbio, nessuno poteva collaborare con lui a meno di obbedire; non aveva la capacità di adeguarsi alla situazione, non era di modi affabili, voleva aver sempre ragione in modo che deprimeva gli altri; sempre veniva il momento in cui diceva troppo.
Espressi così, questi giudizi sono tutti errati. Così poteva vedere le qualità personali di Weber soltanto chi non lo amava, perché nella lotta non osava opporsi a lui con la propria coscienza di individuo ragionevole; altrimenti avrebbe appreso come quella passione del suo carattere si accendesse e smorzasse a un tempo nei contatti, attraverso i quali gli uomini che sono sempre uguali a se stessi si incontrano, si comprendono, si confidano e si mettono d’accordo.
Ma, a proposito dei malanni: avendo Weber alla testa, si sarebbe potuto fare una politica sincera che avrebbe messo continuamente il popolo tedesco davanti al dilemma di vedere e osare, nella elevazione verso il vero, gli atti necessari senza illudersi, o... di distruggere lo stesso Weber nella smania di velare la realtà. Così sarebbe accaduto prima della guerra allorché, secondo la sua volontà, cittadini e lavoratori avrebbero dovuto combattere il sistema per amore di un vero governo dello Stato e limitare la monarchia in favore del potere parlamentare, a rischio di essere mandati, al sorgere di tali eventualità, immediatamente in galera. Siccome a quel tempo egli era malato, questa eventualità restò per lui esclusa. Durante la guerra egli avrebbe preteso dal popolo una rinuncia per amore della verità. È probabile che ad ogni tentativo di prendere seriamente le redini, lo si sarebbe messo subito da parte. Se invece lo si fosse seguito, e la sorte fosse stata contro di noi, come fu anche senza di lui, la Germania avrebbe avuto alla sua testa una figura dotata di volontà eroica e di postulati indelebili, mentre sotto l'imperatore andò solo barcollando e d’altra parte dovette conservare l’elemento eroico e morale nell’anonimità dell’esercito e del popolo.
L’epoca della rivoluzione dimostrò invece di che cosa Weber era capace. Si trattava bensì di avvenimenti senza conseguenze, e quindi senza importanza storica, ma, per chi li viveva, pregni di una rivelazione simbolica che poteva impressionare anche coi più piccoli particolari. Eccone due esempi:
In un’assemblea popolare composta prevalentemente di lavoratori, nel periodo dei consigli dei lavoratori e soldati, Weber spiegò a quali illusioni si abbandonava il socialismo, che cosa fosse o non fosse possibile, che cosa avesse realmente importanza: tutte verità sgradevoli che demolivano spietatamente la fantastica ubriacatura dei proletari giunti apparentemente al potere. Weber non voleva adulare il demos, come a suo tempo non aveva adulato la monarchia. Nel suo discorso fu calmo, obiettivo, calzante ed egli stesso sorretto talmente dal suo carattere pronto a impegnarsi che, dopo tempestose interruzioni, alla fine tutti furono soggiogati dal fascino di quella genuina «demagogia» di un uomo veritiero; pareva che potesse trascinarli con sé. Non fu invece così; fu solo un istante, poiché a lungo andare le masse sono guidate da motivi più grossolani anziché da quanto appare loro, per un solo momento, incomprensibilmente chiaro.
Quando la Germania si trovò di fronte alle proposte di pace che a Versailles furono accettate, Weber spiegò la situazione a una vasta adunata di studenti. La potenza mondiale era perduta. Si pretendeva che la Germania accettasse qualunque umiliazione fino alla confessione della colpa. Nell’impotenza non rimaneva più nulla da ottenere. Si poteva soltanto salvare l’onore e vedere forse un giorno sorgere dal seme di un eroico tramonto un nuovo avvenire. Egli espose il suo pensiero, in mezzo a commenti concreti: se rifiutiamo e il nemico occupa il paese, voi sapete che cosa si debba fare; dai metodi della rivoluzione russa nel 1905 sappiamo che cosa possa anche l’impotenza; allora si tratta di abbandonare ogni speranza; la prigione o il tribunale marziale ci aspettano, ma il primo polacco che osa mettere piede in Danzica riceve una pallottola; se siete disposti a ciò, quando vi si dovesse arrivare mi troverete con voi; allora, venite a me!... E a queste parole, dette con tranquilla sicurezza, fece seguire un largo movimento delle braccia come per stringere in un amplesso tutta l’assemblea. Poi continuò: Ma fintanto che la Germania è a terra regoliamoci in conformità; non mostriamo più i segni dell’orgoglio di un popolo potente, quando è soltanto apparenza e autoinganno; perciò, niente più distintivi di corporazioni studentesche; abbasso chi porta ancora un distintivo finché la Germania è a terra! Nessuno rispose, segui un silenzio come se nessuno avesse inteso. Studenti delle corporazioni passeggiarono il giorno dopo coi loro distintivi davanti alla casa di Max Weber in segno di protesta. Iscritto da tempo a un’associazione, egli rimandò il suo nastro.
Anche allora rimase senza eco. Pareva che egli non esistesse nemmeno. Sugli avvenimenti non esercitò, neanche come eventualità, il ben che minimo influsso. Dalle sue labbra non usci più una parola che esortasse al sabotaggio del nemico, sabotaggio che, con la certezza di un'immancabile fine, egli voleva capeggiare.
Quando ci fu bisogno del lavoro di competenti, come nella redazione della Costituzione del Reich, fu pronto a collaborare. Si deve a lui la posizione costituzionalmente solida del presidente del Reich. Questo fu forse l'unico suo atto di straordinaria portata storica. Con esso egli inserì nella Costituzione un elemento che potrebbe creare la possibilità di una nuova autorità su base democratica e di un vero governo della Germania.
Ma il lavoro intorno alla Costituzione è cosa diversa dall'azione politica; è ciò che rende possibile questa azione. E qui potè farsi valere tutta la grande intelligenza dell'uomo. La sua attività politica invece era terminata ancora prima che egli vi si fosse provato. Come tante altre volte, ritornò al suo lavoro di scienziato e nel 1920 usci anche dal partito democratico; nel problema della socializzazione questo partito aveva attuato adattamenti al marxismo che a lui parevano impossibili: «In pratica l'uomo politico può venire a compromessi, ma il dotto non li deve coprire». Sicché nel 1920 quando, tutto immerso nella sua scienza, venne a morte, era decisamente fuori di ogni politica.
7. La perenne esigenza del pensiero politico di Max Weber
Allo sguardo retrospettivo Weber si presenta come una figura del genio tedesco che vedeva, soffriva, consigliava, ed era impotente e lontano dal timone governato da incapaci. Quelle che allora erano intuizioni trascurate, oggi sono cose ovvie. Taluno leggendo le sue opere vorrebbe bensì accaparrarlo, in ritardo, alla volontà del proprio partito o, siccome non s'inquadrava in nessun tipo di partito, rinfacciargli atteggiamenti politici contraddittori. Qui pare si possano rifornire di armi tanto i democratici quanto i nazionalisti o i socialisti. Ma ciascuno dovrebbe chiedere se il suo pensiero e i suoi atti politici rispondono alle vere esigenze di Max Weber le quali continuano a esistere indipendentemente dai partiti, dalle situazioni in continuo mutamento e dai programmi particolari.
Il senso weberiano per ciò che è caratteristico della politica intuisce il «pragma della potenza». La politica è lotta; la lotta esige un capo che non può scaricare la responsabilità su altri, come può fare il funzionario il cui onore consiste nell'eseguire coscienziosamente ciò che pretendono il suo superiore e la legge. Il capo politico è personalmente responsabile. Siccome però agisce nel mondo e il potere è il suo estremo mezzo specifico, non può agire secondo un’assoluta legge morale senza badare alle conseguenze e lasciando il risultato nelle mani di Dio. In questo caso agirebbe «secondo un carattere morale», ma senza responsabilità. Poiché vuol raggiungere qualcosa nel mondo, deve tener conto dei poteri che nel mondo hanno un’efficacia, e agire insieme con essi. Chi fa della politica «tratta con quelle potenze diaboliche che stanno in agguato in ogni violenza». Anche chi vuole stabilire la giustizia sulla terra ha bisogno dell’umana organizzazione dei seguaci. Questa non funziona senza appagare l’odio e la sete di vendetta, «il rancore e il bisogno di giustificazione pseudoetica», né senza «avventure, vittoria, bottino, potenza e prebende». «Dal funzionamento di questa sua organizzazione dipende interamente il successo del capo. Perciò anche dai moventi di essa [...]. Ciò che egli raggiunge effettivamente in tali condizioni di attività non sta dunque in suo potere, ma gli è prescritto dai moventi, in quanto a etica, prevalentemente volgari, che regolano l’azione dei suoi seguaci.» Il vero uomo politico è formato «dalla addestrata mancanza di riguardi nell’osservare la realtà della vita e dalla capacità di sopportarle e di essere loro interiormente pari». Egli non addossa la responsabilità alla stoltezza e volgarità del mondo, che anzi conosce e presuppone, ma a se stesso. Egli possiede la «saldezza del cuore che affronta anche il fallimento di tutte le speranze» e di fronte a tutto sa dire «eppure!».
È necessario però che gli altri siano convinti della necessità di avere un uomo di Stato alla testa. Per educarli, Weber chiarisce la differenza sostanziale tra il funzionario e l'uomo politico: in quello l'amministrazione imparziale, senza astio e senza prevenzioni, in questo la lotta; in quello l’abnegazione dell’obbedienza, in questo la responsabilità esclusivamente sua: «Proprio i funzionari di moralità elevata sono cattivi uomini politici, anzitutto privi di responsabilità nel significato politico della parola e, in questo senso, di moralità inferiore». La Germania era governata da funzionari, e qui stava il guaio del sistema. Perciò l’ira di Max Weber si scaglia contro «la ripugnanza piccolo-borghese che tutti i partiti provano verso i capi», ma più che mai si scaglia contro i falsi capi, gli smargiassi con i loro reboanti discorsi, contro «i meschini e vanitosi arrivati del momento», i quali badano soltanto alla propria influenza, ma non servono nessuna causa.
Infatti in aggiunta alla sensibilità per il «pragma di potenza» occorre anche richiedere che nella volontà di potenza agisca qualcosa di sostanziale. «Anche sui trionfi politici esteriormente più efficaci pende la maledizione della nullità individuale» quando manca la fede. Questa fede si realizza per Weber nella volontà politica di servire fini esteriori della vita quotidiana, ma col pensiero rivolto agli uomini, non solo al nostro benessere, bensì alla nobiltà della nostra natura. Questa fede può estrinsecarsi solo quando il «pragma di potenza» pone limiti nella stessa volontà dell’uomo.
Perciò sarebbe comodo ripiego lasciare che il senso per la natura della politica si stemperi in un entusiasmo per il potere indeterminato in genere e per la nazione come semplice dato di fatto. La sincerità interiore invece è condizione sia di un durevole successo politico, sia della nobiltà degli uomini che vi si elevano. Perciò Weber è sempre stato contrario alle illusioni: contrario alle montature e alle false promesse sia in guerra, sia durante la rivoluzione; contrario alla falsa fede del mero desiderio, a qualunque tentativo di nascondere i fatti; contrario all’abuso dell'idea nazionale per favorire interessi di casta, per appoggiare stoltezze politiche, per giustificare conflitti in politica interna; contrario ad «abbassare il nome della patria al livello di una demagogica ditta di partito»; contrario all’atteggiamento di chi in discussioni politiche afferma oggi spudoratamente l’opposto di ciò che affermava ieri (per esempio nel 1916, dopo l'inizio della guerra sottomarina: «coloro che quindici giorni fa dicevano: oh, gli americani non intervengono mai - dicono adesso: oh, gli americani volevano la guerra a tutti i costi - esattamente come allora, a proposito dell'Italia»); perciò egli si volse alla fine contro la giustizia apparente in favore della semplice certezza giuridica. Allorché dopo l’uccisione di Eisner il conte Arco fu graziato, Weber disse agli studenti: «Avete festeggiato il conte Arco perché, come è anche mia convinzione, egli si presentò al tribunale in modo cavalleresco e in tutti i sensi virile. Il suo gesto era frutto della convinzione che Kurt Eisner aveva causato alla Germania una vergogna dopo l'altra. Anch’io sono di questo parere. Ciò nonostante è una grave debolezza graziarlo fin tanto che è in vigore la legge, e io come ministro lo avrei fatto fucilare [...]. Gli assassino politici faranno scuola».
L’occhio per il «pragma di potenza», la fede che sorregga la responsabilità, la sincerità, sono condizioni del pensiero politico, ma tutte hanno bisogno della competenza: come il funzionario addestrato sta, in quanto specialista, di fronte al dilettante, così l’uomo di Stato, che a sua volta è diverso dal funzionario specializzato, sta, in quanto capo effettivo, di fronte al vanitoso demagogo. Il sapere dell’uomo di Stato non è falsamente specifico ma, oltre all’innata vocazione, l’uomo di Stato ha bisogno dell’avviamento a una autoeducazione per cui sappia distanziarsi dalle cose e da se stesso, ed essere quindi capace «di accogliere l’influsso delle realtà su di sé con interiore calma e raccoglimento». La vanità, nemica mortale di ogni dedizione alla causa, è, per la sua tendenza a farsi vedere possibilmente in primo piano, la fonte della mancanza di serena valutazione delle cose e della assenza di responsabilità. La competenza politica si può acquistare solo superando continuamente la vanità generalmente umana e in qualunque altro caso meno dannosa. La politica sentimentale e la politica dell’odio, non sapendo distanziarsi dalla propria persona, provocano soltanto disturbi, fin nel tono del discorso politico che si lascia sfuggire il possibile effetto. Weber fu quindi corrucciato in tutti quei decenni, sia per il rumore che si fece intorno alle colonie, sia per la stesura dei discorsi e delle note durante la guerra, per le gradassate in fatto di potenza, per le fanfaronate o per le confessioni di colpevolezza e per le prepotenze morali. Soltanto con tale autoeducazione del pensiero politico il competente può acquistare quella scienza concreta che occorre di volta in volta ed è infinitamente varia.
Weber pretese e attuò nella sua persona l’assenza di illusioni con l’autentica fede nel proprio popolo, e la facoltà di dire il vero anche dove lo si ascolta malvolentieri, quando questo vero sia politicamente rilevante. Un abisso lo separa dal demagogico fanatismo di verità che, non veritiero di fronte a sé, dice ciò che piace, prende a pedate l’impotente o rappresenta la provocante intenzione di offendere o semplicemente la volontà di scaricare il proprio odio. Weber sviluppò un pensiero politico tedesco, non un vaniloquio nazionale. In tutte le tensioni della coscienza politica il vero successo, cioè l’elevazione dei tedeschi, fu per lui l’ultima misura veramente e concretamente intesa. «Per ricostruire la Germania nel suo vecchio splendore farei lega certamente con qualsiasi potenza della terra e magari col diavolo in persona, ma non mai con la potenza della stupidità.»
Il limite inquietante dove la consapevolezza etica della responsabilità pare che comprometta l’etica del carattere, ma per sussistere infine soltanto ad opera sua, presenta antinomie o paradossi etici, chiarendo i quali Weber mise un peso sulle spalle di tutti coloro che ingenuamente credono di sapere l'unica via giusta quando si attengano unicamente alla giustizia razionale.
Ma l’ultima meta si perde nel vago: la nobiltà dell’uomo e l’affermazione della nazione nella politica mondiale (non l’una senza l’altra) stanno, secondo lui, nel volere che gli uomini futuri ci riconoscano per loro antenati; non necessariamente in quanto alla razza e alla discendenza, ma nel modo in cui noi conosciamo i Greci ai quali dobbiamo l’essere nostro.