Wendell

Lasciarono il sentiero. I pini si infittirono intorno a loro. Wendell dovette mettersi a quattro zampe e farsi largo in mezzo ai grovigli di caprifoglio e rosa selvatica, piccole lacrime di sangue gli comparvero sul dorso delle mani. Rowdy lo seguí nel varco che aveva aperto, lui doveva accucciarsi solo di tanto in tanto. Su una cengia sopra uno strapiombo trovarono una piccola radura con un pino nodoso a cui ancorarsi, e Wendell si rialzò in piedi, dandosi manate sui jeans per mandar via la polvere. Fece scavare a Rowdy una buca accanto al pino, poi aprí le fauci della tagliola, la tenne giú con un piede e spostò il perno sotto l’arco di percussione della piastra.

«Bene, ottimo lavoro. Cosí è abbastanza profonda».

Piazzò la trappola nella buca scavata da Rowdy e gli mostrò come spargerci sopra la terra appena sufficiente a coprirla, poi a turno ci sistemarono sopra polvere ed erba, e Wendell fissò la catena della tagliola piantando uno spuntone nelle radici dell’albero, e seppellí anche quella.

Si tolse il berretto da baseball e si asciugò la fronte. Rowdy non aveva il cappello, ma si asciugò anche lui la fronte. Restarono lí ad ammirare la loro opera. Era evidente che la terra era stata smossa, ma per non mettere il piede sopra la trappola dovevi sapere dov’era. Wendell non era andato a lavorare e non aveva mandato il bambino a scuola – aveva chiamato il distretto scolastico di Colter e lo aveva iscritto lí – e adesso ne era piú che contento.

«Ci serve un osso» disse al bambino.

Rowdy lo guardò strizzando gli occhi e si chinò per perlustrare il bordo del crepaccio. C’erano sempre ossa in giro – nei fossati lungo le strade, nel mucchio di carcasse vicino alla casa, lí sulle montagne. Da bambino Wendell raccoglieva le ossa e le portava alla vecchia fattoria abbandonata, al reliquiario che suo nonno aveva cominciato a creare in cantina. Sua madre, temendo che quella costruzione pericolante crollasse, gli aveva proibito di entrarci, ma non voleva quelle ossa nel trailer. Come compromesso, gli aveva concesso di usare come ossario la veranda della vecchia casa. Aveva messo insieme una collezione notevole. Ossa di uccelli, fragili come steli di paglia. Teschi di cani delle praterie, sottili e a falce di luna. Ossa di coyote, dure e ricurve. Mandibole di puma, con le fauci come coltelli dentellati. E ossa di mucca e di pecora. E anche le ossa ingiallite, incredibilmente grandi, dell’ultimo orso che il suo bisnonno aveva ucciso nelle Bull. Il suo pezzo preferito era il grosso cranio cavo di un cavallo, che aveva trovato, sbiancato dal sole e sul punto di sgretolarsi, dopo essersi addentrato per miglia su per le montagne. Spesso lo sognava rivestito di carne e muscoli, pelle e pelo: un cavallo da guerra dei Crow, o un cavallo da diciassette spanne del Settimo Cavalleggeri.

Rowdy sbucò di corsa dagli alberi con un piccolo femore bianco stretto in pugno.

«Perfetto. Dammelo».

Wendell prese l’osso, probabilmente di cervo o di antilocapra, e lo ruppe. Un pezzo lo restituí al bambino e l’altro lo seppellí fra la trappola e l’albero in modo che si vedesse solo l’estremità spaccata. Poi tirò fuori dalla tasca una boccetta di vetro.

«Questa è una mistura di piscio e altra roba che il mio vecchio ha tirato fuori dalle budella di un coyote. Senti che odore, ti stende».

Il bambino sgranò gli occhi. Allungò una mano e prese la fiala ambrata, se la passò sotto il naso. Strizzò gli occhi, fece una smorfia.

«Sí, fa schifo, ma i coyote la adorano».

Wendell fece gocciolare un po’ di quell’intruglio sull’osso spezzato, poi tappò la boccetta e se la rimise in tasca.

«Bene. Ce ne restano altre quattro. Che dici? Ti piace fare il montanaro?».

Rowdy sorrise, snudando i denti e inclinando la testa, poi corse via, a zigzag fra i pini.

Nell’ultimo anno sua madre non l’aveva vista molto.

Wendell aveva mollato il community college di Glendive dopo un semestre e mezzo, per prendersi cura di lei dopo la prima operazione. Pensava che si sarebbe ripresa. Pensava che sarebbe tornato al college e avrebbe riavuto la sua borsa di studio per il basket. Non andò cosí. Per qualche anno fece diversi lavoretti, finché non fu assunto in pianta stabile da Glen, il che significava che a quel punto usciva il mattino prima dell’alba e non tornava al trailer finché sugli alberi non si posava l’ultima luce del giorno. Sempre piú spesso la trovava collassata davanti alla televisione, imbottita di pastiglie. Aveva solo quarantatré anni, ma era da tanto tempo che stava male. Ricordava le serate, quand’era bambino, in cui suo padre le massaggiava i nodi nelle spalle mentre tutti e due bevevano birra ascoltando la trasmissione di country classico su KGHL. Ogni tanto quel dolore tornava all’improvviso, e lei si metteva in mutua per un paio di mesi. Quando aveva mollato definitivamente il lavoro alla fabbrica di forni, l’inverno dopo che Wendell si era diplomato, quasi non riusciva a dormire per il dolore. Avevano detto che aveva qualcosa che non andava alle diartrosi, poi le era stata diagnosticata una stenosi spinale lombare, ma Wendell non era convinto che i medici avessero davvero capito quale fosse il problema. Aveva fatto tutta una serie di operazioni, sempre piú estese, e all’inizio sembravano funzionare, ma poi, ogni volta, proprio quando Wendell cominciava a pensare di tornare a Glendive, sorgeva un’altra complicanza. Alla fine lei schiaffò in un armadio i video di aerobica e gli attrezzi ginnici e cominciò a passare dal letto al divano e dal divano al letto. Andava in paese solo di tanto in tanto per farsi fare una ricetta.

Quando al ritorno dal lavoro la trovava priva di conoscenza sul divano, Wendell la aiutava ad alzarsi e la accompagnava lungo il corridoio fino in camera. Lei incespicava e parlava con voce impastata, a volte ringraziandolo, a volte insultandolo. Spesso lo chiamava col nome di suo padre. Una sera, mentre la adagiava sul suo letto coi cuscini di pizzo, lei lo baciò sulla bocca, allungò una mano verso la patta dei suoi pantaloni. Lui si tirò indietro di scatto, facendola quasi cadere, imbarazzato perché si era accorto che gli era venuto duro. Lei ripeté il nome di suo padre – Verl – e si aprí la vestaglia mostrando un vecchio reggiseno sportivo e il ventre pallido e flaccido. Quando fece per abbassarsi le spalline del reggiseno, lui si voltò e corse via, prese il cappello, uscí sbattendo la porta e salí sul Luv. Mentre guidava prese da sotto il sedile una bottiglietta di Jack Daniel’s. Sul fondo c’erano due centimetri di liquido ambrato e se li scolò, poi lanciò il vuoto fuori dal finestrino. Lo guardò frantumarsi contro il paletto di una staccionata. All’Antlers trovò una sua ex fidanzata, Starla Collier, che – nonostante fosse già sposata con Toby Korenko, e avesse pure un figlio – si stava sbronzando. Restarono fino alla chiusura e finirono in un parcheggio a scopare contro il suo Luv. Intorno c’erano vecchi ubriaconi col naso a patata che li guardavano facendo il tifo, e Starla gli mordicchiò il collo e gli disse che lo aveva sempre amato.

Poi Wendell si era sentito cosí di merda – nella merda fino al collo, come se ci stesse affondando dentro tanto da vedere il mondo attraverso quello schermo e sentirla fin nei polmoni – che la settimana dopo aveva chiesto di fare ancora piú ore. Aveva cominciato a fermarsi a pranzo da Glen e Carol, e per parecchi mesi si era tenuto alla larga dai bar. Ora, quando al suo arrivo trovava la madre sul divano, si limitava a buttarle addosso una coperta, e a spegnere la TV.

Era trascorso poco meno di un anno da quando, una sera di ottobre in cui gli steli d’erba secca erano coperti da una brina spettrale, tornando dal lavoro aveva visto la Cavalier della madre ferma col motore acceso davanti al trailer, i finestrini appannati, sgocciolanti. Era buio, e sulle prime non capí cosa ci facesse lí il tubo di gomma, ma quando, aprendo la portiera del guidatore, fu investito da una zaffata di gas di scarico, si rese conto di cos’era successo.

Sua madre era in vestaglia, si era portata un cuscino e aveva reclinato il sedile. Wendell allungò una mano e spense il motore.

La seconda serie di trappole le posarono lungo la sponda di un torrente in secca, la terza a fianco della pista di un animale fra i pini, e la quarta sopra un canyon alto e stretto. Fino a quel momento Wendell non ci aveva pensato, ma a un certo punto cominciò a sentirsi nervoso, lassú in alto con Rowdy cosí interessato all’orlo del dirupo, ma il bambino sembrava prudente, e dopo che ebbero posato la tagliola Wendell lasciò che si sdraiasse a pancia in giú e sporgesse la testa oltre il bordo, come il peso di un filo a piombo. Wendell si sdraiò al suo fianco e fece lo stesso e, con le teste rotonde che sporgevano in tutta quell’aria, si sorrisero. Wendell gridò qualche «salve», che rimbalzò sulle pareti del canyon, e come se nulla fosse anche Rowdy gridò un «salve», e la sua voce stridula e sottile echeggiò fioca.

A Wendell batté forte il cuore contro il terreno. Pensò di dire qualcosa, di celebrare quel suo «salve», ma poi ci ripensò. Si ritrasse dall’orlo, in ginocchio, e Rowdy fece lo stesso. Lui sorrise e gli prese la mano, e restarono cosí, mano nella mano. Wendell indicò il fondo del canyon, dove il vento spazzava e appiattiva l’erba.

«Laggiú una volta c’era una sorgente. Lemonade Springs, la chiamavano. Il mio vecchio diceva che lí l’acqua era dolce e aspra allo stesso tempo».

Adesso era asciutta, disse al ragazzo. Se d’inverno nevicava tanto, ad aprile e maggio si creava un rivolo d’acqua, ma non molto di piú. Rowdy osservò il canyon, il fiumiciattolo in secca, e si appoggiò al braccio di Wendell, poggiò la testa su di lui. Wendell riusciva a sentire il battito del proprio cuore che risuonava nel cranio di Rowdy. Contro il suo fianco, il battito piú rapido ed etereo del sangue del bambino era leggero come una piuma.

Poi, sopra il suono del loro cuore, sopra il suono del vento, giunse il rumore cupo di un motore. Di motori. Wendell si voltò. Nella valle alle loro spalle, oltre l’imboccatura del canyon, arrivarono a tutta velocità due quad, che con un rombo e una sgommata si fermarono davanti alla recinzione. Lasciando il motore acceso, uno dei guidatori tirò fuori qualcosa dalla fondina che aveva alla cintola, si portò agli occhi un oggetto nero. Wendell capí. Un binocolo.

Afferrò Rowdy per un polso e lo tirò a terra, dietro un piccolo affioramento roccioso.

«Resta giú. Resta vicino».

Wendell contò fino a trenta, poi si sollevò un centimetro per volta. Adesso l’altro guidatore era sceso e si era avvicinato al primo, e i due stavano confabulando. Quello rimasto in macchina era un uomo, aveva i baffi, l’altro un ragazzo, parve a Wendell – grande e grosso, ma un ragazzo –, a giudicare dalla sua rotondità, dalle guance glabre. L’uomo prese qualcosa – un paio di pinze per steccati – dalla cassetta degli attrezzi legata sul retro del quad davanti a una rastrelliera con almeno tre fucili.

Quello è Betts, pensò Wendell. Col figlio di Tricia Wilson. Come si chiamava? Uno di quei nomi moderni che lui non riusciva mai a tenere a mente. Tricia, però, se la ricordava. Era piú grande di lui, era stata cheerleader della squadra studentesca quando lui era in quinta elementare, e ogni volta che la Delphia giocava contro il Colter, lui passava piú tempo a guardare lei che la partita. Anche Betts l’aveva conosciuto, un sei mesi prima, alla vendita di beneficienza che avevano fatto per Cotton e Donna Pinkerton, dopo che a Cotton, che aveva appena compiuto quarant’anni, era stato diagnosticato il cancro.

Lí sotto convergevano i confini di tre proprietà, nessuna delle quali apparteneva a Betts. A sud, da dov’erano arrivati Betts e il giovane Wilson, c’era la terra di Glen Hougen. A ovest era tutto terreno demaniale, per la gran parte affittato a Glen. E il punto dove si trovavano Wendell e Rowdy era ai confini di quel poco che restava dell’appezzamento dei Newman, e anche quello era affittato a Glen.

Il giovane Wilson andò dritto alla recinzione di filo spinato che divideva la terra di Hougen da quella del governo e si aprí un varco, e i fili scattarono sbatacchiando e avvoltolandosi l’uno sull’altro. Poi avanzò lungo la recinzione e tranciò anche la sezione successiva, e i fili caddero giú dritti, ora che non erano piú in tensione. Wendell lo guardò tagliare a quel modo tre o quattrocento metri di recinzione. Un danno simile non lo si riparava in fretta; bisognava rifare tutto da capo. Un’intera giornata di lavoro. Non lo stavano facendo per lasciar passare il bestiame. Lo scopo era un altro.

Quando ebbe finito, il ragazzo restituí le pinze a Betts, risalí sul suo quad e schizzò via sul terreno demaniale, dove scomparve dietro un rilievo. Betts tirò di nuovo fuori il binocolo e si guardò intorno. Wendell tornò ad acquattarsi dietro la roccia, stringendo Rowdy per i polsi. Fece un respiro e aspettò. Le nubi, che si stavano ammassando a nord, passarono sopra di loro, alte e bianche e voluminose, e Rowdy ebbe un fremito.

Wendell si tirò di nuovo su e sbirciò con cautela. Nient’altro che un viluppo di filo spinato reciso e tracce di pneumatici nell’erba che si allontanavano verso ovest. Lasciò andare Rowdy e si rialzò.

«Scusami, amico, mi sono preso uno spavento. Non mi aspettavo di avere compagnia. Comunque è tutto a posto».

Il bambino restò seduto dov’era, massaggiandosi i polsi. Era cosí magro che il vento doveva penetrargli nelle ossa, pensò Wendell. Erano partiti nel relativo calore del sole di mezzogiorno, e il bambino non aveva neanche un giaccone.

«Hai un po’ freddo? Abbiamo ancora una trappola. Vuoi che la piazziamo o preferisci tornare indietro?».

Il bambino si ficcò le mani sotto le ascelle e tremò di nuovo. Si dondolò restando dov’era, nella polvere e nel pacciame.

Wendell disse che per quel giorno poteva bastare. Sarebbero tornati a casa. E poi l’indomani Rowdy doveva andare a scuola… il primo giorno nella scuola nuova. Lo aiutò ad alzarsi e si avviarono.

Wendell si sporse in avanti per collegare la stufetta – nella stanza del bambino il riscaldamento a muro non funzionava – e la sottile serpentina si arrossò. Rimboccò le coperte a Rowdy e si sedette sul bordo del letto. Avrebbero dovuto fare una decina di miglia in macchina per prendere lo scuolabus da nord per Colter, gli disse, e quella era un po’ una scocciatura, ma pensava che alla scuola nuova si sarebbe trovato meglio. O almeno lo sperava. Nella nuova scuola poteva andare tutto bene, però doveva cercare di adattarsi. Se qualcuno lo prendeva in giro doveva dirlo alla maestra. Non doveva piú fare il gesto di sparare a qualcuno.

Rowdy si portò le mani alle guance. Sul polso sinistro si stava formando un livido. Wendell toccò quella pelle delicata.

«Scusami, amico, quei tizi mi hanno reso nervoso».

Ne conosceva troppi di uomini come Betts. Sbruffoni coi nervi a fior di pelle, sempre vogliosi di dimostrare qualcosa. Si era preoccupato di quel che avrebbe potuto fare uno come Betts coi fucili lí a portata di mano, se di colpo avesse visto spuntare la sua testa dalle rocce.

Rowdy batté le palpebre, e per un momento

Wendell pensò che avrebbe detto qualcosa, ma non fu cosí. Si limitò a sbadigliare, a deglutire. Finalmente cominciava ad avere la faccia un po’ piú pienotta. Grazie ai cracker imburrati e alla pasta col pollo, pensò. Bene, ottimo.

«Guarda. Ho una cosa per te».

Tirò fuori dalla tasca il medaglione d’argento col lupo e glielo mostrò. Gli disse di tenerlo con sé. Quando si fosse sentito spaventato o preoccupato, bastava che si ficcasse una mano in tasca e lo toccasse e avrebbe saputo che andava tutto bene, che c’era suo zio Wendell a badare a lui.

Rowdy si tirò su a sedere e prese il medaglione, lo osservò, se lo avvicinò agli occhi. Poi sorrise, lo strinse nella mano e tornò a stendersi. Posò la testa sul cuscino, ci ficcò sotto il pugno chiuso.

La stufetta si spense con un clic, e Wendell raccolse un libro da terra. Aveva finito di leggergli Dove pascola il bisonte e aveva appena cominciato Un albero cresce a Brooklyn. Dopo quello non sapeva cos’altro leggergli. La maggior parte dei libri che aveva preso ai tempi della scuola non sembravano adatti a un bambino di sette anni. Wendell non sapeva valutare cosa ne ricavasse Rowdy da quelle letture, a parte la sua voce e la sua presenza. Ma aveva cominciato a insistere perché lui gli leggesse qualcosa prima di dormire. Forse la storia in sé non aveva importanza. Forse l’importante era solo che fosse una storia – una storia qualunque.

La stufetta si riaccese, e Wendell trovò il punto dov’era arrivato e cominciò a leggere:

I Nolan avevano delle idee particolari sul caffè, che era il loro unico grande lusso. La madre ne preparava un grande bricco ogni mattina e lo riscaldava per pranzo e per cena: con il trascorrere della giornata diventava sempre piú forte. Era un’enorme quantità d’acqua con pochissimo caffè, ma la madre ci metteva un bel pezzo di cicoria che lo rendeva forte e amaro. Ognuno aveva diritto a tre tazze al giorno con il latte. Ma certi giorni potevano prenderne quanto ne volevano. Qualche volta, quando non si ha nulla da mangiare, piove e si è soli in casa, è una sensazione meravigliosa sapere che si può avere qualcosa, anche se si tratta soltanto di una tazza di caffè nero e amaro.1

Era sorpreso da quanto se lo ricordava bene dopo tutti quegli anni, da quanto sentiva vicine quelle storie, da quanto gli sembravano la sua stessa vita, la sua stessa lingua. Rowdy fece un movimento e sprofondò di piú nel letto, gli si chiusero gli occhi. Wendell gli rincalzò ancora una volta la trapunta intorno al collo, sfiorandogli con le dita il piccolo orecchio. Era rimasto intrappolato da solo in quell’appartamento, pensò. Cristo santo. Deglutí. Chissà quante ne aveva passate, cose che lui non avrebbe mai saputo, però lo consolava che adesso almeno potesse mangiarsi i suoi cracker imburrati. Come Francie Nolan, almeno poteva avere qualcosa. Francie l’aveva sempre sentita al tempo stesso vicina e infinitamente lontana. Era una bambina povera, e in questo lui poteva benissimo immedesimarsi, però se ne stava laggiú a New York. Era come Lacy. O come suo padre. A lui bastava chiudere gli occhi per rievocare l’esatta curvatura delle loro spalle, per sentire le loro mani nelle sue, eppure nella sua vita quotidiana, nella sua vita di lavoro e bollette da pagare e una o due birre la sera, sentiva di non conoscere piú né l’uno né l’altra.

Dalle labbra aperte di Rowdy uscivano piccole nuvolette di fiato. Wendell lesse ancora qualche minuto prima di fare un’orecchia alla pagina e posare il libro sul pavimento. Staccò la spina della stufetta e uscí dalla stanza senza far rumore, tirandosi dietro la porta e restando nel buio pesto del corridoio senza finestre. Raggiunse il soggiorno, e stava cercando a tentoni l’interruttore della luce quando il telefono squillò. Un suono forte e tintinnante. Corse verso il posto dov’era attaccato, alla parete accanto alla porta d’ingresso, urtando con lo stinco contro un tavolino basso e andando quasi a sbattere con la testa contro gli armadietti. Proprio mentre lo afferrava, il telefono squillò di nuovo. Rispose con un tono concitato.

Udí una voce farfugliante, la voce di una ragazza, che chiese di Wendell.

«Stai parlando con lui».

Una pausa.

«Sono Maddy. Ci siamo conosciuti l’altro giorno all’Antlers. È stata Jackie a darmi il tuo numero».

Wendell ebbe l’impulso di riagganciare, ma si trattenne. L’ultima volta che una ragazza gli aveva telefonato era stato subito dopo la morte di sua madre. Lacy non gli aveva detto molto, piú che altro aveva pianto. E lui cosa le aveva detto? Le aveva detto di tornare a casa? Che qualunque cosa fosse successa non aveva importanza? Non se lo ricordava. Gli sarebbe piaciuto ricordarselo.

«Volevo chiederti scusa» continuò Maddy, «per quello che ho detto. Hai ragione. Io non so niente di te o del tuo cuginetto».

Oltre alla sorpresa per la telefonata, e per il fatto che gli chiedesse scusa, c’era qualcosa nel trovarsi al buio, buio assoluto, con la voce di lei che per arrivare al suo orecchio percorreva miglia e miglia di montagne e praterie. Wendell provava la stessa sensazione che aveva provato camminando su per le montagne con Rowdy: un sollievo che scendeva su di lui come pioggia, un’improvvisa gratitudine per il fatto di essere cosí indifeso, cosí esposto.

«Figurati» rispose. «Ero ubriaco. Non avrei dovuto alzare cosí la voce».

«Rowdy dorme?».

«L’ho appena messo a letto».

«Spero di non averlo svegliato».

«Non lo sento».

Ci fu un istante di silenzio. Wendell si appoggiò allo stipite della porta.

Maddy continuò. Si stava chiedendo se magari poteva aiutarlo in qualche modo, disse. Non che lui avesse bisogno di aiuto. Non era questo che intendeva. Di sicuro se la cavava benissimo. Solo che la sua scuola stava facendo una raccolta di giocattoli, libri e vestiti invernali per la Caritas, e lei avrebbe potuto portargli una scatola di cose – cose carine – per Rowdy, se gli servivano.

Col ricevitore che gli penzolava in mano, Wendell sapeva benissimo come avrebbe reagito il suo vecchio in un caso simile, e già sentiva che gli si stavano formando nella gola parole di rifiuto… ma poi rivide Rowdy che tremava nel vento, pensò alla propria misera scorta di libri trafugati.

«Magari potrei portarti la roba lí nel fine settimana» propose Maddy, con la voce che quasi si spegneva.

Wendell la immaginò, alta e bellissima, in mezzo ai pini.

«A Rowdy in effetti un giaccone invernale servirebbe» disse, deglutendo. «E qualche libro per bambini. Gli piace che io gli legga qualcosa».

«Oh, splendido!» disse lei, con la voce squillante per il sollievo. Certo, non c’erano problemi. Gli chiese che taglia aveva Rowdy. Wendell esitò. Non aveva mai verificato.

«Cavoli» disse, «non lo so. Quando me l’hanno portato aveva con sé i suoi vestiti in un paio di sacchetti di plastica. Devo guardare».

Wendell avvampò mentre lo diceva, si irrigidí preparandosi a essere giudicato, ma la voce di Maddy era calda, comprensiva. Gli disse di andare a controllare e poi richiamarla, e lui si scrisse il suo numero sulla busta di una pubblicità arrivata per posta.

Fuori dalla finestrella nella porta d’ingresso, le stelle sempre piú nitide nell’oscurità, il profilo delle rocce e dei pini. Lui avrebbe voluto dirle che quel giorno Rowdy aveva parlato, che per la prima volta gli aveva sentito dire qualcosa, ma si trattenne. Piú tardi, pensò. Avrebbe conservato quella notizia per dopo. Si salutarono un po’ imbarazzati e lei riagganciò. Si udí un clic e poi un ronzio. Wendell restò lí con lo sguardo fisso fuori dalla finestrella sporca, osservando le stesse stelle sfolgoranti, gli stessi profili netti di alberi e rilievi montuosi che conosceva da tutta la vita.

1. Betty Smith, Un albero cresce a Brooklyn, trad. di Antonella Pietribiasi, Vicenza, Neri Pozza, 2007 (N.d.T.).