« I risultati di questa prima analisi genetica del comportamento relativo agli stili amorosi adulti sono degni di nota per due motivi. Primo, non esiste, a nostra conoscenza, altra sfera della personalità [tolleranza delle tensioni, aggressività, controllo, ecc.] in cui i fattori genetici svolgano un ruolo altrettanto insignificante ... Secondo, non conosciamo altri atteggiamenti [credenze religiose, pregiudizi razziali, ecc.] in cui i fattori genetici svolgano un ruolo altrettanto insignificante». 

E qui troviamo una felice eccezione. I nostri gemelli convergono in tutti gli stili amorosi tranne uno: l'aspetto di «mania», il sentimento ossessivo, tormentato che è tipico dell'amore romantico. Dobbiamo assolutamente indagare sul perché di questa eccezione. Nella mania amorosa, e solo in essa, sembra darsi come un'indipendenza dei cuore. Questo amore è qualcos'altro! 

Stabilito che la spiegazione della similarità di stili non è genetica, l'alternativa, per il modello concettuale della ricerca, non può essere che una sola: l'ambiente. I gemelli identici, che amano nell'identico modo, hanno scelto identiche mappe amorose. 

La «mappa amorosa» è uno degli espedienti con i quali la psicologia cerca di dare conto dei misteri dell'invasamento amoroso. Ciascuno di noi cresce in un ambiente familiare in cui determinati tratti danno piacere, soddisfano bisogni, accentuano la vitalità. Tali tratti formano uno schema, una mappa, ed è di questa che ci innamoriamo quando una persona che sembra possederne gli attributi attraversa la nostra strada. «Crescendo, questa mappa inconscia prende forma e ne emerge a poco a poco una proto-immagine dell'innamorato o innamorata ideali ... Pertanto, molto prima che il nostro vero amore ci passi accanto a scuola, al supermercato o in ufficio, noi ci siamo già costruiti alcuni elementi base del nostro innamorato o innamorata ideale».  

La mappa amorosa è fatta a strati. Le ricerche interculturali sostengono che esiste per la mappa amorosa un livello collettivo: per esempio, l'attributo di un bell'incarnato sarebbe collettivo. Nelle donne, è universalmente attraente un corpo formoso con i fianchi larghi: negli uomini, lo sono i beni materiali, come l'automobile, o il cammello. Poi vengono gli strati che riflettono la tradizione, la moda e le norme della collettività locale. In ultima analisi, la teoria delle mappe amorose sostiene che il condizionamento ambientale determina l'oggetto del desiderio.  

Altre correnti psicologiche chiamano proiezione la scelta dell'oggetto del desiderio. Secondo la psicologia junghiana, la proiezione nasce da una fonte archetipica che fa parte dell'intima essenza di ciascuna anima, Per gli junghiani, la mappa amorosa possiede tratti fortemente individualizzati, perché a provocare l'innamoramento e la sensazione che si tratti di una chiamata del destino è una complessa immagine che portiamo nel cuore. Quanto più l'immagine è ossessiva e irresistibile, più ci innamoriamo pazzamente, il che intensifica la convinzione che sia il destino a volerlo. Gli junghiani chiamano questo fattore archetipico, che distorce la mappa in direzione di una particolare persona, con il nome di Anima e Animus. Queste figure possono recare i tratti superficiali della mappa amorosa, ma non sono riducibili a essa.  

Anima e Animus sono le parole latine che indicano l'anima e lo spirito; pertanto, anche ammesso che il nostro cuore si innamori di un'immagine infantile composita, a strutturare la nostra mappa, permeandola con l'esperienza del miracolo e del mistero, c'è sempre una configurazione ignota. Ecco perché, direbbero gli junghiani, l'amore è così travolgente. Ti stende al tappeto mentre ti solleva al settimo cielo, fuori da questo mondo.  

L'esperienza dell'amore romantico trascende ogni condizionamento, pretende devozione al di là di ogni vincolo. Per Platone, la «mania» era possessione da parte degli dèi, nella fattispecie di Afrodite e di Eros. Poche cose nella vita danno questa impressione di essere rivolte in modo così esclusivo e diretto a noi personalmente come l'invasamento dell'amore romantico. L'amore romantico ha un sapore di fatalità, di destino, di karma. «Sei quella/o che aspettavo», «Gli altri/le altre non contano», «Sei l'unica/o», «Ho cercato tanto, e finalmente eccoti qua...», «Sei la mia buona stella». Questa attrazione fatale, detta impersonalmente reazione biochimica e attribuita a feromoni subliminali, possiede una sua forza autonoma che trascende genetica e ambiente.  

Tale sensazione, non importa se sia o non sia delirante, conferma in maniera convincente l'interpretazione junghiana dell'amore romantico. C'è attorno al fenomeno un qualcos'altro che ha un fine e un senso e un alone di avventura e di mistero. Per forza nell'innamoramento i gemelli identici perdono un po' della loro identicità!  

Quelli che abbiamo preso in esame sono due modi di immaginare la mappa amorosa, il modello junghiano di Anima/Animus, e il modello natura-o-cultura. Secondo quest'ultimo, «gli stili dell'amore romantico non sono significativamente influenzati da fattori ereditari», e allora l'unica possibile alternativa è l'ambiente: abbiamo appreso il nostro stile amoroso durante i primi anni di vita. Come? Attraverso «esperienze uniche», da un lato, e, dall'altro, «forse vivendo con i medesimi genitori e osservando insieme t loro stili relazionali».<</span> Forse, Questa tesi presuppone che tu ti innamori se non direttamente dei tuoi genitori, come sottintendono i freudiani, di loro sostituti o almeno seguendo i loro modelli. Ecco che rispunta la superstizione parentale, rimessa in campo per spiegare ciò che non comprendiamo. Sia che io voglia una ragazza uguale in tutto e per tutto a quella che ha sposato il mio caro papà sia che ne cerchi una il più possibile diversa da lei, è un insulto alla persona di cui il mio cuore si è innamorato il credere che le mie fantasie e il mìo stile amoroso ricopino mamma e papà, se non al livello collettivo, sociale della mappa.  

Per gli junghiani, mamma e papà sono proiezioni di Anima e Animus. Se anche li imitiamo e imitiamo il loro stile amoroso, non siamo fotocopie.  

Le fantasie abbelliscono la mappa, anzi diciamo pure che la disegnano. «L'amore romantico è inesorabilmente legato alle fantasie»: sono gli studi empirici sull'amore a sostenerlo. Essenziale per l'amore romantico è l'idealizzazione, non l'imitazione; non la replicazione del noto, bensì l'aspettativa dell'ignoto. Ci sono particolari dello stile relazionale dei genitori che mi vanno bene e allora li uso, altri che non vengono mai riprodotti, mentre i fattori che fanno girare la fantasia e scelgono i particolari adatti sono Anima e Animus. Sono le fantasie archetipiche a integrare le mappe che possiamo aver imparato da mamma e papà, e non il contrario.  

Dunque, riguardo alle similarità tra gemelli: possono esserci altre «cause» che non lo stile di famiglia. Per esempio, i gemelli potrebbero cercare di riprodurre il tipo di rapporto che hanno tra loro - quella stabilità, quell'amicizia, quella solidarietà pratica, l'inconscia intimità fisica dell'ovulo - e di trasferire su un compagno o una compagna quello che è stato fino a quel momento il loro stile di vita. Nell'utero ci si bacia e si fa a botte. La pura replicazione darà ai gemelli mappe amorose simili, ma oggetto della nostra ricerca non è tanto il motivo della loro similarità quanto della loro differenza di fronte alla mania amorosa, a quello stato di tormento e di disperato bisogno, di alti e bassi, di dipendenza ossessiva, da cui ci sembra che non riusciremo mai a guarire.  

Un altro motivo della differenza di stile amoroso tra gemelli è il bisogno di «uno specchio psicologico», fornito dall'amore romantico. Nello specchio della somiglianza vediamo soltanto la faccia del nostro gemello; nello specchio della mania amorosa vediamo qualcosa che è radicalmente altro, la faccia che non riusciamo a trovare, che non conosciamo e che sembra richiedere gli spasmi dell'amore romantico. Se l'identità monozigotica è tutta scritta nel nostro dna ed è rinforzata a ogni nostro respiro nell'ambiente condiviso, per fare emergere la differenza occorre una distorsione violenta.  

La mappa amorosa può spiegare le cose visibili, come i fianchi morbidi, le automobili e i cammelli, ma l'amore si innamora anche di «qualcos'altro», che è invisibile. Diciamo: «Lui/lei ha un non so che»; «Il mondo intero cambia, quando c'è lui/lei». Come pare abbia detto Flaubert: «Lei era il punto di luce sul quale convergeva la totalità delle cose».  

Questo sulla mappa non c'è. Qui ci troviamo nel territorio della trascendenza, dove le realtà normali sono meno convincenti delle cose invisibili. Se mai volessimo la prova lampante dell'esistenza del daimon che chiama, basta che ci innamoriamo una volta. Le fonti razionali dell'ereditarietà e dell'ambiente non sono abbastanza ricche da far scaturire il fiume in piena dello spasimo romantico. Lì ci sei tutto intero, in nessun'altra occasione ti senti altrettanto sopraffatto dall'importanza del tuo essere e dal destino; in nessun'altra occasione ogni tuo gesto si rivela più chiaramente ispirato da un demone.  

Questa ubriacatura di importanza personale ci fa capire che l'amore romantico «ha di fatto promosso la crescita dell'individualità». D'accordo con Susan e Clyde Hendrick, si potrebbe sostenere che il nostro senso della persona si sviluppa parallelamente allo spazio dato nella nostra cultura all'amore romantico, dalle prime manifestazioni nel romanzo cortese e nei trovatori e quindi nel Rinascimento. Gli ideali dell'individualismo e del destino individuale hanno raggiunto il culmine nell'Ottocento, insieme alle deliranti esagerazioni dell'amore romantico, sicché, come dicono questi autori, l'amore romantico potrebbe essere «concepito come una forza o un espediente per aiutare a creare o a potenziare il sé e l'individualità». Le teorie psicodinamiche devono situare la chiamata dell'amore dentro il « sé » personale. La mia teoria psico-daimonica immagina tale chiamata più fenomenologicamente, usando il linguaggio che l'amore stesso usa: mito, poesia, storie, canzoni; e questo situa la chiamata oltre il « sé», come se venisse da un essere divino o demoniaco.  

Ecco perché lo stile della mania amorosa rimane escluso dalle altre mappe dell'amore. La chiamata si cristallizza in quella persona la cui faccia ci chiama a ciò che ci sembra il nostro destino. Quella persona diventa una divinità esteriorizzata, padrona del mio fato, signora della mia anima, come dicono i romantici, demoniaca e angelica insieme, alla quale devo aggrapparmi, dalla quale non posso separarmi, non perché io sia troppo debole e fragile, ma perché lei, la chiamata, è troppo forte. E ovvio allora che sono tormentato, possessivo, dipendente, sofferente. Il daimon sta facendo a pezzi la mia mappa amorosa.  

I gemelli identici sceglieranno pure lo stesso dopobarba e lo stesso dentifricio, ma «la scelta più importante di tutte, quella del partner, sembra costituire un'eccezione». «L'infatuazione romantica ... si forma ...in modo quasi accidentale». «Il formarsi delle coppie umane è intrinsecamente aleatorio» conclude il comportamentismo, questa scienza. E si rifugia nel sorteggio statistico fortunato per spiegare la scelta più importante di tutte, perché la psicologia come scienza non osa immaginare ciò che non può misurare.  

Noi, però, possiamo leggere le ricerche più aggiornate come prove a conferma dell'autonomia del daimon. Il suo fuoco illumina precisamente il compagno o la compagna che ci vogliono per me, nel bene o nel male, a breve o a lungo termine, convincendomi che questa altra persona è l'unica e la sola e che questo evento è unico e irripetibile. Gli altri stili amorosi tracciati nelle ricerche (condivisione, cura, solidarietà, intimità libidica) sono meno selettivi, meno personali. Non si ostinano su questa particolare persona che incarna l'immagine che mi porto nel cuore. La mania amorosa vede ciò che è già contenuto nella ghianda prima di venire al mondo.  

Il filosofo spagnolo Ortega y Gasset dice che gli innamoramenti sono rari, se pensiamo a come è lunga la vita. L'innamoramento è un evento raro e fortuito, che colpisce a una profondità incredibile. Quando accade, accade esclusivamente per la singolarità dell'oggetto: quella persona non un'altra. Non gli attributi e le virtù, non la voce o i fianchi o il conto in banca, non proiezioni residue di precedenti fiamme o modelli familiari trasmessi da una generazione all'altra: semplicemente, l'unicità di questa persona che l'occhio del cuore ha veduto fra tante. Se manca quel senso di scelta fatale, il romanticismo non scatta. Perché questo tipo di amore non è un rapporto personale o una epistasi genica, ma più probabilmente un'eredità demonica, insieme dono e maledizione degli antenati invisibili.  

Un analogo senso del destino, anche se meno improvviso e meno ardente, e un'analoga devozione possono caratterizzare l'innamoramento per un luogo e addirittura per un lavoro, oltre che per una persona. Non riusciamo a lasciarlo, dobbiamo rimanerci finché l'esperienza non è chiusa, e celebriamo riti devozionali per tenerlo vivo. Si crea lo stesso incantesimo, mi viene la stessa sensazione di poter vivere con te per tutta la vita, e il mio « te » può essere una persona, un luogo, un lavoro. E c'è la stessa sensazione che qui sia chiamata in gioco non solo la mia vita, ma la mia morte.  

Morte è una parola troppo pesante e incompatibile per associarla alle intense vibrazioni dell'amore romantico; ma l'amore romantico più di tutti riverbera del senso dell'eterno e insieme della brevità e fragilità della vita, come se sulla passione romantica fossero sempre sospesi l'ombra e il respiro della morte, con il suo richiamo a un altrove che è «oltre» e senza confini. Si affrontano rischi pazzeschi. E quando la letteratura unisce gli amanti romantici, unisce anche il loro amore con la morte.  

L'occhio del cuore che «vede» è anche l'occhio della morte che vede al di là dell'apparenza visibile fino a un invisibile cuore. Michelangelo, quando scolpiva ritratti di personaggi del suo tempo o statue di figure della religione o del mito, cercava di vedere quella che chiamava r«immagine del cuor», una prefigurazione di quello che stava scolpendo, come se lo scalpello che intagliava la pietra seguisse l'occhio che penetrava il soggetto fino al cuore. Il ritratto mirava a rivelare l'anima inuma del suo soggetto.  

In ciascuno di noi è racchiusa un'immagine del cuore. E la autentica rivelazione si ha quando cadiamo in preda all'amore, perché allora siamo aperti a mostrare chi più autenticamente siamo, lasciando intravedere il genio della nostra anima. Dice la gente: «Sembra un altro: deve essere innamorato». «È innamorata: non sembra più lei». Quando l'amore smuove il cuore, si percepisce un qualcos'altro, nell'oggetto idoleggiato, che la lingua della poesia cerca di catturare. Michelangelo cercava di esprimere quell'immagine nella forma scolpita. Le categorie di natura e di cultura non arrivano fino al cuore né vedono attraverso il suo occhio. Perciò al nostro esame della genetica e dell'ambiente abbiamo dovuto aggiungere questa coda sull'amore.  

L'incontro tra amante ed essere amato avviene da cuore a cuore, come l'incontro tra scultore e modello, tra mano e pietra. È un incontro di immagini, uno scambio di immaginazioni. Quando ci innamoriamo, incominciamo a immaginare al modo romantico, veementemente, sfrenatamente, follemente, gelosamente, con intensità possessiva, paranoide. E quando immaginiamo intensamente, incominciamo a innamorarci delle immagini evocate davanti all'occhio del cuore: come quando iniziamo un progetto di lavoro, organizziamo una vacanza, prepariamo una nuova casa in un'altra città, portiamo avanti una gravidanza... l.e nostre immagini ci attirano sempre più totalmente dentro l'impresa avventata. Non riusciamo a venir via dal laboratorio, non smettiamo più di comperare altro equipaggiamento, di farci dare dépliant, di immaginare nomi. Siamo innamorati perché c'è l'immaginazione. Liberando l'immaginazione, perfino i gemelli identici si liberano della loro identicità. 

L'ambiente

Prima di abbandonare questo capitolo, dobbiamo ritornare sulla nostra particolare coppia di gemelli, Natura e Cultura, alias Ambiente. Poiché ambiente è il concetto che i due temi di fondo di questo capitolo, genetica e amore, usano per spiegare il terreno oscuro della differenza, non possiamo certo lasciarlo correre senza sottoporlo a esame. 

Il verbo desueto io environ, da cui il sostantivo environment («ambiente»), significa «circondare, includere, avviluppare»; letteralmente: «formare un cerchio attorno». Environment, il sostantivo, significa «un insieme di circostanze» (circum= «intorno»); il contesto, il complesso di condizioni fisiche e culturali che «circondano» la nostra persona e la nostra vita [cfr. l'italiano «ambiente», dal participio presente del latino ambire, lett. «andare (ire) intorno (amb-)»]. 

Le ricerche sui gemelli dividono l'ambiente in due tipi principali: condiviso e non condiviso. Avere un ambiente condiviso significa, in generale, essere stati allevati nella medesima famiglia ventiquattr'ore al giorno per un certo numero di anni, partecipando alle attività, ai valori, alle conversazioni, alle abitudini della famiglia; avere frequentato la stessa classe con gli stessi insegnanti; avere giocato nella stessa squadra scontrandosi con lo stesso allenatore. L'immagine dell'ambiente condiviso è, naturalmente, idealizzata e fa venire in mente quei film degli anni Cinquanta sulle famigliole americane middle class e bianche.  

L'espressione «ambiente non condiviso» fa riferimento alle esperienze vissute per conto proprio da ciascuno dei due gemelli. Il non condiviso dovrà per forza di cose includere gli eventi accidentali e le malattie, nonché sentimenti, sogni, pensieri e rapporti più strettamente privati e personali.  

È possibile tracciare una linea di demarcazione netta tra condiviso e non condiviso? Già l'ambiente condiviso vero e proprio è pieno zeppo di differenze: come la madre differenzia i due figli gemelli; come ciascuno dei due porta avanti la propria relazione con i genitori; differenze nelle cure ricevute durante l'ospedalizzazione postnatale (spesso necessaria nei parti gemellari); le sottili variazioni dello stato di salute durante i primi mesi, il lato occupato nella culla e nel lettino nonché al seno durante la poppata; e via elencando.  

Particolarmente importante è la differenza tra i due gemelli stessi nella loro relazione reciproca, che è governata dalla logica archetipica della complementarità (debole/forte, più sveglio/meno sveglio, primo/ultimo, estroverso/introverso, terrestre/celeste, mortale/immortale, ecc.). Inoltre i ricercatori hanno notato come tra gemelli che crescono in un ambiente condiviso competitivo si crei una rivalità che provoca in ciascuno dei due risposte individualizzate, non condivise.  

La rivalità non è soltanto un portato del carattere competitivo della nostra cultura. Riflette l'innata spinta degli «uguali» a differenziare la propria identità. Ciascuna persona cerca di essere un «ciascuno» in conformità con l'immagine del proprio cuore e la strada del proprio destino, a dispetto della genetica, a dispetto dell'ambiente. Ciascuna famiglia è un polo di similarità e insieme una forza centrifuga che spinge ciascun membro ad affermare in modo competitivo la propria differenza. Nel caso dei gemelli identici, l'attrazione verso la vicinanza è ciò che li spinge a staccarsi. Come i magneti: si attirano a un polo e all'altro si respingono. Noi preferiamo attribuire le differenze non soltanto alla rivalità e alla competitività, ma anche all'angelo che chiama ciascuno a un destino singolare.  

L'idea di ambiente merita però un'analisi più approfondita. L'ambiente non si ferma certo alle immagini della rete familiare, a uno scenario semplificato da sceneggiato televisivo, fatto di spiritosaggini e battibecchi più o meno uguali, di più o meno uguali spuntini tirati fuori dal frigo, di più o meno uguali ore di sonno. L'ambiente è anche i mobili e il giradischi, il gatto di casa e i vasi alla finestra. Si estende oltre le pareti domestiche al cortile e ai vicini, alle scene di strada, a ciò che viene prodotto in posti lontani migliaia di miglia e arriva attraverso la televisione, Internet e il walkman. Deve includere anche il supermercato, che inscatola ed espone il mondo: banane dall'Ecuador e pesce da Terranova - compresi i conservanti nelle banane e le tracce di mercurio passato dagli scarichi industriali alle cellule del pesce.  

Una volta aperto l'occhio ecologico, dove finisce l'ambiente, sia pure quello immediato, non condiviso, privato, individuale?  

Anzi, esiste davvero un «ambiente non condiviso»? Davvero io posso abbassare la saracinesca e avere un momento che è tutto mio, solo mio? Perfino il cuscino sul quale affondo il naso mentre fluttuo nel mio privatissimo sogno nel cuore della notte reca tracce di piuma d'oca, di poliestere e cotone, e degli ambienti in cui è stato fabbricato - nonché dell'andirivieni di parassiti che dividono il cuscino con me.  

Ormai mi sono convinto che il concetto di isolamento come giardino cintato non si riferisce ad alcuna realtà di fatto; è una fantasia necessaria per intensificare la comunicazione con esseri invisibili di cui percepiamo solo confusamente presagi e segni. L'idea di « non condiviso » fornisce un varco per entrare nel giardino dell'individualità. Abbiamo bisogno di quell'idea per confermarci il nostro personale senso di unicità e per sentire la sua chiamata.  

La categoria «ambiente non condiviso» è un'invenzione delle scienze « forti » per localizzare la causa delle differenze individuali. Viene usata per spiegare ciò che non può essere spiegato con le loro altre categorie, l'ereditarietà e l'ambiente condiviso. Ma l'idea di « non condiviso» poggia su un'immagine di spazio recintato, di un paesaggio privato che tocca me soltanto in quel modo particolare. L'unico possibile fenomeno non condiviso e non condivisibile, sempre presente a invadere la mia vita, è l'unicità del daimon e l'individualità della mia relazione con lui e di lui con me. Usando il linguaggio delle scienze comportamentali, travestendosi nelle circonlocuzioni dell'«ambiente non condiviso», il daimon si fa accettare come una determinante alla pari con natura e cultura. Come altro, infatti, potrebbe penetrare le porte blindate del laboratorio, se non con il linguaggio del laboratorio e usando la sua parola d'ordine: « non condiviso»?  

Non condiviso non significa isolato, perché dall'ambiente condiviso di questo pianeta non c'è via di uscita. Non si dà isolamento, ma unicità sì. E l'uno non è necessario all'altra.  

Non occorre essere sigillati, letteralmente, per essere diversi. La tua differenza da ogni altra persona, queill' «esperienza non condivisa», ha luogo a ogni istante dentro il condiviso, in virtù dell'unicità della tua identità individuale. La tua differenza non ha bisogno di mura a sua garanzia; la garanzia è stata data all'inizio dall'immagine che hai nel cuore e che ti accompagna lungo tutta la vita. Una fantasia di isolamento, tuttavia, può essere utile per prendersi cura del daimon. Perciò la gente partecipa a ritiri spirituali, va alla ricerca della visione, digiuna e si purifica, o, più semplicemente, rimane un paio di giorni a letto al buio per recuperare la propria particolare, non condivisa vocazione.  

I risultati degli studi genetici possono farci imboccare due (!) strade: una stretta e una larga. La strada stretta muove verso cause monogenetiche, semplicistiche. Il suo desiderio è di isolare pezzettini di tessuto da far corrispondere alla vasta complessità dei significati psichici. La follia di ridurre la mente al cervello sembra inestirpabile dalia scena occidentale. Non riusciamo a rinunciarvi, perché è alla base stessa della nostra mentalità razionalistica e positivistica. Il razionalista che abbiamo nella psiche vuole localizzare cause che si possano toccare con mano, per raddrizzarle.  

Le macchine forniscono il modello ideale per soddisfare questo bisogno. Le smonti, trovi i meccanismi più interni, poi metti a punto il loro funzionamento modificando qualche rotella, arricchendo la miscela, lubrificando i giunti. Henry Ford, il padre della salute mentale dell'America! Risultato: Ritalin, Prozac, Zolofit, e le decine di altri efficaci prodotti per aggiustarci dentro che ingurgitiamo in massa, due volte al dì. Alla fine, la logica semplificatoria delle cause monogenetiche sfocia nel controllo del comportamento con le droghe, vale a dire in un comportamento drogato.  

Robert Plomin, ai cui numerosi e penetranti scritti questo capitolo si è spesso richiamato, mette appassionatamente in guardia dall'usare la genetica in modo semplificatorio. Dice, per esempio: «Gli effetti del patrimonio genetico sul comportamento dipendono da una molteplicità di geni e non da uno solo, e sono di tipo probabilistico e non deterministico». Io ne traggo questo ammonimento alla psichiatria: Non fate capovolgere il vostro nobile vascello per il troppo peso dell'oro dell'industria farmaceutica, delle compagnie dì assicurazione e dei finanziamenti statali, e non orientate la bussola verso l'Isola di Chimera, dove la genetica definirà «malattia le entità psichiatriche». 

«Abbiamo appreso poco sulla genetica dello sviluppo [come agiscono e interagiscono i geni in un arco di tempo prolungato] , ma quanto basta per apprezzarne la complessità». Perciò non arriveremo mai alla desiderata equazione per cui a un singolo gene difettoso corrisponde un singolo quadro clinico (fatta eccezione per le vere anomalie, come la corea di Huntington).  

Questi avvertimenti lasciano il tempo che trovano: sono troppi i desideri che il pensiero semplificatorio esaudisce. Nel Mount Rushmore della mente sono scolpite le teste di Henry Ford e di Thomas Edison. Il mostro del meccanicismo rinasce in ogni secolo della storia occidentale moderna e ciascuna generazione deve stare all'erta, specialmente la nostra, oggi, quando sostenere l'esistenza di «qualcos'altro» oltre a natura e cultura significa credere nei fantasmi o nella magia.  

A partire dal razionalismo francese dei secoli XVII (Marin Mersenne, Nicolas de Malebranche) e XVIII (Etienne de Condillac, Julien Offroy de La Mettrie) giù giù fino al positivismo ottocentesco (Antoine Destutt de Tracy, Auguste Comte), i quali hanno ridotto tutti gli eventi mentali alla biologia, una porzione della mente occidentale è stata aggiogata come uno stolido bue al ponderoso carro del materialismo meccanicista francese. Sembra incredibile che un popolo dal gusto così fine e dalla sensibilità erotica così sottile come quello francese possa continuare all'infinito a fornire alla psicologia tutto quel rigor morlis razionalista. Ogni merce importata dalla Francia va ispezionata caso mai sia infetta da questo mal francese, nonostante le etichette alla moda, Lacanismo, Strutturalismo, Decostruttivismo, e così via.  

Oggi il razionalismo partecipa del generale processo di globalizzazione, è computer compatibile dovunque; è lo stile internazionale dell'architettura mentale. Non è possibile ricondurlo sotto una particolare bandiera, se non forse sotto gli stendardi delle multinazionali in grado di spendere un mare di quattrini per spingere la psichiatria, e a poco a poco il pensiero psicologico, e dunque il controllo dell'anima, verso il monoteismo genetico. Un gene, una malattia: ricopia il gene, insegnagli un nuovo trucco, agita bene e, oplà!, la malattia è scomparsa - o, almeno, non sai di averla. La strada stretta ci riporta agli anni Trenta e Quaranta della storia della psichiatria, anche se in maniera più sofisticata e con comunicati stampa più convincenti. Dagli anni Trenta fino agli anni Cinquanta, l'idea della correlazione tra specifiche zone cerebrali e vasti concetti emozionali e funzionali ha fornito una giustificazione teorica alla violenza della psicochirurgia e alla lobotomizzazione di tante anime sofferenti, a disagio nella propria situazione di vita. 

Anzi, la strada stretta è ancora più retrograda, risale allo studio della scatola cranica condotto dal dottor Franz Joseph Gali, professore di Medicina a Vienna dal 1796, ma trasferitosi a Parigi, dove, non occorre dirlo, fu molto apprezzato dai francesi. A lui dobbiamo le «prove sperimentali» che le bozze e i seni del cranio possono essere correlati con facoltà psicologiche (una dottrina poi chiamata frenologia). Come usa anche oggi, a quelle facoltà vennero dati nomi importanti, come memoria, giudizio, emotività, talento musicale e matematico, istinto criminale, e via dicendo. L'affinarsi delle metodiche non conduce necessariamente a un miglioramento della teoria; si sia nel 1796 o nel 1996, la molla è la stessa: localizzazione fisica e riduzione della psiche alla localizzazione. 

La via opposta alla riduzione della natura al semplicismo cerebrale consiste nell'espandere la nozione di cultura fino a un'idea di ambiente molto più comprensiva. Se ambiente significa, letteralmente, ciò che c'è intorno, allora si deve intendere tutto, ma proprio tutto, ciò che c'è intorno. Infatti la psiche inconscia sceglie in modo arbitrario tra le cose incontrate quotidianamente nell'ambiente. Informazioni minuscole e banali possono avere effetti psichici subliminali giganteschi, come mostrano i residui diurni nei nostri sogni. Perché diamine siamo andati a sognare proprio quella cosa lì? Gran parte della nostra giornata passa inosservata e non sarà mai più ricordata, ma ecco che la psiche pesca i rottami che galleggiano nell'ambiente e li consegna al sogno. Il sogno, l'impianto di riciclaggio dell'ambiente, trova nella spazzatura i valori dell'anima. Il sogno: un artista che si appropria di immagini presenti nell'ambiente per richiamarle alla memoria più tardi, in pace.  

Poiché lo spazio in cui ci aggiriamo è fatto di realtà psichiche che influiscono sulla nostra vita, dovremo ampliare la nozione di ambiente nel senso di una «ecologia del profondo», partendo dall'ipotesi che il nostro pianeta sia un organismo vivente, che respira e si autoregola. Poiché qualunque cosa abbiamo intorno può nutrire la nostra anima in quanto alimenta l'immaginazione, là fuori è pieno di materia animica. E allora perché non ammettere, con l'ecologia del profondo, che l'ambiente stesso è intriso di anima, animato, inestricabilmente fuso con noi e non già sostanzialmente separato da noi?  

La visione ecologica restituisce all'ambiente anche l'idea classica di providentia: l'idea che il mondo provvede a noi, bada a noi, ci accudisce perfino. E ci vuole vedere intorno. Predatori, tornado, tafani in giugno sono soltanto frammenti del quadro. Provate a pensare a quante cose buone e profumate ci sono, invece. Credete che gli uccelli cantino solo per gli altri uccelli? Questo pianeta, respirabile, commestibile, bello e piacevole, rifornito e tenuto in ordine invisibilmente, ci mantiene tutti quanti grazie al suo sistema di sostegno alla vita. Questa sì è cultura.  

L'«ambiente», allora, sarebbe immaginato, ben al di là delle condizioni sociali ed economiche, al di là di tutto l'impianto culturale, come comprendente ciascuna piccola cosa che si prende cura di noi ogni giorno: i nostri pneumatici e le tazze di caffè e le maniglie delle porte e il libro che ho in mano. Diventa impossibile escludere come irrilevante questo pezzetto di ambiente a favore di quell'altro che invece avrebbe senso, come se si potessero disporre in ordine di importanza i fenomeni del mondo. Di importanza per chi? Anzi, dovrà cambiare la nostra stessa nozione di importanza; invece di «importante per me», penseremo: «importante per altri aspetd dell'ambiente». Ci domanderemo: Questa cosa fornisce nutrimento ad altre cose che ci sono intorno o soltanto a me che sono intorno? Dà un suo contributo alle intenzioni del campo di cui io sono soltanto una piccola, effimera parte?  

Via via che si trasforma la nozione di ambiente, anche il nostro modo di vedere l'ambiente cambia. Diventa sempre più difficile dividere con un taglio netto psiche e mondo, soggetto e oggetto, qui dentro e là fuori. Non so più con certezza se la psiche è dentro di me o se io sono nella psiche come sono nei miei sogni, nelle atmosfere del paesaggio e nelle strade della città, come sono nella «musica sentita così intimamente/ da non sentirla affatto, ma finché essa dura, / tu sei la musica». Dove finisce l'ambiente e dove incomincio io, e anzi come posso cominciare, senza essere in un qualche luogo, coinvolto ìntimamente e nutrito dalla natura del mondo?