CRESCERE, CIOÈ DISCENDERE

La scala che sale al cielo come simbolo di progresso spirituale ha una antica origine. Ebrei, greci e cristiani hanno tutti assegnato uno speciale valore a ciò che sta sopra, e la moralità occidentale, la cui bussola è fortemente attratta dallo spirito, tende a situare tutte le cose migliori in alto e le peggiori in basso. Con l'Ottocento, la crescita poteva dirsi definitivamente irretita in questa fantasia ascensionale. La teoria di Darwin per cui l'uomo « discende » dalla scimmia è diventata, nella nostra testa, l'«ascesa» dell'uomo. Ogni povero emigrante poteva salire nella scala sociale così come i palazzi con i loro ascensori salivano ai piani più alti, e più costosi. La lavorazione industriale di materie prime del sottosuolo (carbone, ferro, rame, petrolio) faceva salire il valore economico delle materie stesse, nonché il potere economico di chi le possedeva, semplicemente con lo spostamento da sotto a sopra. E oggi, l'idea della crescita verso l'alto è ormai diventata un luogo comune biografico. Essere adulti è essere grandi, avere raggiunto l'altezza definitiva. Questo, però, è solo uno dei modi in cui si può parlare della maturità, il modo eroico. Le piante infatti, dalla piantina di pomodoro all'albero più elevato, mentre si innalzano verso la luce, affondano e ramificano sempre più le loro radici. Ciò nonostante, le metafore che usiamo per le nostre vite vedono quasi esclusivamente la parte aerea della crescita dell'organismo.

Sorge il dubbio che nel modello ascensionale ci sia qualche importante omissione. Di norma, veniamo al mondo con la testa in avanti, come se ci tuffassimo nello stagno dell'umanità. E nella testa c'è un punto molle, attraverso il quale, secondo la tradizione del simbolismo del corpo, l'anima del neonato continua a ricevere l'influsso delle sue origini. Il lento processo di chiusura della fontanella, il suo indurirsi in un cranio ermeticamente sigillato, segna la separazione da un invisibile aldilà e il definitivo arrivo quaggiù. Ci vuole un po' a discendere. E un bel pezzo di vita prima di reggersi in piedi.

L'enorme difficoltà che il bambino piccolo mostra nel calarsi nel mondo, la forza con la quale si aggrappa al nostro dito, la sua paura, la fatica di adattarsi, il suo spaesamento di fronte alle piccole cose della terra ci dimostrano quotidianamente come sia difficile crescere, cioè discendere. La pedagogia giapponese prevede la presenza costante della madre o di chi per essa: il bambino va tenuto appresso, accompagnato dentro la comunità degli uomini, tanto viene di lontano.

Sistemi simbolici come il ciclo zodiacale, nell'astrologia occidentale come in quella cinese, partono dalla testa; il segno più raffinato, più sottile viene per ultimo ed è, rispettivamente, quello dei Pesci e quello del Maiale, il cui luogo simbolico nel corpo umano corrisponde ai piedi. I piedi, si direbbe, arrivano per ultimi. E sono i primi ad andarsene, se seguiamo, per esempio, la lenta morte di Socrate. Il veleno della cicuta incominciò ad agire dai piedi, togliendo loro sensibilità e calore, come se Socrate venisse tirato per i piedi via da questo mondo. Riuscire a stare con i piedi per terra: è la conquista ultima, una fase evolutiva molto più tarda rispetto a qualcosa che ha avuto origine nella testa. Non stupisce che i devoti di Buddha nello Sri Lanka venerino le impronte dei suoi piedi: sono la prova che egli è stato davvero sulla terra, che davvero vi è disceso e cresciuto.

Il Buddha aveva iniziato presto a scendere nella vita, abbandonando i giardini protetti del palazzo paterno per la strada, dove i malati, i morti, i poveri, i vecchi richiamarono la sua anima alla domanda di fondo: come vivere la vita sulla terra.

Le storie ben note di Socrate e di Buddha e le immagini dell'astrologia imprimono un'altra direzione e conferiscono un altro valore al «giù». Noi di solito lo usiamo in locuzioni come «giù di corda», «sentirsi giù». Quando è pressata a salire da considerazioni di carriera, l'anima non può che trascinarsi gravata da dubbi e da ripensamenti, se non da sintomi. Quanti ragazzi promettenti, all'università, scoprono all'improvviso che il loro motore va giù di giri, non ce la fanno a tenersi nella corsia veloce, vogliono scendere. Oppure l'alcol, la droga, la depressione si insediano come le Furie. Finché la cultura non riconoscerà che crescere è discendere, tutti i suoi membri si troveranno ad annaspare alla cieca per dare un senso agli obnubilamenti e alle disperazioni di cui l'anima ha bisogno per penetrare nello spessore della vita.

Le immagini organiche della crescita si rifanno al sìmbolo preferito della vita umana, l'albero, ma io voglio capovolgere quell'albero. Il mio modello di crescita ha le radici nel cielo e immagina una graduale discesa verso le cose umane. Tale è l'albero della qabbalah della tradizione mistica ebraica e anche cristiana.

Lo Zohar, il testo canonico della letteratura qabbalistica, dice chiaramente che la discesa è dura; l'anima è restia a discendere e a contaminarsi col mondo.

«Al tempo in cui il Santo, sia benedetto il suo nome, era in procinto di creare il mondo, decise di foggiare tutte le anime da assegnare, a tempo debito, ai figli degli uomini, e ciascuna anima era formata secondo i contorni esatti del corpo che era destinata ad abitare ... Ecco, ora va', scendi nel tale luogo, entra nel tale corpo.

«Ma il più delle volte l'anima obiettava: Signore del mondo, a me piace restare qui in questo regno, e non ho alcun desiderio di andarmene in un altro, dove sarò schiava e verrò contaminata.

«Al che il Santo, sia benedetto il suo nome, rispondeva: Il tuo destino è, ed è sempre stato fin dal giorno in cui tu fosti formata, quello di andare in quel mondo. «Allora l'anima, vedendo che non poteva disubbidire, suo malgrado scendeva in questo mondo».

L'albero qabbalistico, nella forma elaborata in Spagna nel XIII secolo, vede i rami discendenti come le condizioni di vita dell'anima, vita che si fa più manifesta e visibile via via che l'anima discende. Secondo la recente interpretazione psicologica avanzata da Charles Ponce, tuttavia, più in basso arriva l'anima, più ci riesce difficile afferrare il significato delie sue manifestazioni. Le sfere e i simboli superiori sarebbero meno occulti di quelli relativi ai mondo; «le gambe rimangono un enigma». È facile vedere le conseguenze sul piano etico di questa immagine capovolta: l'immergersi dell'individuo nel mondo testimonia della discesa dello spirito. La virtù consisterebbe nel rivolgersi verso il basso, come nell'umiltà, nella carità, nell'insegnare, nel non essere superbi.

L'albero della qabbalah riprende due dei più durevoli miti della creazione della civiltà occidentale, quello biblico e quello platonico. Dice la Bibbia che Dio impiegò sette giorni a creare tutto l'universo. Il primo giorno, come sappiamo, Dio affronta le grandi astrazioni e le operazioni più elevate, come separare la luce dalle tenebre, la prima modalità di orientamento. L'opera prosegue giù giù fino al quinto e al sesto giorno; soltanto allora si arriva alla molteplicità degli animali e infine all'uomo. La creazione procede all'ingiù, dal trascendente al brulicante qui dell'immanenza.

Il racconto platonico della discesa è il mito di Er, che riassumo qui dall'ultimo libro della Repubblica.

Le anime, che provengono da vite precedenti e soggiornano in una sorta di aldilà, hanno ciascuna un destino da compiere, una parte assegnata (moira), che corrisponde in un certo senso al carattere di quell'anima. Per esempio, racconta il mito, l'anima di Aiace Telamonio, il valoroso e irruente guerriero, scelse la vita di un leone, mentre quella di Atalanta, la vergine famosa per la velocità nella corsa, scelse il destino di un atleta e un'altra anima quello di un abile artigiano. L'anima di Ulisse, memore delle prove e dei travagli patiti, «e guarita di ogni ambizione, andò a lungo in giro alla ricerca di una vita di uomo solitario senza occupazione, e la trovò a stento, gettata in un canto e negletta dagli altri...

«Quando tutte le anime si erano scelte la vita, secondo che era loro toccato, si presentavano davanti a Lachesi [lachos, "parte, porzione di destino"]. A ciascuna ella dava come compagno il genio [daimon] che quella si era assunto, perché le facesse da guardiano durante la vita e adempisse il destino da lei scelto». Il daimon conduce l'anima dalla seconda delle personificazioni del destino, Cloto [klotko, «filare, volgere il fuso»]. « Sotto la sua mano e il volgere del suo fuso, il destino [moira] prescelto è ratificato». (Gli viene impresso il suo particolare effetto?). «... quindi il genio [daimon] conduceva l'anima alla filatura di Atropo [atropos, "che non si può volgere all'indietro, irreversibile"], per rendere irreversibile la trama del suo destino.

«Di lì, senza voltarsi, l'anima passava ai piedi del trono di Necessità» (Ananke), o, come traducono alcuni, «del grembo» di Necessità.

Dal testo non risulta chiaro in che cosa consista esattamente il kleros lasciato cadere ai piedi delle anime affinché ciascuna scelga il proprio. Il termine kleros può avere tre significati strettamente connessi: a) pezzo di terra, come il nostro lotto di terreno e, per estensione, b) lo spazio, la parte assegnata nell'ordine generale delle cose e c) eredità, ciò che per diritto ci viene in quanto eredi.

Io interpreto i kleroi del mito come immagini. Poiché ciascuno di essi è particolare e compendia lo stile di tutto un destino, l'anima percepirà intuitivamente un'immagine che abbraccia l'insieme di una vita tutto in una volta. E sceglierà l'immagine che la attrae; «Ecco quella che voglio, che è la mia giusta eredità». La mia anima sceglie l'immagine che io vivo.

Il testo platonico chiama questa immagine della vita paradeigma, «modello», come viene di solito tradotto. Dunque quella che ricevo è l'immagine che è la mia eredità, la porzione assegnatami nell'ordine del mondo, il mio posto sulla terra, condensata in un modello che è stato scelto dalla mia anima o, per meglio dire, che viene sempre, di continuo, scelto dalla mia anima, perché nelle equazioni del mito il tempo non entra. («Il mito» scrive Sallustio, il filosofo latino del paganesimo, «non è mai accaduto, ma è sempre»). La psicologia antica localizzava l'anima nella regione del cuore, dunque il nostro cuore custodisce l'immagine del nostro destino e ci chiama a esso.

Per dipanare quell'immagine occorre tutta la vita. Se pure è percepita tutta in una volta, la si comprende solo lentamente. Sicché l'anima possiede un'immagine del proprio destino, che il tempo può rendere manifesta soltanto come « futuro ». Che « futuro » sia dunque un altro nome per indicare il destino, e le nostre preoccupazioni circa «il futuro» fantasie del destino?

Prima di fare il loro ingresso nella vita umana, però, le anime attraversano la pianura del Lete (oblio, dimenticanza), sicché al loro arrivo sulla terra tutto ciò che è accaduto - la scelta delle vite e la discesa dal grembo di Necessità - viene cancellato. È in questa condizione di tabula rasa che noi veniamo al mondo. Abbiamo dimenticato tutta la storia, anche se rimane con noi il modello ineludibile e necessario del nostro destino e anche se il nostro compagno, il daimon, ricorda.

Plotino, il più grande dei filosofi del neoplatonismo, così sintetizza il mito platonico: «Il fatto di venire al mondo, di entrare in questo corpo particolare, di nascere da questi genitori e nel tal luogo, e in generale ciò che chiamiamo le condizioni esteriori della nostra vita ... tutti gli eventi formano una unità e sono per così dire intessuti assieme». Ciascuna anima è guidata da un daimon a quel particolare corpo e luogo, a quei dati genitori e condizioni di vita, per la forza di Necessità; ma noi non abbiamo il minimo sentore di tutto questo, perché il suo ricordo è stato cancellato nella pianura dell'oblio.

Secondo un'altra leggenda ebraica, la prova che abbiamo dimenticato la scelta prenatale dell'anima la portiamo impressa sul nostro labbro superiore: il piccolo incavo sotto il naso è l'impronta dell'indice che l'angelo ci ha premuto sulle labbra per sigillarle, tutto ciò che resta a rammentarci il pregresso sodalizio dell'anima con il daimon, ed è per questo che, quando inseguiamo un'intuizione o un pensiero che sfugge, ci portiamo automaticamente il dito a quella significativa scannellatura.

Immagini come queste ci colmano la mente di bellissime congetture, come hanno fatto per secoli. Perché il passaggio davanti alla dea Necessità? e perché Dio si sofferma un intero giorno su mostri marini ed esseri striscianti, prima di por mente al genere umano? Siamo i migliori proprio perché gli ultimi? O siamo insignificanti, un ripensamento?

I miti cosmogonici ci situano nel mondo, ci coinvolgono nel mondo. Le cosmogonie moderne (big bang e buchi neri, antimateria e spazio curvo in continua espansione senza meta) ci lasciano nel terrore e nell'incomprensibilità priva di senso. Solo eventi casuali, niente davvero necessario. Le cosmogonie della scienza non parlano dell'anima e dunque non parlano all'anima, non le dicono nulla sulle ragioni della sua esistenza, come sia posta in essere, e quale sia la sua destinazione e quali i compiti da adempiere. Le entità invisibili, che (noi questo sentiamo) intrecciano la nostra vita con qualcosa che va oltre la nostra vita, la scienza le ha rarefatte nell'invisibilità letterale di remote galassie o di onde. Non si possono conoscere né percepire perché la loro misura è il tempo e le nostre vite non sono che nanosecondi nell'immenso arazzo del mito della scienza. Che scopo possono avere?

Le entità invisibili dell'universo fisico non possono essere conosciute né percepite, ma solo calcolate, perché sono lontane anni luce e perché sono, per definizione, indeterminate. A questo proposito, vale la pena osservare come nella filosofia greca l'indeterminato, l'infinito (apeiron), sia generalmente considerato pura negatività, fondamento del male. Affidare alle scienze fisiche la spiegazione delle origini e delle ragioni ultime della nostra esistenza potrebbe non essere la strada giusta. Qualsiasi cosmogonia che parta con il piede sbagliato non soltanto produrrà spiegazioni zoppicanti, potrebbe anche mutilare il nostro amore per la vita. Il mito della creazione di esseri casuali in uno spazio inimmaginabile mantiene l'anima occidentale sospesa in una stratosfera dove essa non può respirare. Non sorprende che continuiamo a rivolgerci ad altri miti, come quello platonico di Er, il libro della Genesi, l'albero della qabbalah, i quali ci offrono racconti molto simili della realtà delle cose. Essi pongono nei miti il nostro fondamento e i miti si aprono giù giù fino alla nostra anima individuale. In questo senso, Platone dice della sua «favola»: «Potrà salvare anche noi, se le crediamo».

Le luci della ribalta i: Judy Garland

La discesa nel mondo può essere dolorosa e avere un alto prezzo. Soprattutto per la famiglia. Il prezzo della vocazione è spesso pagato dall'ambiente in cui si è impiantata la ghianda: il corpo, la famiglia e le persone direttamente coinvolte nella vita della vocazione, come mariti e mogli, figli e amici, collaboratori e mentori. Sovente le esigenze della vocazione scompaginano senza riguardi le norme comuni di una vita ben vissuta.

A essere chiamate non sono soltanto le persone eminenti. Chi, qualsiasi lavoro faccia, non si è mai sentito incalzato a farsi carico di troppe cose, a pretendere troppo da sé? È di tutti l'angustia di non avere fatto abbastanza: potevamo preparare un contorno in più per il pranzo di Natale, fare una mezz'ora in più di esercizi al pianoforte o di ginnastica. Smania di perfezione è un altro nome che viene dato alla chiamata dell'angelo. La voce che ammonisce dice solo una parte del messaggio del daimon. Un'altra parte richiama all'ideale. Le accuse che si muovono allo stress della vita moderna, ai soldi che non bastano mai, alle ingiunzioni del Super-io, alle scadenze che ti soffocano servono a ridimensionare la natura archetìpica e le implacabili pretese dell'angelo, che non è umano e non conosce la fatica. Benché dunque tutti di tanto in tanto ci sentiamo incalzati dalla vocazione, è nella vita esagerata delle celebrità che sono più evidenti e meglio documentate le sue pretese.

Ricchezze e plauso non riescono mai a colmare lo scarto; divi e dive sembrano sempre profughi, sempre bisognosi, alienati, perseguitati da una tragedia non detta di cui sono incolpati di volta in volta i genitori o i tradimenti amorosi, le malattie o i ritmi disumani loro imposti Ma la colpa è dell'angelo, della difficoltà del non umano che cerca di discendere nell'umano. Le storie di droga che interrompono una carriera, i tentati suicidi e le morti precoci potrebbero dipendere dall'incommensurabilità esistente tra vocazione e vita. In un mondo minuziosamente calibrato di convenzioni umane, come possono vivere le esigenze non umane di ciò che sono chiamato a fare?

Per illustrare quanto sia difficile crescere, cioè discendere, voglio giustapporre le storie di due tra i talenti più eccezionali, a detta di tutti, del mondo dello spettacolo. Incominciamo con Judy Garland, al secolo Frances Gumm di Grand Rapids, Minnesota, venuta nel nostro mondo il 10 giugno del 1922 per il tramite di una famiglia di artisti di teatro, che la lanciò praticamente appena fu in grado di camminare. La sua vocazione si annunciò quando Frances aveva due anni e mezzo. Le fecero fare un numero insieme alle due sorelle maggiori; poi lei intonò, da sola, Jingle Bells, tra l'entusiasmo della platea, che non smetteva più di richiamarla in scena; e «Baby» Gumm rispondeva cantando e suonando i suoi campanellini sempre più forte, finché il padre la dovette portare via di peso. Contatto immediato con il pubblico. Che la adorò immediatamente.

«Baby» Gumm aveva avuto modo di vedere il numero delle Blue Sisters, tre sorelline tra i dodici e i cinque anni: «Quando la più piccola delle Blue Sisters incominciò a cantare ... Frances rimase incollata alla sedia come trasfigurata. Finito Io spettacolo, si voltò verso nostro padre e, me lo ricorderò finché campo, disse: "Papà, posso farlo anch'io?"». Osserva la sorella Virginia: «... nella sua testa di bambina di due anni, sapeva già esattamente quello che voleva».

Judy Garland era convinca che la sua vocazione fosse ereditaria: «Nessuno mi ha mai insegnato che cosa dovevo fare in scena ... Facevo "quello che più mi veniva naturale"». A proposito della sua prima esibizione, con Jingle Bells, lei stessa disse che salire su quel palco era stato come «prendere millenovecento pasticche». La Garland dello Hollywood Bowl e della Carnegie Hall era già presente nella «Baby» Gumm di due anni e mezzo.

La spiegazione che Judy Garland dà del proprio talento come «ereditario» non significa tanto, letteralmente, genetico (come vedremo nel capitolo VI), quanto innato, che viene «naturale», come il daimon che chiama. Mille padri intriganti non potrebbero produrre un solo Mozart e neppure la più arrivista delle madri del mondo riuscirebbe a lanciare una sola Judy Garland. Io tenderei piuttosto ad attribuire l'incredibile magnetismo di Frances Gumm, età due anni e mezzo, al dischiudersi sotto le luci della ribalta della ghianda di Judy Garland, che, per iniziare la sua vita sulla terra, aveva scelto precisamente quella famiglia di artisti e quella situazione.

Ma la vita della ghianda non mancò di esigere il suo tributo da Frances Gumm. La discesa seguì una strada sofferta, anche se la portò alle «stelle». I più grandi nomi dello spettacolo, tutti coloro che ebbero modo di cantare, danzare, fare film con lei, e anche i critici, le tributarono un'ammirazione sconfinata. Il pubblico che nel 1961 accorse alla Carnegie Hall ad applaudire il suo recital, due ore e mezzo in scena, comprendeva personaggi del calibro di Richard Burton, Léonard Bernstein, Carol Channing,Jason Robards,Julie Andrews, Spencer Tracy, Anthony Perkins, Mike Nichols, Merv Griffin. I suoi dischi potevano vendere più di quelli di Elvis Presley; ci fu un doppio album, piuttosto costoso, che rimase nella classifica dei quaranta dischi più venduti per la bellezza di settantatré settimane. Non bastavano i superlativi per definirla. «La più grande artista che sia mai esistita e probabilmente che mai esisterà» (Fred Astaire); «L'artista più dotata che abbia mai conosciuto» (Bing Crosby); «La più brava artista a tutto tondo che abbiamo mai avuto in America» (Gene Kelly). Elia Kazan, parlando di grandezza sulla scena, elenca Caruso e Callas, Raimu e Garbo e «Judy Garland alla fine della vita». «Per tutta la vita» disse di sé Judy Garland «ho fatto tutto all'eccesso».

Ma sotto di lei era spalancata la fossa dei serpenti: corse in ambulanza al pronto soccorso, lavande gastriche, ricatto, gola tagliata con cocci di vetro, isteria prima dello spettacolo, scenate in pubblico, assunzione di psicofarmaci, brutte sbornie, sesso indiscriminato, rescissione di contratti, sfratti, disperazione nera, terrori paralizzanti. La parte che voleva discendere era soggetta all'invecchiamento, al corpo, ai grovigli senza uscita, alla morte.

Durante la crisi sociale e l'idealismo democratico degli anni Trenta e Quaranta - la Grande Depressione, il New Deal, lo sforzo bellico -, Judy Garland era a Hollywood. Partecipò, questo sì, alla vita della nazione; ma la discesa nella vita? Il suo contributo alla macchina bellica americana consistette nel fornire in continuazione la droga antidepressiva più apprezzata e irrinunciabile, senza la quale l'America non poteva combattere, produrre, arrivare a sera: il mito dell'innocenza, la psicologia della negazione. Sicché Judy, andando a tenere spettacoli nelle basi oltremare per finanziare i prestiti di guerra, non dovette neppure uscire dal personaggio né abbandonare il «modello» prescelto. La sua immagine appesa nelle camerate e sulle portaerei e custodita nel portafogli dei caduti - « la mia ragazza che mi aspetta a casa » - ostacolava la discesa. Benché la sua immagine proiettasse il percorso che aveva condotto Frances Gumm dalla scuola media di una cittadina di provincia fino a Hollywood, Judy Garland non trovò nella sua vita una Strada di Mattoni Gialli che la portasse nel mondo. Le sue giornate si consumarono incidendo dischi, girando film come Incontriamoci a St. Louis, spuntando contratti; e andando a pezzi.

L'occasione per crescere, cioè discendere, le fu offerta dalla partecipazione a due film in particolare: L'ora di New York (1945) e Vincitori e vinti (1961). Qui si vede anche quanto la discesa le riuscisse difficile. In L'ora di New Yorck, Judy Garland interpretava il personaggio di una piccola impiegata qualunque, che conosce e sposa un soldato in licenza a New York per un giorno. In Vincitori e vinti, recitava la parte, piccola ma intensa e drammatica, di una donnetta del popolo che era stata legata da affetto e amicizia a un ebreo. Questi due film le offrirono la possibilità di uscire dalla ragazzina magica e toccata dalla polvere di stelle, da Dorothy e Little Nelly Kelly. Ma rimasero un'eccezione, Judy Garland non accettava volentieri questo tipo di parti. Il terreno della sua ghianda era nel regno di Oz, era «Somewhere, over the rainbow», oltre l'arcobaleno. Fino all'ultimo, quando saliva sul palco gonfia, barcollante, incerta, confusa, terrorizzata, era quella canzone dal Mago di Oz che incantava le platee, trascinando l'artista e il suo pubblico verso l'alto.

Il critico Clifton Fadiman ha saputo scorgere, nel cuore della Garland, l'immagine essenziale, l'innato «eccesso», il daimon senza età, senza genere, incorporeo e immortale:

« Non smettevamo mai di richiamarla sul palco, non come un'artista che avesse fatto un bello spettacolo, ma come qualcuno che ci avesse offerto la salvezza.

« Mentre ascoltavamo la sua voce ... mentre la contemplavamo nel suo costume sbrindellato di vagabonda ... ci scordavamo (e questa è la cartina di tornasole) chi era, anzi chi eravamo noi. Come tutti i bravi clown (e Judy Garland è una bravissima clown oltre che una bravissima cantante), non era più né maschio né femmina, né giovane né vecchia, né bella né brutta. Il suo non è fascino, è pura magia. Dava voce a pochi, semplici, comuni sentimenti, in modo così puro che li sentivi aleggiare nel buio della platea, disincarnati, come se non appartenessero a una particolare persona».

Per farci una ragione della tragedia della sua vita, di solito accusiamo «Hollywood» e la tensione imposta dal suo sistema di agenti, studiosa realtà fasulle. Sembra che basti questo a spiegare come una stella così dotata, che «ha avuto tutto», sia potuta «cadere tanto in basso».

Io vedrei piuttosto queste cadute come tentativi abortiti di discendere, cioè di crescere. È come se il mondo che Judy Garland non riuscì mai a raggiungere continuasse ad attirarla giù usando i suoi soliti strumenti: sesso e denaro, spacciatori e amanti, speculazioni in borsa e contratti, matrimoni e divorzi. Giù giù, fino alla citazione in un processo per omicidio e alla scena finale della morte, in un gabinetto, nella notte tra il 21 e il 22 giugno, al culmine del ciclo solare, nel momento di massima luce, nella notte più corta dell'anno.

Mentre la maggior parte della gente non ce la fa a «sfondare» come ha fatto lei, e sogna per tutta la vita di diventare una stella o almeno di poterne toccare una una volta, nel caso di Judy Garland colpisce il contrario. Avrebbe voluto fare parte del mondo normale, con un marito, dei figli (ne ebbe tre, ma passati i quarantanni si trovò a constatare con rammarico: «Mi sa che ormai è troppo tardi per avere un altro bambino»), con veri amici e non soltanto ammiratori. Ma l'energia vitale non le veniva da queste cose normali, bensì dalla forza spietata della sua vocazione, che si opponeva alle cose normali.

La contraddizione che tante donne di oggi vivono tra casa e lavoro, famiglia e carriera assume nel suo caso la dimensione archetipica della croce, impedendo alla sua vocazione di crescere dentro la vita. Incapace di acquietarsi nella piatta orizzontalità del mondo quotidiano, la direzione verticale poteva solo tendersi tra le pene dell'inferno e le meraviglie del paradiso. La stella di Judy Garland in realtà non è mai nata. Hollywood ha esaltato la sua vocazione, esigendo che la sua vita si adeguasse interamente alla ghianda ultraterrena, alla quale Hollywood fa da agente collettivo. La vita sarebbe andata avanti da sola. Ma Frances Gumm non era capace di badare a una casa, a un marito, non era capace di allevare figli, di cucinare, di fare alcunché con le mani. Nemmeno di scegliersi i vestiti giusti. Disse al suo funerale James Mason, che aveva interpretato con lei È nata una stella: «Era così generosa di sé ... che aveva bisogno di essere ripagata, aveva bisogno di devozione e di amore quali nessuno di noi poteva umanamente darle». Una richiesta umanamente impossibile: così appare il bisogno di umano da parte del non umano.

Judy Garland spiegava in questa maniera il nodo creato dalla sua ghianda: «Forse è perché io avevo da dare una musica, una musica che sembra appartenere al mondo. Ma appartiene anche a me, perché è da me che viene fuori». Questo ci riporta a un principio generale: l'immagine del cuore richiede uno sforzo di attaccamento a una qualche àncora, non importa quale: la lealtà degli amici, la stabilità dei contratti, la certezza della salute, le scadenze giornaliere, i dati geografici. Proprio perché l'immagine del cuore, come la musicalità di Judy Garland, «sembra appartenere al mondo» e si manifesta come un dono invisibile, non ci sarà mai abbastanza mondo dove essa possa affondare le sue radici. Come mai le stelle «cadono tanto in basso», e diventano manichini dalla faccia rifatta, alcolizzati sessualmente deviami, paranoici religiosi? Non sono forse, questi, disperati tentativi di toccare terra? Ogni sintomo è un compromesso, come aveva visto bene Freud. I sintomi sono indirizzati verso il fine giusto, solo che per realizzarlo usano i mezzi sbagliati. Le vette cercano gli abissi; vogliono scendere, non importa come: con il suicidio, accettando contratti rovinosi, con la bancarotta, con i grovigli emotivi più disastrosi. Niente attcrraggi morbidi. «Le vie di mezzo non erano fatte per lei » disse la figlia di Judy Garland, Liza Minnelli, al suo funerale.

Solitudine ed esilio

La storia di Judy Garland parla di solitudine in mezzo alla folla plaudente. Che ragione ci diamo della solitudine che accompagna ogni vita? La solitudine non è solo dei divi nelle grandi ville di Hollywood, né riguarda soltanto i vecchi nelle case di riposo. La solitudine appartiene anche all'infanzia. Il senso di solitudine nel cuore di un bambino può essere aggravato dalla paura del buio, dai castighi dei genitori, dal rifiuto dei compagni. La sua fonte, tuttavia, sembra essere la solitaria unicità del daimon, è una solitudine archetipica inesprimibile con il vocabolario di un bambino e a stento perfino con il nostro.

I momenti di sconforto ci precipitano in un pozzo di solitudine. La solitudine ci sommerge come un'onda dopo i traumi del parto, del divorzio, della morte del compagno o della compagna della nostra vita. L'anima si ritrae, piange da sola. Fitte di solitudine accompagnano perfino l'allegria di una festa di compleanno e il trionfo di un successo ottenuto. Sono solo i postumi di una sbornia, la caduta che compensa l'aver raggiunto altezze inconsuete? Niente sembra proteggere dalla caduta. La fitta rete che abbiamo intessuto nell'espanderci verso l'esterno e nel mettere radici - familiari, amici, vicini, amanti, piccole abitudini, i risultati di anni di lavoro - sembra non contare nulla. Ci sentiamo incomprensibilmente spersonalizzati, distanti. Esiliati. Senza più legami. Lo spirito della solitudine domina su tutto.

Per difenderci da questi momenti abbiamo teorie che li spiegano e farmaci che li negano. Le teorie dicono che lo sradicamento e i ritmi affannosi della vita urbana odierna, insieme a un lavoro sempre più alienante, hanno creato una condizione di anomia sociale. Siamo isolati a causa della società industriale capitalistica. Siamo diventati semplici numeri. C'è il consumismo invece del senso comunitario. La solitudine è sintomatica di un'oppressione: siamo oppressi da un modo di vivere sbagliato. Non dovremmo sentirci soli. Basta cambiare il sistema: vivere in una comune, lavorare in gruppo. O costruire rapporti. Devi socializzare, entrare in un gruppo di auto-qualcosa, partecipare. Attaccati al telefono. Oppure, chiedi al tuo medico che ti prescriva del Prozac.

La spiegazione della teologia morale va più in profondità della sociologia e dei rimedi sociali. Essa riconosce nella solitudine la conseguenza del peccato, della Caduta. Siamo esclusi dall'Eden e separati da Dio a causa del Peccato Originale. Quando ci sentiamo soli e sperduti in questa valle, siamo pecorelle smarrite che si sono allontanate dal sentiero della redenzione, della grazia e della fede, e di conseguenza della speranza. Non sentiamo più il richiamo del pastore e non ubbidiamo ai latrati del suo cane, che non si stanca di inseguirci rimordendoci la coscienza. Siamo soli per uno scopo preciso: affinché possiamo udire la flebile voce della coscienza i cui sussurri sono soffocati dalla pazza folla. O peggio: la solitudine è la prova della dannazione che ci hanno meritato i peccati da noi commessi in questo nostro corruttibile corpo di carne. Naturale che Judy Garland si sia ritrovata senza un tetto, bisognosa, povera e sola. Questo è il salario del peccato.

La teologia morale orientale considera invece la sofferenza dell'isolamento come una prova impostaci in questa vita dal karma delle azioni compiute in una precedente incarnazione o come una preparazione alla prossima. Le teologie, vengano dall'Oriente o dall'Occidente, trasformano impercettibilmente il senso di solitudine nel peccato della solitudine, esacerbandone l'infelicità. Sopportiamo con il sorriso sulle labbra. Oppure pentiamoci.

L'esistenzialismo, un altro modo di spiegare la solitudine, pone la sofferenza dell'isolamento alla base della sua teoria dell'esistenza umana. Heidegger, per esempio, o Camus, vedono l'uomo nel suo «esseregettato » ( Geworfenheit) nel mondo. Noi siamo semplicemente gettati nell'esser-cì (Da-sein). E «getto, gettata» in tedesco si dice Wurf, termine che unisce i significati di lancio dei dadi, di progetto, e di figliata espulsa da una cagna o da una scrofa. La vita è il mio progetto {Entzvurf ); non c'è niente a dirmi di che cosa si tratti, il che naturalmente mi lascia in preda al terrore e all'angoscia esistenziale. Dipende tutto da me, ciascuno è solo nella sua scelta, giacché non esiste alcun garante cosmico a dirmi che le cose hanno senso. Non esiste alcun Dio di cui attendere la venuta, non ci è dato neppure di aspettare Godot. Ci costruiamo una vita sapendo che niente ha senso. Occorre una capacità eroica per trasformare la solitudine in forza personale, ed è appunto questa che a Judy Garland mancava. Era troppo dipendente, troppo debole, troppo piena di paure per coniugare solitudine con solidarietà, come propone Camus in uno dei racconti della raccolta non a caso intitolata L'esilio e il regno. La disperazione della diva illustra la verità del nichilismo esistenziale. Tale sarebbe la lettura esistenzialista.

Questi modi di pensare la solitudine, i modi sociologico, terapeutico, religioso, esistenzialista, partono da due assunti che io non posso accettare. Primo, essi affermano, tutti, che la solitudine coincide con l'essere soli, letteralmente, e dunque è rimediabile per mezzo di una qualche azione umana, per esempio il pentirsi dei propri peccati, il cercare rapporti terapeutici, il costruirsi il progetto della propria vita con le proprie eroiche mani. Secondo, tutti danno per scontato che la solitudine sia fondamentalmente un sentimento spiacevole.

Ma se esiste un senso di solitudine archetipico, che ci accompagna fin dall'inizio, allora essere vivi è anche sentirsi soli. La solitudine viene e va indipendentemente dalle misure che possiamo prendere. Non dipende dall'essere soli, letteralmente, perché si possono provare fitte di solitudine mentre siamo in mezzo ai nostri amici, a letto con l'amante, al microfono davanti a una folla osannante. Quando i sentimenti di solitudine sono visti come archetipici, ecco che diventano necessari; che non sono più annunciatori di colpe, di terrori, di uno stato morboso. Possiamo accettare la misteriosa autonomia di questo sentimento, liberando la solitudine dall'identificazione con l' sfondo archetipico, la solitudine non è sempre e principalmente spiacevole.

Se guardiamo (o meglio sentiamo) da vicino il senso di solitudine, scopriamo che è composto di diversi elementi: nostalgia, tristezza, silenzio e un anelito dell'immaginazione verso «qualcos'altro» che non è qui e ora. Perché queste componenti e immagini si mostrino, dobbiamo innanzitutto mettere a fuoco l'attenzione su di esse, anziché su come rimediare al fatto di essere soli in senso letterale. La disperazione diventa più brutta quando cerchiamo delle vie per uscirne.

Questi stati di nostalgia, di tristezza, di silenzio, di struggimento dell'immaginazione sono la sostanza stessa delle canzoni di Judy Garland, del linguaggio del suo corpo, della sua faccia, dei suoi occhi. Non ci stupisce che le sue esibizioni arrivassero al cuore della gente come nessun altro era riuscito a fare. Nostalgia, tristezza, silenzio e struggimento immaginativo sono anche la sostanza più intima della poesia religiosa e romantica in molte lingue e in molte culture. Ricordano alla ghianda le sue origini. Come E.T. nel film di Spielberg, la ghianda sembra nostalgica, triste, silenziosa e traboccante di desiderio struggente per un'immagine della sua «patria». La solitudine presenta le emozioni dell'esilio; l'anima non è riuscita a crescere, cioè a discendere, del tutto nella vita e vorrebbe tornare a casa. Dove? Non sappiamo, perché il luogo di cui parlano i miti e le cosmogonie è scomparso dalla memoria. Ma il desiderio dell'immaginazione e la tristezza testimoniano di un esilio da qualcosa, che l'anima non sa esprimere in altro modo che come senso di solitudine. L'unica traccia che le sia rimasta è quella nostalgia del sentimento e quello struggimento dell'immaginazione. E uno stato di bisogno che va oltre i bisogni personali.

Adesso, ritornando a Judy Garland, possiamo incominciare a capire come mai, anche alla fine, quando ormai riusciva a stento a ricordare le parole e a intonare le note, il pubblico chiedeva a gran voce quelle parole, «Somewhere, over the rainbow», con quell'ultima struggente domanda della canzone: «Why can't I?», «Perché io no?». E capiamo anche come mai Judy Garland riuscisse a conservarsi l'assoluta ammirazione del suo pubblico e dei suoi colleghi, nonostante i crolli vergognosi e l'esasperante inaffidabilità e petulanza di Frances Gumm, alcolizzata, drogata, distrutta. Perché Judy Garland risvegliava in tutti coloro che la ascoltavano un presentimento di ciò a cui anch'essi, nell'intimo, anelavano: l'immagine che ogni esule si porta nel cuore, con la sua nostalgia per ciò che non è di questo mondo.

E possiamo rileggere le ultime fasi della sua vita come le condizioni esistenziali proprie dell'esilio: del viandante, del nomade o del pellegrino, della vittima della diaspora, del poeta mendicante sufi o del monaco Zen ebbro di vino. La patria del daimon non è sulla terra; il daimon vive in uno stato alterato; la fragilità della carne è una condizione imprescindibile per la vita dell'anima sulla terra; e, del resto, non lasciamo tutti debiti da pagare quando ce ne andiamo? Sfrondata Frances Gumm di tutta la sociologia e di tutta la psicoanalisi, campeggia Judy Garland, una di coloro che non sono riusciti a discendere, cioè a crescere, del tutto perché era della sua ghianda non soltanto di cantare e ballare sotto le luci della ribalta, di essere la bambina magica e di mettere in scena come clown dalla faccia infarinata la presenza del mondo di là, ma anche di rappresentare l'esilio e la nostalgia dell'esule.

Le luci della ribalta ii: josephine baker

Un'altra donna, altrettanto «mitica», la cui discesa lungo l'albero della qabbalah seguì però un diverso percorso, era nata nel 1906 al Social Evil Hospital di SL Louis, pure in giugno. Dopo un ingresso nel mondo così abietto, prima di poter iniziare la vera discesa dovette salire alle stelle. Come Frances Gumm portava dentro il genio di «Judy Garland», così Freda J. McDonald (detta Tumpy da pìccola) portava in sé «Josephine Baker».

Fu anch'essa una donna di grande fascino e di eccessi. Josephine Baker irruppe nel mondo a Parigi, al teatro degli Champs-Elysées (dei Campi elisi!) nell'ottobre del 1925, completamente nuda a parte qualche piuma di struzzo. I movimenti della sua danza indiavolata «provocarono l'erezione a tutta Parigi». Aveva allora diciannove anni.

A tredici era già sposata. Tutto quello che il marito, un operaio metallurgico, portava a casa, Josephine «lo spendeva in vestiti». Con il successo seguito al debutto parigino arrivarono i soldi veri, e l'idea di «vestiti» si ampliò: adesso viaggiava con una serie di cagnolini e una scimmietta sulla spalla e una carrettata di piume di struzzo. Andava pazza per le automobili, anche se non sapeva guidare; comprò, tra le altre, una favolosa Bugatti. Quando, nel gennaio del 1928, partì da Parigi alla volta di Vienna con il suo impresario, il suo «bagaglio» comprendeva, oltre al corteo di tirapiedi, amici, amanti e parenti, «una segretaria, un autista, una cameriera, una macchina per scrivere, due cani, centonovantasei paia di scarpe, un assortimento di abiti e pellicce, sessantaquattro chili di cipria e trentamila foto con autografo per gli ammiratori ».

Il corpo nel quale era discesa la sua anima era una cosa distinta dalle condizioni di vita della sua infanzia. Poco o niente da mangiare, letti pieni di cimici, quando non doveva dormire per terra con il cane; piccolissima, fu data a servizio per pochi soldi a una donna che la faceva mangiare nello stesso piatto del cane, la picchiava e la lasciava nuda perché vestirla sarebbe stata una spesa inutile. Ancora bambina fu praticamente venduta a un vecchio dai capelli bianchi che doveva servire, compreso dormirci insieme. E poteva ancora dirsi fortunata: dai dati dell'ufficio di igiene di St. Louis risulta che all'epoca tre bambini su cinque morivano prima di avere compiuto i tre anni.

Già allora, perfino allora, Josephine ballava. Aveva sistemato un piccolo palco e alcune panche in uno scantinato e, quando si esibiva, non si faceva scrupolo di usare le maniere forti per ottenere silenzio e attenzione dal suo pubblico di bambini. Ogni minuto libero che aveva lo passava ad assistere agli spettacoli di varietà nei locali dei dintorni e a ciondolare davanti all'ingresso degli artisti.

Una volta si era portata una serpe a un funerale. La serpe le sfuggì di mano provocando il panico tra i presenti; la bara, che ancora non era stata chiusa, si rovesciò, il cadavere rotolò fuori e alla fine la folla inferocita uccise a bastonate la serpe. La piccola Tumpy (o era già Josephine, la protettrice degli animali?) si mise a urlare: «Avete ammazzato la mia amica! ». Non è insolito per i bambini sentirsi l'anima di un animale; ma va anche ricordato che il serpente è forse il più antico e più universale portatore dello spirito del genio, la figura del custode protettore, il daimon stesso. Forse Josephine era già diventata amica della sua ghianda.

E ora un ultimo aneddoto della sua vita favolosa.

«A Stoccolma diede uno spettacolo alla presenza del re. "Ma se mi chiedete che faccia avesse, non ve lo so dire. Quando ballo, penso solo a ballare, non guardo nessuno, neanche il re...".

«Era presente anche il principe ereditario Gustavo Adolfo, che all'epoca era un giovane di ventotto anni ... Il principe invitò Josephine a palazzo e la fece entrare attraverso una porta segreta in una camera con il letto a baldacchino coperto di pellicce preziose. Josephine si distese nuda sul letto e il principe, fatto venire un servitore con un vassoio d'argento colmo di gioielli, le ricopri completamente il corpo di brillanti, smeraldi, rubini ... Questa storia adesso fa parte del folklore svedese».

La carriera di Josephine Baker presenta molti punti di contatto con quella di Judy Garland: gli applausi del pubblico e l'oblio del pubblico; il magnetismo sulla scena; il bisogno di «essere sempre innamorata»; il rapporto conflittuale con gli uomini come amanti, colleghi e sfruttatori (ci fu un giovane che si sparò davanti a lei e morì ai suoi piedi); le mani bucate; l'immersione nei ritmi vorticosi del mondo dello spettacolo e la conseguente spettacolarizzazione della vita personale; il loro venire dal nulla; l'assoluta mancanza di un'istruzione regolare; l'ossessione per presunti difetti fisici (la Garland era preoccupata di essere troppo grassa e massiccia, la Baker si angustiava per i suoi capelli); e la vita sessuale.

Per Josephine Baker il sesso era vitale per poter recitare. Lo faceva tra le quinte; in piedi prima di entrare in scena; con tutti i suoi compagni di danza, gay e non; con gli airi papaveri da cui si faceva pagare; con uomini famosi; con chiunque le venisse voglia di avere, dove voleva e quando voleva. Una volta si distese per terra nel suo scompartimento riservato, offrendosi a un insensibile ballerino della sua compagnia: « Guardami, tutto il mondo desidera il mio corpo, perché tu sei così arrogante?».

Georges Simenon, il creatore del commissario Maigret, che fu uno degli innumerevoli amanti della Baker (come lei una delle sue mille et trois femmes), individua il segreto di quel corpo nella sua speciale croupe. «In francese la croupeè la groppa, il posteriore del cavallo, il sedere. La croupe di Josephine, spiega Simenon ai suoi lettori, è la più sexy del mondo ... Perché? "Perbacco, è ovvio, è una croupe con il senso dell'umorismo"».

I biografi di Judy Garland accennano a una analoga forma di erotismo coatto. La somiglianza più grande tuttavia risiede nella fascinazione che entrambe esercitavano, nella loro capacità di rappresentare un aspetto trascendente dell'anima umana che parla all'anima di ciascuno degli spettatori. E come se esse sapessero mettere in mostra il daimon, lasciarlo vedere e udire. Il daimon di Judy Garland era Over the Rainbow, quello di Josephine Baker La Dame du sauvage.

Qui il parallelismo finisce, le due strade divergono. Quella di Josephine Baker va verso il basso. Ma non nel senso dell'abiezione: gli spettacoli pornografici, la miseria della sua infanzia, il declino della sua carriera o, con facile riferimento al razzismo, la condizione di inferiorità in quanto donna nera. Non fu umiliata né cadde in basso; Josephine Baker seppe discendere, cioè crescere.

Discese un passo dopo l'altro nel mondo politico e sociale. Incominciò con la guerra; era il 1939, Josephine aveva trentadue anni e voleva fare il possibile per aiutare la Francia, il suo paese di adozione. A rischio della vita, faceva passare oltrefrontiera fino in Spagna e in Portogallo messaggi per conto della Resistenza francese, nascosti in mezzo agli spartiti. Essendo nera, fu poi esclusa da tutti i teatri e corse il rischio di essere deportata, se non uccisa. Rifugiatasi in Marocco, trattata come una regina dalla famiglia regnante, si impegnò per salvare gli ebrei dai rastrellamenti e per un certo periodo indossò lei stessa la stella gialla: un bel pezzo di strada dalle piume di struzzo. Nel freddo inverno dopo la liberazione di Parigi, si diede da fare per procurare carne, verdura e carbone per i poveri. Per i servizi resi fu insignita della Légion d'Honneur e della Croix de Guerre e fu ricevuta da De Gaulle.

Il passo successivo fu il ritorno in America, dove incominciò a fare i conti con le sue origini a St. Louis. Fu tra i primi militanti del movimento per i diritti civili; pretese che in teatro venissero assunti lavoratori neri; nel 1963 partecipò alla marcia su Washington contro il razzismo; visitò i detenuti neri in una prigione del New Jersey. Il suo impegno nella lotta per l'integrazione razziale le valse l'apprezzamento di Martin Luther King e di Ralph Bunche. Si recò anche nella Cuba di Castro; all'fbi avevano un dossier di un migliaio di pagine su di lei.

L'ultimo gradino verso il basso fu l'adozione di undici bambini di nazionalità e colorì diversi, che Josephine Baker si batté disperatamente per nutrire, mantenere uniti, mandare a scuola. Continuò a fare tour e spettacoli per evitare l'esproprio dell'abitazione in campagna che era diventata la loro vera casa e nella quale aveva impegnato tutto il denaro che le rimaneva. Salvata una volta da Grace Kelly e una seconda volta da Brigitte Bardot, alla fine la proprietà dovette essere ceduta ai creditori e Josephine e i suoi figli furono letteralmente gettati sul lastrico. Senza più un soldo, senza casa, ormai vecchia, diede il suo ultimo trionfale spettacolo a Parigi, pochi giorni prima di morire, il 12 di aprile del 1975, all'ospedale della Salpètrière. Una morte simmetrica alla nascita nell'ospedale «dei mali sociali » di St. Louis; la Salpètrière, infatti, era sorta come ospizio per le donne reiette: prostitute, sifilitiche, povere, malate di mente, criminali.  

Ascesa e caduta, È uno dei modelli archetipici della vita, una delle sue lezioni morali più antiche, cosmiche. Ma ciò che importa è come si cade, lo stile della caduta. Quello di Judy Garland fu un eroico e triste declino fino al crollo finale. Tutti i suoi sforzi miravano alla rimonta; cercò disperatamente di riconnettersi con il mondo supero delle stelle e, per colmo di ironia, la sua lotta la portò allo squallore di quella morte in un appartamento di Londra. I trenta minuti di ovazione («il pubblico non si decideva a lasciare il teatro») che Josephine Baker ricevette a Parigi quell'ultima settimana erano rivolti sia al daimon che abitava il suo corpo, sia alla lunga e lenta discesa dentro questo mondo di «mali sociali»: il fascismo, il razzismo, i bambini abbandonati, l'ingiustizia.  

Il mito platonico della discesa con il quale abbiamo aperto il capitolo dice che l'anima discende in quattro modi: attraverso il corpo, i genitori, il luogo, le condizioni esterne. Possiamo prenderli come istruzioni per completare l'immagine che ci siamo portati con noi al nostro arrivo. Per prima cosa, il corpo: discendere, cioè crescere, significa ubbidire alla legge di gravata, assecondare la curva discendente che accompagna l'invecchiamento. ( Josephine Baker incominciò a dire che aveva sessantaquattro anni quando ancora ne aveva dieci di meno; si vestiva con indumenti usati e aveva smesso di nascondere la calvizie). Secondo, accettare di essere un membro della tua famiglia, di fare parte del tuo albero genealogico, così com'è, con i suoi rami contorti e ì suoi rami marci. Terzo, abitare in un luogo che sia adatto alla tua anima e che ti leghi a sé con doveri e usanze. Infine, restituire, con gesti che dichiarano il tuo pieno attaccamento a questo mondo, le cose che l'ambiente ti ha dato.