LA SUPERSTIZIONE PARENTALE
Se esiste nella nostra civiltà una fantasia radicata e incrollabile, è quella secondo la quale ciascuno di noi è figlio dei propri genitori e il comportamento di nostra madre e di nostro padre è lo strumento primo del nostro destino. Così come abbiamo i loro cromosomi, allo stesso modo i loro grovigli e i loro atteggiamenti sono gli stessi nostri. La loro psiche inconscia - le collere rimosse, i desideri irrealizzati, le immagini che sognano la notte - conforma congiuntamente la nostra anima e noi non riusciremo mai e poi mai a venire a capo di questo determinismo e a liberarcene. L'anima individuale continua a essere immaginata biologicamente come un frutto dell'albero genealogico. La nostra psiche nasce da quella dei nostri genitori, così come la nostra carne nasce dai loro corpi.
Mentre le definizioni troppo semplicistiche e nette del ruolo e della condizione di genitore si vanno facendo più sfumate grazie agli apporti del diritto, delle scienze demografiche e della biochimica, nella mente dei riformatori morali e degli psicoterapeuti l'idea di genitore e del suo ruolo è oggi più monolitica che mai. Il vecchio concetto di «valori della famiglia», riconoscibile in espressioni di largo consumo come «cattiva madre» e «padre assente», è rientrato dalla finestra nella «terapia sistemica della famiglia», che ha finito per rappresentare, da sola, l'insieme di idee più determinante per la teoria delle disfunzioni sociali e la pratica dell'igiene mentale.
Da qualche parte, tuttavia, un folletto continua a sussurrare un'altra storia: «Tu sei diverso; non assomigli a nessuno della famiglia; tu non sei dei loro». Nel cuore si annida un eretico, che chiama la famiglia una fantasia, una superstizione.
Del resto, il modello biologico stesso presenta smagliature che lasciano perplessi. Sappiamo spiegare e praticare più facilmente la contraccezione che non la concezione. Che cosa avviene in realtà in quel compatto, verginalmente integro, conchiuso ovulo, che permette a quell'unico particolare spermatozoo, tra milioni, di penetrare? Ma forse sarebbe più giusto chiederlo allo spermatozoo: ce n'è uno tra voi che è più furbo, più intraprendente degli altri o forse più congeniale, che sente una maggiore affinità? O è un caso, una questione di «fortuna»... ma poi, che cosa si intende per fortuna? Sappiamo molte cose sul dna e sui risultati della congiunzione, ma rimane intatto il mistero sul quale Darwin spese la vita, il mistero della selezione.
La teoria della ghianda propone una soluzione antica: è stato il mìo daimon a scegliere sia l'ovulo sia lo spermatozoo, così come aveva scelto i portatori, detti «genitori». La loro unione deriva dalla mia necessità, non il contrario. Questo non aiuta forse a spiegare le unioni impossibili, le incompatibilità e le mésalliances, i veloci concepimenti e i bruschi abbandoni che si verificano tra i genitori di molti di noi, e in particolare nelle biografie delle persone eminenti? Lui e lei si sono messi insieme non per unirsi ma per concepire quella persona unica e irripetibile, dotata di una particolare ghianda, che poi sono risultato essere io.
Prendiamo, per esempio, la storia di Thomas Wolfe, lo strabordante, fluviale scrittore neoromantico delle Smoky Mountains, nato il 3 ottobre del 1900. I suoi genitori, scrive il suo biografo Andrew Turnbull, si unirono in «un'epica mésalliance. Sarebbe difficile immaginare due persone più incompatibili per temperamento». Il padre era «prodigo, sensuale, espansivo»; la madre «coriacea, parsimoniosa, repressa».
Come avranno fatto a incontrarsi? Una quindicina di anni prima della venuta su questa terra di Thomas Wolfe, sua madre, Julia Westall, una maestrina di campagna di ventiquattro anni, capitò nella bottega di W.O. Wolfe, un marmista specializzato in lapidi che aveva al suo attivo un divorzio e una vedovanza. Ci entrò per vendere dei libri (arrotondava così le sue entrate).
«Dopo aver dato un'occhiata al libro che voleva vendergli, lui sottoscrisse l'ordine. Poi le chiese se le piacevano i romanzi.
«"Oh, leggo di tutto" rispose Julia. "Un po' meno la Bibbia. Insomma, non quanto dovrei".
«W.O. disse che a casa aveva alcuni bei romanzi d'amore, e quel pomeriggio ... le fece recapitare St. Elmo, di Augusta Jane Evans. Alcuni giorni dopo, quando Julia ripassò per vendere un altro libro ... W.O. insistette perché si fermasse a pranzo, dopo di che la condusse di là per mostrarle allo stereoscopio i suoi dagherrotipi della guerra civile ... le prese la mano, disse che era un po' che la osservava passare davanti alla sua bottega, e le chiese di sposarlo.
«Julia ... obiettò che praticamente non si conoscevano neppure. Ma W.O. era talmente deciso che alla fine Julia propose di aprire a caso il libro che si era portata da vendere, dicendo che si sarebbe regolata in base al capoverso centrale della pagina di destra - "Una vera sventataggine da parte mia" ebbe a commentare anni dopo - e andò a pescare proprio la descrizione di uno sposalizio, con le parole: "finché morte non ci separi". "Ecco!" esclamò W.O. "Sta scritto!
Bisogna ubbidire". Il matrimonio fu celebrato a gennaio, tre mesi scarsi dopo la avventata proposta».
Gli opposti che si attraggono, gioventù e vecchiaia; semplice convenienza (un appoggio economico per lei, una governante per lui); sadomasochismo; ricerca del padre, identificazione paterna; pressione sociale sulle persone non sposate... Le spiegazioni possono essere tante, ma a voi sembrano convincenti?
Perché non prendere quanto meno in considerazione che i due si siano incontrati « perché era scritto»? Lei lo aveva avvicinato proponendogli un libro; lui aveva risposto imprestandole un libro; la cosa fu decisa aprendo un libro e il frutto di quella unione libresca fu Thomas Wolfe, scrittore di libri. Quando Thomas aveva due anni, i genitori erano soliti «fargli leggere qualcosa ad alta voce per intrattenere gli ospiti ». Julia, da parte sua, era convinta di essere stata l'invisibile artefice del talento letterario del figlio perché durante la gravidanza aveva «trascorso i pomeriggi a letto a leggere».
Quanto ai sei fratelli e sorelle di Thomas, le loro ghiande erano di tipo diverso e avevano scelto quei genitori per altre ragioni. Come sempre, è nella persona eccezionale che questo processo si manifesta nel modo più evidente.
Dunque Thomas Wolfe fu in realtà chiamato in quella famiglia di Asheville, North Carolina, e i suoi genitori furono chiamali Cuna verso l'altro per costruire quella famiglia, in modo che egli potesse fare ciò che andava fatto. Come, altrimenti, avrebbe potuto scrivere i suoi libri, se non avesse «conosciuto» i suoi genitori prima che essi conoscessero lui? Fu la mano di un angelo ad aprire il libro a quella pagina, concependo Julia e W.O. come suoi genitori prima che essi concepissero lui come loro figlio.
Madri
Julia Wolfe era convinta della propria influenza determinante sui figlio Tom. E io non mi sognerei mai di contestare l'impressione che il carattere di una madre lascia sul suo figlio biologico. La madre è così indubitabilmente presente, che non ha bisogno di dimostrazioni, di prove a conferma. Dunque possiamo tranquillamente tralasciare tutte le analisi relative. Come disse il matematico Godfrey Hardy, « una persona seria non sta a perdere tempo nel formulare l'opinione della maggioranza». Lasciamoci dunque la Mamma alle spalle, dove peraltro sta sempre, grande idolo silenzioso al centro della scena sul cui sfondo si svolgono le biografie raccontate in questo libro.
Quanto al potere di quell'idolo e al culto idolatra che gli tributiamo, mi limiterò a citare la solita storia dei gemelli:
«Due gemelli identici erano stati separati alla nascita e allevati in paesi diversi dalle rispettive famiglie adottive. Adesso avevano trentanni. Entrambi conducevano una vita molto ordinata, ordinata al limite del patologico. Indumenti scrupolosamente lavati e stirati, puntualità che spaccava il minuto, mani rigorosamente strofinate fino a farle divenire rosse e screpolate. Alla domanda come mai provasse un simile bisogno di ordine e di pulizia, il primo gemello rispose senza esitare: "Mia madre. Quando ero ragazzo, teneva la casa in perfetto ordine. Voleva che ogni cosa fosse rimessa al suo posto, le pendole (ne avevamo a dozzine) dovevano battere il mezzogiorno all'unisono, era il suo pallino. Io ho imparato da lei. Non avevo scelta".
«L'altro gemello, altrettanto perfezionista e fanatico dell'acqua e sapone, spiegò così il proprio comportamento: "Il motivo è semplice: è una reazione a mia madre, che era una terribile sciattona"».
Che ordine dare alle tre componenti di questa storia: il ciato del perfezionismo, la teoria della causalità reattiva e il mito della Madre? I fautori dell'innatismo genetico sosterrebbero che questa storia costituisce una stupenda prova aneddotica del ruolo dominante dell'ereditarietà. I sostenitori dell'importanza dell'ambiente infantile ribatterebbero che entrambi i gemelli reagivano comunque alle rispettive madri, anche se in maniere opposte, l'uno imitandola, l'altro facendo il contrario, e che la madre era stata comunque l'influenza decisiva nella formazione del loro carattere ossessivo.
Per me, invece, la storia illustra come il mito si sovrapponga alla teoria e venga usato per spiegare i fatti. Perché non bisogna trascurare il dato che ciò che i due gemelli identici hanno in comune, oltre al perfezionismo, è un'identica teoria su quel perfezionismo: dietro ci sta «mia madre». Nella nostra cultura, il mito della Madre assume la dignità e la forza della teoria e noi siamo una nazione di amanti della Madre per l'appoggio che le forniamo aderendo a quella teoria.
Se possiamo accettare così facilmente il mito della Madre, perché non dovremmo, mito per mito, accettare quello proposto in questo libro, il mito platonico? A farci arricciare il naso di fronte alla teoria della ghianda non può essere la resistenza ai miti, visto che ci beviamo senza fiatare il mito della Madre. No, la ragione della nostra resistenza nei confronti dei mito del daimon, secondo me, è che esso si presenta nudo e crudo. Senza camuffarsi da dato empirico. Esso si dichiara apertamente un mito. Non solo, ci sfida a riconoscere la nostra individualità come un diritto di nascita, senza il cuscinetto della Madre per attutire i colpi e senza la Madre come sostegno archetipico.
Mentre sta svanendo la maternità nucleare, madree-bambino, il suo mito resiste, attaccato al seno archetipico. Continuiamo a credere nella Mamma mentre davanti ai nostri occhi tutto cambia: asili nido, famiglie allargate, padri che cambiano i pannolini, bambini di strada che fanno da genitori ai fratellini più piccoli, ragazze adolescenti già madri di due o tre figli, donne di quarantacinque anni madri per la prima volta. Tutto cambia: andamento demografico, economia, definizioni giuridiche di maternità e paternità, concepimento, adozioni, medicine, diagnosi, libri sull'educazione dei bambini.
Soltanto il mito della madre come elemento dominante nella vita di ciascuno non cambia mai. Perché dietro ogni donna che partorisce, dietro ogni donna che accudisce un bambino, sta assisa la Grande Madre, a reggere quel sistema di credenze che ho chiamato la superstizione parentale e che ci tiene vincolati a lei. La Grande Madre ci si mostra modellata dallo stile della nostra madre personale, ed è tanto malefica quanto benefica. Ci soffoca, ci nutre, ci punisce, ci divora, ci dà incessantemente; è ossessiva, isterica, scontrosa, leale, indulgente... quale che sia il suo carattere, anch'essa ha un daimon, ma il suo destino non è il mio.
Eppure il genere biografico va pazzo per le madri. Adora raccontare di madri meravigliose o maligne come agenti del destino che stanno dietro uomini e donne eminenti. Cole Porter della madre, Kate Cole Porter, portò non solo il nome ma anche «il sogno di diventare musicista». Sua madre gli organizzò il debutto a otto anni e a dieci gli faceva fare trenta miglia in treno per prendere lezioni di musica. La madre di Frank Lloyd Wright aveva ben chiaro in mente che suo figlio avrebbe fatto l'architetto e, scrivono i biografi, lo influenzò in quella direzione appendendogli davanti alla culla quadri di edifici. Fu per rallegrare la madre soggetta a depressioni che James Barrie incominciò a raccontare le storie che poi sfociarono nell'invenzione letteraria di Peter Pan.
Pablo Casals, uno degli undici figli di una povera famiglia di contadini della Catalogna, veniva accompagnato dalla madre dal loro villaggio fino a Barcellona per proseguire gli studi musicali, «e finché Pablo non ebbe ventidue anni, la famiglia fu lacerata, gravata e dissanguata dal desiderio divorante della madre di vedere realizzato e riconosciuto il talento del figlio ».
Un giorno, la madre di Edward Teller, il fisico sostenitore delle armi nucleari, mentre stava passeggiando in un parco di Budapest, gravida del suo bambino, rallentò il passo e si mise a studiare il paesaggio intorno. All'amica che gliene chiese il motivo, la madre di Teller rispose: «Ho il presentimento che questa volta sarà un maschio e sono sicura che diventerà famoso; sto cercando il posto più adatto per il suo monumento». L'interpretazione psicologica corrente direbbe che Teller fu spinto alla fama dalla madre. Ma perché non immaginare che Ilona Teller si fosse intuitivamente collegata con il daimon che ospitava in grembo?
Il filosofo-maestro indiano Krishnamurti aveva perduto la madre che era ancora bambino, ma, racconta, « la vidi spesso dopo la sua morte, ricordo di avere seguito la sua figura su per le scale ... scorgevo la vaga forma della sua veste e parte del viso. Questo succedeva quasi sempre quando ero via da casa».
La visione della figura di sua madre da parte di Krishnamurti mostra chiaramente la fusione della madre commemorata, della madre reale e dello spirito della madre, il suo daimon, che spesse volte si fonde o entra in contatto con il daimon del figlio, anche quando questi è diventato grande e famoso. E rara però quella madre che riesce a vedere il seme e lo aiuta a emergere, senza tuttavia esercitare indebite ingerenze nella sua direzione individuale.
Il famoso pianista Van Clibum imparò a suonare dalla madre, la quale però aveva ben chiara la distinzione tra il fare da maestra allo spirito e da madre al figlio:
«Con il manifestarsi delle eccezionali doti di Van, il nostro rapporto durante lo studio diventò quello di insegnante e discepolo, più che di madre e figlio...
«Ammonii fin dall'inizio il piccolo Van a non montarsi la testa ... gli ricordai che la sua bravura era un dono divino, di cui doveva esser dono divino, di cui doveva essere grato, senza assumersene indebitamente il merito».
Cliburn lo conferma: «Dall'età di tre anni, mia madre mi ha dato lezioni di piano ogni giorno della mia vita. Ci sedevamo al pianoforte e lei mi diceva: "Adesso dimenticati che io sono tua madre. Sono la tua maestra di musica e dobbiamo fare sul serio"».
Il grande potere della madre è indiscutibile, specialmente quando sa riconoscere e proteggere - e, come nel caso di Cliburn, aiutare a istruire - il daimon del figlio.
Il daimon tuttavia prenota in anticipo, per così dire, la madre, forse addirittura la predetermina, o almeno così sostiene la teoria della ghianda. Perché il piccolo Van era già un musicista all'età di due anni; aveva imparato a orecchio, ascoltando le lezioni che si svolgevano nell'altra stanza, «un piccolo esercizio piuttosto diffìcile », che comportava di « incrociare !a mano sinistra sopra la destra» con «pause e sincopature tutt'altro che semplici ». Sicché la teoria della ghianda ci dice che il daimon di Cliburn aveva scelto la madre più adatta, che sapeva come trattare un bambino prodigio. Credete che il giovane pianista di Kilgore, nel Texas, sarebbe riuscito ad andare a Mosca e a vincere il concorso internazionale di pianoforte Pétr Il'ic Cajkovskij, lasciando la giuria a bocca aperta, se fosse nato, poniamo, da vostra madre e fosse cresciuto nella vostra famiglia?
Ma la domanda è: è la madre la causa dell'eminenza? Le madri creano i loro figli mentre li portano in grembo, dando alla luce il loro spirito nel momento in cui mettono al mondo il loro corpo? Se non differenziamo il daimon della madre da quello del figlio, allora bisogna dire chiaro che la madre è anche una creatrice di mostri, e che è il daimon della madre, demonio in questo caso, a realizzare la propria vita, fisicamente, nel figlio. Hitler, Mao, l'egiziano Nasser erano tutti profondamente attaccati alla madre. Kwame Nkrumah, il primo presidente del Ghana, potè uscire dal chiuso del suo villaggio e ricevere un'istruzione occidentale grazie alle idee e alla volontà della madre. Ma è impossibile dire se i capi carismatici sono compresi e aiutati dalla madre o se essi hanno particolarmente bisogno di credere nel mito della Madre, cui rendono onore onorando la madre personale. Certo è che al mito della Madre sembrano piacere i dittatori.
Woodrow Wilson, Harry Truman, Dwight D. Eisenhower, Lyndon Johnson, Richard Nixon: anch'essi prediligevano la madre, o ne erano i prediletti, Pensiamo a Nixon che, annichilito e distrutto perché costretto a lasciare la Casa Bianca in seguito allo scandalo Watergate, pronuncia quello sdolcinato omaggio alla madre nel suo ultimo discorso.
Un giorno mia madre fu presentata alla madre di Franklin D. Roosevelt, che le chiese quanti figli avesse. «Quattro» rispose mia madre. «Io solo uno,» replicò la madre di Roosevelt «ma è riuscito molto bene». E non mancò mai di assicurarsi che così fosse, vuoi notando molto presto il suo genio, vuoi assecondandolo oppure cercando, finché visse, oppure cercando, finché visse, di sostenerlo a ogni passo lungo la sua difficile strada.
Ma, allora, come la mettiamo con le madri che non ebbero la minima intuizione della vocazione dei figli e anzi ne travisarono la natura? E le persone eminenti che dovettero combattere contro la madre, che ne detestavano la mentalità, le abitudini, i valori? Queste differenze non sembrano scalfire la superstizione parentale. Il mito regge comunque, sia che la madre abbia dato il proprio incondizionato sostegno positivo sia che abbia vissuto la propria vita nell'indifferenza più egoistica e narcisistica verso i figli. Le biografie ribaltano i dati in vista della solita conclusione, il che dimostra come i biografi (noi compresi, con la nostra spiegazione delle ragioni per cui siamo quello che siamo) si lascino ammaliare dalla superstizione parentale né più né meno dei due gemelli che indicano in «mia madre» la causa delle loro mani strofinate a sangue.
Il filosofo e crìtico marxista ungherese Gyòrgy Lukàcs aveva sempre avuto un pessimo rapporto con la madre. Ancora poco prima della morte, nel 1971, «la ricordava ... con rancore». Si era sempre rifiutato di trattarla con cortesia anche solo formale. Lui stesso scrive: «In famiglia, la più totale estraneità. Soprattutto mia madre; assenza quasi totale di comunicazione». Poiché sua madre era una donna conformista, superficiale, interessata soltanto alla vita di società, la biografia di Lukàcs riconnette la simpatia marxista per le masse oppresse e la ribellione antiborghese del figlio con l'antagonismo nei confronti della madre. La teorìa della ghianda, beninteso, considera quella madre necessaria per il suo genio: Lukàcs aveva bisogno di un nemico dentro le mura domestiche che rappresentasse i valori che il suo daimon per natura aborriva. «Fin da piccolo ero dominato da un forte senso di ribellione ».
Lo stesso tipo di ribellione radicale contro una madre conformista e convenzionale compare nelle biografie, per esempio, del compositore Igor Stravinskij e della fotografa Diane Arbus.
«La madre di Stravinskij criticava il figlio perché non voleva "riconoscere chi gli era superiore, come Skrjabin", e non andò a sentire La sagra della primavera, una delle opere più innovative del secolo, se non venticinque anni dopo la sua prima esecuzione, un anno prima di morire. E anche in quella occasione confidò ad amici di aspettarsi che non le piacesse, perché il figlio non scriveva "il suo genere di musica"».
La madre di Diane Arbus si preoccupava per i figli; « come ogni brava madre, voleva che facessero "la cosa giusta", "come sì conviene", e che godessero di tutti i vantaggi possibili ». Ebbene, Diane Arbus fu uno spirito originale e anticonformista, una fotografa di emarginati e di «diversi», e finì suicida; Stravinskij visse una vita lunga e straordinariamente produttiva, e non compose mai il «genere di musica» che piaceva a sua madre.
Entrambi deviarono parecchio dall'angusto sentiero additato dalle rispettive madri. Ma non possiamo sostenere che fu quel sentiero a spingerli così lontano. Non possiamo presumere che una madre convenzionale produca figli anticonformisti - sarebbe come dire che un figlio o una figlia anticonformisti producono madri convenzionali -, né che una madre eccentrica o confusionaria produca figli normali. Come riferiscono i ricercatori, figli di ogni genere nascono da madri di ogni genere. Non è possibile legare insieme le due generazioni con un bel nodo senza sfilacciature.
Madri e figli possono pregare ad altari molto diversi e servire dei molto diversi, anche se vivono tutto il giorno nella stessa casa. Per quanto vicini fisicamente, possono avere destini incommensurabilmente distanti. Roy Cohn, tipico esempio di losco arrivista, bravissimo a saltare sul carro dei vincitori, ebbe un'educazione protettiva e convenzionale. «I miei genitori ce l'hanno messa tutta per cercare di darmi una infanzia "normale"». Corsi estivi, appartamento in Park Avenue, scuola progressista, facoltà di Legge alla Columbia. Essendo figlio unico, Cohn era molto legato alla madre Muddy, la accompagnava nei suoi viaggi e abitò con lei fino ai quarant'anni, quando la madre morì. E lei per tutta la vita badò a lui; fu una madre attenta, premurosa, indulgente, che chiamava il figlio «il bambino». E il bambino «normale» che avrebbe voluto diventò un tipaccio losco.
Anche la madre di Hannah Arendt era attenta e premurosa. Dalla nascita fino all'adolescenza di Hannah, tenne un diario su cui annotava le sue osservazioni e riflessioni sulla figlia; da piccola la teneva fasciata nel porte-enfant per evitare che si mettesse ritta e camminasse troppo precocemente; seguì la sua educazione e incoraggiò i suoi studi sotto tutti gli aspetti. Due madri ugualmente attente, che cercarono di dare il meglio ai rispettivi figli; ma Cohn venne fuori un individuo amorale, vanesio e senza scrupoli, mentre Hannah Arendt diventò uno dei più profondi filosofi morali della nostra epoca, allieva di Karl Jaspers, amica di Martin Heidegger; e rimase una « creatura solare», con un «talento per l'amicizia» e un forte impegno etico verso l'« amore del mondo », un'idea centrale e ricorrente del suo pensiero.
Poi c'è la madre che trascura i figli. «Mia madre piazzava un cuscino con un giocattolo sul pavimento e mi piantava lì » ricorda Barbara McClintock. In seguito, oberata com'era, la mandò addirittura a vivere lontano, da certi parenti. La madre di Edna St. Vincent Millay, che faceva l'infermiera, ritirò di punto in bianco la figlia ragazzina da scuola dopo un litigio con il direttore, incurante del fatto che Edna, a cui piaceva studiare e che era legata alle compagne, dovesse restarsene a casa da sola tutto il giorno, e a volte anche la notte, mentre la madre era al lavoro. E Tina Turner racconta : « Non ho mai ricevuto amore né da mia madre né da mio padre, nemmeno all'inizio ... Alienazione, rifiuto: non conoscevo queste parole, sapevo soltanto che con mia madre non riuscivo a comunicare ... È stato questo il mio inizio. Non avevo nessuno, nessun retroterra sicuro, perciò ho dovuto ... scoprire la mia missione nella vita». Se la madre le trascurava, il loro daimon non le abbandonò, si dimostrò anzi il vero «retroterra sicuro» della loro vita. Infatti, era la solitudine ciò di cui Barbara McClintock e Edna St. Vincent Millay avevano bisogno per la loro vocazione, e l'essere trascurata e abbandonata ciò che occorreva perché Tina Turner scoprisse la propria. La loro ghianda aveva evidentemente scelto madri di quel tipo per fornire a loro, bambine, l'ambiente adatto. Sia che il soggetto delle loro biografie abbia ricevuto sostegno dalla madre (Casals, Wright, Roosevelt), sia che abbia avuto divergenze con la madre (Lukàcs, Arbus, Stravinskij), oppure sia stato trascurato dalla madre (McClintock, Millay, Turner), i biografi tendono a proiettare sulla Madre una grandezza mitica, confondendo il potere della sua immagine archecipica con la forza della ghianda individuale.
Decostruire i genitori
La superstizione parentale dipende in larga misura da questa fantasia di una causalità verticale, a senso unico, dal grande al piccolo, dal vecchio al giovane, dal maturo all'immaturo. Eppure, esattamente come la maternità reale va dissolvendosi di fronte a cambiamenti sociali che ne alterano le convenzioni, così la teoria dell'importanza della Madre incomincia a essere minata alla base da prove che smentiscono la causalità verticale in seno alla famiglia.
Un'altra storia detta e ridetta. La versione che ho scelto descrive il comportamento di una famiglia di scimmie rhesus su un'isola giapponese deserta, sulla cui spiaggia i ricercatori avevano lasciato delle patate americane.
«Imo tolse il grosso della sabbia dalla sua patata, poi la sciacquò in mare sfregandola vigorosamente con la mano libera. Quindi mangiò la patata pulita, apprezzandone il gusto salato. Lì accanto, Nimby la osservava: tuffò anche lei in mare la sua patata. Non l'aveva ripulita del tutto dalla sabbia, ma la patata aveva comunque un sapore molto migliore del solito. L'esempio delle due scimmiette fu di lezione alle altre compagne; ben presto le scimmie della stessa età, sia maschi sia femmine, avevano imparato il trucco del lavaggio delle patate. Lo imparò anche la madre di Imo, che si mise a insegnarlo ai figli più piccoli. Il padre di Imo, benché avesse fama di essere un capo in gamba, si rifiutò di provare il nuovo trucco».
Il ricercatore David Rowe vuole dimostrare che le innovazioni e la trasmissione delle idee avvengono nei modi più diversi: orizzontalmente all'interno della famiglia (da fratello a fratello); verticalmente, ma in entrambi i sensi, dai figli alla madre e dalla madre ai figli; al di fuori della famiglia, quando le giovani scimmie imparano le une dalle altre. C'è anche chi (i vecchi maschi) non impara affatto - o almeno non impara a lavare le patate.
Il ricercatore, però, omette di porsi una domanda cruciale: Dove ha preso Imo l'idea di lavare la sua patata? Che cosa ha indotto quel comportamento? Il suo daimon, naturalmente! È stato il daimon a ispirare l'intero evento, compresa la descrizione dell'evento stesso e tutte le sue versioni. Per mezzo di questo racconto, il genio di Imo continua a istruirci tutti quanti. Perché, sì, anche gli animali hanno l'angelo. Per quanto all'indietro riusciamo a immaginarci la storia culturale, è sempre esistita la convinzione che gli animali fossero i nostri primi maestri. Le prime forme di linguaggio, le nostre danze, i nostri rituali, le nostre cognizioni sui frutti commestibili o velenosi sono tutti passati nel nostro comportamento attraverso il loro.
I dubbi sulla causalità verticale, e soprattutto sulla madre come fattore primario nel determinare il destino, vengono anche da un'altra direzione. Diane Eyer chiama «il legame primario madre-bambino» (è il titolo del suo libro) «una fantasia scientifica» (il sottotitolo).
« La nozione di legame primario madre-bambino è il portato di un'ideologia tanto quanto è una scoperta scientifica. Più precisamente, di quell'ideologia che vede le madri come le principali artefici della vita dei loro figli e dà a esse la colpa di tutti i problemi che i figli incontrano, non solo durante l'infanzia ma anche per tutta la vita adulta».
E più avanti: «Vorrei proporre l'impossibile: che si smettesse addirittura di usare l'espressione "legame primario madre-bambino"... il che ci obbligherebbe a guardare finalmente la realtà e a vedere che i bambini non sono come creta nelle nostre mani. Essi nascono con le più svariate personalità e potenzialità». La «fantasia scientifica» di cui paria la Eyer corrisponde alla mia «superstizione parentale»; la sua percezione delle «più svariate personalità e potenzialità» è la mia visione della ghianda individuale, unica e irripetibile. Moltissimi fattori al di là di padre e madre modellano la nostra vita:
«I bambini sono profondamente influenzati da tutta una serie di persone che interagiscono con loro, dal cibo che mangiano, dalla musica che ascoltano, dalla televisione che guardano, dalle speranze che scorgono nel mondo degli adulti... Le persone possono entrare in contatto a livello intellettuale, a livello emotivo, attraverso l'accudimento quotidiano, attraverso il gioco, la musica e l'arte, attraverso la scuola e attraverso l'etere. La formazione dei nostri bambini è qualcosa che possiede molte e molte dimensioni ».
Si potrebbe estendere la rete formativa descritta da Eyer fino a comprendere i fenomeni spirituali e religiosi che nascono autonomamente nei bambini, riportati minutamente da Robert Coles. E andrebbero aggiunti anche gli oggetti della tecnologia e gli arredi degli spazi entro cui vivono i bambini, le strade e i suoni della strada, le spiegazioni e i valori che vengono loro impartiti, le forze invisibili che la natura manifesta. Tutte queste cose non si limitano a fornire al bambino stimoli e contenuti da incamerare. Esprimono anche un senso del mondo, al quale ciascun bambino risponderà. Il fatto che alcuni rispondano in maniere impreviste o che altri non vogliano rispondervi non può a rigor di logica essere attribuito a insicurezze e problemi dipendenti dal legame primario con i genitori. Per ciascuno di noi, bambino o adulto, la domanda che eclissa tutte le altre è la seguente: Come trovare un posto nel mondo a ciò che è venuto al mondo con me? Come far combaciare il mio significato con i significati ai quali mi si chiede di conformarmi? Che cosa, insomma, mi aiuta a discendere, cioè a crescere?
Certo non la superstizione parentale. Essa ci distoglie dalla nostra ghianda riportandoci da Mamma e Papà, che magari sono morti da un pezzo, anche se i loro effetti ancora ci legano. Ma allora io stesso sono soltanto un effetto, un effetto della loro causa. Con tutto il nostro eroico individualismo, noi americani rimaniamo attaccati a una psicologia evolutiva « materna», la quale afferma che noi siamo essenzialmente il risultato delle cure parentali e dunque essenzialmente vittime di quel che, segnandoci indelebilmente, è avvenuto in passato. Dal punto di vista psicologico, sembriamo, come nazione, eternamente impegnati nello sforzo di lasciarci il passato alle spalle, di guarire da ferite passate. Ma forse la guarigione può iniziare soltanto quando ci saremo lascia alle spalle il mito della madre. Perché noi siamo vittime non tanto dei nostri genitori, quanto dell'ideologia del genitore; non tanto del potere fatale della Madre, quanto della teoria che le attribuisce quel potere fatale.
Tale teoria è espressa, per esempio, in libri come Assistenza all'infanzia e sviluppo affettivo, di John Bowlby, che tanta diffusione ha avuto. Nelle sue pagine udiamo riecheggiare la voce archetipica della Grande Madre, tra annunci funesti di rovina e di morte qualora la teoria andasse inascoltata e il potere della madre irriso.
« Le prove accumulate non lasciano spazio a dubbi circa la seguente proposizione generale: la prolungata deprivazione di cure materne durante la prima infanzia può avere gravi ed estesi effetti sul carattere del bambino e dunque su tutta la sua vita futura. Si tratta di una proposizione della stessa natura di quelle riguardanti gli effetti sul nascituro della rosolia durante la gravidanza o della carenza di vitamina D nei primi mesi di vita».
Non è tua madre che continua a dominare la tua vita adulta, bensì l'ideologia che proclama che ciascuno di noi è stato determinato nelle prime ore dopo la nascita o nell'istante stesso della nascita, l'ideologia che sostiene a gran voce che una somma di minuscole cause e di effetti cumulativi conduce a quello che siamo oggi, e a come a nostra volta influiremo sui nostri figli. Tu sei la causa diretta di danni irreversibili alla vita dei tuoi figli, che si potranno manifestare non soltanto come fallimento e frustrazione, ma addirittura nella delinquenza e nella follia. Questa ideologia intrappola le madri nella superstizione parentale e i figli nel risentimento contro la madre. L'affilata critica della Eyer smonta questa ideologia. Ma senza essere distruttiva. Come la mia, la sua critica mira a dissolvere la superstizione che ha trasformato il legame in una catena. Tale superstizione, come scrive David Rowe, « consiste nel credere che ciò che forma la natura umana sia la quindicina d'anni che si impiega per allevare un bambino, anziché tutto il peso della storia culturale e, ancora più indietro, la storia dell'evoluzione umana. Da un punto di vista più generale, le tradizioni culturali possono essere trasmesse in molti altri modi che non con l'esposizione a un'idealizzata famiglia nucleare. Gli adolescenti che negli anni precedenti la seconda guerra mondiale si iscrissero entusiasticamente ai gruppi giovanili nazisti non avevano l'anima deformata e mutilata da carenze educative infantili; al contrario, venivano da solide famiglie borghesi dove trovavano sostegno emotivo. Se la gioventù di un'intera nazione può essere modificata da pochi anni di grandi cambiamenti culturali, che senso ha porre tanto l'accento sull'infanzia?».
Questa esaltazione dei genitori, e della madre in particolare, a scapito di tutte le altre realtà (sociale, ambientale, economica), mostra come la cieca venerazione di un archetipo possa cancellare il buon senso. Riferisce la Eyer che autorevoli studiosi della maternità, come Bowlby e T. Berry Brazelton, attribuiscono lo sguardo vuoto e la tristezza dei bambini cambogiani e dell'Europa postbellica alla perdita della madre e ad altre interferenze nel rapporto madre-figlio, ignorando bellamente le spaventose atrocità del mondo che stava intorno a quelle madri e a quei figli. Se solo quei bambini avessero «stabilito un buon legame» con madri «normalmente buone» e fossero stati sicuri nei loro «attaccamenti», devastazioni, genocidi e atrocità avrebbero toccato solo tangenzialmente la loro condizione! Ancora una volta, il mito archetipico della madre avvolgente che isola da ogni altra influenza ha la meglio sul mondo reale della sofferenza collettiva. Il mito della madre avvolge e isola anche la mente dello scienziato che osserva. Le teorie « materne » consolano ma anche soffocano. Mary Watkins, un'osservatrice dalla mente più libera, fa notare come i più importanti autori di teorie psicologiche in cui la relazione madre-figlio è vista come determinante in assoluto per il resto della vita - e cioè D.W. Winnicott, Melarne Klein, René Spitz, John Bowlby, Anna Freud - abbiano elaborato le loro teorie nell'Inghilterra martoriata dai bombardamenti o dell'immediato dopoguerra. È una reazione abbastanza comune cercare rifugio presso la madre quando si è in pericolo, ma che la psicoanalisi «scientifica» debba nascondersi dietro le sue sottane...!
Quell'osservazione della Eyer, che «i bambini sono profondamente influenzati... dalle speranze che scorgono nel mondo degli adulti», potrebbe essere una chiave per comprendere lo sgomento e il turbamento del mondo infantile. Quali speranze possono mai scorgere nel mondo degli adulti? Cucire addosso una qualche speranza ai bambini e al loro futuro è più facile per il mondo degli adulti che darsi esso stesso un orizzonte di speranza. Le popolazioni arcaiche e le comunità tribali offrivano ai loro bambini la stabilità, un illimitato arco di tempo di continuità. I cambiamenti ciclici, le migrazioni, il nomadismo non intaccavano le fondamenta. I mid rendevano vivibile la vita e la speranza non era una categoria dell'esistenza. La speranza entra nella storia, e nella nostra psicologia, quando si appanna la fiducia nella continuità. Il nostro mito fondamentale è apocalittico, come leggiamo nel libro di Giovanni che chiude la Bibbia, e i nostri figli vivono oggi in mezzo a immagini della catastrofe e agiscono quelle immagini. Logico che i suicidi tra i bambini e gli adolescenti mostrino un incremento impressionante. Dev'essere ben angosciante per un bambino legare la propria stella a una struttura di devastazione, estinzione e morte che è sul punto di crollare e non può essere salvata legando insieme le persone in una rete di relazioni umane soddisfacenti. Non dipende dall'individuo, dice il mito. L'unica speranza, secondo la versione autorizzata dell'apocalisse moderna, sta in una redenzione divina e in una seconda opportunità. A fronte di quella fantascientifica Armageddon cosmica, la fantasia scientifica della psicologia riduce la causa dei bambini devastati a cure parentali disfunzionali, mentre il mondo, con sopra tutti i genitori, si avvia verso l'orlo dell'abisso.
Assente il padre
«Papà, dove sei? Sei tornato?». No, piccolo, papà è a pranzo con i colleghi. Dove è giusto che sia, come sosterrò tra poco. Il suo posto è altrove, come spiegherò tra poco, perché il suo valore fondamentale per la famiglia consiste nel mantenere i contatti con l'altrove.
Quando lo vediamo nei telefilm e negli spot pubblicitari, Papà è un po' uno stupidotto. Non è molto al corrente, rimane sempre spiazzato. Secondo i critici contemporanei del ruolo paterno, si fa apposta a farlo apparire un po' stupido perché questa immagine indebolita serve a intaccare il potere e il formalismo ingessato della società patriarcale, rende più paritarie le relazioni tra i sessi e sfuma le differenze gerarchiche tra padri e figli. Di conseguenza, le mogli sono dipinte come più pratiche e presenti a se stesse e i figli come più aggiornati ed esperti delle cose del mondo. Papà è un brav'uomo, ma un filino tonto.
La mia tesi è che sotto ci sia dell'altro, non solo un cambiamento delle convenzioni sociali e un ammorbidimento del padre patriarcale. La commedia rappresentata sugli schermi televisivi ha un sottile intreccio secondario, non privo di fondamenti. Forse il vero compito di Papà è proprio quello di non capire niente di marche di caffè, di candeggianti e di merendine o di come affrontare le cotte della pubertà; forse la sua ottusità dimostra che davvero quello non è il suo mondo. Il suo mondo non compare sullo schermo perché è tra le quinte, altrove, ed è invisibile. Papà deve tenere un piede in un altro spazio, un orecchio sintonizzato su altri messaggi. Non deve perdere la sua vocazione né dimenticare i suoi obblighi nei confronti del desiderio del cuore e dell'immagine che egli incarna.
Beninteso, questi obblighi non riguardano soltanto gli uomini; ma sono gli uomini a essere definiti «assenti». Perciò il nostro compito psicologico è quello di esplorare tale assenza al di là delle solite accuse di abbandono, «lavorodipendenza», incapacità colposa di relazione, mancato mantenimento dei figli, doppia morale, egocentrismo patriarcale, che, assai giustamente, vengono rivolte a molti padri. Per secoli i padri sono stati assenti: in paesi lontani a combattere campagne militari; sul vasto mare, per anni di fila, come marinai; via da casa come mandriani, esploratori, cacciatori di pelli, cercatori d'oro, messaggeri, prigionieri, trafficanti, ambulanti, negrieri, pirati, missionari, emigranti. La settimana lavorativa una volta era di settantadue ore. Inoltre il costrutto « ruolo paterno » presenta facce estremamente diverse a seconda dei paesi, delle classi, delle occupazioni e delle epoche storiche. Soltanto oggi l'assenza è così ignominiosa e definita una condotta delinquenziale e addirittura produttrice di delinquenza. Come male sociale, il padre assente è l'uomo nero dell'era social-terapeutica, questo periodo storico che vuole curare le cose che non comprendiamo. L'immagine paterna convenzionale, di un uomo al lavoro, che rincasa all'imbrunire, che guadagna il pane, mantiene la famiglia premuroso del suo benessere non solo materiale e dedica ai figli un tempo di qualità, è un'altra fantasia della superstizione parentale. E un'immagine che non potrebbe essere più lontana dalla sua base statistica. Già nel 1993, negli Stati Uniti, solo pochissime famiglie rientravano nel modello del marito-padre che lavora e mantiene la famìglia, formata dalla moglie-madre casalinga e dai loro due figli. Tutti gli altri americani vivono in modo diverso. La tendenza statistica dei padri, dunque, è di non realizzare questa immagine, così come quella delle donne è di non realizzare l'immagine di moglie-madre casalinga. Se l'espressione «i valori della famiglia» significa due genitori che vivono insieme con i loro figli biologici nella loro casa, bisogna ammettere che tali valori hanno ben poco a che vedere con il modo in cui vivono di fatto gli americani. Prima di scagliarci contro i padri per la loro latitanza e la concomitante ingiustizia di scaricare un peso in più su madri, maestri, scuole, polizia e contribuenti, dobbiamo chiederci dove sta Papà quando non è a casa: se da casa è assente, dov'è che potrebbe essere presente? E che cosa lo chiama altrove? Rilke dà una risposta:
Talvolta un uomo si alza da tavola a cena ed esce e cammina, e continua a camminare, perché da qualche parte a oriente sa di una chiesa. E i suoi figli pregano per lui, come se fosse morto.
E un altro uomo, che muore nella sua casa, nella sua casa rimane, dentro il tavolo e il bicchiere, sicché i suoi figli devono andarsene nel mondo,
lontano,
verso quella stessa chiesa,
che il padre ha dimenticato.
Rilke ci spiega l'assenza del padre. Ma la qualità della sua presenza, la rabbia, l'odio, come si spiegano? Perché il padre è un tale distruttore della famiglia, così violento, così brutale? E davvero la moglie che odia, i suoi figli che vuole picchiare, perché nessuno in casa gli ubbidisce e tutti gli chiedono soldi? O potrebbe esserci un altro fattore, meno personale e più demoniaco, che lo possiede e non allenta la presa?
Io sono giunto alla conclusione che la superstizione parentale abbia inchiodato lo spirito del padre a una falsa immagine e che nello sforzo di liberarsi il suo daimon diventi un demonio. I padri americani sono rimasti intrappolati in un costrutto chiamato il Padre americano, una sorta di imperativo morale a fare il bravo papà che trova divertente Disneyland, e a cui piacciono le porcherie che mangiano i ragazzini, e i loro marchingegni, le loro opinioni, le loro battute.
Questo stucchevole modello spinge il padre a tradire il proprio angelo necessario, quell'immagine di un qualcos'altro che egli porta nel cuore, intravisto dall'infanzia, e che noi in questo libro gli confermeremo. L'uomo che ha perduto il suo angelo finisce per assomigliare a un diavolo; e allora l'assenza, la violenza o la paralisi sul divano dello psicoanalista sono tutti sintomi dell'anima alla ricerca della perduta vocazione verso qualcosa di altro e di oltre. L'oscillare del padre tra la rabbia e l'apatia, al pari delle allergie e dei disturbi comportamentali dei suoi figli e delle depressioni e dei queruli risentimenti di sua moglie, sono parte di un modello al quale partecipano tutti insieme, non già la «famiglia come sistema», bensì un sistema economico banditesco, che promuove la loro comune insensatezza sostituendo l'«oltre» con il «di più».
Ecco dunque dove lo chiama la sua assenza - fisica, psicologica, spirituale: lo chiama fuori dalla gabbia del delirio americano che spezza le ali all'angelo. Se manca l'ispirazione, ciò che resta è la nuda, gratuita ferocia. Se manca l'aspirazione a un ideale, ciò che resta sono fantasie lascive e la seduzione di immagini a ruota libera incapaci di ancorarsi in un progetto. Presente con il corpo, assente con lo spirito, il padre americano si sdraia sul divano, svergognato dal suo stesso daimon per le potenzialità che la sua anima possiede e che non vogliono lasciarsi soffocare. Dentro si sente un sovversivo, perché si immagina, nella sua passività, eccessi di aggressività e di desiderio che vanno repressi. Soluzione: più lavoro, più soldi, più alcolici, chili in più, più informazione, più televisione; e gli anni della piena virilità dedicati in modo quasi fanatico ai «ragazzini», che crescano bravi, bravi consumatori, soprattutto, nel perseguimento della felicità! Un figlio «felice»: mai, in nessun tempo e in nessun luogo, questo è stato il fine che i genitori si sono proposti. Un figlio industrioso, che si renda utile; un figlio malleabile; un figlio sano; un figlio ubbidiente, ben educato; che si tenga lontano dai guai; un figlio timorato di Dio; un figlio da godere: tutte queste sottospecie, sì. Ma la superstizione parentale ha fatto cadere i genitori nella trappola di dover fornire, insieme alle scarpe, ai libri di scuola, alle vacanze con il bagagliaio carico da scoppiare, anche la felicità. Ma può chi è infelice produrre felicità? Poiché la felicità alla sua antica fonte era eudaimonia, cioè un daimon contento, soltanto un daimon che riceve ciò che gli spetta può trasmettere un effetto di felicità all'anima di un bambino. Sì, sto proprio dicendo che la «cura dell'anima», come ha scritto Thomas More, può in se stessa aiutare a far fiorire l'anima dei nostri figli.
Quando nel genitore l'onere del fare anima slitta nel fare l'anima del figlio, allora quel genitore sta cercando di sottrarsi al compito che la ghianda gli ha assegnato nella sua vita. Allora il figlio viene messo al posto della ghianda. Sento che mio figlio è speciale, ne faccio la mia vocazione e mi dedico alla realizzazione della ghianda che è dentro di lui. Il risultato è che il mio daimon è scontento perché si sente disatteso, e mio figlio è scontento perché è diventato un simbolo della vocazione di suo padre. Dicevo sopra che tua madre potrà essere un demonio, ma non è il tuo daimon, lo stesso vale per tuo figlio: non è il tuo daimon.
In anni di lavoro con i miei pazienti e di ritiri con gruppi di uomini, nonché ascoltando la voce che mi ammonisce, ho imparato che quando un figlio va a sostituire il nostro daimon, proveremo risentimento per quel figlio, finiremo addirittura per odiarlo, nonostante tutta la buona volontà e i nobili princìpi. Lo scrittore Michael Ventura, acuto critico della nostra società, ha scritto che gli americani odiano i bambini. Sembra un'osservazione esagerata e assurda. Quale altra cultura in tutta la storia ha più della nostra parlato come i bambini, sentito come i bambini, pensato come i bambini, o è stata più restia a mettere da parte i suoi giocattoli? E quale cultura, oggi, è impegnata più della nostra in campagne per salvare i bambini del mondo, quale altra cultura fornisce più strutture ospedaliere per la cura dei bambini prematuri e per trapianti neonatali senza badare ai costi, e si batte con più accanimento militante in difesa dei feti? Eppure tutto questo è una copertura, dietro la quale si nasconde un'impressionante indifferenza e negligenza nei confronti del bambino.
Diamo un'occhiata ai dati. Dei cinquantasette milioni di bambini sotto i quindici anni che vivono negli Stati Uniti, oltre quattordici milioni si trovano sotto la soglia ufficiale di povertà. Gli Stati Uniti vengono subito dopo l'Iran e la Romania quanto a percentuale di neonati sotto peso. Un bambino su sei ha un patrigno o una matrigna, e mezzo milione vive stabilmente in istituti o in affido. Tra i bambini e gli adolescenti americani le morti per suicidio superano quelle per cancro, aids, difetti congeniti, influenza, malattie cardiache e polmonite messi insieme. Ogni giorno, almeno un milione di bambini abbandonati a se stessi tornano in case dove hanno accesso ad armi da fuoco.
Oltre a questi bambini che arrivano a far parte delle statistiche, ci sono quelli, di tutte le classi sociali, che sono in trattamento per deficit dell'attenzione, iperattività, obesità, resistenza all'autorità, bulimia, depressione, gravidanze, tossicodipendenza...
Della disperata condizione dell'infanzia sono responsabili le vistose ingiustizie economiche, l'inerzia politica e la delirante illusione del circo (senza neppure il pane). Ma io accuso la superstizione parentale di incoraggiare questa colpevole negligenza. Il deficit dell'attenzione che padri e madri mostrano nei confronti della personale vocazione con la quale sono nati e l'iperattività con cui si manifesta tale distrazione costituiscono un tradimento della ragione per cui essi, come individui, sono su questa terra. Quando mio figlio diventa la mia ragione di vita, significa che ho abbandonato la ragione invisibile della mia vita. Quanto alla ragione per cui sono al mondo come adulto, come cittadino, come genitore, io dico che è quella di rendere il mondo ricettivo nei confronti del daimon. Di far rinsavire questa civiltà, in modo che un bambino ci possa davvero crescere e il suo daimon trovarci il suo spazio vitale. Questo è il compito dei genitori. Per adempiere a tale compito in favore del daimon di tuo figlio, devi prima di tutto portare testimonianza al tuo.
Il padre che abbia abbandonato la flebile voce del proprio genio individuale, scaricandola sul figlio che ha generato, non potrà sopportare nulla che gli ricordi il suo tradimento. Non potrà tollerare l'idealismo che nasce così naturalmente e spontaneamente nel bambino, l'entusiasmo romantico, il senso di giustizia, la bellezza dello sguardo fresco, l'attaccamento alle piccole cose e l'interesse per i grandi interrogativi. Tutto questo diventa intollerabile per l'uomo che ha dimenticato il proprio daimon.
Anziché imparare dal bambino, prova vivente degli invisibili presenti nella vita di ciascuno, il padre capitola di fronte al figlio, turbando la sua discesa nella civiltà con il situarlo in un mondo giocattolo. Risultato: una cultura bambineggiante orfana di padre, con bambini disfunzionali dal potere esplosivo. Come i vampiri che tanto li affascinano, i bambini della nostra cultura, guardati con sentimentalismo per la loro innocenza e trascurati per il fastidio che causano, succhiano il sangue della vita adulta.
Gli antenati
La credenza, secondo la quale il mio mondo sarebbe plasmato fin dall'inizio dai miei genitori, a me sembra un esempio di «concretezza mal posta». L'espressione l'ho mutuata dal matematico e filosofo inglese Alfred North Whitehead. La concretezza mal posta non mantiene la necessaria distinzione tra «astratto» e «concreto». I genitori cosmici, mitici, vengono confusi con le madri e i padri personali. Allora il potere formativo e i misteri assegnati ad astrazioni come il cielo e la terra, il Dio Cielo e la Dea Terra (o, nella mitologia egizia, viceversa), diventano madri e padri concreti, mentre madri e padri sono divinizzati, con effetti di proporzioni cosmiche.
Le forze dislocate dalla coppia mitica che regge il mondo, come Zeus ed Era, diventano «il romanzo familiare», come Freud ha chiamato questa fantasia. I legami con i genitori ci fanno e ci disfano. Inoltre, crediamo di appartenere soltanto a questa nostra storia personale con l'influenza personale che su di essa esercitano i nostri genitori, invece che agli invisibili miti che i genitori hanno spodestato. Essere plasmati in maniera così fatale dall'universo dei genitori significa avere perduto i genitori universali e anche l'universo come nostro genitore. Perché anche l'universo ci plasma, ci nutre, ci insegna.
Se oggi la nostra civiltà incomincia a rivolgersi all'ambiente per allontanare la catastrofe ecologica, il primo passo di questo riavvicinamento alla natura consiste nell'oltrepassare la soglia della casa paterna per entrare nella casa del mondo. Tutte le cose intorno a noi ci fanno da genitori, se essere genitori significa sorvegliare, istruire, incoraggiare, ammonire. Credete davvero che l'uomo abbia inventato la ruota tutto da solo, tirandola fuori dal suo cervellone, e così il fuoco, le ceste intrecciate, gli utensili? Le pietre rotolavano lungo i pendii; saette di fuoco squarciavano il cielo ed erompevano dalla terra; gli uccelli tessevano, pescavano, macinavano, e così pure le scimmie e gli elefanti. È stata la natura a insegnarci le scienze per dominare la natura.
Più restiamo aggrappati all'importanza esclusiva dei genitori e più li investiamo di un potere cosmico, meno riusciamo a vedere le cure paterne e materne offerte quotidianamente dal mondo nelle piccole cose che ci mette davanti. Come ha dimostrato la scuola di psicologia di J J. Gibson della Cornell University, il mondo offre possibilità di farsi un nido e di proteggersi, di soddisfare la fame e la sete, di avere avventure e di giocare. Il mondo non è fatto tanto di nomi, quanto di verbi. Non consiste solamente di oggetti e di cose; è pieno di occasioni utili, ludiche, avventurose. L'oriolo non vede un ramo, vede un'occasione per appollaiarsi; il gatto non vede l'oggetto da noi definito una scatola vuota, bensì un buon nascondiglio per vedere non visto; l'orso non fiuta il favo, ma l'occasione per mangiarsi una leccornia. Il mondo è tutto un ronzare, uno sbocciare di informazioni, accessibili a tutti, mai negate.
I bambini, in particolare, riconoscono questa disponibilità della natura a nutrire e istruire. Secondo le osservazioni di quell'acuta pioniera dell'ecologia che è Edith Cobb, l'immaginazione infantile dipende completamente da questo intimo contatto con l'ambiente. L'immaginazione non cresce da sola dentro le pareti domestiche, e neppure si nutre soltanto delle fiabe raccontate dalla mamma e dai papà. I bambini sono « per natura » a casa propria nel mondo; il mondo li invita a discendere, cioè a crescere e a partecipare. E dicendo questo non mi rifaccio tanto a Rousseau, a Fròbel (il fondatore dei primi giardini d'infanzia) e a Alice Miller: infatti non dico che i bambini sono naturalmente buoni o integri, ma semplicemente che la loro immaginazione, la loro intelligenza e la loro anima si nutrono di una natura che è anche la loro madre e il loro padre. Di conseguenza, se oggi i nostri bambini presentano delle turbe, non è tanto di padri e di madri che hanno bisogno, quanto forse di un po' meno paternalismo e maternalismo, che li trattengono dalla fiducia e dal piacere nei confronti del mondo, il mondo concreto, fisico.
Quanto più sono convinto che la mia natura mi venga da mìo padre e mia madre, tanto meno sarò aperto alle influenze dominanti che ho intorno; tanto meno sentirò come intimamente importante per la mia storia il mondo che mi circonda. Eppure, perfino le biografie incominciano collocando il soggetto in un luogo fisico; l'io nasce in mezzo agli odori di una precisa geografia. Nell'attimo stesso in cui l'angelo entra dentro una vita, entra dentro un ambiente. Siamo ecologici già dal primo giorno.
Dunque il disastro ecologico che paventiamo è già avvenuto si consuma ogni giorno. Avviene nelle spiegazioni e nelle descrizioni che diamo di noi che ci separano dal mondo attaccandoci al paternalismo e al maternalismo, avviene nella credenza che le cose là fuori contino meno, nel formare la persona che sono, della mìa famiglia ristretta. La superstizione parentale è micidiale per la nostra coscienza di sé, e sta uccidendo il mondo.
Finché non sarà corretta questa superstizione psicologica, non c'è campagna umanitaria per una società multiculturale ed ecologica, non c'è escursionismo, Peace Corps, bird-watching o canto delle balene che possa ripristinare davvero il mio attaccamento al mondo. Prima, devo attuare quella ricostruzione psicologica, quel salto di fede dalla casa dei genitori alla mia casa nel mondo.
La psicoterapia non fa che aggravare l'errore. La sua teoria del danno evolutivo causato dalla famiglia di fatto allontana il paziente da tutto ciò che potrebbe offrire conforto e insegnamento. A che cosa si rivolge l'anima che non ha un terapeuta con cui fare le sedute? Porta le sue pene a un bosco, alla riva di un fiume, a un animale amico, oppure in giro senza meta per le vie della città, a contemplare il cielo notturno. Oppure guarda fuori dalla finestra o mette a bollire l'acqua per farsi una tazza di tè. È come respirare: espandiamo i polmoni, li rilassiamo, e ci arriva qualcosa, da fuori. Il daimon, nel cuore, sembra contento, perché preferisce la malinconia alla disperazione. C'è contatto.
L'«ambiente favorevole», tanto necessario alla fantasia del genitore adeguato secondo Winnicott (l'affettuoso, fraterno teorico e clinico della terapia del buon senso), è appunto l'ambiente, quello vero, fisico, non fosse che è così trascurato e quindi temuto. Poiché lascia fuori dai suoi costrutti fondamentali il mondo concreto, la teoria psicologica immagina il mondo là fuori come un luogo di oggetti, freddo, indifferente, addirittura ostile (e la terapia come rifugio protettivo, lo studio del terapeuta come un asilo senza estradizione). In questo modo, il mondo riceve la proiezione della cattiva madre, la madre che uccide, inventata dalla «teoria materna». Siamo riportati al mondo della natura concepito quattro secoli fa da Cartesio, la natura come mera res extensa, uno sconfinato campo di materia vuota di anima, inospitale, meccanico, quando non demoniaco.
Certo che ci sono demòni, là fuori, da propiziare. Le calamità sono in agguato, ma le potenze dietro la porta e nella boscaglia sono anche antenati, non semplicemente batteri, ragni, sabbie mobili. Come abbiamo spodestato i genitori cosmologici, allo stesso modo abbiamo anche perduto gli antenati. Sono stati inghiottiti dai genitori.
Le nostre biografie e storie cliniche si aprono con i dati: genitori e luogo di nascita. A volte risalgono in linea diretta, attraverso i genitori, ai quattro nonni, o al massimo agli otto bisnonni. Perlopiù, tuttavia, si fermano a mamma e papà, alcuni addirittura alla mamma soltanto, visto che il padre, come sappiamo, è assente.
Dunque l'idea di antenato è filtrata dai genitori carnali. Oltre a essere stati divinizzati come motori e scuotitori del nostro cielo e della nostra terra, i genitori hanno usurpato i compiti protettivi e la richiesta di devota attenzione tradizionalmente accordati agli antenati invisibili. «Ascendenza», nella nostra cultura, sottintende connessione cromosomica; gli antenati sono gli esseri umani dai quali ho ereditato i tessuti del mio corpo. La biogenetica al posto del mondo degli spiriti.
In altre società, antenato potrebbe essere un albero, un orso, un salmone, l'anima di un defunto, uno spirito veduto in sogno, un luogo speciale dove si avvertono presenze. Tutte queste cose possono essere chiamate «il mio antenato» e io posso costruirgli un tabernacolo fuori dalla casa dove abito. Gli antenati non sono legati a un corpo umano e certamente non sono confinati agli ascendenti biologici la cui discesa nella mia sfera è stata possibile solo per il tramite della mia famiglia naturale. Soltanto se è abbastanza onorevole, potente, sapiente, un membro della famiglia naturale (peraltro non sempre nettamente definibile), poniamo un nonno o uno zio o una zia, potrà diventare mio antenato, nel senso di spirito custode. Non è necessario essere morti per diventare antenati, ma è necessario conoscere i morti, vale a dire il mondo invisibile e le sue relazioni con i viventi.
In quanto spiriti, gli antenati hanno rapporti con altri spiriti, con la comunità nel suo insieme, con le cose con cui convivono, con le località del loro ambiente e con la particolare immagine del cuore che dà vitalità all'individuo e lo protegge. Quando una persona dà in escandescenze, o diventa abulica e impotente oppure litigiosa e meschina, si possono chiamare in aiuto specifici antenati per liberarla da quegli influssi maligni e ripristinare l'equilibrio. Da notare che nessuno di quegli stati disfunzionali è attribuito ai genitori della persona in questione. La disfunzione, quale che sia, viene da fuori: malocchio; infrazione di qualche tabù; mancata celebrazione di determinati riti; aria, acque, località insalubri; un ignoto nemico; la collera di una divinità; un dovere trascurato o un'offesa dimenticata. Ma mai e poi mai lo stato della vostra anima verrebbe attribuito a quello che vostra madre o vostro padre vi hanno fatto qualcosa come trent'anni prima! I vostri genitori sono stati semplicemente la necessaria occasione della vostra venuta nella comunità, avendo essi compiuto i riti prescritti che hanno consentito alla vostra anima di fare il suo ingresso nel mondo.
Non avendo il senso degli antenati, chi possiamo propiziare come influenza diretta e determinante sulla nostra vita, se non i nostri genitori? Noi prendiamo alla lettera il quarto comandamento, « Onora il padre e la madre», il che è segno di civiltà e gentilezza. Ma non dimentichiamo che la preoccupazione di questo comandamento, come dei tre precedenti, è quella di eliminare ogni traccia di politeismo pagano, nel quale il culto degli antenati era fondamentale. Il contesto chiarisce che quei padre e madre non sono i nostri mamma e papà naturali. Hanno poteri immensi e vanno onorati in quanto garanti del destino, « perché la tua vita sia lunga e tu sia felice nel paese che il Signore tuo Dio ti dà» (Di, 5, 16). Al pari degli spiriti antenati, essi sono i custodi e protettori di una vita prolungata, latori di buona sorte e spiriti della natura che abitano la terra. Nasce qui, per comandamento, e varrà per i secoli dei secoli, la superstizione parentale. Il mondo primordiale degli spiriti è stato rimpicciolito negli idoli concreti e umani, troppo umani, di due figure individuali.
Il processo di riduzione operato dalla religione ufficiale su quello stupendo serraglio di antenati ha impiegato secoli a essere completato. Noi lo chiamiamo processo di civilizzazione. Gaia e Urano, Geb e Nut, Bor e Bestia si sono ristretti fino alla piccola taglia di mamma e papà, e non stanno più in cielo, bensì nell'appartamento al piano di sopra. Il nostro orizzonte è stato ritagliato per ridurlo alla loro scala, e la loro scala è stata ingrandita da ciò che essi rimpiazzano. E i nostri riti in loro onore hanno perduto ogni linfa, riducendosi a una giornata apposita all'anno per ciascuno, alla cura della loro salute e benessere materiale, a qualche telefonata; e tutto questo mentre continuiamo ad attribuire enorme potere determinante alla magica influenza che essi hanno sulla nostra vita intima.
«Onora il padre e la madre»: sì, certo; ma non confonderli con le divinità creatrici-distruttrici o con gli antenati. L'«elaborazione del complesso materno (o paterno)» è faticosa, perché non si tratta semplicemente di un errore logico o di una «concretezza mal posta», o di un passo diffìcile del processo terapeutico verso l'autodeterminazione. L'elaborazione della superstizione parentale assomiglia a una conversione religiosa: alla liberazione dal nostro secolarismo, dal nostro personalismo, dai nostri monoteismo ed evoluzionismo e fede nella causalità. Richiede di compiere un passo indietro, per tornare all'antico contatto con le cose invisibili, e un passo fiducioso oltre la soglia di casa, per immettersi nella ricca profusione di influenze offerta dal mondo. «La religione» ha detto ancora Whitehead «è lealtà nei confronti del mondo». Questo potrebbe comportare slealtà nei confronti di una credenza molto cai a alla società nel suo insieme, alla psicoterapia in generale e a noi in particolare: la credenza nel potere dei genitori.