LA MEDIOCRITÀ

Può esistere un angelo mediocre? Una vocazione alla mediocrità? In fondo, la maggior parte di noi trascorre l'esistenza al sicuro proprio sotto la curva della campana di Gauss. Accalcati là sotto, intorno alla media, guardiamo con invidia e timore le rare eccezioni che premono per sfuggire agli estremi. Noi della maggioranza, nella media vuoi per talento, per opportunità, per ambiente, fortuna, intelligenza o bellezza, né siamo nati grandi né saremo mai sfiorati dalla grandezza. Così almeno pare. 

Intanto, incominciamo con l'ammettere che intorno al termine « mediocre » si sono accumulati un mucchio di pregiudizi snobistici. Quando applichiamo quel termine a una cosa, è sottinteso che ne stiamo prendendo le distanze. Noi no, noi siamo diversi, non ci riguarda, quindi a noi è lecito dare giudizi su qualsiasi cosa chiamiamo mediocre. 

«Mediocre» tende a significare «senza tratti distintivi », mentre agli snob piacciono tanto le griffe che distinguono il loro stile dalla massa: i vestiti che indossano e come li indossano, le parole che usano, i posti che frequentano, con chi si ritrovano a spettegolare. 

La letteratura occidentale a partire dai Settecento è piena di giudizi snobistici sulla mediocrità, e questa tradizione rischia di contagiare chiunque voglia affrontare il nostro tema. In qualunque situazione di vita il genio ci abbia collocati, il dato inconfutabile dell'individualità protegge l'anima da ogni tentativo di assimilazione di classe. Nessuna anima è mediocre, per convenzionali che siano i nostri gusti personali e per medie che siano le nostre prestazioni in tutto. 

Lo esprime bene il linguaggio comune. Di un'anima si può dire che è vecchia, o saggia, o tenera. Parlando di una persona diciamo che ha una bella anima, o è ferita nell'anima, che ha un'anima profonda o grande, o che è un'anima bella, cioè semplice, fanciullesca, ingenua. Ma non diremo mai: «La tale ha un'anima di ceto medio»; termini come «medio», «usuale», «tipico», «normale», «mediocre» non si accompagnano con «anima». Non ci sono parametri standard per il daimon; non esistono angeli normali, geni tipici. 

Proviamo a immaginarci un'anima mediocre. Che aspetto avrebbe? Incolore, insapore, inodore, indescrivibile, camaleontica, probabilmente potrebbe farsi passare per tutto e il contrario di tutto, adattandosi a ogni possibile cliché. Perfino quel mostro di conformismo di Eichmann non era un tipo qualsiasi. Non possiamo far coincidere la mediocrità dell'anima con il mestiere mediocre che una persona fa, tipo il manovale, la centralinista, lo stradino, perché potrà essere mediocre il lavoro in sé, ma non il modo come è svolto. Milioni di persone mangiano corn-flakes a colazione e sgranocchiano pop-corn al cinema, ma questo non comprova che la loro anima sia nella media. Ciascuno è un «uno» in virtù del suo stile. L'unica possibile anima mediocre dovrebbe essere un'anima priva di un purchessia carattere, assolutamente innocente e intatta, priva di immagine e dunque inimmaginabile e, inoltre, condannata a un'esistenza senza daimon. 

Compaiono bensì, nella letteratura della civiltà occidentale, individui senz'anima, ma perfino essi hanno un'immagine. Sono immaginati come il Golem, lo Zombie, il Robot, lo Straniero degli esistenzialisti. Esistere è essere definiti da una forma, da uno stile. Non perdiamo mai l'immagine nella quale è modellata la nostra anima, il disegno della parte assegnataci. Siamo tutti segnati; ciascuno di noi è al singolare. Per l'anima, l'idea di mediocrità non ha senso.  

Attenti però a non confondere un dono particolare (quello di Menuhin per il violino, o di Teller per la fìsica, o di Ford per la meccanica) con la vocazione dell'anima. Il talento è solo un frammento dell'immagine; molti nascono con il talento della musica, della matematica, della meccanica, ma solo quando il talento è al servizio dell'immagine totale e ha il supporto del carattere adatto a quell'immagine si manifesta l'eccezionalità. Molti sono i chiamati, pochi gli eletti; molti hanno talento, pochi il carattere che può realizzare quel talento. E il carattere il mistero; e il carattere è individuale.  

Alcuni, poi, possono nascere senza un talento particolare per una cosa precisa. Quello del generale Bradley, semmai, era per lo sport, il baseball specialmente. Ma il suo daimon stava nel carattere. Da ragazzo, quando arrancava nella neve, a piedi, nelle campagne del Missouri, per arrivare alla scuola rurale, un unico stanzone in mezzo ai campi, con il padre, che era anche il maestro, diciassette miglia in un'ora, e strada facendo abbattevano un po' di selvaggina per il pranzo (a sei anni già aveva la sua carabina personale), Bradley era diligente, studioso, obbediente, ben coordinato nei movimenti. E il suo destino stava in quello, nel suo carattere. Il suo futuro non comprendeva necessariamente West Point e l'incarico di capo di Stato maggiore, anche se la carriera militare era quella che avrebbe permesso al suo carattere di realizzare al meglio la sua immagine. (Non stava già vivendo la battaglia delle Ardenne nel gelido dicembre del '44, in quelle marce forzate nella neve del Missouri?).  

Ciò che determina l'eminenza non è tanto una vocazione alla grandezza, quanto la chiamata del carattere, l'impossibilità di essere diverso da quello che sei nella ghianda, e allora le ubbidisci fedelmente, oppure sei incalzato senza scampo dal suo sogno. Molti eroi e molte eroine del nostro secolo sono venuti al mondo in situazioni di vita mediocri, senza un indizio della loro stella nascente. Nixon, Reagan, Carter, Truman, Eisenhower, e molti altri, che eleggiamo, ascoltiamo, guardiamo alla televisione, avrebbero benissimo potuto vivere vite uguali alla nostra, mai baciati dal sole, per sempre sul lato in ombra della strada. E invece, sono stati scelti.  

La teoria della ghianda afferma che ciascuno di noi è un eletto, Il fatto stesso dì essere dei «ciascuni» presuppone una ghianda unica e irripetibile che caratterizza ogni persona. Al sole o in ombra, ciascuno ha un carattere. In rari casi, la ghianda si fa sentire forte e chiaro in età precoce. Spesso i musicisti sono tra i primi a sentire la chiamata: a sei anni Pablo Casals conosceva la letteratura musicale per piano e per organo; Marian Anderson diede il suo primo concerto a pagamento (mezzo dollaro) a otto anni; Mozart, non occorre parlarne, Mendelssohn, lo stesso; «Mahler, ancora non stava ritto in piedi che già canticchiava brani musicali sentiti suonare»; Verdi padre, esasperato dalle insistenti richieste del piccolo Giuseppe, a sette anni gli comperò la sospirata spinetta; Cajkovskij ne sospirava una già a quattro anni.  

Questi sono gli esempi più spettacolari, e dove, se non nel mondo dello spettacolo possono essere più evidenti? Ma il più delle volte l'angelo non chiama a gran voce, si limita a dirigere la lenta e silenziosa rivelazione del carattere: non solo la pronunciata vocazione che ha portato alle stelle persone come Judy Garland, Ingrid Bergman, Léonard Bernstein, ma il carattere con il quale ciascuna di esse l'ha eseguita.  

Perciò, correggiamo subito uno degli equivoci più comuni: quello di identificare la vocazione riduttivamente con uno specifico tipo di attività, invece che, anche, con l'esecuzione di quell'attività, È un equivoco che nasce, purtroppo, con il mito platonico stesso, il quale mette le anime nei mestieri: il guerriero Aiace, Ulisse il viaggiatore stanco e il marito che ritorna a casa. Nel mito platonico, l'anima sceglie il proprio destino nel senso di un mestiere. L'attività della macellazione, poniamo, e l'anima del macellaio nel mito non sono due cose distinte. Io sono il mestiere che faccio, e se faccio un mestiere mediocre, come tagliare bistecche in un supermercato, quello non è avere una vocazione.  

Ecco l'errore: il carattere non è quello che faccio, ma il modo come lo faccio. Ciascun macellaio è diverso, perché ciascuno ha un daimon individuale. Marty Piletti, il personaggio interpretato da Ernest Borgnine nel film Marty, vita di un timido, era un «bravo macellaio», con tutti i tratti della mediocrità dentro la norma della curva a campana, eppure è un personaggio unico e indimenticabile: per il suo carattere.  

L'unicità in mezzo a noi, nella mediocrità collettiva, è il soggetto delle interviste di Stud Terkel. Chi non ha, tra i ricordi d'infanzia, qualche personaggio caratteristico, il portalettere, un insegnante, la vecchietta della cartoleria, il padrone del bar sotto casa, il tabaccaio ? Il desiderio di recuperare l'individualità unica e irripetibile dalla frammentarietà e banalità delle storie cliniche è la molla profonda che muove assistenti sociali e psicoterapeuti. Gli psicoterapeuti riscrivono i loro casi clinici, non si limitano a buttar giù i dati. Vogliono arrivare a un'intuizione, a una visione che colleghi i dati in un disegno. Dentro le statistiche e le diagnosi normalizzanti del signor Rossi e del Paziente Medio, si nasconde una idiopatica, idiosincratica immagine del cuore. Dentro ciascun caso clinico c'è una persona; dentro ciascuna persona, un carattere, che è, come dice Eraclito, un destino.  

Arriveremo presto al famoso detto di Eraclito: «Il carattere è il destino». Ma prima, dobbiamo rispondere alla domanda che ha aperto questo capitolo: Esiste un angelo mediocre? Una vocazione alla mediocrità? Ecco quattro risposte.  

No, solo i divi hanno la ghianda. Noi comuni mortali tiriamo avanti, spulciando le offerte di lavoro sul giornale. 

1.Sì, anche noi della maggioranza siamo chiamati, ma non possiamo seguire la vocazione per tutta una serie di motivi: i genitori la bloccano, i dottori la diagnosticano, la povertà la distrugge, nessuno la riconosce; la fede vacilla, gli accidenti la fanno deviare. Noi ci rassegniamo e cediamo all'inerzia. La mediocrità di una scarpa vecchia. 

2.Sì, ma la scarpa vecchia non si adatta al piede; la ghianda fa venire i calli. Mentre percorro da bravo la via di mezzo, ho di continuo la sensazione che ci fosse in serbo qualcosa di diverso. Avrei potuto, avrei dovuto... Non dispero e aspetto che qualcosa mi porti sul lato dove batte il sole, che è il posto del mio vero sé. Come dice Shakespeare: « Noi, nati poveri / che stelle meno nobili imprigionano nei desideri » ( Tutto è bene quel che finisce bene, I, i, 184). Incomincio a pensare che la mediocrità del nostro destino sia un errore degli dei. Pieno di amarezza, mi sento chiuso dentro un sé inautentico. 

3.Sì, però. Per molti la vocazione è di tenere accesa la lampada sotto il moggio, di porsi al servizio della via di mezzo, di restare in mezzo alla truppa. È la vocazione all'armonia dell'uomo. E si rifiuta di identificare l'individualità con l'eccentricità. La vocazione accompagna la vita e la guida in maniera impercettibile e in forme meno vistose di quelle a cui si assiste nelle figure esemplari presentate in questo libro. Siamo tutti chiamati; lasciamo perdere gli eletti. 

La prima risposta: soltanto i divi hanno la ghianda, la si ritrova più che altro negli studi sulla creatività, nelle teorie sulla natura del genio e nelle biografie dei personaggi di spicco. Inoltre, divide l'umanità in privilegiati e non privilegiati, il che non è propriamente l'intento di questo libro. A parte il fatto che la divisione agostiniano-calvinistica fra salvati e dannati si elide da sola, dai momento che ciascuno di noi è un eletto, eletto individualmente dal proprio daimon.  

La seconda risposta: la maggior parte delle persone smarrisce la vocazione e si dedica ad altro, compare nelle interpretazioni sociologiche. La terza costituisce il materiale dell'idealismo terapeutico, che mira a disvelare il vero sé o il fanciullino nascosto, e avvia il paziente sulla pista creativa liberando il genio dalle prevaricazioni dell'ambiente che gli hanno tarpato le ali.  

La quarta risposta è quella che mi interessa in questo capitolo e che più stimola la nostra indagine. Perché assume la mediocrità come una forma di vocazione e nello stesso tempo la ridefinisce radicalmente, liberandola dalle norme statistiche e sociologiche.  

Questa posizione trova il maggiore impulso nelle idee sulla biografia (e sulla vita) portate avanti dal femminismo contemporaneo, che mira a dimostrare come la grandezza del carattere conti tanto quanto il riconoscimento e la fama. La storiografia più recente analizza con attenzione le vite della gente qualunque, più che dei protagonisti della politica o dell'arte. Questo «nuovo» punto di vista antieroico e antigerarchico è caldeggiato anche da Roger North (1653-1734) nella prefazione alle Vite da lui scritte intorno al 1720, non esattamente ieri, dunque. La nuova storiografia guarda agli stili relazionali, ai piccoli quotidiani gesti di coraggio che modificano i valori di una cultura, alle prove morali, agli ideali espressi, mostrando le sottigliezze dell'individualità a prescindere da ciò che accade intorno al trono dell'imperatore. Per trovare il carattere, bisogna studiare le lettere dal fronte scritte dal soldato alla vigilia della battaglia e la vita delle famiglie a casa, non meno che i piani strategici stilati nella tenda del generale.  

Questa rinnovata concezione della storiografìa e della biografìa mira a far emergere dal disordine degli eventi le anime individuali. La teoria sottostante è la medesima che faccio mia in queste pagine: il carattere conforma la vita, non importa quanto oscuramente sia vissuta e quanto poca luce riceva dalle stelle.  

La vocazione diventa una vocazione alla vita» anziché essere immaginata in conflitto con la vita. Una vocazione all'onestà invece che al successo, al prendersi cura dell'altro e con l'altro, al servire e lottare per amore della vita. Abbiamo qui una revisione dell'idea di vocazione non soltanto nella vita delle donne e dal punto di vista delle donne; è una diversa visione della chiamata, in cui l' opus è la vita stessa.  

Cadono pertanto le vecchie domande, le domande che vogliono sapere: «Perché certuni sono grandi e altri no?»; «Perché la squadra di provincia che non arriverà mai al campionato nazionale, il dirigente intermedio che non otterrà mai l'ufficio d'angolo con la vetrata, il caposquadra che non riceve il premio di produzione, restano al loro posto, né licenziati né dimissionari, e continuano la loro mediocre prestazione di persone mediocri dotate di mediocre talento?».  

No, quelle persone non sono state condannate da un daimon mediocre; no, non è perché il loro genio rientri appena nella media. Anzi, in realtà, noi non abbiamo modo di dare alcuna valutazione su di loro. Finché giudicheremo le persone in base alla loro capacità salariale o a una specifica competenza, non vedremo il loro carattere. La messa a fuoco della nostra lente è stata calibrata su valori medi che la rendono più adatta a individuare, semmai, i mostri.  

Perché siamo convinti che gli angeli preferiscano le persone angeliche? Chi dice che il genius voglia frequentare solo geni? Magari gli Invisibili si interessano della nostra vita in vista della propria realizzazione e perciò sono intimamente democratici: gli va bene chiunque. Magari gli Invisibili non hanno la categoria di « mediocre». Il daimon dà importanza a tutti, non soltanto ai vip. Inoltre, noi e loro siamo legati nel medesimo mito. Siamo gemelli, il divino e il mortale, dunque siamo entrambi al servizio delle stesse realtà sociali. A causa di tale legame, l'angelo non ha altro modo per scendere in strada, tra il pubblico, se non per il tramite della nostra vita. Nel film Wings of Desire, un angelo si innamora della vita, la vita di strada delle normali vicissitudini umane.  

La nostra sociologia, la nostra psicologia, la nostra economia (insomma, la nostra civiltà) sembrano incapaci di apprezzare il valore delle persone che non emergono e le relegano nella mediocrità dell'uomo medio di intelligenza media. Perciò il « successo » finisce per assumere tutta quella esagerata importanza: offre l'unica via di fuga dal limbo della media. Stampa e televisione vengono a pescarti soltanto quando piangi dopo una tragedia, quando dai in escandescenze davanti alla platea, o quando ti metti in posa per spiegare che cosa ne pensi; dopo di che, ti butta nuovamente nel calderone della mediocrità indifferenziata. I media sanno adulare, celebrare, esagerare, ma non sanno immaginare, e dunque non sanno vedere.  

In parole povere: non esiste una mediocrità dell'anima. I due termini sono incompatibili. Provengono da territori diversi: «anima» è singolare e specifico; «mediocrità» ti prende le misure con gli strumenti della statistica sociologica: norme, curve, dati, confronti. Potrai anche risultare mediocre in tutte le categorie sociologiche, perfino nelle tue aspirazioni e realizzazioni personali, ma la maniera in cui si manifesta la tua mediocrità sociologica creerà un picco unico e irripetibile in qualsivoglia curva a campana. Non si danno taglie che vanno bene a tutti. 

«Ethos anthropoi daimon»

All'inizio, prima di Socrate, prima di Platone, era Eraclito. Quelle sue tre parole, «Ethos anthropoi daimon», spesso rese con «Il carattere è il destino», sono state citate innumerevoli volte per oltre duemilacinquecento anni. Nessuno può sapere che cosa egli intendesse dire, ma pochi si sono astenuti dal proporre un'interpretazione, come testimonia il seguente elenco di traduzioni in inglese. 

Il carattere dell'Uomo è il suo Genio. 

Il carattere dell'uomo è il suo daimon. 

II carattere di un uomo è la sua divinità protettrice. 

Il carattere di un uomo è la sua parte immortale e potenzialmente divina. 

Il carattere personale dell'uomo è il suo daimon. 

Il carattere dell'uomo è il suo destino. 

Il carattere è il destino. 

Il carattere è destino per l'uomo. 

Abitudine per l'uomo, Dio. 

Su daimon, non ci sono problemi: abbiamo già accettato la sua traduzione latina in genius, che abbiamo poi trasposto in espressioni più moderne, come «angelo», «anima», «paradigma», «immagine», «destino», «gemello interiore», «ghianda», «compagno dell'esistenza», «custode», «vocazione del cuore». Tale molteplicità e ambiguità è insita nel daimon stesso in quanto spirito immaginale personificato che per la psicologia greca era anche il destino personale di ciascuno. Ciascuno portava con sé il proprio destino come proprio personale genio accompagnatore. E infatti i commentatori traducono a volte con «destino», a volte con «genius», mai, però, con «Sé». 

Tra i popoli del continente nordamericano, troviamo una teoria di termini per indicare la ghianda, intesa come spirito-anima autonomo: yega (Coyukon); la civetta (Kwakiutl); «uomo di agata» (Navaho); nagual (America centrale, Messico meridionale); tsayotyeni (Pueblos di Santa Ana); sicom (Dakota)... e questi esseri accompagnano, guidano, proteggono, ammoniscono. A volte si attaccano alla persona, ma non si fondono mai con il suo sé personale. Anzi, la ghianda innata appartiene agli antenati, alla società, agli animali del luogo nella stessa misura in cui appartiene a «me», e si può invocarne la potenza per favorire il raccolto e la caccia, per ispirare la comunità e mancenerla in buona salute, insomma per tutte le cose che riguardano questo mondo. La ghianda non si mescola con il sé inflazionato della soggettività moderna, cosi separata, personalistica e sola. Benché sia la mia ghianda, non è me e neppure è mia.  

Il «sé» (self) che permea il nostro linguaggio quotidiano si è dilatato fino a proporzioni titaniche. Il New Oxford English Dictionary (nella versione abbreviata!) dedica dieci colonne nel suo carattere minuscolo ai composti di self: self-salisfaction, self-control, selfdefeating, self-approval, self contempi [«autocompiacimento, autocontrollo, autolesionistico, autoapprovazione, disprezzo di sé»]... e altri cinquecento almeno. La maggior parte di tali composti, che affibbiano una così lunga serie di fenomeni psichici a questo fantomatico «sé», sono entrati nell'uso inglese insieme con l'Illuminismo e con l'affermarsi del razionalismo, che hanno reso l'occhio moderno cieco agli Invisibili e dì conseguenza all'autonomia del genio e del daimon nei confronti del sé.  

Nel mondo antico, il daimon era una figura proveniente da un altrove, né umana né divina, una via di mezzo tra le due cose, abitante di una «regione mediana» (metaxu), la stessa dell'anima. Più che un dio, il daimon era una realtà psìchica che aveva intimità con noi; una figura che poteva apparire in sogno, inviare messaggi, come un cattivo auspicio, un presentimento, o un impulso erotico. Anche Eros, infatti, abitava quella regione mediana non del tutto divina e tuttavia sempre un po' inumana. I greci, perciò, sapevano bene come mai i fenomeni erotici sono sempre di difficile collocazione, celestiali e al tempo stesso crudeli, disumani. La traduzione del frammento di Eraclito che suona «Il carattere è il destino» mantiene saldamente legata la nostra vita al nostro comportamento e, nella sua lettura più semplice, starebbe a significare: se fai un mestiere mediocre, allora hai un destino mediocre.  

Naturalmente si possono dare altre letture. Alcuni commentatori vorrebbero un Eraclito che combatte le superstizioni popolari, le quali assegnano ai damones poteri determinanti sul destino. Leggono Eraclito come un moralista che attacca il fatalismo addotto a giustificazione dell'irresponsabilità personale, come se Eraclito stesse polemizzando con Shakespeare: « Sono le stelle, / Le stelle lassù, a governare le nostre vicende» (Re Lear, IV, ni, 35). No, risponde Eraclito, non sono le stelle, è il tuo carattere. Ma ecco che quella vecchia volpe di Shakespeare dice la stessa cosa: «La colpa, caro Bruto, non è nella nostra stella, / Ma in noi stessi» (Giulio Cesare, I, n, 139).  

Altri deducono da quel frammento un Io trascendentale, uno spirito mentore ancestrale, che si prende cura individualmente delle persone e guida il loro comportamento, come Socrate era guidato a fare il bene dal suo daimon. In sostanza, questa lettura dice: il fatto di seguire il daimon si traduce nell'avere carattere, ovvero abitudini comportamentali rette. Il daimon rappresenta i tratti comportamentali profondi che frenano gli eccessi, impediscono l'arroganza inflattiva e ci inducono a rimanere fedeli ai paradigmi della nostra immagine (genio). Tali paradigmi si manifestano nel modo in cui ci comportiamo; di conseguenza, per trovare il nostro genio, dobbiamo guardare nello specchio della nostra vita. L'immagine visibile rende manifesta la verità interiore, sicché, nel giudicare gli altri, quello che vediamo è ciò che ci verrà restituito. Diventa perciò estremamente importante vedere generosamente, o ci ritroveremo con ben poca cosa; vedere acutamente, in modo da distinguere i vari tratti, anziché una massa generalizzata; e vedere profondamente, dentro le ombre scure, o rimarremo ingannati. 

Il carattere

Veniamo ora a ethos, la prima parola del frammento eracliteo. Alle nostre orecchie suona come «etica», e questo carica il termine, che in greco non era appesantito dalla bontà, di tutto il moralismo della tradizione religiosa ebraica, latina e cristiana. Se proviamo a spogliare l'epos dall'etica, scopriamo che porta piuttosto il significato di «abito», «abitudine». Forse Eraclito stava dicendo che l'ethos è il comportamento abituale. Come conduci la tua vita: tale sei e tale sarai. È un autoinganno aggrapparsi a un sé privato, nascosto e più vero, a prescindere da come siamo in pratica, e purtroppo la psicoterapia promuove questa grande illusione e ci guadagna sopra. Invece, ecco il realismo di Eraclito: tu sei il modo come sei. «II modo come»: è questa la locuzione cruciale, che lega la vita, così come viene abitualmente «eseguita», con la chiamata della tua immagine. 

Che Eraclito sia il primo comportamentista? Sta forse dicendo: «Se modifichi le tue abitudini, modificherai il tuo carattere e dunque il tuo destino»? «Non ti impicciare delle ragioni sottostanti; cambia abitudini e il tuo destino cambierà»? 

Io credo che Eraclito sottintenda ben altro. Questo tipo di comportamentismo suona troppo volontaristico, troppo protestante, troppo americano e in generale troppo umanistico. E vero che Eraclito ricollega il carattere (ethos) e l'etica umana direttamente con il daimon, ma nel senso che il suo destino diventa nostra responsabilità. Il punto di vista egocentrico dell'umanismo ci fa credere che il daimon, avendoci scelti come sua dimora, si preoccupi del nostro destino. Ma il suo, allora? Potrebbe darsi che il nostro compito di esseri umani sia quello di allineare la nostra condotta alle sue intenzioni, di comportarci nel modo giusto con lui, per il suo bene. Le cose che facciamo nella nostra vita hanno effetti sul nostro cuore, modificano la nostra anima e riguardano il daimon. Con il nostro comportamento noi facciamo anima, perché l'anima non arriva preconfezionata dal paradiso. Lassù è solo immaginata, è un progetto irrealizzato che vuole scendere per crescere. 

Il daimon diventa allora la sorgente dell'etica umana, e la vita felice, ciò che i greci chiamavano eudaimonia, è la vita che va bene per il daimon. E come il daimon chiamandoci ci dispensa un bene prezioso, una benedizione, così facciamo noi con lui attraverso lo stile con il quale lo seguiamo. 

Poiché suo retroterra sono gli Invisibili, l'euca che appaga il daimon non può essere esplicitata e standardizzata. Abitudini giuste per un carattere giusto; dunque una vita giusta è un'altra cosa da una vita conforme ai principi dei boy-scout. Invece, l'euca sarà daimonica e imperscrutabile, e capace di contenere in sé il carattere di Elias Canetti che insegue la cugina con la scure per amore delle parole, o quello di Ingmar Bergman che vuole accoltellare l'amico traditore per amore di una fascinazione segreta. Includerà perfino il carattere del Cattivo Seme. Non sempre le pretese del daimon sono in accordo con la ragione, ma seguono una propria irrazionale necessità. Carenze tragiche e disturbi del carattere posseggono una qualità inumana, quasi seguissero ordini invisibili. 

L'invisibile sorgente della coerenza personale, ciò che in queste pagine chiamo «abitudine», è oggi detta dalla psicologia « il carattere ». Il concetto di carattere si riferisce alle strutture profonde della personalità, che sono particolarmente resistenti al cambiamento. Quando risultano nocive per la società sono definite neurosi del carattere (Freud) e disturbi caratteriali. Tali impervie linee del destino sono come le impronte digitali del daimon, non ce n'è una uguale all'altra. Il termine stesso, «carattere», originariamente indicava uno strumento per incidere che intaglia linee indelebili e lascia tracce. E «stile» viene dal latino stilus, l'affilato strumento usato per incidere i caratteri sulle tavolette cerate. Per forza lo stile rivela il carattere ed è così difficile da cambiare; per forza nel nucleo profondo di psicopatici e sociopatici vengono diagnosticati disturbi del carattere. Ci deve essere in loro qualcosa di profondamente, strutturalmente, caratterialmente difettoso, o che fa difetto, se possono sorridere mentre infliggono torture, uccidere senza rimorsi, tradire, ingannare, negare senza battere ciglio. Serial killer, impostori, truffatori, pedofili maniaci, presentano tutti coerenza di stile. Le loro abitudini tendono a essere ripetitive; in genere non si emendano, ma recidivano, programmati così dai circuiti del loro carattere.  

Non è tuttavia per diagnosticare psicopatici e daimo- nes di psicopatici che ci rivolgiamo, per esemplificare il carattere, a tre eminenti rappresentanti del sogno americano. Ciascuno di questi tre uomini manifesta un'irriducibile saldezza di abitudini ed è stato anzi applaudito per la ferrea fedeltà al proprio carattere. Inoltre, tutti e tre appartengono per condizione alla fascia mediana della società e la loro vita copre tutta la storia americana del ventesimo secolo: dal 1902, anno della nascita a Owosso, nel Michigan, di Thomas E. Dewey, fino al 1995, quando Billy Graham era ancora un monumento della religiosità nazionale e Oliver North era l'eroe popolare della classe media.  

Il nostro intento, in questa digressione, è quello di individuare una configurazione centrale, il daimon presente nell'ethos di ciascuno dei tre e così curiosamente simile in tutti e tre, che ci permetta di comprendere quale elemento delle loro abitudini ha toccato le corde del pubblico americano suscitando una tale entusiastica risposta. Attraverso questi tre individui potremo forse dare un'occhiata al daimon dell'ethos americano. 

Il carattere americano

A prima vista, i nostri tre personaggi sembrano molto diversi tra loro. Il governatore Dewey, baffetti curati, neanche 1,70 di altezza, che quasi scoppia nei completo scuro, schizzinoso al limite della maniacalità («quando visita un carcere dello Stato, non tocca mai con le sue mani le maniglie delle porte, aspetta che qualcuno gliele apra. Se nessuno raccoglie, si leva il fazzoletto dal taschino e strofina leggermente il metallo che i carcerati maneggiano quotidianamente»), Graham, a diciotto anni, appena licenziato dalle superiori, «con cravatta su toni blu pavone e abito di gabardine verde bottiglia a rigoline gialle». North, che «arriva in Vietnam in tuta mimetica, pronto a combattere. Sopra aveva un giubbotto antiproiettile e spalmato intorno agli occhi il cerone nero contro il riverbero; nel campo teneva sempre l'elmetto allacciato. Era sempre pulito e in regola. Oltre alla calibro 45 in dotazione agli ufficiali, Ollie si portava dietro un fucile a due canne calibro 12 per aumentare la sua potenza di fuoco. E nel caso la protezione non fosse sufficiente, aveva al collo un crocifisso». 

Si potrebbe citare una sfilza di altre differenze: differenze generazionali; differenze di cultura, carriera, professione; differenze di temperamento da giovani (Graham era un tipo ingenuo e sgargiante; North ostinato e per bene; Dewey sveglio e arrogante). Il nostro occhio, però, ha deciso di mettere a fuoco le uguaglianze. 

Il primo punto di uguaglianza è che tutti e tre erano dotati di inesauribile energia. Dewey: grande dedizione, uno che va avanti a testa bassa, molto esigente con i sottoposti, il primo «sgominatore delle gang», come fu definito; mai un giorno di assenza e mai un allenamento di football saltato in tutta la carriera scolastica. North: simpatico e «sempre disponibile a fare quello che gli veniva chiesto di fare», per esempio andare in missione nel Vietnam, dove si guadagnò «una Stella di bronzo per la partecipazione come volontario a diverse azioni, una Stella d'argento, due medaglie al valore per ferite di guerra, e una medaglia di encomio della Marina»; alla carica incurante delle ferite. Graham: di energia ne aveva così tanta che «da ragazzino i suoi genitori lo fecero visitare da un dottore ... Un familiare racconta che, come imparò a manovrare il triciclo, si mise a sfrecciare avanti e indietro, con i piedi che pedalavano cosi veloce che neanche si vedevano». Ciò che riportò sotto controllo tanta energia fu un'equivalente saldezza della fede.  

La seconda similarità è l'autodisciplina. La scelta di North di arruolarsi nei Marines corona una vita da sempre disciplinata. Già da ragazzino era portato a ubbidire agli ordini. «Non sprecava tutto il tempo in strada ... Quando era ora di rincasare, sua madre lo chiamava con il fischietto ... Nel vestire, tendeva a essere più in ordine di noi». Graham «crebbe in un regime di diligenti pratiche devozionali; a dieci anni sapeva a memoria tutù i centosette articoli del catechismo ». Quanto a Dewey, la sua sorte lo collocò dritto in una vita di severa disciplina: «Quando aveva tre anni, gli regalarono una bicicletta con l'avvertimento che alla prima caduta gliel'avrebbero sequestrata. Tommy montò immediatamente in sella, e immediatamente perdette la bicicletta, che rimase nell'irremovibile custodia della madre per un anno intero».  

All'università, Dewey «pare non si sia mai lasciato tentare a correr la cavallina». Graham, che prenderà una cotta dopo l'altra, aveva in testa le ragazze, andava « con tutti gli altri a pomiciare » e baciava le ragazze «fino ad avere le labbra screpolate», pure, dice lui stesso, «non so come, non ho mai praticato atti di immoralità sessuale. Dio mi ha mantenuto puro ... Non sono mai nemmeno arrivato a toccare il seno alle ragazze». North «usciva raramente con le ragazze». A dieci anni, con un amico, capitò per sbaglio in un cinema dove si proiettava un film con Brigitte Bardot. «Ollie strabuzzò gli occhi vedendola attraversare lo schermo. "Proprio non dovremmo vedere queste cose", pare abbia detto all'amico ... Perciò uscirono e andarono a prendersi un gelato».  

Ma, secondo me, l'elemento significativo, il denominatore comune che lega questi tre personaggi, è la fede, la pura forza persuasiva della fede. 

«A sette anni, Tommy [Dewey], spingendo un carrettino, andò a chiedere alla vicina giornali vecchi da rivendere ... A nove anni, incominciò a vendere giornali e riviste ... A volte la sua dedizione arrivava a curiosi estremi... "Sembrava in preda a una possessione, quando veniva a venderci il 'Saturday Evening Post'". [Ricorda un cliente:] "Gli dissi che non volevo la rivista, ma lui mi fissò con aria di sfida con quegli occhi scuri e penetranti e me la piazzò sulla scrivania. Mi elencò una decina di ragioni per cui avrei dovuto comperarla. Io non seppi che cosa controbattere. Sembrava più semplice diventare suo regolare cliente"». 

Durante la siccità e la depressione che colpirono gli Stati del Sud durante l'estate del '36, Billy Graham» appena finite le superiori, vendeva spazzolini da denti Fuller porta a porta nelle due Caroline. 

« Il responsabile di zona era allibito dal numero di spazzolini che Billy aveva venduto in poche settimane ... Non si capacitava di come un solo essere umano potesse venderne così tanti in così poco tempo. Billy lo spiega così: "Ero convinto del prodotto. La vendita di quegli spazzolini per me era diventata una causa a cui dedicarmi. Pensavo che ogni famiglia avesse il diritto di possedere il suo spazzolino Fuller" ... "La sincerità è l'ingrediente più importante nel vendere qualsiasi cosa. Anche la salvezza eterna"». 

Li portava come regalo alla sua ragazza e si lavava lui stesso i denti con gli spazzolini Fuller con tanta frequenza e tanta sincerità che «gli venne la gengivite». 

Il prodotto di North era l'America stessa, piuttosto che una sua rappresentazione simbolica, come gli spazzolini Fuller o il «Saturday Evening Post», ma North era altrettanto convinto delle virtù del suo prodotto e altrettanto persuasivo nella sua passione. E «l'America» era l'oggetto della sua fede molto tempo prima che si mettesse a venderla apertamente al Senato degli Stati Uniti e alla televisione. Ricorda un compagno delle superiori: « Un ragazzo disse qualcosa sulla stupidità dell'Esercito. Disse anche che noi, cioè gli Stati Uniti, non ci saremmo dovuti impegnare in guerre oltreoceano. Larry non ci vide più. Disse a quel ragazzo: "Se non ti va di vivere in America, puoi pure toglierti dai piedi"».  

Benché il prodotto venduto possa rappresentare la mediocrità collettiva (gli spazzolini da denti, il giornale, un patriottismo alla «amami o lasciami»), nell'esecuzione della vendita non c'è niente di mediocre. L'abitudine è il carattere, e diventa il destino. Quell'episodio dei tempi della scuola rivela già la fede della ghianda in tutte le future operazioni oltremare che North avrebbe eseguito.  

Ambizione, nobili ideali, vita casta, lavoro indefesso: i contrassegni dell'animale a capo della muta, aggiogato all'etica del lavoro, che traina in salita carrettate di moralizzazione. I loro valori e i loro metodi, i loro gusti e le loro frequentazioni non si saranno elevati al di sopra dei ceti medi; loro, però, toccarono la cima. Poco più che trentenne, Graham aveva già conquistato l'immaginazione evangelica popolare, attirando nella sua tenda vaste masse di pecorelle smarrite e bisognose (nonché ricche). A trentacinque anni, Dewey fu nominato procuratore distrettuale di Manhattan, il politico più giovane a ricoprire quell'incarico. A trentotto, poco mancò che ottenesse la nomination come candidato repubblicano contro Roosevelt, cosa che avvenne nelle presidenziali di quattro anni dopo. Nel frattempo, aveva fatto condannare grossi gangster e contrabbandieri di liquori, estorsori e sicari. Uno dopo l'altro, furono messi alle strette dalle sue meticolose e stringenti indagini gangster del calibro di Waxey Gordon, Dutch Schultz, Joseph Castalado (il Re dei carciofi), i Gorilla Boys, i capi della Mafia, Lucky Luciano, Jimmy Hines e Louis Lepke dell'Anonima omicidi.  

Prima dei quarantanni, North si muoveva con disinvoltura nella élite del potere di Washington. Racconta Michael Barnes, all'epoca membro del Congresso:  

«Frequentava Henry [Kissinger] ... Ollie ha una notevole facilità a ingraziarsi le persone importanti ... Prendeva l'aperitivo con giudici della Corte suprema ... generali, senatori, il tutto con grande naturalezza. Come uno di loro. Arrivava con l'imprimatur della Casa Bianca, lo si vedeva quasi sempre al fianco di Henry».  

Di lì ad alcuni anni, North dirigeva importanti operazioni della polidca estera degli Stati Uniti, nei Caraibi (Grenada), nell'America centrale e in Medio Cariente (Iran, Libia, Israele). 

Anche le operazioni di Graham avevano per teatro il mondo intero. Come predicatore di Eisenhower, Johnson, Nixon, Ford e Reagan, anche Graham faceva parte della élite del potere. Quanto a Dewey, forse aveva minore visibilità, ma nel Partito repubblicano fu lui il cervello dietro le candidature sia di Eisenhower sia di Nixon, i due uomini che hanno dominato l'America negli anni centrali del secolo. La vita di milioni di persone è stata toccata, nel bene o nel male, dalle energiche azioni di questi tre esponenti del virtuoso Centro.  

Il timone in mano, fedeli ai principi, badavano al centesimo. A trentadue anni, Dewey «continuava ad annotarsi metodicamente sul suo libriccino ogni tubetto di lucido per scarpe e ogni pranzo da meno di un dollaro». Alla fine del suo mandato come governatore di New York, le tasse statali erano diminuite del dieci percento rispetto a prima. Graham, che riceveva donazioni gigantesche per la sua causa e giocava a golf con i ricchissimi, «trascorre ore, ore di fila, a studiare come non fare soldi», disse sua moglie Ruth. Tutti e tre sposarono la ragazza giusta, allevarono figli e si batterono per l'onestà e, soprattutto, per l'autodisciplina, le abitudini idealizzate del Grande sistema di vita dell'America bianca dei ceti medi. 

Forse il dio che più di ogni altro fornisce il denominatore comune in questi tre casi è appunto l'abitudine all'autocontrollo. O meglio, non l'autocontrollo in sé; piuttosto, la sua ombra: la repressione al servizio della fede, di una fede, in particolare, che richiede la repressione dell'Ombra.  

Lo si vede chiaramente nelle professioni di fede di North di fronte al Congresso. Il nemico è alle porte: il comunismo internazionale e la propensione al compromesso che fiacca la fibra patriottica dell'America. Bisogna fare ordine. Il bersaglio di Dewey era la criminalità, i gangster dei vicoli bui di Manhattan, il Partito democratico in mano agli irlandesi, i racket in mano agli ebrei, i mafiosi italiani. Dewey voleva ripulire l'America, riplasmandola sul modello della propria schizzinosità. Il compito di Graham consisteva nel ripulire lo spirito ovunque nel mondo; una crociata, così chiamava la sua impresa.  

La repressione della debolezza e del male dentro di noi e quella del male che è negli altri vanno insieme: per Dewey lo strumento era la condanna al carcere dei criminali; per North, il bombardamento dei cattivi a E1 Salvador, a Grenada, in Libia; per Graham, la vittoria sul peccato e su Satana attraverso la conversione dei peccatori a Cristo. In tutti e tre la fede giustifica la repressione e il furor agendi con cui viene combattuta l'Ombra, comunque essa si chiami: Partito democratico, fondamentalisti islamici dì Khomeini o Satana in persona. È fede nella causa o fede nella fede in sé? All'accusa di «suicidio dell'intelletto», Graham rispose: «Quello che so è che ho fede. E so quali cose, a Dio piacendo, la fede indiscussa e incondizionata ha compiuto nella mia vita ... Ho deciso una volta per tutte di avere fede». North basò la sua difesa contro l'accusa di avere mentito al Congresso sulla roccia della sua fede nell'America e nel suo comandante in capo. La fede che muove le montagne diventa qui la propria ombra. La nobiltà degli ideali si assottiglia via via che si intensifica la fede. Come disse Santayana a proposito del fanatismo: smarrisce lo scopo e raddoppia gli sforzi.  

Dopo l'inaspettata vittoria di Truman alle elezioni del 1948, Dewey si lasciò alle spalle la sconfitta. «Quel che è stato è stato. Adesso, andiamo avanti» disse, e così fece, negando con macchinazioni di potere la profondità del rifiuto ricevuto dall'elettorato. North raddoppiò gli sforzi a sostegno della sua fede progettando di alterare (o rubare quando gli uffici erano chiusi) la scheda con i dati sulle fratture riportate alle gambe, che avrebbe potuto precludergli l'arruolamento nei Marìnes.  

Nella sua dedizione alla propria fede, ciascuno dei tre cercò di obliterare ciò che lo avrebbe potuto frenare. Questo si chiama il meccanismo della negazione. Di Graham, sua moglie ebbe a dire: «Naturalmente ha avuto dei dubbi, ma non per molto, non è il tipo che coltiva i dubbi ». La negazione più gigantesca fu quella che seguì alla rovina politica di Nixon, e che segnò la sua caduta in disgrazia presso Graham stesso. Così ferma era la sua fede, e così poco aveva coltivato i suoi dubbi, che Graham non riuscì mai a cogliere l'ombra di Nixon. Quando essa emerse gracchiando dai nastri del Watergate, Graham cadde nella più profonda depressione della sua vita ed ebbe una crisi di fede. Non riusciva a stare fermo, si mordeva le unghie, non riusciva a dormire. Per un breve periodo, fu messo di fronte senza scampo alla contraddizione posta dalla fede: il fatto che essa richiede una qualche forma di suicidio - intellettuale, morale, percettivo. «Credevo davvero che [Nixon] rappresentasse la più grande possibilità mai capitata di condurre questo paese alla sua èra più gloriosa e felice. Aveva il carattere adatto. Non lo avevo mai visto mentire». «Quei nastri hanno rivelato un uomo che non conoscevo; non avevo mai visto quel lato di Nixon ».  

Dalla cecità alla negazione. Con il tempo, Graham si riprese; rinnovata la fede, ritrovata l'innocenza, continuò come prima.  

Dunque il denominatore comune di quesd tre personaggi è l'irriducibilità della fede. Nonostante i comportamenti moralmente riprovevoli (la negazione di Graham, le menzogne di North, le manipolazioni di Dewey), la fede permise loro di andare avanti incuranti delle porcherie intorno, inaccessibili alla propria ombra, innocenti. E io affermo che è appunto l'abitudine tutta americana della fede a piacere tanto alla nostra mediocrità di provincia. Ne consegue che questo stesso tratto, lo si chiami innocenza (come fanno i critici letterari), negazione (come fanno gli psicologi) o fede (come dicono i credenti), deve costituire l'essenza del carattere americano, il che spiega come mai Dewey, Graham e North rappresentano in modo così eminente il suo stile.  

Dobbiamo anche ammettere, a dispetto della nostra iniziale difesa della mediocrità contro le svalutazioni della psicologia, di avere scoperto la condizione psichica da cui nasce la mediocrità americana. L'abilità nel negare, nel rimanere innocenti, nell'usare la fede come protezione dalla sottigliezza - intellettuale, estetica, morale, psicologica - impedisce al carattere americano di svegliarsi, di aprire gli occhi sul dato di fatto che le virtù della mediocrità (quegli atti di devozione che sono l'energia disciplinata, l'ordine, l'autocontrollo, la probità, la fede) sono esse stesse messaggere del diavolo che vorrebbero sconfiggere.  

Oggi, in una società che, per una forma di snobismo alla rovescia, ama tanto la normalità, elevando a nuova nobiltà la classe media che lavora, che paga le tasse, è morale e meritevole, diventa importante enfatizzare l'eccezionalità. Se la società è afflitta da una perdita di anima, da una perdita di ispirazione da parte del daimon, dell'angelo, del genio, allora, prima di partire lancia in resta alla loro ricerca, non sarebbe meglio chiederci che cosa li fa allontanare? Forse proprio il fatto di ospitare dentro di sé la mediocrità - attenersi al ruolo assegnato nella propria squadra, non rovesciare la barca, restare attaccati ai «valori della famiglia», aiutare in parrocchia, non perdere le staffe, e intanto avere paura degli estremismi e degli esoterismi - è ciò che allontana gli Invisibili.  

Perché l'eccezionalità riesce sospetta? La respingiamo forse perché l'ispirazione ci fa paura, in quanto la consideriamo uno stato della mente individualistica e aristocradca, che privilegia la comunicazione con gli spiriti rispetto alla comunione con i pari? Ma una cultura che immagina l'ispirazione come una pulsione asociale non si aggrapperà sempre più tenacemente a una mediocrità solo piatta?  

Non dimentichiamo che le società sono elevate e arricchite da coloro che sono ispirati: l'infermiera del pronto soccorso, la maestra dell'anno, la guardia che fa canestro con uno stupendo tiro da tre punti. Il momento di ispirazione non invalida il gioco di squadra, ma fa parte del contesto della squadra ed è di tutto il suo pubblico. Fare canestro all'ultimo secondo, salvando così una partita decisiva, non è soltanto un gesto eroico isolato. Ripristina l'autore del gesto in un contesto archetipico: l'eroe è colui che compie imprese ispirate per la gloria della città e dei suoi dei. La connotazione di individualismo e di protagonismo che la nostra civiltà attribuisce ai gesti ispirati ci impedisce di cogliere il loro aspetto di servizio alla società. «Ispirazione» significa semplicemente «inspirare lo spirito», non «esaltazione dello spiritato».  

Esistono società che richiedono espressamente ai loro membri di cercare attivamente l'ispirazione per il bene della collettività: gli indiani d'America, per esempio, con la ricerca della visione, le saune, le cerimonie del peyote e le danze; i quaccheri nelle loro riunioni, che mirano a favorire l'apparizione dello spirito. L'ideologia sociale sottintesa qui è che serviamo meglio gli altri quando ci poniamo al servizio degli Altri.  

Non ho inteso, in queste pagine, adulare la fama in quanto tale, bensì piuttosto mostrare il daimon in uno specchio che lo ingrandisse. Il fatto di usare la persona eccezionale come esempio di un'idea non equivale a letteralizzare l'eccezionalità, come se fosse incarnata soltanto negli individui eccezionali. Le persone presentate in questo libro sono personificazioni dell'effetto del daimon invisibile. Sono l'espressione visibile intensificata del fenomeno daimonico. Queste figure di spicco rendono umana l'idea generale per cui tutte le vite hanno una componente eccezionale, che non viene spiegata dalle teorie psicologiche e biografiche correnti.  

Manolete e Ingmar Bergman, per esempio, sono due disponibilità: non nel senso che sono disponibili all'imitazione o alla clonazione, ma in quanto estensioni del daimon. La benedizione visibile in grado così eccezionale nelle loro vite è un fenomeno universale. È anche mia e vostra. Manolete e Ingmar Bergman sono testimoni ingranditi della disponibilità di benedizione.  

L'uso di immagini ingrandite, che è un metodo antico, mira a ispirare «i deboli nella fede» affinché tornino a sentire la grandezza latente nella ghianda di Ognuno, indipendentemente dalla sua mediocrità statistica. Ma per prima cosa occorreva invalidare la mediocrità come categoria psicologica: solo a questa condizione possiamo legittimamente entusiasmarci per l'eccezionalità. Altrimenti, il nostro entusiasmo, tutto questo sfoggio di nomi importanti e l'avere presentato familiarmente al lettore tutte queste dive e divi, apparirebbe adulazione snobistica delle celebrità. Per questo motivo, abbiamo estromesso brutalmente dalla psicologia le nozioni di «norma», «media», «centro» e «mediocre», rispedendole là dove possono servire {economia, epidemiologia, sociologia, marketing), affinché, con l'ausilio degli esempi presentati in questo libro, il lettore potesse più liberamente immaginare se stesso usando come parametro il fuori dell'ordinario.  

North, Graham e Dewey sono personaggi eccezionali, tutti e tre; se gli è rimasta attaccata qualche traccia di mediocrità, questa è effetto dei risolini degli snob per le cravatte di Graham o l'aspetto da contadino inurbato di Dewey o gli occhioni da bravo ragazzo di North. Schernendoli per queste cose, ci lasciamo sfuggire il fatto che ciascuno di essi è fedele alla propria ghianda ed esemplifica il suo particolare carattere, vizi compresi, in ogni gesto che coerentemente compie.  

In questa società e in quest'epoca, in cui i tipi strambi, per essere curati da prepotenti intensità individuali, sono rinchiusi in ospizi, impasticcati di serenità serotoninica e riabilitati nei gruppi; in cui qualsiasi cosa «troppo» diversa viene emarginata, diventa particolarmente importante per la coscienza della nazione sostenere attivamente il fuori dell'ordinario. Se l'eminenza dipende dal destino e il destino dal carattere, varrà anche la relazione inversa, e dunque, per migliorare il carattere, non basta l'ammaestramento morale. Lasciamo perdere le esortazioni dei pedagogisti e concentriamo invece l'attenzione sul destino e in particolare sul destino delle persone eminenti. Nostri pedagoghi sono le loro immagini: il loro coraggio, la loro ambizione e i loro rischi. E Dewey, North e Graham, le tre espressioni estreme della media presentate in questo capitolo, che hanno saputo accendere la fede e l'impegno politico di milioni di americani, non hanno affatto caratteri di media qualità.  

Le immagini dell'eminenza prese dalla media dimostrano come anche quella di mezzo sia una strada alla grandezza. In questa ottica è possibile cogliere il valore innato della medietà, invece di limitarsi a irridere con sufficienza le sue collettive limitazioni piccolo borghesi o a rifugiarsi in essa per paura degli estremi. A dispetto di ogni eventuale residuo di snobismo, questo capitolo è stato scritto con idealismo: ho cercato, infatti, di trasformare la «mediocrità» da termine spregiativo in un concetto di valore nel quale, pure, può manifestarsi il daimon. Ma la parola manterrà la sua connotazione sociale spregiativa, finché non faremo lo sforzo di scoprire dentro ciascun esempio di mediocrità lo specifico carattere di cui esso è portatore, quella «ciascunità» della ghianda. 

Un platonismo democratico

La tensione sotterranea che percorre un po' tutto il capitolo mi riguarda personalmente, esprime un conflitto in cui mi sono a lungo dibattuto. Venticinque anni fa, forse di più, io e Gilles Quispel, profondo studioso della gnosi cristiana e delle sette gnostiche, sedevamo in riva al Lago Maggiore. A un certo punto, Quispel, tirando boccate dalla sua pipa e guardandomi di sottecchi con un luccichio malizioso negli occhi, come un vecchio lupo di mare olandese in un romanzo di Conrad, mi domandò: «Come fa lei, Hillman, a seguire Platone e contemporaneamente la democrazia?». 

Quispel aveva intravisto il daimon del mio destino, tant'è vero che ci sono voluti anni per dare una risposta alla sua domanda. Naturalmente, in quella domanda è sottintesa una certa interpretazione corrente di Platone, l'idea cioè che il suo sia un pensiero totalitario, aristocratico e patriarcale, che ha dato una copertura autorevole allo Stato autoritario. E, parallelamente, vi è sottintesa una certa idea di democrazia intesa come populismo e secolarismo, disancorata dalla trascendenza: la democrazia può avere Padri fondatori, ma non angeli. Di lì la domanda di Quispel: come si fa a essere elitari e insieme populisti, a aderire a principi eterni e insieme ai capricci delle convinzioni individuali, ovvero, nel linguaggio della filosofia, nel quale Quispel era di gran lunga più versato di me, come si fa ad abbracciare il regno della Verità e insieme quello della Opinione. E un rompicapo che ha tormentato i pensatori occidentali almeno da Parmenide in poi. 

Nel nostro paese, la distinzione tra verità e opinione si è concretizzata nella distinzione tra Chiesa e Stato, tra verità rivelata e sondaggi di opinione. Eppure la Dichiarazione di Indipendenza afferma che la democrazia americana si fonda su una «Verità» trascendente: «Tutti gli uomini sono creati uguali». 

Infatti, su che cosa mai si basa questa affermazione? Le disuguaglianze precedono il primo vagito. Qualsiasi infermiera del reparto maternità di qualsiasi ospedale può confermare che la disuguaglianza esiste dall'inizio. I neonati differiscono uno dall'altro. Gli studi di genetica mettono in luce differenze innate di abilità, di temperamento, di sensibilità. Quanto alla situazione di vita in cui siamo calati, che cosa potrebbe esistere di più ineguale dell'ambiente? Alcuni, poi, sono svantaggiati per cultura e per natura contemporaneamente, e fin dall'inizio. 

Dal momento che né la cultura né la natura danno l'uguaglianza, da dove avremo presa quell'idea? Non può essere dedotta dai dati della vita; né può essere ridotta a fattore comune a tutti gli esseri umani come la stazione eretta, il linguaggio simbolico o l'uso del fuoco, perché le differenze individuali elaborano quel fattore in miliardi di modi diversi. No, l'uguaglianza può solo essere dedotta dall'unicità, da ciò che la scolastica chiamava il «principio dì individualità». Io sto immaginando l'unicità come la haeccitas («questità», in latino medioevale) del genius inteso come il fattore formativo dato con la nascita a ciascuna persona, per cui ciascuna persona è questae non un'altra, non qualsiasi altra, non nessun'altra. 

Dunque l'uguaglianza deve essere assiomatica, un dato; come afferma la Dichiarazione di Indipendenza, il fatto che siamo uguali è una verità evidente in sé. Siamo uguali secondo la logica della «ciascunità». Ciascuno è per definizione distinto da ogni altro ciascuno e di conseguenza, in quanto tale, è uguale a ogni altro ciascuno. Noi siamo uguali in quanto ciascuno di noi porta nel mondo una specifica vocazione e siamo disuguali sotto ogni altro profilo, crudelmente, ingiustamente, ineluttabilmente disuguali, tranne che in questa cosa del genio unico e irripetibile di ciascuno. La democrazia, dunque, poggia su una ghianda.  

La ghianda preme per andare oltre il bordo; la sua passione principale è la realizzazione. La vocazione pretende la libertà assoluta di perseguire la sua felicità, una libertà «viva all'arrivo», e tale libertà non può essere garantita dalla società. (Se le possibilità di libertà sono stabilite dalla società, allora la società ha potere supremo e la libertà diventa soggetta all'autorità della società). Così come l'uguaglianza democratica non può trovare altro fondamento logico se non l'unicità della vocazione di ciascun individuo, alla stessa stregua la libertà si fonda sulla piena indipendenza della vocazione. Quando gli estensori della Dichiarazione di Indipendenza scrissero che tutti nascono uguali, si accorsero che quella proposizione ne comportava necessariamente una gemella: Tutti nascono liberi. È il fatto della vocazione che ci rende uguali ed è l'atto della vocazione che esige che si sia liberi. Il principio garante di entrambe è l'invisibile genio individuale.  

Smettiamo per un attimo di leggere Platone come uno sporco fascista dagli ideali irrealistici e di immaginare la democrazia come una massa confusa di vittime vocianti opinioni. E allora forse vedremo che platonismo e democrazia non devono necessariamente respingersi come i polì opposti di un magnete, ma sono costruiti sulla stessa cosa, hanno la medesima carica: l'importanza dell'anima individuale. Lo Stato platonico esiste per quell'anima, non per se stesso né per alcun gruppo particolare al suo interno. Anzi, l'analogia che percorre tutta la Repubblica è il parallelismo tra gli strati dell'anima e i diversi livelli dello Stato, Ciò che facciamo nello Stato, lo facciamo all'anima e ciò che facciamo nell'anima lo facciamo per lo Stato - se l'idea platonica è portata alle sue ultime conseguenze e non è abortita prima che le sue articolazioni siano formate completamente.  

Non solo, come abbiamo visto in questo capitolo, l'unico garante teoretico di quell'individualità richiesta dalla democrazia, e in vista della quale è stata posta in essere la democrazia americana, è appunto l'anima, la stessa di Platone, che noi abbiamo chiamato angelo, ghianda, genio ma potremmo chiamare anche con altri nomi, altrettanto belli. Platonismo e democrazia hanno in comune una visione dell'importanza primaria dell'anima individuale.  

Quest'anima, o daimon o genio, oltretutto, parrebbe essere non soltanto platonica, per la sua origine nel mito di Platone, ma anche democratica, in quanto entra nel mondo delle interazioni; si manifesta nella geografia, come a dire che a tal punto entra nel mondo da assumere le vestì di un luogo, come se volesse abitare nei mondo e vivere nel suo corpo. Solo i teologi e gli sciamani osano parlare degli Invisibili separatamente dal mondo visibile. Non sono certamente la morte e l'altro regno la meta verso cui preme la ghianda, bensì il mondo visibile, dove essa fa da guida, La perdita del daimon mina alla base la società democratica, frantumandola in una folla di consumatori accalcata in un labirintico ipermercato in cerca dell'uscita. Ma l'uscita non si trova, senza la guida della vocazione individuale.  

Perciò, professor Quispel, dovessimo incontrarci di nuovo sotto i platani, risponderei che Platone e democrazia possono andare felicemente d'accordo. Entrambi hanno a fondamento l'anima. L'interesse di entrambi è trovare come l'anima possa vivere nel mondo e realizzarsi al meglio. Il tenere lo sguardo puntato sul meglio e sulla realizzazione non apre le porte all'aristocraucismo. Né rinnega la democrazia.