« ESSE EST PERCIPI »

Manolete era stato chiamato a combattere i tori, ma, per poter discendere e dunque crescere nella vita, la sua vocazione aveva bisogno di essere percepita. La percezione avvenne attraverso un mentore, José Flores Camarà, che seppe «vedere oltre» e diventò la guida e il manager di Manolete, rimanendogli accanto sino alla fine. 

«La svolta decisiva nella carriera di Manolete ebbe luogo quando José Flores Camarà assistette per caso a una sua corrida ... Osservandolo nell'arena, fu come se vedesse, al di là di quello che era in quel momento, quello che sarebbe potuto diventare un giorno. 

«Vide immediatamente che il ragazzo stava facendo le mosse sbagliate per la sua corporatura e personalità. Vide che si esponeva di continuo alle cariche del toro per ignoranza del terreno. 

« Ma vide anche che Manolete possedeva uno straordinario coraggio. Vide che uccideva i tori meglio di qualunque altro matador avesse mai visto, che uccideva secondo lo stile pericoloso, elegante della vecchia scuola, ormai scomparso dalle arene, dritto sopra il corno destro, l'espada affondata fino all'elsa. 

«Camara ingaggiò Manolete e si accinse a riplasmarlo daccapo. Lo portò negli allevamenti a studiare i torelli dal vivo e incominciò a insegnargli l'arte della corrida partendo da zero». 

Franklin D. Roosevelt ebbe quello stesso tipo di vista, che vede al di là, nei confronti del giovane Lyndon Johnson. 

« Per cercare di spiegarmi l'intenso rapporto che il Presidente aveva avuto con il giovane deputato, un rapporto diverso da tutti gli altri, James H. Rowe, uno dei consiglieri di Roosevelt, mi disse: "Bisogna tenere presente che erano entrambi grandi geni politici. Potevano parlare alla pari. Erano pochissime le persone con le quali Roosevelt potesse comunicare, sicuro che comprendessero tutti i risvolti di quello che stava dicendo. Ma Lyndon, a ventotto anni, capiva fino in fondo". Roosevelt stesso ebbe a dire a Harold Ickes: "Vedi, Harold, Lyndon è il tipo di politico disinibito che sarei potuto essere io alla sua età se non fossi andato a Harvard". Roosevelt fece anche una previsione. Disse: "Caro Harold, tra un paio di generazioni, la bilancia del potere in questo paese finirà per pendere dalla parte degli Stati del Sud e dell'Ovest. E quel ragazzo, Lyndon Johnson, chissà che non diventi il primo presidente sudista"». 

Anche George Washington, dovendo nominare il proprio aiutante di campo, scelse un giovane, Alexander Hamilton. Era il 1777, durante un cupo inverno della Guerra di Indipendenza, e Hamilton aveva ventidue anni. Il loro rapporto è stato ed è tuttora fonte di infinite congetture biografiche e psicoanalitiche. A noi qui interessa l'occhio geniale di Washington, che seppe vedere, e valutare con il sentimento, il giovane ufficiale di artiglierìa, inesperto, presuntuoso, fragile. In capo a pochi mesi, Hamilton diventò, secondo le parole di Washington stesso, «l'aiutante principale e più fidato del comandante supremo». 

Le nomine sul campo di battaglia richiedono un occhio molto acuto. Gli ufficiali muoiono, il vicecomandante cade con una pallottola in fronte, il superiore responsabile deve promuovere qualcun altro sui due piedi per riempire il posto lasciato vuoto. Su quali basi prenderà la decisione? Niente inventari di personalità, niente test per calcolare il qi né colloqui anamnestici per risalire all'infanzia: al loro posto, una rapida valutazione del carattere, a volte sotto il fuoco nemico; la percezione delle potenzialità. Forse i momenti di crisi lasciano meglio intravedere la ghianda? È una domanda da porsi.  

Come fa lo scout di una squadra di baseball a percepire quel quid di unico in un novellino di diciannove anni di una squadretta di provincia, non solo nel senso di valutarne le capacità atletiche, ma di vedervi un temperamento che saprà andare d'accordo con i compagni di squadra, magari piacere ai tifosi, e valere un grosso investimento di denaro e di tempo? In che cosa consiste il dono della percezione?  

Adesso riporterò tre delle mie storie preferite sul genio percettivo, che oggigiorno sarebbero probabilmente considerate esempi di favoritismo da parte del professore o casi di attrazione omosessuale tra due maschi, o spiegate in qualche altro modo che riduce il dono della percezione a una questione di meschino interesse personale. C'è rimasta ben poca carità nelle nostre interpretazioni dei rapporti tra due persone, specialmente se una delle due è giovane e l'altra più grande, se una ha il potere e l'altra no. Forse, avendo perduto il potere percettivo, siamo capaci soltanto di percepire, come unica affinità elettiva tra due persone, il potere. Ma ecco le mie storie:  

«Harvard, anni Ottanta del secolo scorso: il professor William James ha nei suoi corsi una ragazza ebrea della California, goffa, tarchiata, chiacchierona, che arriva in ritardo alle lezioni, sembra spaesata, fa errori di ortografia, non sa una parola di latino, insomma la tipica pasticciona, che si agita tanto e non combina niente, una "nevrotica", diremmo oggi. Ma William James, dopo che all'esame la ragazza aveva consegnato il foglio in bianco, le diede un voto alto e continuò ad aiutarla per tutta la durata degli studi di Medicina alla Johns Hopkins. Aveva visto qualcosa di unico in quella sua allieva. Che si chiamava Gertrude Stein e si ritrovò a essere la Gertrude Stein che conosciamo solo dieci anni più tardi e molto lontano da Harvard, a Parigi.  

«In una cittadina del Sud, un uomo a nome Phil Stone, che aveva studiato per un po' lettere a Yale, prese sotto la sua ala, diventando il suo istruttore e mentore, un ragazzotto tarchiato, molto affettato e presuntuoso, che si ubriacava, faceva finta di essere un gentleman inglese, vestiva in modo ricercato, esibiva un bastone da passeggio e scriveva poesie: tutto questo in una pettegola cittadina del Mississippi durante la prima guerra mondiale. Phil Stone lo sentì parlare e percepì in lui qualcosa di unico. Il giovanotto, che la psicologia junghiana oggi definirebbe un "tipo puer", si chiamava William Faulkner e nel 1949 ricevette il premio Nobel per la letteratura».  

Terza storia di percezione che ha saputo vedere, «al di là di quello che il ragazzo era in quel momento, quello che sarebbe potuto diventare un giorno»:  

«Nell'anno 1831 veniva allestita una di quelle stupende e variegate spedizioni scientifiche come usavano allora; un professore di botanica, a nome John Henslow, propose che venisse scelto come naturalista un suo ex allievo, che allora aveva ventidue anni. A scuola non aveva brillato particolarmente - per la matematica, anzi, era negato -, però era un appassionato collezionista di insetti, che andava a raccogliere nelle campagne circostanti. Per il resto, non si distingueva in niente dai giovanotti della sua classe sociale: a caccia con gli amici, mangiate e bevane al club, in prospettiva la carriera ecclesiastica. Inoltre, presentava il "classico complesso familiare", come diremmo forse oggi: attaccato alla madre e schiacciato dal padre {letteralmente: superava il quintale). Ma Henslow ci vide qualcosa di speciale e convinse gli interessati, compreso il giovanotto suo ex allievo, che si chiamava Charles Darwin, che la sua partecipazione al viaggio del Beagle sarebbe stata utile».  

Nel caso di Darwin, fu l'occhio del suo insegnante a provocare la svolta decisiva; lo stesso accadde a Elia Kazan e a Truman Capote: i loro genitori non erano in grado di gestire dei figli così. La ghianda, insomma, ha bisogno di un mentore. Scrive Elia Kazan:  

«Quando avevo dodici anni e ci trasferimmo a New Rochelle, mi capitò un vero colpo di fortuna: la mia insegnante dell'ottava classe. Si chiamava Miss Anna B. Shank e più di altri influì sul corso della mia vita. Era vicina alla cinquantina, che per me voleva dire vecchissima, e mi aveva preso in simpatia. Era anche un'inguaribile romantica: un giorno mi disse che avevo dei bellissimi occhi castani. Venticinque anni dopo, avendo letto il mio nome sul giornale, mi scrisse una lettera. "Una mattina, avevi soltanto dodici anni, eri di fianco alla cattedra e la luce della finestra ti cadde sulla testa e sui lineamenti, illuminando l'espressione del tuo volto. Mi venne in mente allora che c'erano grandi possibilità nel tuo sviluppo e...".  

«Miss Shank si adoperò con grande zelo per sottrarmi alla tradizione del primogenito in uso presso di noi e alle aspettative di mio padre, dirottandomi da una carriera commerciale, che prevedeva partila doppia e libri contabili, verso quelli che allora si chiamavano gli studi umanistici ». 

La madre di Truman Capote non ebbe vita facile con il figlio. Si lamentava perché le diceva bugie, scimmiottava l'accento cubano del patrigno, «aveva modi da femminuccia» e gli era rimasta la vocetta acuta di quando era bambino. A quattordici anni faceva ancora i capricci «buttandosi per terra e scalciando in aria se non otteneva quello che voleva». Era sonnambulo, disertava le lezioni di ginnastica e durante le lezioni di biologia non faceva che pettinarsi. Fu bocciato in algebra, in francese e in spagnolo. Da piccolissimo, a cinque o sei anni, andava in giro con carta e matita e scribacchiava frasi per conto suo, armato di un piccolo dizionario, che portava sempre con sé. Non solo, da ragazzetto accompagnava un suo insegnante al cinema e lo masturbava nel buio della sala. La madre lo spedì in un collegio militare a Ossining (Sing Sing!), nello stato di New York.  

Ma ecco che entra in scena Catherine Wood, l'insegnante di inglese, «la quale non solo condivideva la fiducia del ragazzo in se stesso, ma riteneva che fosse il proprio sacro dovere, la propria missione, aiutarlo a mettere a frutto i suoi talenti. 

«Il ragazzo si era letteralmente imposto alla sua attenzione. Miss Wood aveva portato la sua classe nella biblioteca della scuola e aveva in mano un libro di Sigrid Undset, che stava per dare a una delle sue alunne. "Improvvisamente," ricorda Miss Wood "questo ragazzino, che non era della mia classe, si volta verso di me e si intromette: 'Chissà che bello leggerla nella lingua originale'. 'Oh, non c'è paragone!' risposi io, benché naturalmente non conoscessi una parola di norvegese. Da quel momento vidi spesso Truman e l'anno successivo, quando lo ebbi in classe, in undicesima, ci frequentammo assiduamente". 

«Miss Wood, una zitella alta e magra, con i capelli grigi, lo invitava a pranzo, leggeva i suoi racconti, lo seguiva in modo particolare in classe e spingeva i colleghi a fare altrettanto ... "Sua madre non riusciva a capire un ragazzo come lui, che amava cose troppo diverse. Ricordo i pomeriggi passati nel mio tinello a spiegarle che non toccava certo a me dire queste cose a lei, che era sua madre, ma tra cinque, dieci anni, gli altri, i ragazzi normali, che facevano le cose normali nel modo normale, sarebbero stati ancora lì, occupati a fare le medesime cose, mentre Truman sarebbe stato famoso"». 

L'occhio può anche essere quello di un membro della famiglia, di una sorella, per esempio. Golda Meir, una delle figure fondanti nella storia dello Stato di Israele e primo ministro durante la guerra del 1973, aveva una sorella, maggiore di nove anni, Sheyna. Golda era brava a scuola; il giorno della licenza, a quattordici anni, toccò a lei tenere il discorso di commiato. «Sembrava implicito che avrei continuato gli studi, per diventare magari una maestra, che era il mio sogno». Ma sua madre aveva altre idee. Voleva «una dervaksene shein meydl (una brava e onorata ragazza), disse che avrei potuto lavorare in un negozio ... e incominciare a pensare al matrimonio, cosa che, come mi fece notare, alle insegnanti donne [nel Wisconsin] non era consentito dalla legge».  

Golda scrisse di nascosto alla sorella, la quale, povera in canna e malata di tubercolosi, se ne era andata di casa alcuni anni prima dopo avere a sua volta lottato con la madre, e le confidò il conflitto che la angustiava. Sheyna rispose senza esitare: «No, devi continuare a studiare ... hai la stoffa per diventare qualcuno ... prendi le tue cose e vieni da noi... faremo il possibile per te ... vieni da noi immediatamente».  

Golda Meir potè andarsene di casa a sedici anni, perché Sheyna offriva una casa a quel qualcosa che aveva percepito nella sorella. Altrettanto importante nella storia di Golda Meir è l'intransigenza della madre, la fantasia materna su ciò che la figlia sarebbe dovuta diventare, perché questo liberò il daimon innato di Golda, con il suo deciso idealismo ribelle, avviandola così a realizzare quella che era la sua natura più vera.  

Il compositore Alban Berg riversava i segreti del suo cuore adolescente su Hermann Watznauer, un amico di famiglia che diventò per il ragazzo «amico, mentore e catalizzatore». Quando il loro rapporto ebbe inizio, Watznauer aveva ventiquattro anni e Berg quattordici; l'amico più grande esprimeva la sua comprensione per le confessioni dell'anima e gli sfoghi del cuore del ragazzo, profusi in lettere che arrivavano a volte alle trenta pagine. Il mentore è una persona che vede qualcosa di essenziale. Il tutore del poeta Vladimir Majakovskij, di nemmeno dieci anni più grande del suo allievo, spiegò: «Gli piaceva lavorare con gli adulti e si seccava se lo si trattava da bambino. Ho notato questa caratteristica fin dal nostro primo incontro»».  

Arthur Rimbaud (un ragazzo «che viveva la maggior parte della sua vita nella fantasia ... e per il quale le vie che percorreva tornando da scuola non erano le strade a lui note, ma il ponte di un vascello, l'acciottolato di Roma, i sentieri dell'Acropoli») trovò il compagno dell'anima nel suo insegnante Izambard, di ventun anni, con il quale poteva finalmente «parlare di poeti e di poesia». «Quel ragazzino,» disse Izambard «che trattai fin dall'inizio come un compagno più giovane, a poco a poco divenne un caro amico».  

Come il professore di botanica con Darwin, come Miss Wood con Capote, così Izambard vide Rimbaud. Invece Bainville, il più celebrato poeta vivente dell'epoca, al quale Rimbaud chiese con effusione e abbandono un cenno di approvazione, scrivendo: « È il mese dell'amore; compirò diciassette anni... c'è qualcosa dentro di me, non so che cosa, che vuole librarsi alto», Bainville non vide nulla. Cestinò poesie e lettera: per lui la faccenda era chiusa. Da quella parte niente catalizzatore, niente mentore, niente occhio.  

In tutte queste relazioni percettive, l'età e il sesso sembrano ininfluenti. Nel 1777, Washington aveva quarantacinque anni, Hamilton venti; tra Izambard e Rimbaud c'era una differenza di sei anni appena. Oggi, dire che l'età e il sesso sembrano ininfluenti contrasta con le idee della nostra cultura. Eppure, il sospetto di attrazione omoerotica tra il più anziano Washington e il giovane, brillante, snello Hamilton rivela un segreto: non il segreto di un affare d'amore clandestino tra i due, ma il segreto della sorgente dell'occhio percettivo. Esso è l'occhio del cuore. Qualcosa si smuove nel cuore, aprendolo alla percezione dell'immagine racchiusa nel cuore dell'altro. Roosevelt provava «affetto» per Lyndon Johnson. «La luce della finestra cadde sulla tua testa» scrive Miss Shank. E allora Miss Shank vide. « Manolete stava facendo le mosse sbagliate per la sua corporatura e personalità». E Camarà vide. «Quel ragazzo, Lyndon Johnson, chissà che non diventi. 

 In una «squallida, fatiscente ... aula scolastica: buia, deprimente, paurosa a volte», in una classe di cinquanta ragazzi in maggioranza maschi, in maggioranza neri, Orilla Miller, «una giovane maestra bianca, una donna bellissima ... che io amavo ... con l'amore assoluto del bambino», ride James Baldwin a dieci anni. «Scoprirono di avere in comune la passione per Dickens, che entrambi stavano leggendo con una gran voglia di scambiarsi le proprie idee al riguardo. La giovane maestra del Midwest fu colpita dall'intelligenza del ragazzino del ghetto». E iniziarono un'amicizia che permise al daimon di James Baldwin di venire allo scoperto.  

Anche Baldwin aveva visto Miss Miller. Moltissimi anni dopo, quando lui era diventato uno scrittore famoso, entrarono nuovamente in contatto. Baldwin le scrisse, chiedendo «all'amica di allora di mandargli una sua fotografìa ... "Ho custodito il suo volto nella mia mente per tutti questi anni"»." Quarant'anni dopo il loro primo incontro in quella scuola di Harlem all'insegna dei romanzi di Dickens, Orilla Miller e James Baldwin andarono al cinema insieme a rivedere le due città.  

Oggi quasi non riusciamo più a credere a queste relazioni basate sull'affetto del cuore. Abbiamo imparato a vedere le cose con l'occhio dei genitali. Non sappiamo immaginare rapporti basati sull'immaginazione. Per la nostra cultura, il desiderio deve per forza essere inconsciamente sessuale, le relazioni accoppiamenti, le confessioni sincere, sotto sotto, manipolazioni seduttive. Ma l'attrazione reciproca, in tutte queste coppie, scaturiva da una visione condivisa; si erano innamorale di una fantasia. Nel caso di Baldwin e Miss Miller, Dickens; di Capote e Miss Wood, Sigrid Undset in norvegese (!) ; quella tra Roosevelt e Johnson fu una corrispondenza tra geni della politica: come dice Rowe, « potevano parlare alla pari »; età, storia, contingenze non erano elementi importanti: il loro era un dialogo tra due Presidend. Da cuore a cuore. Da ghianda a ghianda.  

Quando John Keats scrive: «Non conosco altro che la santità degli affetti del Cuore e la Verità dell'Immaginazione », le sue parole aprono anche i nostri occhi sull'operare della percezione creativa nelle vicende umane. Ci forniscono il terreno transumano per l'arte del mentore. Io divento un mentore quando la mia immaginazione sa innamorarsi della fantasia di un altro. Una componente erotica è necessaria, così come è sempre stata fondamentale nell'insegnamento da Socrate in poi, come lo è ancor oggi, anche se oggi o è eliminata dall'apprendimento attraverso il computer oppure è guardata esclusivamente con l'occhio genitale e vista come violenza, seduzione, molestia o bisogno di qualche impersonale ormone. L'occhio genitale non rivela ciò che va cercando la ghianda.  

Proviamo a esaminare, per esempio, le rubriche degli annunci personali. Superata la descrizione sociologica - conformazione fisica, colore della pelle, abitudini sessuali, professione, età, stato civile -, ecco che incomincia a emergere la Verità dell'Immaginazione. Lunghe passeggiate, cucina, umorismo, ballo, coccole e parlare, parlare; e poi le preferenze musicali, i progetti per le vacanze, i gusti e, soprattutto, i sogni. Cerchiamo qualcuno che accompagni la ghianda, non un compagno di letto. Un annuncio personale rivela «la santità degli affetti del Cuore». Un annuncio personale è un sogno romantico. «Un'inguaribile romantica ... un giorno mi disse che avevo dei bellissimi occhi castani» scrive Elia Kazan di Miss Shank, che vide le sue « grandi possibilità ».  

Vedere è credere, credere in ciò che si vede, e questo fatto conferisce immediatamente il dono della fede alla persona o alla cosa che riceve lo sguardo. Il dono della vista è superiore ai doni dell'introspezione. Perché tale vista è una benedizione: trasforma.  

La terapia promuove la grande illusione dell'introspezione. Predica e pratica la cecità di Edipo. Edipo si interrogava su chi fosse veramente, come se si potesse trovare la ghianda, il nostro vero essere, con la riflessione che si auto interroga. Questa superstizione terapeutica poggia su un'altra falsa credenza: l'idea che la ghianda sia celata alla vista, nascosta, sotterrata nell'infanzia, rimossa, dimenticata e dunque possa essere redenta soltanto con l'introspezione attiva nello specchio della mente. Ma gli specchi dicono solo mezze verità. La faccia che ti vedi allo specchio misura la metà delle dimensioni della tua faccia vera, è solamente la metà di quella che presenti e che gli altri vedono.  

La ricerca terapeutica del vero essere sarebbe forse più efficace se seguisse scrupolosamente la massima posta a titolo di questo capitolo dove, non a caso, c'è la forma passiva: percipi, «essere percepiti». Noi siamo fenomeni offerti alla vista. «Essere» è in primo luogo essere visibili. Il lasciarci passivamente vedere apre una possibilità di benedizione. Perciò noi cerchiamo amanti e mentori e amici, affinché possiamo essere visti, ed essere benedetti.  

Miss Shank vide Kazan nella luce che illuminava l'espressione del suo volto. Camarà vide come Manolete si muoveva, come uccideva il toro, come non tenesse conto del terreno. Watznauer faceva passeggiate con Berg, ascoltava, guardava. Al fronte, il comandante scruta in piena luce gli ufficiali da promuovere; l'uomo interiore è là, in quello che si vede fuori. Come avanza, come si comporta, come sta. E qual è la prima domanda sul loro stato interiore che rivolgiamo alle persone quando le incontriamo? «Come stai?». Tu sei il. modo come stai, sei esattamente come sei ora, sul crinale di questo attimo in cui ti mostri. Il tuo essere, forse tutto l'Essere, è precisamente il «come» sembra essere, il come del Sein che è così e non in altro modo, che dichiara chi e che cosa e dove è ciascun evento. Il «come è» dice ciò che è. Questa cosa è così; i suoi gesti, il suo stile, i suoi colori, i suoi movimenti, il suo linguaggio, la sua espressione (insomma, le concrete complicazioni dell'immagine) dicono esattamente come essa è.  

Con tutta la mia insistenza sul fenomenico, non intendo dire che non esistano zone riservate, ombre; non dico che un evento sia soltanto la Persona, una maschera, la faccia che si indossa, pura vetrina. Ma zone riservate e ombre non sono invisibili. Si manifestano nelle reticenze, nelle circonlocuzioni e negli eufemismi, negli occhi ombrosi, distolti, nei lapsus, nei gesti esitanti, nei ripensamenti, nelle omissioni. Non c'è niente di ovvio in una faccia e niente di semplice in una superficie. Il presunto nascosto è anch'esso in vista e suscettibile di essere notato, anzi è una parte di ciò che qualsiasi evento offre a chi sa guardare. L'immagine che un mentore scorge in un allievo o in un apprendista non è né tutta davanti né quel che è nascosto dietro, non è né un falso sé e neppure uno vero; non esiste alcun me reale se non la realtà di me nella mia immagine. Il mentore percepisce le pieghe di una complessità, quelle curve dentro/fuori, sotto/ sopra dell'implicito che sono la verità dell'immaginazione in ogni sua forma, per cui possiamo ben definire l'immagine: il come globale del presentarsi di una cosa. Eccomi, sono qui, proprio davanti ai tuoi occhi. Riesci a leggermi?  

Rivediamo dunque l'idea della ghianda come potenzialità nascosta e invisibile. Pensiamola invece perfettamente visibile nel come dell'atto: Manolete non è il fatto che combatte i tori, ma il come combatte i tori; non il fatto c/w Gertrude Stein scriva, bensì il come scrive costituisce l'unicità della sua immagine realizzata. L'invisibilità della ghianda sta nel come di una prestazione visibile, nelle sue tracce, se preferite. L'invisibile è perfettamente visibile in ogni punto e momento della quercia e non è altrove o prima della quercia, ma si comporta come un ordine implicito tra le pieghe del visibile, come il burro nella sfoglia dei croissant o l'aria fragrante nel pane che lievita: invisibile, ma non letteralmente tale, bensì l'invisibile fatto visibile.  

A volte questo risibile invisibile è indicato come lo spirito del luogo, la qualità di una cosa, l'anima di una persona, l'atmosfera di una scena, lo stile di un'opera d'arte. Noi vorremmo afferrarlo e allora lo spieghiamo come contesto, struttura formale o come una Gestalt aperta che ci attira dentro di sé. Né i nostri concetti né l'occhio che guarda attraverso di essi hanno fatto un sufficiente tirocinio nell'arte dell'immaginazione, nell'arte percettiva della lettura delle immagini. Quando cerchiamo di vedere per mezzo di tipologie, categorie, classi, sistemi diagnostici, siamo incapaci di vedere come stanno questa o quella persona. I tipi, di qualunque genere, offuscano l'unicità.  

L'occhio del cuore vede dei «ciascuni » ed è toccato dalla «ciascunità », per prendere a prestito l'espressione di William James. Gli affetti del cuore scelgono sempre il particolare. Ci commuove questa immagine e solo questa: in un'aula piena di bambini, soltanto il piccolo Truman con la sua vocetta acuta. Ci innamoriamo di questa immagine particolare, non di una qualunque. 

Ma anche una persona particolare: se la vediamo come Irlandese o Tedesca, Ebrea o Cattolica, Nera o Bianca, Alcolista o Suicidaria, Vittima o Borderline, allora non vediamo una persona, bensì categorie. Parliamo sociologichese, non la lingua dell'anima. Per leggere un'espressione occorre un numero di parole pazzesco. « I-a maggior parte della gente non sa "dire" come è la persona che ha davanti, ma l'essere incapaci di "dire" non implica che non si sia capaci di vedere» scrive il filosofo José Ortega y Gasset. Eppure, ci sono così tante parole a disposizione, basta chiudere il libro di psicologia e aprire un romanzo, un diario di viaggio, perfino un libro di cucina. Oppure un film, dove possiamo vedere aggettivi e avverbi dal vivo, composti in immagini che si muovono sullo schermo. «Oh, avere una Vita di Sensazioni invece che di Pensieri»» scriveva Keats. Per vedere la ghianda occorre avere occhio per le immagini, occhio per lo spettacolo, e avere il linguaggio per dire ciò che vediamo. 

I nostri fallimenti in amore, nelle amicizie, in famiglia spesso sono riconducibili a fallimenti della percezione immaginativa. Quando non guardiamo con l'occhio del cuore, allora sì l'amore è cieco, perché in quei casi non sappiamo vedere l'altro come portatore di una ghianda di verità immaginativa. Può esserci il sentimento, ma non la vista; e come la vista si appanna, cosi si appannano la simpatia e l'interesse. Ci sentiamo soltanto irritati, e ricorriamo a concetti diagnostici e tipologici. Ma tuo marito non ha « un complesso materno»; piagnucola, ha aspettative, spesso è come paralizzato. Tua moglie non è «in preda all'Animus»; è perentoria, discute usando la logica, non si vuole dare per vinta. Il chi tuo marito o tua moglie sono coincide con il come essi sono, non con ciò che le tipologie e le categorìe dicono che essi sono. 

Alcune forme di terapia cercano di correggere la miopia immaginativa incoraggiando l'«empatia» e la «identificazione controtransferale sintonica». E promuovono anche lo psicodramma e i giochi di ruolo per aiutare i pazienti a vedere in trasparenza certe concezioni tipologiche e ad arrivare al cuore dell'altro. Mettiti nei panni di tuo marito, di tua moglie, di tuo figlio. Immagina quello che provano, come sarebbe essere loro. Immagina! Forse, se guardi meglio con l'immaginazione, riuscirai a scoprire un cuore di verità nel loro comportamento. 

La percezione immaginativa richiede grande pazienza. Come dicevano gli alchimisti dei loro complicati, frustranti esperimenti: «Nella tua pazienza è la tua anima». Come reggere altrimenti l'incomprensibile comportamento dell'altro, quella stranezza, quella lentezza? Il fisico atomico Edward Teller imparò a parlare solo dopo i tre anni, tanto che si pensava fosse ritardato. «Poi, un giorno, Edward incominciò a parlare, con frasi complete, non singole parole, come se si fosse risparmiato la fatica in attesa di avere qualcosa da dire ». Il dottor Spock «fino a oltre i tre anni sapeva parlare pochissimo e quel poco lo diceva con esasperante lentezza». Anche Martin Buber imparò a parlare solo a tre anni. Uno degli insegnanti di James Thurber «disse a sua madre che probabilmente il bambino era sordo». Woodrow Wilson, forse il più colto dei presidenti americani, « aveva imparato a scrivere solo a nove anni e a leggere correntemente solo a dodici ». I primi biografi attribuivano la colpa di questo ritardo al rapporto con il padre e la madre. Il biografismo più aggiornato preferisce le diagnosi psichiatriche e sostiene che «Woodrow Wilson era affetto da dislessia evolutiva», insinuando in tal modo che la colpa stava nel suo cervello.  

Dislessia, ritardo cronico, distraibilità, iperattività sono sintomi della «sindrome da deficit dell'attenzione»: e sa Dio quanta pazienza ci vuole. Del resto, in quale altro modo si può contenere e snidare l'altra faccia di questo «deficit»? Spesso i bambini così classificati, e anche gli adulti, sono quelli con intelligenza superiore alla media, inclini a perdersi in fantasticherie e con un'anima così sensibile e aperta che l'«Io» non riesce a starle dietro e il suo comportamento risulta disorganizzato. E allora, alé!, una bella cura di Ritalin, Prozac, Xanax: e funziona, naturalmente. Ma il fatto che le pillole combattano il deficit non vuol dire che la causa ne sia confermata o che se ne sveli il significato. Le stampelle funzionano, ma non spiegano la mia gamba rotta. Come mai questo disturbo è tanto diffuso oggi? Su che cosa l'anima non vuole rivolgere l'attenzione, e che cosa starà facendo il daimon, visto che non sta leggendo, non sta parlando, non sta dando prestazioni rispondenti alle aspettative? Per scoprirlo occorrono molta pazienza e quella percezione immaginativa che Henry James descrisse come «un prolungato indugiare sopra il caso esposto».  

« Esse est percipi» disse il filosofo irlandese George Berkeley (1685-1753). Noi esistiamo e diamo esistenza in virtù della percezione. Berkeley intendeva dire che l'onnisciente percezione di Dio mantiene in essere tutte le cose. Per il moralista (e Berkeley era un vescovo), questo potrebbe significare che Dio non ci perde mai di vista, perciò: attenti a non sgarrare! Per il metafisico, esse est percipi potrebbe significare che se Dio si addormenta, sbatte le palpebre anche un solo istante, o è distratto da qualche problema in qualche altro universo bruniano, l'essere del nostro mondo si dissolve nel nulla.  

Un rabbino in vena di sofismi potrebbe chiedere al vescovo: Dio percepisce se stesso? Se no, come possiamo dire che Dio esiste? E se sì, attraverso quali mezzi si percepisce? Se percepisce se stesso nello specchio della natura, allora o la natura è un simulacro di Dio e sarebbe indistinguibile da Dio (come proponeva Spinoza), oppure la natura è percipiente e dotata di una propria divina consapevolezza, visto che è in grado di fare esistere Dio. Se l'Onnipotente percepisce se stesso attraverso l'uomo, allora abbiamo un umanesimo secolare: l'esistenza di Dio è effetto della percezione umana; l'esistenza di Dio dipende dagli uomini; siamo noi che inventiamo Dio. O forse, potrebbe insinuare ancora il nostro rabbino, il tipo di esistenza che ha Dio non richiede la percezione, ma questo ne limiterebbe la presenza, escludendolo dalla sfera percettiva, lasciandolo separato, trascendente, né onnisciente né onnipotente. E se l'esistenza di Dio non ha bisogno della percezione, allora, caro il mio vescovo, o la tua proposizione è falsa, oppure Dio non esiste.  

Berkeley, da buon irlandese, avendo studiato al Trinity College di Dublino e avendo trascorso un bel po' di anni in America, avrebbe sicuramente saputo dare acute risposte a questi rompicapo e anche tirarne fuori di ancora più difficili. Ma una possibilità forse gli sarebbe sfuggita, visto che non aveva potuto leggere Keats (se non in forma di ghianda, chissà), e cioè la virtù psicologica ed ecologica della sua stupendamente concisa e meritatamente famosa formula. I^a percezione conferisce una benedizione, come cercano di dimostrare le storie tratteggiate in questo capitolo. La percezione pone in essere e mantiene in vita l'essenza di ciò che è percepito; e quando la percezione vede nella «santità degli affetti del Cuore», come appunto ci dicono le nostre storie, si disvelano cose che dimostrano la Verità dell'Immaginazione.