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La mia migliore e unica amica, April May, abitava in una grande roulotte color argento sul retro del parco, vicino alla discarica. Anche se aveva due anni più di me eravamo in classe insieme, ed era la mia unica, vera amica.
La nostra piccola scuola rischiava sempre di perdere i finanziamenti federali e chiudere, perché in quella zona c’erano pochissime famiglie con bambini. Negli ultimi trent’anni molte persone avevano abbandonato le piccole città per trasferirsi in quelle grandi, dove era più facile trovare lavoro. Tante scuole di campagna avevano già chiuso, e sapevamo che anche per la nostra era solo questione di tempo.
Nella mia classe c’erano solo sei bambini, e avevamo lo stesso insegnante per tutte le materie. Mia madre non mi dava il permesso di stare con nessuno tranne April May. Non voleva che degli estranei mi facessero domande. La sua continua paura era che mi portassero via da lei e mi dessero in affidamento.
Là fuori c’è sempre qualcuno che non vede l’ora di farti un favore, diceva.
A dire la verità nessuno bussava mai alla portiera della nostra macchina perché voleva essere mio amico, o per dividere con me una merendina.
I genitori di April May davano a mia madre il permesso di usare l’indirizzo della loro roulotte per iscrivermi a scuola o richiedere documenti.
Facevo quasi sempre io i compiti di April May. Non aveva la testa per studiare, ma non era stupida. A me non importava perché mi veniva molto facile, dato che mia madre mi aveva insegnato tante cose già molto prima che me le spiegassero in classe.
April May aveva i capelli rossi e così tante lentiggini che la sua pelle sembrava di un marrone rossastro. Mia madre ci chiamava Ghiaccio e Fuoco.
April May era prepotente e questo di lei mi piaceva, perché mia madre invece non lo era. Non mi diceva mai di fare niente, solo di cercare di sognare quando andavo a dormire.
Sosteneva che io e lei facevamo parte della tribù dei sogni.
Non ci vuole molto a capire che i sogni sono meglio della vita, diceva.
April May era tanto prepotente che la chiamavo la poliziotta Mettiti-una-mano-davanti-alla-bocca-quando-tossisci, la poliziotta Non-azzardarti-a-rispondermi e la poliziotta Tieni-la-bocca-chiusa-mentre-mangi. Faceva così perché suo padre era stato nell’esercito e la trattava come un soldato.
La sua prepotenza non mi dava fastidio perché lei si divertiva moltissimo a sfidarmi, e c’era ben poco che mi piacesse più di una sfida.
Se April May diceva: Andiamo a fare una passeggiata sul fiume, le rispondevo di sì. Se diceva: Andiamo al negozio di dolci, così poi tu rubi le gomme da masticare, le rispondevo di sì.
Mia madre diceva che ero nata sotto la stella del rischio.
Se non stai attenta, mi ripeteva, un giorno o l’altro finirai con il cercare di attraversare i binari un attimo prima che passi il treno. Se avessimo un tetto, tu salteresti giù.
Se April May diceva: Andiamo a esplorare la discarica, ti sfido ad aprire i sacchi neri, io le rispondevo: Sì, sì, sì.
Sapevamo che un giorno o l’altro avremmo trovato un cadavere in uno di quei sacchi. Quella scena del crimine era sempre vivida nella nostra immaginazione. Già avevamo trovato cani e gatti morti.
La discarica dei rifiuti della piccola comunità locale era dietro il campo roulotte. Una fila di pini la nascondeva alla vista, ma niente poteva bloccare gli odori e il rumore dei camion della spazzatura. Lo stridere dei cardini arrugginiti, quando il piano di carico posteriore si inclinava per scaricare i rifiuti, si mescolava ai suoni del vento e della pioggia, come se facesse parte anche lui della natura.
Ci avevano detto di non avvicinarci alla discarica perché era un posto sporco, pieno di roba marcia, che avrebbe potuto farci ammalare. La madre di April May, Rose, aveva perfino spiegato che c’erano materiali tossici e rifiuti medici provenienti dal vicino ospedale dei reduci, dove lavoravano lei e mia madre. Ma noi ci andavamo lo stesso.
Fuori dalla discarica un cartello attaccato alla recinzione con il filo di ferro diceva: PERICOLO – VIETATO L’INGRESSO, ma non c’erano né cancello né serratura né guardiani.
A un lato dell’entrata cresceva un albero alto, che veniva usato per fare pratica di tiro ed era pieno di buchi. In molti punti riuscivo a vedere attraverso il marrone-arancione della corteccia.
Nonostante quel marciume la discarica era un paesaggio dominato dalla plastica di tutti i colori, e cocci di vetro scintillavano tra i rifiuti come cristalli verdi e azzurri. C’erano piatti di plastica, cucchiai, forchette, sacchetti, scatole, bottiglie e pezzi di bambole. Teste di Barbie senza corpo e dai capelli aggrovigliati, gialli, arancioni o rossi, giacevano tra gusci d’uovo e cartoni del latte. Si vedevano coppie di gambe di plastica rosa, oppure un’unica gamba solitaria che sporgeva da una scatola rossa di cereali da colazione; braccia rosa e perfino dorsi rosa con tanto di ombelico.
Una volta April May trovò un paio di vecchi jeans con una banconota da dieci dollari che sporgeva dalla tasca posteriore. Non ci sembrava vero. Da allora in poi guardavamo sempre dentro le tasche di tutti gli indumenti lisi gettati via.
Durante una di quelle cacce tra i rifiuti trovai un termometro rotto dentro una scatoletta. Il mercurio aveva formato delle palline. Mentre giocavo con quel liquido argenteo e scintillante, facendolo rotolare sulla superficie del palmo, il metallo si suddivise in goccioline scivolose che poi tornarono a unirsi in una goccia più grossa. Lasciai scorrere il liquido giù dalla mano dentro la tasca dei jeans.
Quando tornai in macchina lo feci scivolare dentro una borsettina che tenevo sotto il sedile anteriore. Conteneva tutte le cose che avevo preso nella discarica: un po’ di biglie, un cerchio dorato per le orecchie e quattro bottoni di ottone con l’immagine di un’ancora.
Una volta April May trovò una scatola di cartone piena di grosse falene nere e marroni. Uno degli insetti era così grande che a prima vista mi sembrò un uccello. Le falene erano posate una sopra l’altra, separate da sottili pezzetti di carta velina bianca.
Dentro la scatola c’era anche un foglio con i nomi delle specie scritti con l’inchiostro. La lista diceva: Attacus atlas, Ascalapha odorata, Argema mittrei, Actias luna, Acherontia atropos e Agrotis clavis.
Cercammo di prenderle in mano, ma dopo qualche cauto tentativo lasciammo perdere. Appena le toccavamo le falene si dissolvevano in polvere.
Questa è la collezione di qualcuno, disse April May. La porto via io. Non posso lasciare qui tutte queste falene morte. È un maleficio contro di noi. Se le lascio qui succederanno delle cose brutte.
April May era così superstiziosa che si inventava da sola le superstizioni sul momento.
Lasciale lì, le risposi. Cadono a pezzi.
Va bene. Ma se poi succede qualcosa di brutto sarà colpa tua.
Spesso trovavamo anche pile di riviste, soprattutto vecchi numeri di Time e roba pornografica. Ricevemmo la nostra educazione sessuale dentro la discarica, e su quelle pagine vedemmo cose di cui nessuno dovrebbe mai nemmeno sentir parlare.
C’erano anche scarpine da neonato sparse un po’ dappertutto, alcune ancora appaiate e legate insieme per le stringhe.
Penso sempre che l’aria di quella discarica soffia fino all’oceano, disse mia madre. Nell’intero territorio degli Stati Uniti alla fine tutto vola via, attraversa il paese e arriva sull’Atlantico. Tutto quello che succede a New York finisce a soffiare sopra l’Islanda o l’Irlanda. Basta che guardi il cielo e potrai immaginare cosa contiene. Pensa a tutti i palloncini delle feste di compleanno che sono volati fino in Francia. Pensa a tutto il fumo dei falò del 4 luglio che ha attraversato la terra e il mare fino ad arrivare in Inghilterra.
Il padre di April May, che tutti chiamavano il sergente Bob, era un reduce di guerra e aveva combattuto in Afghanistan. Era stato uno dei primissimi soldati ad andare fin là, e anche uno dei primi a tornare indietro.
Il sergente Bob era un uomo alto che si rasava la testa. Portava una barba corta che gli cresceva solo sul mento e se la accarezzava di continuo con le dita, oppure se la tirava come se stesse cercando di strapparla. Gli mancava anche un orecchio, portato via dalla stessa mina terrestre che gli aveva fatto saltare la gamba.
Al sergente Bob piaceva ripetere con indignazione di aver calpestato una merdosa mina terrestre russa, come se questo la rendesse ancora più terribile.
L’esplosione lo aveva reso quasi del tutto sordo, perciò dovevamo urlare quando volevamo parlare con lui.
Ci disse che, adesso che aveva una gamba sola e non sentiva più niente, aveva scoperto i libri. Poteva ordinarli tramite i cataloghi della biblioteca per i reduci di guerra, che era attiva in tutto il paese.
A volte portava la protesi, ma per lo più zoppicava appoggiandosi alle stampelle, con la gamba vuota dei calzoni fermata da una grossa spilla da balia. Girava quasi sempre a torso nudo e aveva il torace coperto di tatuaggi. Se li era fatti dopo che due suoi amici erano morti in Afghanistan.
Ci disse che il punto più doloroso per i tatuaggi è la pelle sopra le costole.
Sul fianco sinistro e sopra la vita c’era scritto: In memoria dei compagni caduti. Sul fianco destro il tatuaggio diceva: In God We Trust.
Mi hanno allevato nella fede cristiana, raccontava il sergente Bob. Ma non ho mai creduto davvero in Dio finché non sono andato in Afghanistan. I ragazzi che sono morti laggiù avrebbero potuto essere chiunque. Ogni giorno della mia vita mi guardo i tatuaggi allo specchio e capisco quanto sono stato fortunato. Adesso credo in Dio, perché cos’altro puoi fare alla mia età?
Il sergente Bob aveva sette cartucce tatuate sulla schiena, ciascuna con dentro il nome di uno dei sette compagni che aveva perso. Ogni volta che gli stavo vicino non riuscivo a fare a meno di leggere quei nomi: Mitt, Carlos, Luke, Peter, Manny e Jose.
La madre di April May, Rose, faceva l’infermiera presso il piccolo ospedale dei reduci della cittadina. Il sergente Bob l’aveva conosciuta lì. Era stato uno dei suoi pazienti.
Gli abitanti del campo roulotte andavano a cercarla quando avevano bisogno di un cerotto o di un antistaminico. Lei aveva tutto. Era anche capace di fare le iniezioni e di pulire e bendare una ferita. Prima o poi finivano tutti con l’aver bisogno di lei.
Un giorno io e April May eravamo sedute sull’erba vicino a Rose, fuori dalla loro roulotte. Era una di quelle rare giornate di luglio in cui la brezza soffiava via l’umidità e permetteva di rimanere all’aperto. Perfino gli odori della discarica venivano portati via dal vento, lontano da noi, verso la Svezia.
In quelle giornate limpide mia madre diceva: Oggi sulle acque della Scandinavia si posano le particelle di rifiuti del polline del Kansas, della polvere di carbone della Pennsylvania e delle ragnatele del Vermont.
Rose era su una sedia da giardino con un grosso bicchiere di plastica rossa pieno di limonata stretto tra le cosce. Stava mangiando dei Doritos, e a ogni patatina che infilava in bocca si leccava dalle dita il chili salato arancione e la polvere di cheddar. Io e April May eravamo così vicine che sentivamo il primo morso spezzare la tortilla triangolare tra gli incisivi. Rose non ce le offrì, e quando ebbe finito si infilò in bocca l’indice per inumidirlo e lo passò sul fondo del pacchetto, raccogliendo gli ultimi granelli di polvere di formaggio e chili per succhiarli. La punta di quel dito era sempre di un rosso acceso.
Accanto a lei, appoggiata a terra, c’era una lattina di Pepsi.
Rose aveva un tatuaggio di Hello Kitty sulla caviglia destra. Per dimostrarmi che sua madre era una fan sfegatata, una volta April May mi fece dare una sbirciatina al libretto degli assegni della Bank of America, con sopra stampata un’immagine di Hello Kitty, e alla carta di credito Visa, con un’altra immagine impressa sulla plastica.
Mia madre era sempre gentilissima con Rose. Non erano proprio amiche, però lavoravano insieme all’ospedale e provavano un rispetto reciproco, cordiale e distaccato.
Rose non è una giornata nebbiosa. Non è una giornata nuvolosa. Però ha proprio un odore di ammoniaca, diceva mia madre. È come se camminasse sempre dentro una nuvola.
Perché?
Quando era bambina i suoi genitori avevano preso in affitto una casa che prima era stata un laboratorio per la produzione di metanfetamina, spiegò mia madre. Me lo ha raccontato lei, una volta. In quella casa si ammalava in continuazione, si sentiva sempre male, malissimo, e lo stesso i suoi genitori. Capirono come stavano le cose quando i drogati cominciarono a suonare per chiedere la roba. Quella casa era stata un piccolo laboratorio di metanfetamina. Mentre gli spacciatori cucinavano la droga si era verificata un’esplosione e i residui si erano sparsi ovunque, perfino nei condotti dell’aria condizionata. Rose è fuori. È malata. Quei cristalli le sono entrati dentro.
In Florida tutti sapevano cosa fosse un laboratorio di metanfetamina. La polizia ne trovava in continuazione. Se ne parlava sempre nei telegiornali e tutti avevano una storia da raccontare su qualcuno che la cucinava. E sapevano anche che l’eroina messicana stava soppiantando la metanfetamina sul mercato.
A scuola conoscevamo un ragazzo, Rusty, alto e magro, che digrignava i denti in continuazione. Venne dato in affidamento perché i suoi genitori erano finiti in galera per aver prodotto e venduto metanfetamina. Era stato un colpo di sfortuna: qualcuno aveva chiamato i pompieri dicendo che c’era un incendio nei boschi dietro la loro casa, ma quando erano arrivati i vigili del fuoco avevano trovato un laboratorio attivo e 172 grammi di olio di metanfetamina.
Rusty è venuto a scuola per salutarci, raccontai a mia madre. Ha detto che lo mandano in una famiglia vicino a Miami. Ci sono rimasta così male. Credo che tutti a scuola ci siano rimasti male.
Sì, certo, rispose lei. È triste perché, ancora prima di dimenticarlo, ancora prima che lui chiudesse la porta e se ne andasse, sapevi già che lo avresti dimenticato.
Il lavoro all’ospedale dei reduci spingeva mia madre a pensare alla velocità con cui ci dimentichiamo delle persone. Si chiedeva se il destino peggiore fosse essere dimenticati o morire. C’erano troppi reduci che non avevano neanche un amico o un familiare che andasse a trovarli.
Mentre mangiava i Doritos, Rose ci parlava dell’amore. Era preoccupata perché a April May non interessavano i ragazzi, e non cercava di essere femminile. Non le piaceva Hello Kitty e odiava il rosa. Si tagliava i capelli corti con le forbici da cucina.
Quella mattina, mentre si succhiava il dito arancione per la polvere dei Doritos e beveva la Pepsi, Rose decise di darci un po’ di istruzioni sull’amore.
Invece di parlare con gli uomini, toccateli, ci disse. Niente chiacchiere. Non avrei mai pensato che un uomo come il sergente Bob potesse amarmi. Tenete gli occhi aperti, ragazze, per beccare un uomo che capisce davvero, che sa che una donna è il paradiso. Deve meritarsi i vostri baci e la vostra attenzione. Non parlate troppo. Niente bla bla bla, niente sciocchezze. Se volete dire qualcosa, trasformate la parola in una carezza, o in un pizzicotto. Ogni volta che state per parlare, invece di aprir bocca toccatelo. Non ditegli buongiorno, toccategli una spalla. Non chiedetegli mai se vi ama; succhiategli le dita. Dovete fare in modo che abbia dei ricordi. Giusto? Ho ragione? Ditemelo voi.
E la verità è che Rose faceva esattamente quello che diceva. Non parlava mai con il sergente Bob. Invece, la vedevamo accarezzargli la testa, o baciargli la nuca. Qualche volta gli faceva scorrere il dito sui tatuaggi, come se stesse ridipingendoli o seguendo una mappa lungo il suo corpo. Sotto quel tocco il sergente Bob chiudeva gli occhi, oppure tirava fuori il portafogli e le dava una banconota da dieci o venti dollari.
È vero, Ketchup la ama sul serio, mi disse un giorno April May, mentre scendevamo al fiume. Anche se loro sono i miei genitori, fa un po’ schifo lo stesso.
April May aveva un soprannome per tutti. Suo padre era Ketchup e sua madre Pastafrolla.
Una volta per San Valentino il sergente Bob regalò a Rose una pistola 9 millimetri.
Quando un uomo regala un’arma alla sua donna è perché si fida davvero di lei, disse. Questa pistola non sarà mai una fabbricavedove. Certe armi lo sono, ma questa qui è roba seria. Molto più utile di una scatola di cioccolatini. Preferirei mille volte tornare a casa e trovare il medico legale che porta via qualcuno che le stava dando fastidio piuttosto che scoprire che mi ha cucinato una torta di mele. Sì, è questa la verità. Se un uomo regala un’arma alla sua donna è perché si fida davvero di lei.
Il sergente Bob aveva un sacco di nomi per le armi. Alcune le chiamava fabbricavedove, fabbricaorfani e fabbricapace. Se venivano usate per rubare un’auto erano fabbricamacchine, e se una mancava il colpo la chiamava fabbricapioggia. Se l’arma pareggiava un conto, allora era una fabbricalegge.
La pistola era rosa. Il sergente Bob regalò a Rose anche una speciale fondina rosa per portarla sotto il braccio, ma lei era troppo grassa. Quando girava per il campo roulotte appendeva l’arma al collo, sul davanti della camicetta, tra i seni; se invece usciva la metteva in borsetta.
Rose disse: È il regalo più bello di tutti, perché lui vuole che io sia al sicuro.
Il sergente Bob non avrebbe voluto che la moglie andasse in giro con una pistola rosa, perché diceva che se fosse finita in un guaio nessuno avrebbe mai preso sul serio quel colore, ma Rose vinceva tutte le discussioni accarezzandogli la barba o stuzzicandogli il lobo dell’unico orecchio.
Credevo nelle armi già prima di incontrare mio marito, spiegava, perciò su questo non può darmi ordini. Quando ero piccola la mia famiglia ha sempre avuto armi in casa. Mio padre andava a caccia. Le armi mi danno la libertà. Lo so. E comunque la prossima pistola nella mia lista dei desideri è una Walther PPQ calibro 40, e questo dovrebbe renderlo felice.
Mia madre pensava che Rose non avrebbe dovuto tenere la pistola appesa sul davanti della camicetta.
È come mettere una candela vicino a una tenda, o asciugare il bucato sulla stufa, diceva. Prima o poi qualcosa prenderà fuoco.
Rose diceva: Una volta che hai un’arma, è come se avessi sempre la febbre. Però devo ammettere che pensavo che mi avrebbe regalato un anello.
Mia madre diceva che Rose era una brava donna.
Non ha mai dato confidenza agli sconosciuti, spiegava. È una brava infermiera. Anche quando uno sta per morire lei gli dice che se la caverà. Non dà mai brutte notizie a nessuno.
Quando parlava di mia madre Rose mi diceva: Alla tua cara mamma hanno dato un mazzo con quarantotto carte. Dio non ha fatto i conti giusti per lei, oppure qualcuno ha rubato le quattro carte mancanti e le ha nascoste dentro la manica. Anche se è nata nella bambagia, tua madre è una brava donna. È la prova vivente che i ricchi possono essere anche buoni. Non va in giro a vantarsi delle belle scarpe che aveva da bambina e non si riempie la bocca di paroloni.
Tutti volevano bene a mia madre. Sono sicura che fosse perché lei sapeva guardare dentro le persone e capire cosa faceva loro male. Quello che stava fuori entrava dentro di lei e penetrava nel suo corpo come se fosse una scatola o una borsa in cui tutti potevano frugare.
Rose diceva anche: Il problema di tua madre è che sente il dolore di tutti, e questo non va bene se lavori in ospedale. Ha il morbo dell’empatia profonda. È una malattia.
Mia madre faceva la donna delle pulizie nello stesso ospedale dei reduci in cui Rose lavorava come infermiera. Nella nostra zona della Florida era uno dei pochissimi posti in cui fosse possibile trovare un impiego. Mia madre, che non aveva nemmeno il diploma di scuola superiore, poteva lavorare solo nel servizio pulizie.
La mia mamma dal collo di ballerina classica puliva i pavimenti, rifaceva i letti, lavava le padelle, svuotava i sacchi dell’immondizia, spazzava i corridoi. Portava un camice sopra i vestiti, guanti di gomma, sacchetti di plastica sopra le scarpe e una retina per capelli che le copriva tutta la testa e le arruffava le ciocche bionde.
Sia mia madre sia quella di April May si lamentavano del fatto che i reduci non fossero assistiti come si doveva e che i medici venissero solo una volta ogni tanto, costringendoli spesso ad aspettare mesi. Perfino il servizio pulizie dell’ospedale era sempre a corto di tutto: anche di generi di prima necessità come la carta igienica e i detergenti.
L’ospedale è un posto tra cielo e terra, diceva mia madre. Come faccio a spiegartelo? È un posto in cui un uomo può piangere come un bambino perché ha perso un braccio. In cui gli uomini sono bambole di carta da strappare. Sanno di non poter proteggere nessuno, e a cosa serve essere un uomo se non puoi proteggere nessuno?
Rose diceva che la cosa più dura del suo lavoro erano i suicidi.
Quei reduci sono riusciti a sopravvivere alla guerra e poi vanno a sbattere contro un rasoio o una corda, spiegava.
Una volta all’anno, durante la settimana nazionale delle infermiere, il pastore della chiesa locale, Rex Wood, che abitava anche lui nel campo roulotte, andava all’ospedale per una cerimonia inventata da lui, che si chiamava Benedizione delle mani. Gli piaceva inventare nuove cerimonie religiose. Si considerava un innovatore.
Nel giorno della Benedizione delle mani le infermiere abbandonavano per venti minuti il turno e i pazienti, e uscivano nel parcheggio dell’ospedale. Si mettevano in fila e tendevano le palme aperte. Il pastore Rex si avvicinava, spruzzava loro qualche goccia di acqua santa sulle mani e pronunciava una preghiera.
A guardare la benedizione c’erano sempre un paio di eroinomani o drogati di metanfetamina, che avevano l’abitudine di gironzolare nel parcheggio. Quasi tutti riuscivano a capire la differenza, perché i drogati di metanfetamina avevano piaghe sulla faccia e sorrisi anfetaminici, ovvero senza denti o con denti che non avevano nessun diritto di stare dentro una bocca. Gli eroinomani invece giravano intorno all’ospedale nella speranza che qualche infermiera gli infilasse in mano una siringa o una scatola di lassativi. Non facevano altro che addormentarsi appoggiati a un’auto, o anche sotto un’auto, per cercare ombra nelle giornate calde.
Tutti sapevano che quello era l’unico giorno dell’anno in cui ogni infermiera dell’ospedale si faceva la manicure nel centro estetico della cittadina. Io sapevo che mentre assisteva alla benedizione mia madre stringeva con forza uno spazzolone tra le mani. Le altre donne delle pulizie le tenevano in tasca. Il personale di pulizia non riceveva mai la benedizione delle mani, perché nessuno aveva mai pensato che le loro mani la meritassero.
Al pastore Rex piaceva stampare i testi dei suoi sermoni e delle sue benedizioni e distribuirli in chiesa. La domenica successiva alla settimana nazionale delle infermiere ne distribuiva uno che aveva anche letto ad alta voce dal pulpito: Dio benedica le mani che curano e faticano. Le mani che aiutano il prossimo a camminare. Dio assista le mani che praticano iniezioni e accostano bicchieri d’acqua alle labbra altrui. Le mani che puliscono i corpi. Le mani che sono più che mani, e portano il peso delle sofferenze del mondo. Amen.
Mia madre diceva: Non sai mai dove si nasconde il diavolo. I bugiardi fingono sempre di essere preti, o poeti. Si nascondono nei luoghi più puri.
Dopo la scuola a me e April May piaceva fare una passeggiata fino al fiume, dove c’era un molo su cui potevamo sederci a guardare l’acqua.
Parliamo di quello che ci pare, diceva sempre lei quando arrivavamo.
Guardavamo le libellule muoversi a scatti sulla superficie dell’acqua e tenevamo sempre gli occhi aperti in cerca di qualunque gorgoglio nel fiume, che poteva indicare il lento movimento di un alligatore. In Florida tutti sapevano che non bisognava mai sedersi in fondo a un molo con i piedi nell’acqua. Ma a April May piaceva sfidarmi, e io rispondevo sempre di sì. Quando però la sfidavo io, lei si rifiutava. Sapevamo tutte e due che la più coraggiosa ero io.
Qualche volta April May si lamentava dei suoi genitori e diceva: Pastafrolla mi sta facendo impazzire, e anche Ketchup. Mi fanno impazzire tutti e due. Perché mi sono capitati una madre e un padre come loro? Perché?
Alzavo sempre le spalle quando parlava così.
Ehi, ehi. E tu? Margot non ti fa impazzire?
Fui costretta a risponderle di no.
No?
No.
Be’, disse April May. Ho sentito che a tua madre facevano sempre respirare un po’ di gas dal fornello. Sono sicura che deve averle fatto effetto. Probabilmente è per questo che ha sempre la testa tra le nuvole.
Cosa vuoi dire? le domandai.
Sì. L’ho sentito in giro. Quando era piccola a tua madre facevano sempre respirare il gas in cucina, così poi si addormentava. Suo padre la teneva sopra il fornello e girava la manopola.
Certo che lo sapevo. Mia madre me l’aveva detto. Suo padre le ripeteva: Quando una bambina non vuole andare a dormire, un po’ di gas è sempre meglio di un bicchiere di latte.
Ti farà un po’ impazzire per forza, ogni tanto, continuò April May. Dai, dai. Ammettilo. Tutti i genitori fanno impazzire i figli.
No, risposi. Mai.
Mia madre sapeva sempre con precisione cosa dire per darmi un po’ di affetto, per farmi sorridere.
Un giorno mi disse: Pearl, lo sai qual è la migliore domanda del mondo? La migliore di tutte in assoluto?
No, dimmelo tu.
La sua vecchia vita e la nuova si trovavano sempre mescolate dentro una terrina, come la farina e lo zucchero.
Andrai al ballo?