IV - Diminuire i costi del Palazzo? Macché: li fanno crescere
Il pesce spada, ecco: alla fine ha pagato lui per tutti. Ma la grande rivolta contro la casta si è arenata lì, sul filo del secondo alla griglia. Non che non fosse una questione importante, per l'amor del cielo: fino al settembre 2011, alla buvette del Senato, il pesce spada era praticamente regalato. Tre euro e 55 appena, prezzi stracciati rispetto a qualsiasi altro ristorante del centro di Roma. E per questo era diventato uno dei piatti simbolo del sontuoso e risparmioso menu parlamentare, insieme con i primi a 1 euro e 50, i carpacci di filetto a 2,76, il caffè a 42 centesimi; e poi ancora: pasticcino 46 centesimi; aperitivo o ammazzacaffè, 93; spremuta, 92; tramezzino, 96. Possibile? Possibile. La violazione del segreto gastronomico della Camera Alta, però, aveva fatto esplodere immediatamente l'ilarità su Internet: venghino signori, venghino, in questo locale si mangia tanto a prezzi assai popolari. Trattoria rustica?
Osteria fuori porta? Mensa dei poveri? Macché: è il ristorante del Senato, dove puoi pasteggiare molto bene con 4 euro. E se ne spendi 10 ti regali addirittura un pranzo da re.
Sommersi dal web ludibrio, messi in croce dall'indignazione popolare, alla fine dell'estate i senatori si erano perciò decisi all'estremo sacrificio: aumentare il prezzo del pesce spada e degli altri prelibati piatti del menu.
Con lo stomaco evidentemente saziato da pranzi e cene consumati nelle lunghe vacanze, avevano accettato di incidere profondamente sulla loro vita. O, almeno, sul loro girovita. E avevano perciò dato l'assenso alla cosiddetta rivoluzione dell'ostrica: un primo piatto alla buvette è arrivato di colpo a costare (udite udite) anche 6 euro, per i deliziosi spaghetti all'astice ne sono stati chiesti addirittura 15. Quasi prezzi di mercato, figurarsi. E poi, non contenti, sono andati avanti: secondo, contorno, dolce. In un attimo si sono accorti di essere alla frutta.
E così, smaltite le gozzoviglie estive, hanno subito pensato di fermare le macchine del risparmio, che pure erano state appena avviate. Il pesce spada è stato schiantato? Lo spaghetto all'astice pure? Per un carpaccio di filetto tocca pagare come al ristorante? Ok, adesso basta, però. Anzi: bisogna passare al contrattacco. Detto fatto. «In pochi giorni gli incassi al desco parlamentare sono diminuiti del 50 per cento» racconta Francesca Schianchi sulla «Stampa». «Un centinaio di presenze in meno al giorno» calcola il senatore questore Angelo Maria Cicolani. «Il ristorante s'è svuotato» sospira il senatore dipietrista Stefano Pedica. E in molti hanno preso l'abitudine, all'ora di pranzo, di lasciare Palazzo Madama per andare a Montecitorio. Allora qualcuno ha suggerito: bisogna aumentare anche i prezzi della buvette di Montecitorio. Detto fatto: l'aumento è arrivato a inizio 2012. Dieci centesimi in media. Proprio così: 10 centesimi. Praticamente una beffa. E infatti, alla fine, l'impressione è che l'unico ad aver pagato qualcosa nella rivolta anticasta sia stato il pesce spada. I pescecani, invece, si sono salvati un'altra volta.
I dati sembrano confermare l'impressione. Lo rivela uno studio realizzato dalla Uil e pubblicato da «Libero» il 6 gennaio 2012: altro che tagli, il Palazzo si da l'aumento. Per il 2012, stando ai dati della Ragioneria generale rielaborati dal centro studi del sindacato, il costo di funzionamento delle istituzioni sarà di 3 miliardi e 207 milioni di euro (esattamente: 3.207.470.213) contro i 3 miliardi e 184 milioni (esattamente: 3.184.287.063) del 2011. Di fatto 23 milioni in più (esattamente: 23.183.150). In particolare aumentano le spese per gli uffici dei ministri (6 milioni in più) e per quelli della presidenza del Consiglio dei ministri (quasi 13 milioni in più). Ma Monti non aveva annunciato un taglio?
E infatti la presidenza del Consiglio insiste: le spese nel 2012 diminuiranno (addirittura del 16,7 per cento, dicono). Ma sarà vero? A fine anno si tireranno le somme. Di sicuro il personale aumenterà, anche se la presidenza del Consiglio si distingue per avere 4600 dipendenti, cioè oltre il triplo del Cabinet Office, analoga struttura del governo inglese (che ne ha 1337). Entro il 2013 sono previste infatti altre 33 assunzioni, di cui 12 in posizioni da dirigente. Sono proprio necessarie? Con 4600 dipendenti in servizio?
E dire che tagliare con decisione a Palazzo Chigi non sarebbe difficile.
Un'inchiesta dell'«Espresso» pubblicata il 24 novembre 2011 rivela che si spendono 5,6 milioni di euro per ricevimenti e convegni, 11 milioni per il «miglioramento dei processi decisionali e dell'efficienza» (soldi più o meno buttati, verrebbe da dire, considerati i risultati) e 3,5 milioni di euro per il «benessere organizzativo dei dipendenti» (che, anziché il solito Crai, da veri signori hanno fondato un circolo nautico...). 983.000 euro sono destinati a una struttura che ha come compito quello di assegnare le auto di scorta. E poi le spese per il cerimoniale, quelle del consigliere militare, quelle per le onorificenze e l'araldica, fino ad arrivare al paradosso dei paradossi: 340.000 euro sprecati per un comitato che studia la lotta agli sprechi... Risultato? Fra il 2006 e il 2011 le spese di Palazzo Chigi sono cresciute del 46 per cento. Nel 2012, secondo ì dati citati, aumenteranno ancora del 2,5 per cento. Intanto gli italiani tirano la cinghia...
E il Parlamento? La Camera dei deputati fra il 2001 e il 2011 ha aumentato le proprie spese del 41 per cento. Nel 2012, secondo il bilancio di previsione varato il 22 dicembre 2011, dovrebbe diminuirle dell'1,85 per cento. Non è un po' poco? A giudicare dai numeri ufficiali resta invariata buona parte dei capitoli di spesa: 167.050,000 euro per i deputati in carica, 139.000.000 per gli ex deputati, 13.765.000 per le manutenzioni ordinarie, 216.885.000 per il personale a riposo, 2.315.000 per le telefonate, 4.830.000 per acqua, gas ed elettricità, 2.995.000 per le assicurazioni... Una delle poche voci che si riduce è quella per la pulizia e l'igiene: erano previsti 7.730.000 euro, i deputati garantiscono che se la caveranno con 7.610.000.120.000 euro di carta igienica e wc-net in meno, allegria.
Al Senato, negli ultimi dieci anni, la crescita delle spese è stata ancora maggiore: più 65 per cento. E la riduzione per il 2012, prevista dal bilancio deliberato dal Consiglio di presidenza il 2 agosto 2011, è ancora inferiore: appena lo 0,34 per cento. Non è davvero una miseria? Ogni anno, per dire, a Palazzo Madama se ne vanno quasi 3 milioni per i servizi di ristorazione, 1,2 milioni per i telefoni, 5,4 milioni per pulizie e facchini, 500.000 euro per la cancelleria, 160.000 euro per la biancheria, 20.000 euro per le posate e stoviglie. Ora: che ci faranno ogni anno al Senato con 20.000 euro di stoviglie? Possibile che i cuochi brucino tutte quelle padelle? C'è forse qualche parlamentare che si porta a casa le forchette? E 160.000 euro per la biancheria? E va be' che i parlamentari spesso dormono beati, ma dobbiamo proprio offrirgli lenzuola di seta?
Negli ultimi dieci anni, tanto per fare un confronto, il bilancio dei fondi culturali è stato tagliato quasi del 50 per cento, quello per le politiche sociali fra il 2009 e il 2012 ha subito una decurtazione addirittura del 91 per cento, il fondo contributi affitti alle famiglie povere è stato ridotto nell'ultimo anno del 74 per cento. E i fondi del Parlamento, invece, dopo essere aumentati a dismisura per anni, quando finalmente vengono ritoccati verso il basso, sull'onda della spinta popolare, che fanno? Si fermano all'1 e qualcosa, o peggio allo zero virgola per cento.
Una beffa, si capisce.
Eppure i parlamentari ne vanno assai fieri. «Le riduzioni che prevediamo per noi con questo bilancio sono assolutamente maggiori di quelle che abbiamo chiesto al Paese» assicura Gian vittore Vaccari della Lega Nord. «Questa riduzione ci fa sentire più vicini ai cittadini e ci fa girare a testa alta tra di loro» s'inorgoglisce Vidmer Mercatali del Pd. «I risultati raggiunti con queste riduzioni sono a dir poco eccezionali» si esalta Mario Ferrara di Io Sud. Addirittura? Eccezionali. E dunque, ricapitoliamo: la Camera, dopo aver aumentato le spese del 41 per cento negli ultimi dieci anni, le taglia dell'1,85 per cento. E il Senato, dopo averle aumentate del 65 per cento, le taglia dello 0,34 per cento. E questi sarebbero risultati eccezionali? E questo «ci fa andare a testa alta»? Di fronte alla più grande crisi economica che si sia vista? Di fronte all'ondata di indignazione che attraversa il Paese? Davvero il taglio dello zero virgola per cento consente di «sentirsi più vicini ai cittadini»?
«Attaccarci è qualunquismo da strapazzo» s'indigna la repubblicana Luciana Sbarbati. «Non mi vergogno di far parte dell'odiata casta» proclama Elio Lannutti dell'Italia dei Valori. Ma l'intervento più bello durante questo surreale dibattito, come riporta Paola Zanca sul «Fatto Quotidiano», è quello di Enzo Raisi di Futuro e Libertà, che per dimostrare la sua buona volontà in fatto di risparmi dichiara solennemente: «Il servizio di barberia? Io non mi taglio mai i capelli qui dentro, ma vado dal mio barbiere...». Notizia interessante, si capisce. Ma ci lascia con un dubbio: questo barbiere, prima o poi, sarà in grado di tagliare loro anche i peli sullo stomaco?
Difficile. Altrimenti, mentre approvano una via l'altra manovre che mettono in ginocchio il Paese e spingono le famiglie verso la soglia di povertà, non riuscirebbero a sopportare di entrare ogni mattina (si fa per dire: una mattina ogni tanto...) nel Parlamento più costoso del mondo: ciascun italiano, infatti, per le due Camere spende 27,35 euro contro i 14,42 euro di un francese, i 13,84 euro di un brasiliano, gli 11,45 euro di uno statunitense, i 10,86 euro di un tedesco, i 9,92 euro di un inglese e i 4,89 euro di uno spagnolo. Pesano in particolar modo gli stipendi e i benefit concessi a deputati e senatori, specialmente quelli che rivestono incarichi «speciali»: ognuno degli 8 vicepresidenti di Camera e Senato, per esempio, oltre all'indennità aggiuntiva di 5149 euro, ha alloggio con personale dì servizio, segreteria personale e auto blu; lo stesso privilegio tocca ai 6 questori (l'unica differenza: l'indennità aggiuntiva è «solo» di 4962 euro, poveretti), mentre tutti i 24 segretari d'aula e i 64 presidenti di commissione hanno a disposizione segreteria personale e auto blu, oltre a indennità aggiuntiva di 3316 euro.
Ma è costosa anche tutta la struttura di Montecitorio e Palazzo Madama. Nel 2012, per il personale in servizio la Camera spenderà 288.940.000 euro (410.000 in meno rispetto alle previsioni) e il Senato 139.470.000 euro, per quello a riposo la Camera spenderà 216.885.000 euro e il Senato 103.850.000. Anche in questo caso le riduzioni approvate appaiono briciole rispetto ai tagli apportati ai bilanci degli italiani. E, forse, occorre innanzitutto chiedersi se davvero ha ancora senso, in tempi di crisi e ristrettezze, che la Camera abbia 1642 dipendenti e il Senato 940. E soprattutto se ha senso che i guadagni di questi dipendenti siano esageratamente alti: alla Camera un tecnico della categoria più bassa (operaio, barbiere, autista) parte con 2300 euro come primo stipendio e può arrivare a guadagnare fino a 9461 euro al mese. E al Senato un archivista guadagna 12.000 euro al mese, un segretario più di 15.000... A conti fatti, come nota Primo Di Nicola sull'«Espresso», un semplice stenografo parlamentare, di quelli che trascrivono i lavori delle assemblee, può arrivare a guadagnare 259.000 euro l'anno, cioè 20.000 più dell'appannaggio che spetta al presidente della Repubblica. E allo stesso modo un commesso guadagna più di un magistrato, una segretaria (8000 euro netti mensili) più di un primario di neurochirurgia del Sistema sanitario nazionale...
Ma non bisognava impugnare le forbici? Non bisognava intervenire? I costi del Palazzo non erano un'urgenza nazionale? Non dovevamo vedere i «tagli epocali»? Macché. Quelle sono promesse buone per qualche dibattito in Tv. Non quando si fanno i conti. Quando si fanno i conti, infatti, i deputati si trasformano. E all'improvviso diventano concreti.
Molto concreti. Prendete la storia del tesoretto che si sono costruiti dal 1994 in poi: un piccolo (piccolo?) salvadanaio che è stato via via foraggiato dai loro stipendi (cioè denaro pubblico) e da versamenti della Camera (altro denaro pubblico). Questo malloppo ammonta a 218 milioni di euro: in parte è stato depositato in banca, in parte è stato investito in Bot, pronti contro termine e gestioni patrimoniali. A che cosa serve? A pagare le liquidazioni: si tratta di assegni piuttosto cospicui che vengono gentilmente offerti per il «reinserimento» dei deputati che arrivano a fine mandato e che non sono rieletti. Siete stupiti? Non sapevate che i parlamentari hanno bisogno del reinserimento? Ebbene sì: è una specie di risarcimento per la seggiola perduta, un rimborso spese per il dispiacere di uscire dal Palazzo, un benefit aggiuntivo che ha consentito in tempi recenti il pagamento di buonuscite mica da ridere: 307.000 euro a Clemente Mastella, 271.000 a Luciano Violante, 278.000 ad Alfredo Biondi, 345.000 ad Armando Cossutta, tanto per fare alcuni esempi relativi al 2008. Tutte cifre, fra l'altro, da intendersi al netto, perché a differenza di quelle dei cittadini le liquidazioni dei parlamentari sono rigorosamente esentasse. Figuriamoci.
Ma come se tutto ciò non bastasse, come se la beffa nella beffa non fosse sufficiente, ebbene: sapete qual è il nome ufficiale di questo fondo che serve a pagare il «reinserimento sociale» dei deputati? «Fondo di solidarietà.» Proprio così: solidarietà. In effetti, noi siamo molto solidali con i nostri parlamentari. Talmente solidali che permettiamo loro di incassare assegni di fine mandato da Paperoni, non chiediamo loro nemmeno un centesimo di tasse e per permettere il regolare pagamento di questa lussuria monetaria lasciamo lì, in banca, inutilizzati, 218 milioni di euro, mentre in tutto il resto del Paese, per far fronte alle esigenze di bilancio, si prosciugano anche i salvadanai dei bambini. Ma vi pare? Fra l'altro è stato calcolato che per garantire a tutti i deputati la loro abbondante liquidazione sarebbero sufficienti 40 milioni: perché allora ne hanno accumulati 218, cioè 178 in più? E visto che stiamo parlando della necessità di fare sacrifici, sarebbe un sacrificio enorme asciugare un po' quel tesoretto? Prima di tagliare fondi a destra e a manca, non si dovrebbe cominciare a tagliare un fondo che tutela un privilegio assurdo, e per di più in modo sproporzionato?
Fra l'altro non è l'unico tesoretto che si nasconde nelle pieghe dei bilanci parlamentari. Soprattutto, non è il più ricco. Oltre al fondo di solidarietà, esiste infatti anche il cosiddetto «fondo cassa iniziale», costituito dall'insieme di tutti gli avanzi di bilancio accumulati nel corso degli anni. Di che si tratta? Semplice: è buona (o cattiva) abitudine gonfiare i preventivi della Camera e del Senato, in modo che i parlamentari durante l'anno possano pagare con abbondante agio tutto quello che serve loro, imprevisti compresi, senza doversi privare mai di nulla. E infatti i preventivi sono così gonfi che, nonostante l'impegno a dilapidare tutto persino in posate e stoviglie, arrivati al 31 dicembre c'è sempre qualche somma incredibilmente avanzata. E dunque che fanno Camera e Senato con quelle somme avanzate? Le restituiscono forse ai contribuenti? Le girano alle casse dello Stato per ridurre il debito? O per finanziare qualche nuovo investimento? O magari in beneficenza?
Macché: se le tengono lì, gelosamente custodite. E accumulano, euro dopo euro, fino ad arrivare alla cifra record di 539 milioni. Una riserva difficilmente spiegabile persino in tempi di vacche grasse, figurarsi in tempi di vacche magre, quando il Tesoro va alla ricerca dell'ultimo spicciolo per tappare le falle della crisi ed evitare l'assalto della speculazione. Eppure, credete che fra i tanti tagli di questi ultimi tempi, qualcuno abbia pensato di mettere mano al fondo cassa iniziale? Ma va là. Non scherziamo.
La verità, alla faccia dei proclami ufficiali, è questa: le spese per il Palazzo continuano ad aumentare. E quelle per i palazzi pure. La questione immobiliare, in particolare, è diventata ormai quasi una barzelletta. Qualche anno fa suscitò scandalo la notizia dei 42 palazzi occupati tra Parlamento e presidenza del Consiglio. Ebbene siamo arrivati a 55. Venti edifici, per dire, servono soltanto a Palazzo Chigi. E pensare che, come ha ricordato Giulio Andreotti, appena nata la Repubblica la presidenza del Consiglio non aveva nemmeno una sede tutta sua: divideva il Viminale con il ministero degli Interni... Nel 2007, invece, la presidenza del Consiglio era già arrivata a occupare 15 sedi e sembrava un'esagerazione. Ma nel 2011, aggiungendo un nuovo stabile in via Laterani, un altro in affitto in via della Vite, uno in via dell'Umiltà, uno in via della Ferratella, uno a San Lorenzo in Lucina, si è arrivati appunto a 20. Quest'ultimo palazzo, fra l'altro, serve alla Semplificazione. E non è male pensare che la semplificazione porti a occupare un palazzo in più, no? Semplificando semplificando, chissà, forse arriveremo anche a toccare quota 30...
Il Parlamento, dal canto suo, c'è già arrivato: occupa 35 edifici, 21 per i deputati e 14 per i senatori. Qualcuno pensava che Palazzo Madama e Montecitorio fossero abbastanza? Illusi. Negli ultimi quindici anni, come ha denunciato un dossier dei radicali, le due Camere hanno battuto ogni record, occupando progressivamente una superficie che oggi è impressionante: 250.000 metri quadrati, quattro volte quella del Louvre.
La differenza è che qui l'unica Gioconda è la lista della spesa: 150 milioni di euro l'anno.
Che ci volete fare? Gli spazi sono così grandi che richiedono grandi spese, non solo per gli affitti: nel bilancio di Montecitorio 5 milioni se ne vanno per la sicurezza, 930.000 euro l'anno solo per aggiustare le pulsantiere degli ascensori, 990.000 per i vecchi arredi, 1 milione per comprare mobili nuovi (si capisce: i locali aumentano, vorremo mica semplificare anche la mobilia...). E Palazzo Madama? Fra locazioni, utenze e manutenzioni è arrivato a mettere a bilancio 40 milioni. Non tutti ben spesi, fra l'altro, come dimostra il caso dell'ex Albergo Bologna: il Senato nel 2001 rifiutò di comprarlo per 23 milioni di euro, salvo continuare ad affittarlo dall'immobiliarista Sergio Scarpellini per una somma che nel 2013 toccherà i 32 milioni di euro. Cioè 9 in più di quelli che sarebbe costato l'acquisto dell'immobile.
Secondo i radicali, negli ultimi quindici anni i possedimenti del Parlamento nel centro di Roma sono aumentati addirittura del 600 per cento, andando a ingrossare evidentemente le tasche di un gruppetto di immobiliaristi romani, con il medesimo Scarpellini in testa. La denuncia ha sortito qualche effetto: dal 2012, infatti, Montecitorio ha cancellato l'affitto d'oro di uno degli edifici di proprietà di Scarpellini, cioè Palazzo Marini, e ha così potuto iscrivere a bilancio un risparmio previsto di 9.370.000 euro. Meglio che niente. Peccato solo che Scarpellini abbia chiesto, in contropartita, la cassa integrazione per 350 dipendenti (che saranno quindi a carico della collettività). E peccato soprattutto che le spese per i palazzi, da altre parti, non smettano di crescere: mentre una mano cercava di tagliare, l'altra infatti stanziava 2,5 milioni di euro per costruire un tunnel pedonale fra Palazzo Chigi e le sue dépendance in via della Mercede. Un modo per tenere al riparo la messa in piega delle commesse quando piove?
Può darsi. Ma l'esempio dei palazzi è la miglior risposta a chi dice che combattere i costi della politica significa combattere la democrazia. Forse non c'era democrazia nel dopoguerra quando mezzo palazzo bastava per dare spazio alla presidenza del Consiglio? Forse non c'era democrazia ai tempi in cui Scarpellini non faceva affari a man bassa nel centro di Roma, lucrando sugli sprechi della politica? O forse la democrazia c'era, eccome, e funzionava persino meglio? A Berlino, il Bundestag riesce a contenere i suoi oltre 600 deputati in tre edifici, 11.000 metri quadrati in tutto. A Parigi, l'Assemblèe Nationale si accontenta di due: uno con i deputati, l'altro con i servizi amministrativi. A Londra, al di fuori di Westminster c'è ben poco. Perché, allora, al Parlamento italiano servono spazi di quattro volte superiori al Louvre? Per funzionare meglio? O per arricchire qualcuno, magari amico degli amici?
Una mattina, durante una trasmissione televisiva, ho incontrato l'ex presidente della Camera, Irene Pivetti, che s'indignava non poco per le battaglie contro i costi della politica. E spiegava: «Per esempio io ho un ufficio con segreteria, ma la utilizzo a fin di bene, per fare beneficenza».
Per l'amor del cielo, il massimo rispetto per lo slancio altruistico di Irene Pivetti: dopo averla vista come conduttrice di «Bisturi», siamo convinti che qualsiasi attività la tenga lontano dalla Tv sia benemerita. Ma, di grazia: da dieci anni non è più parlamentare, da quindici non è più presidente di Montecitorio, e allora perché noi dobbiamo ancora pagarle un ufficio e una segretaria? In virtù di quale privilegio divino chi è stato seduto su quella seggiola una volta si garantisce il benefit per il resto dei suoi giorni? Buon per la Pivetti, che ha deciso di utilizzare il privilegio divino per aiutare il prossimo. Ma la beneficenza, si sa, sarebbe d'uopo farla con i soldi propri. Troppo facile a spese dei contribuenti. (Fra l'altro, parlando alla «Zanzara» di Radio 24 nel febbraio 2012, la Pivetti ha ammesso che l'ufficio alla Camera le serve non solo per l'Onlus, ma anche per la sua attività di lobbista. «Non vedo che cosa ci sia di male, togliermi quella stanza sarebbe un'ingiustizia» ha affermato.) D'altra parte, fra gli ex presidenti c'è chi riesce a far di meglio. Luciano Violante ha tre stanze, un'anticamera e un ufficio con terrazzo a Montecitorio, oltre a quattro persone a sua disposizione. Quattro persone sono a disposizione anche di Pierferdinando Casini, che si deve «accontentare» di tre stanze con terrazzo panoramico, sempre a Montecitorio. Meglio di tutti è riuscito a fare, però, l'ex presidente della Camera Fausto Bertinotti: non solo si è assicurato ufficio e segreteria per il resto dei suoi giorni, ma si è anche assicurato la presidenza della Fondazione Camera dei deputati. Di che cosa si tratta? «Un giocattolo inventato da Casini nel 2003» come ha raccontato l'onorevole Amedeo Laboccetta a «Panorama» «e che ci costa 2 milioni di euro l'anno.» Risultato? Bertinotti, oltre al suo robusto vitalizio, dispone praticamente di un intero piano del palazzo Theodoli-Bianchelli alle spalle di Montecitorio e di una decina di collaboratori al suo servizio. Al giornalista di «Panorama» che ha provato a incalzarlo ha risposto dimostrando fastidio e arrotando ancor più la sua erre: «La prego, non mi domandi di queste materialità». Materialità che Bertinotti evidentemente non disdegna. «Lo scorso agosto» chiosa il settimanale «lo hanno pizzicato con la moglie a Bordighera, Ponente ligure. Loro in spiaggia. E l'auto blu in sosta vietata, davanti allo stabilimento balneare.
Eh già, l'auto blu. Perché si potrà anche essere rivoluzionari e pauperisti, si potrà anche essere dalla parte del popolo e un po' guevaristi, ma alla «materialità» del privilegio non ci si rinuncia tanto facilmente. Tagliare le spese del Palazzo? Sì, va be', ma l'auto blu è necessaria. Persino il Quirinale, che pure è l'istituzione che si è mossa in modo più solerte per ridurre i suoi costi di funzionamento, scivola sulla limousine con autista. Lo fa rispondendo al leghista Marco Reguzzoni, che nell'agosto 2011, durante un intervento alla Camera, aveva attaccato il Quirinale accusandolo di avere a disposizione 40 auto blu. Macché 40, hanno risposto prontamente dal Colle, «sono appena 35». Appena?
Se questa è l'idea di morigeratezza e risparmi dei costi della politica che oggi domina in Italia, be', stiamo freschi. Il Quirinale, se non andiamo errati, è un'istituzione legata a una sola persona, il capo dello Stato appunto: un'auto blu per lui sarebbe più che sufficiente. Le altre 34, sorry, a che diavolo servono? A scorrazzare i funzionari? A portare a cena i dirigenti? Dicono i documenti ufficiali che tre sono le Lancia Thesis del presidente della Repubblica, poi ci sono tre auto d'epoca, tre Maserati e altri mezzi «usati per accogliere i capi di Stato stranieri». Perfetto, no?
Ma perché il presidente usa addirittura tre Lancia Thesis? E soprattutto: in che modo? Forse che Napolitano salta da una all'altra per vedere dove si sta più comodi? O se le è fatte in tinte diverse per poterle scegliere la mattina in pendant con la cravatta? E per accogliere i capi di Stato stranieri nelle occasioni importanti non ci si può rivolgere alle società che gestiscono questi servizi evitando di pagare 41 autisti (quarantuno!) assunti in pianta stabile? Fra l'altro, al personale del Quirinale, in tempi di risparmi, non starebbe male una limatina: i dipendenti sono 843, più 103 non di ruolo, più 861 militari e poliziotti. E dire che per la regina, a Buckingham Palace, bastano 300 persone...
A proposito di limature. Nell'ottobre 2011, nel pieno della crisi economica, siccome bisogna ridurre gli sprechi e tagliare i lussi, il ministero della Difesa che fa? Annuncia che sta per comprarsi 19 Maserati Deluxe, ognuna delle quali costa 117.000 euro, più le spese di blindatura (in realtà, dopo che è esplosa la polemica il ministero ha fatto retromarcia e ha deciso di acquistarne solo 9). «Sono italiane e costano meno delle Audi» si è giustificato l'allora ministro Ignazio La Russa. Che è un po' come dire che per risparmiare sullo champagne si è scelto quello più conveniente. Grazie tante: ma lo champagne era proprio necessario?
E le Maserati? Risulta che al ministero della Difesa solo 14 persone avrebbero diritto all'autista. In compenso ci sono 100 auto blu. Figurarsi che cosa pensano i militari dell'arma dei Carabinieri, costretti ad andare in giro su gazzelle che stanno insieme con lo scotch...
Ai funerali dei due alpini morti a Herat, nel maggio 2010, il cronista dell'«Espresso» conta 259 auto blu. E Gian Antonio Stella sulla prima pagina del «Corriere della Sera» riporta le accuse del Sap, il sindacato di polizia: «A Roma ogni giorno circolano 400 auto blu contro 50 macchine della polizia e dei carabinieri addetti alla sicurezza dei cittadini. In pratica per ogni volante o gazzella ci sono otto auto dedicate alla protezione di politici, magistrati...». L'80 per cento, dicono, «potrebbe essere tagliato». Già, potrebbe. Lo avevano anche annunciato. Ma poi hanno preferito comprare le Maserati e così è esplosa la polemica.
Sono 72.000 le auto blu in Italia, secondo l'indagine compiuta dal Formez per conto del ministero della Pubblica amministrazione: 2000 sono le auto blu-blu (due volte blu), cioè quelle destinate ad autorità dello Stato o degli enti locali; 10.000 sono le auto blu (una sola volta blu), cioè quelle destinate ai «dirigenti apicali»; 60.000 sono le «auto grigie» adibite a «servizi operativi». Per fare un paragone, in Gran Bretagna il numero complessivo di auto blu-blu, auto blu e auto grigie è inferiore alle 200 unità, 195 per l'esattezza: 72.000 a 195, non è male no? Solo in Sicilia, una delle regioni da record, ci sono 8 Audi A6 blindate per il presidente, 13 Audi A4 per i 12 assessori, 14 Alfa 159 per i vertici di Avvocatura e Tar, 55 Peugeot 407 per i dirigenti, 54 Fiat Bravo per i sovrintendenti, i responsabili degli uffici del lavoro e degli ispettorati dell'agricoltura. Come rivela un'inchiesta di «Panorama», ha a disposizione un'auto blu persino il dirigente della Biblioteca-Museo Luigi Pirandello di Agrigento. Che, debitamente interpellato, si aggrappa al suo benefit: «Se non ce l'avessi potrei chiudere» dice. Ma davvero per dirigere una biblioteca è così indispensabile un'auto blu? «La mia non è blu: è marrò.» Ecco, appunto, «marrò»: Pirandello ne sarebbe orgoglioso...
E Pirandello sarebbe orgoglioso anche del suo conterraneo Gaetano Armao, esperto di operazioni economiche e amministrative, componente del comitato garanti per i 150 anni dell'Unità d'Italia, ex console onorario del Belize e soprattutto assessore al Bilancio della Regione Sicilia: nel gennaio 2012 «l'Espresso» ha immortalato la sua elegante Audi, auto blu di servizio, mentre portava a spasso la fidanzata (un giudice del Tribunale di Palermo). «La macchina con il lampeggiante è stata notata anche mentre trasportava la tata della figlia dell'assessore» aggiunge il settimanale. E ci mancherebbe, per carità: un passaggio non si nega a nessuno...
Abolire questo privilegio è un'impresa titanica, quasi impossibile.
Ogni tanto qualcuno ci prova, da l'annuncio, conquista un titolo sul giornale (come il ministro Filippo Patroni Griffi che,, per far dimenticare la sua casa al Colosseo, nel gennaio 2012 tuona: «Cari politici, ora dovete prendere il bus»). Ma in realtà non cambia mai niente. Prendete i giudici della Corte costituzionale, quelli cui noi paghiamo per tutta la vita l'auto, la benzina, le assicurazioni, piumino, spugna e pelle di daino compresi. Ebbene: nel luglio 2011 con un sussulto di dignità, sotto i colpi delle polemiche, l'auto ai giudici in pensione viene abolita con un decreto legge. Bel risultato, no? C'è da esserne fieri. Peccato che due mesi dopo, il 13 settembre, con un atto autonomo della medesima Consulta, l'auto ai giudici in pensione venga ripristinata. Per un anno. Per ora. Rinnovabile, però. Risultato: non cambia nulla. Ci sono 24 giudici costituzionali pensionati che continuano a essere portati in giro a spese nostre.
Rinunciare? Macché. Solo 2 (su 26) l'hanno fatto. Gli altri non ci pensano nemmeno.
«Lo so che è un privilegio, ma l'auto blu è così comoda» dice per esempio Fernanda Contri. L'ex giudice della Corte costituzionale viene intervistata il 27 settembre 2011 dalla «Repubblica» di Genova, la sua città. Ammette di godere del benefit dal 2005, cioè da quando ha lasciato la Consulta, e di non avervi mai rinunciato perché «andando spesso a Roma ci metto meno che con l'aereo». Buona motivazione, no? Ma ce n'è un'altra. Eh sì: «Qualche anno fa mi sono trasferita a vivere in riviera e raggiungere Genova in treno è un problema». Capito? Può forse un giudice della Consulta tornare a fare il pendolare? Sul treno? E con tutti quegli impegni che ha? Fernanda Contri, ricorda il quotidiano, è tornata a esercitare l'avvocatura, è presidente onorario del gruppo Italbrokers, consulente dell'Autorità portuale e consigliere della società Porto Antico.
«Più che altro presiedo enti benefici» commenta lei. Enti benefici?
Italbrokers? Sarà. «Comunque credo di poter dire che l'auto blu l'ho usata in senso buono.» Si capisce, in senso buono.
Il collega della Contri Valerio Onida, ex presidente della Corte costituzionale e giudice in carica fra il 1996 e il 2005, invece, l'auto blu la lascia a Roma. «Ci vado due volte al mese» dichiara a «Panorama».
Un'auto blu da usare due volte al mese? Cioè una ventina di giorni l'anno? Capisco il fastidio che può procurare la coda dei taxi a Fiumicino, ma tenere ferma una limousine con tanto di autista (a spese nostre), ricambi, olio, piumino e pelle di daino incorporati, per usarla una ventina di giorni all'anno non è un lusso eccessivo? «I nostri benefici non sono più giustificabili» ammette Antonio Baldassarre, uno dei più giovani presidenti della Corte costituzionale mai eletti. Lui è cessato dall'incarico nel 1995, a soli 55 anni. Da allora, cioè da diciassette anni, ha ricca pensione e auto blu a disposizione. Se ne vergogna un po', evidentemente.
Ma in senso buono pure lui.
Del resto è così difficile rinunciare a sedili in pelle e interni in radica pagati dallo Stato.. - «I potenti devono andare in utilitaria» proclamava per esempio la Lega. Ma erano altri tempi. Erano i tempi in cui i lumbard proponevano i disegni di legge per sostituire le Mercedes con le Panda, le Bmw con le Cinquecento. Poi anche loro hanno messo il fondoschiena sulla poltrona dell'auto blu e hanno pensato che era comodo non allontanarsene troppo. Edouard Ballaman, per esempio, per tre volte deputato e questore della Camera, poi presidente del Consiglio regionale del Friuli-Venezia Giulia, è stato condannato per averne abusato. S'era fatto scorrazzare dall'autista per una serie di viaggi (almeno una settantina) assai difficili da giustificare come «missioni aziendali». Fra questi, due trasferimenti a Malpensa per «partenza viaggio di nozze» e «rientro da viaggio di nozze». E, in effetti, che cosa c'è di meglio che ritornare da un viaggio di nozze accolto con tutti gli onori da limousine e chauffeur?
D'altra parte, se per caso un membro eletto della casta dovesse fare a meno dell'auto blu, be', mica prenderebbe il tram in silenzio come tutti gli altri cittadini. Macché. Si farebbe pagare. E si farebbe pagare così bene che la rinuncia diventa quasi un affare. Alla Regione Lombardia, tanto per dire, per i cinque membri dell'ufficio di presidenza è stato previsto un maxirimborso: non vuoi viaggiare con l'autista? Bene: usa mezzi tuoi e ti metti in tasca 51.600 euro lordi l'anno. 51.600, proprio così: roba che l'auto te la compri nuova in poco più di dodici mesi... I vertici del Pirellone, messi di fronte allo scandalo, prima hanno provato a resistere un po', poi si sono dovuti arrendere. Il 7 novembre 2011 il super-rimborso è stato cancellato. Almeno quello.
Ma situazioni simili a quella della Lombardia si ripetono anche altrove. Eccome. Nel Lazio, per esempio, il radicale Giuseppe Rossodivita ha denunciato che, stando alla dichiarazione dei redditi, solo una trentina di consiglieri regionali afferma di possedere un'auto. Eppure, quasi tutti asseriscono di raggiungere il Consiglio con l'auto propria. Così a fine mese incassano ricchi rimborsi. In Emilia, «l'Espresso» ha calcolato che gli «onorevolini» che risiedono lontano da Bologna riescono a intascare facilmente 3000 euro in più al mese: da Piacenza, per dire, il rimborso di un viaggio in auto è di 278 euro, il biglietto del Frecciabianca costa solo 57 euro. Oltre 200 euro di guadagno effettivo. In Calabria è diventato celebre, grazie al racconto di Stella e Rizzo, il caso di Giuseppe Bova, ex diessino ed ex presidente del Consiglio regionale che andava in giro vantandosi: «Io non uso l'auto blu. E finché posso ne farò a meno».
Perfetto, no? Peccato che si sia fatto rimborsare, per il periodo 10 luglio 2006 - 31 marzo 2010 la bellezza di 211.842 euro. Come se avesse fatto 468 chilometri al giorno su un'auto di grossa cilindrata, hanno stimato gli autori di Licenziare i Padreterni. Cioè come se avesse fatto, in tre anni e mezzo, 11,67 volte il giro del mondo...
E fosse solo l'auto, poi. Martedì 18 ottobre 2011 sui banchi del Consiglio della Lombardia piomba una domanda piuttosto scomoda: a che cosa serve l'eliporto appena realizzato per la nuova sede regionale?
In effetti, il quartier generale di Roberto Formigoni ora può contare su una pista con «diametro 26 metri e portanza 6,4 tonnellate», capace di consentire il decollo e l'atterraggio di mezzi imponenti come l'Agusta AW 139, elicottero da supervip in grado di ospitare fino a 15 passeggeri.
L'assessore ai Trasporti dichiara che quello spazio è autorizzato a effettuare fino a 40 voli settimanali. Cioè, in pratica, uno all'ora per ogni ora di lavoro. Ma dove diavolo dovranno andare con tutta 'sta fretta i pezzi grossi del Pirellone? E non è che a forza di stare lassù in alto fra le eliche rischiano di non avere più i piedi per terra?
Niente, s'intende, in confronto a quello che è successo in Lazio.
Ricorderete: il governatore Renata Polverini è stata beccata a usare l'elicottero della Protezione civile per andare, pensate un po', alla imperdibile Festa del peperoncino di Rieri. Caponata piccante, straccete indiavolati e bruschetta alla 'nduja non sono forse un'urgenza istituzionale? Non richiedono forse l'utilizzo di tutti i mezzi d'emergenza?
E chi ha pagato davvero quel volo? Di sicuro ai cittadini, alle prese con i tagli ai trasporti locali, la scena non è piaciuta un granché.
Così come non dev'essere piaciuta molto la decisione dell'allora ministro Giorgia Meloni dì volare in Calabria con l'aereo di Stato nella primavera 2011. Il motivo della visita? Lo ha spiegato la stessa Meloni con una lettera al «Corriere». Primo: incontrare il presidente della Provincia di Crotone per «discutere con lui la possibilità di realizzare iniziative congiunte»; secondo: «incontrare alcuni consiglieri comunali e il presidente del consiglio degli studenti universitari di Reggio Calabria in vista della tappa in quel comune della mostra "Gioventù Ribelle"». Per carità: impegni importanti. Ma davvero così importanti da giustificare l'uso dell'aereo di Stato? E a proposito: la Meloni che usa l'aereo di Stato per incontrare il presidente della Provincia di Crotone è la stessa che al convegno di Atreju gridava «Aggredire i privilegi. Processo alle caste»?
Sì, certo: è la stessa. Ma aggredire i privilegi degli altri è facile. È aggredire i propri che è sempre un po' più difficile. Prendete il caso di Aldo Schiavone, per esempio. Un signor bacchettone di quelli importanti, editorialista della «Repubblica», docenza universitaria in diritto romano e cattedra ad honorem in moralismo estremo, un Savonarola dei nostri tempi, sempre pronto a infilzare il «dissolvimento etico» del nostro Paese e la «disastrosa deriva di comportamenti». Ebbene, è stato beccato a far la bella vita a spese dello Stato: come direttore dell'Isu (Istituto di studi umanistici) e del Sum (Istituto italiano di scienze umane) avrebbe usato denaro pubblico per pagare indebitamente pranzi all'Harry's Bar, acquisti di vino pregiato (fatto passare come materiale di cancelleria) e numerosi viaggi in hotel di lusso in Francia, Stati Uniti, Inghilterra, contrabbandati come missioni di lavoro. «Eravamo insieme a Istanbul, non ricordo suoi impegni professionali» ha dichiarato per esempio un'amica cui l'ex Savonarola ha pagato la vacanza. Ingrata.
Fuori dai palazzi di Roma non va meglio. Se non altro perché ci sono i palazzi degli enti locali. Nell'ottobre 2011, per dire, con gli operai senza lavoro che protestano davanti al portone, il Consiglio regionale della Lombardia ha avuto il coraggio di aumentare il suo budget di spesa addirittura di 1 milione e 182.000 euro (da 70.050.740 a 71.232.740): 173.000 euro in più per la realizzazione di trasmissioni televisive sull'attività del Consiglio, 60.000 euro in più per consulenze, 130.000 euro in più per i già citati vitalizi. Gli unici risparmi? Su welfare e trasporti. Già, i trasporti. Tanto a loro che gliene importa? Hanno la pista per l'elicottero e l'auto blu. O, al massimo, il rimborso d'oro.
Così va il mondo dentro i palazzi che contano. Dicono che vogliono tagliare le spese, ma in realtà stanno solo pensando a come aumentarle ancora. Di più, di più, sempre di più. I migliori in questo sono proprio coloro che comandano dentro i palazzi, cioè i partiti. Vi ricordate che vi avevano chiamato a votare per abolire il finanziamento pubblico?
Scusate, era uno scherzo. Mai esito di un referendum fu più calpestato.
Tanto che il 18 giugno 2011 il «Corriere della Sera» titola a tutta pagina: Per i costi dei partiti la crisi non esiste: +2.110% di rimborsi.
Millecentodiecipercento tra il 1999 e il 2008? Addirittura? Ma sicuro: il meccanismo escogitato è micidiale. I partiti, infatti, adesso non prendono più i finanziamenti. Adesso prendono il rimborso. Che differenza c'è?
Nessuna. Però dicono che sia legale. E dunque, avanti: 1 euro per ogni cittadino iscritto alle liste elettorali. Ci sono le politiche? Scatta il rimborso. Le regionali? Ne scatta un altro. Le europee? Un altro ancora.
Cento milioni di qui, cinquanta di là, altri cento di là. Il bello è che, in base a una norma approvata in tutta fretta (e ovviamente con il consenso di tutti) il 2 febbraio 2006, i soldi vengono distribuiti ai partiti per tutti i cinque anni di legislatura, anche nel caso in cui il Parlamento venga sciolto. Risultato: fino al 2011 abbiamo continuato a finanziare sigle già scomparse nel 2008: oltre 500 milioni di euro destinati in cinque anni ai «cari estinti» della politica...
Del resto, come si dice? Bisogna difendere la democrazia. Ma davvero si difende la democrazia distribuendo denari a partiti che non esistono più? E poi: se davvero si vuol difendere la democrazia, non sarebbe sufficiente provare a rispettare la volontà popolare? Macché: noi diamo un finanziamento pubblico di 450 milioni di euro l'anno ai partiti, ma non lo chiamiamo più finanziamento pubblico e siamo a posto. «Rimborso elettorale»: voilà, il gioco è fatto. Ma voi avete mai visto un rimborso che è superiore di 10 volte a quanto si è davvero speso? Con i partiti accade così: nel 2008, per esempio, la Lega Nord ha dichiarato spese elettorali per meno di 3 milioni. Ebbene: sapete quanto ha incassato? 41 milioni e 385.000 euro. E Rifondazione? Ha dichiarato spese per 1 milione e 636.000 euro. E sapete quanto ha incassato? 6 milioni e 987.000 euro. E nel 2010, per le regionali, non è andata meglio: il Pd ha speso 14 milioni e ne ha incassati 51, il Pdl ne ha spesi 20 e incassati 53, l'IdV ne ha spesi 4 e incassati 14, l'Udc ne ha spesi 6 e incassati 11. Come rimborsi, a prima vista, sono un po' farlocchi: se si comportasse così un normale impiegato con le spese per i viaggi di lavoro, ebbene, l'avrebbero già denunciato per furto. Invece i partiti no: loro fanno la cresta e impunemente governano il Paese.
A proposito di Lega: l'accumulo di denaro nelle casse del partito lumbard è stato davvero notevole negli ultimi anni. Nel gennaio 2012 spunta fuori la notizia, infatti, che il tesoriere, Francesco Belsito, nel dicembre 2011 ha messo in atto una serie di operazioni finanziarie per far fruttare il tesoretto: 4,5 milioni di euro sono stati investiti in un fondo della Tanzania, 1,2 milioni di euro sono stati investiti in un fondo di Cipro e un altro milione di euro è stato investito in un fondo norvegese. Tutti Paesi fuori dall'euro, alcuni anche molto a rischio. «Ci fidiamo dei nostri consulenti e facciamo le scelte migliori alla luce del sole» si è giustificato Belsito. Ma qualche compagno di partito ha storto il naso: «Ci sono diverse sezioni che chiedono 100 euro ai militanti per pagare l'affitto a fine mese. Chissà che ne pensano, lì, dell'investimento in Tanzania...».
Allo stesso modo fa discutere nei primi giorni del febbraio 2012 la vicenda che coinvolge l'ex tesoriere della Margherita Luigi Lusi: è riuscito a far sparire dalle casse del partito 13 milioni di euro con i quali, fra l'altro, si è comprato case da favola, attici nel pieno centro di Roma e ville fuori porta. A parte la destrezza malandrina di Lusi e la sua eventuale disonestà, di cui si occupa legittimamente la magistratura, il punto che in questa sede ci interessa è un altro. E cioè: che se ne fa la Margherita di tutti quei soldi? Dal momento che non esiste più da oltre quattro anni, perché li teneva lì? Perché, in altre parole, mentre le famiglie non riescono a far quadrare i conti, un partito politico defunto possiede una somma di tale portata (a disposizione dei malintenzionati)? E ancora: la Margherita è nata formalmente nel 2002, è stata sciolta nel Pd nel 2007: come ha fatto, vivendo cinque anni, a mettere da parte una somma che nel 2010 ammontava ancora a 25 milioni e 921.000 euro? E come pensava di utilizzare quel denaro? A vantaggio di chi? E questo tesoro che si accumula nelle tasche dei partiti mentre svuota quelle dei cittadini è davvero, come dicono i leader dell'ex partito, un esempio di «buona gestione amministrativa»? O piuttosto è uno scandalo senza pari?
Nel 2010, come documentano i rendiconti pubblicati dalla «Gazzetta Ufficiale», la Margherita (defunta da tre anni) spendeva ancora: 3 milioni e 825.000 euro per «spese di propaganda e comunicazione»; 1 milione e 634.000 euro per «collaborazioni e consulenze»; 533.000 euro per mantenere in vita un sito Internet; 944.000 euro per «rimborsi per viaggi e spese di rappresentanza». Ma, di grazia, chi può viaggiare in rappresentanza di un partito che non esiste più? E la propaganda? E la comunicazione? 3 milioni e 825.000 euro per far «comunicare» chi non esiste più non sono una spesa un tantino eccessiva? O perlomeno postuma? E perché, allora, ancora il 6 giugno 2011 i revisori dei conti firmano il rendiconto testimoniando una contabilità «regolarmente tenuta»? È davvero questo il modo di tenere regolarmente i conti per i partiti italiani? E se il modo fosse irregolare, allora, che diavolo fanno?
Si travestono da vampiri? Vendono il Colosseo come se fosse un bene personale? Svuotano i caveau di Bankitalia in compagnia della Banda Bassotti?
Ma torniamo al punto: dicevamo che i rimborsi dei partiti sono cresciuti in modo smisurato (1110 per cento) tra il 1999 e il 2008.
Quest'ultimo, in effetti, è considerato l'anno record per il finanziamento ai partiti. Dopo, comunque, non è andata meglio. Nel 2010 (ultimi dati disponibili) i partiti hanno avuto 285.008.221 euro come rimborsi elettorali e circa 150 milioni come contributo ai gruppi (fra Camera, Senato e Regioni), per un totale di 435 milioni di euro l'anno. A questa somma vanno aggiunti circa 10 milioni che derivano dal beneficio fiscale del 19 per cento concesso in Italia a chi versa contributi ai partiti (nel 2010 i contributi noti sono stati di circa 50 milioni, in più ci sono quelli sotto i 50.000 euro che possono rimanere segreti e quindi non vengono calcolati). Arriviamo dunque intorno ai 450 milioni di euro. Come contributo pubblico non è male, considerato il fatto che non doveva nemmeno esistere...
Che poi, con quel che costano, almeno lavorassero. Invece, col cavolo.
Secondo «l'Espresso», nei primi otto mesi del 2011, mentre il Paese si rimboccava le maniche per cercare di non soccombere sotto i colpi della crisi, ebbene i senatori risultavano aver lavorato 62 giorni. Proprio così: 62 giorni. Cioè, in pratica, una settimana al mese. Che cosa abbiano fatto nelle restanti tre, è difficile saperlo. Torneo di bridge? Duelli a scopone scientifico? Master in tiro della freccetta? Quando all'inizio dell'estate fu annunciata la sospensione lunga dei lavori parlamentari, con l'allungamento finale per favorire il pellegrinaggio in Terrasanta, esplose la polemica: «Come si fa!», «Non si può!», «È indegno!», «Si vergognino!». Così furono sforbiciate un po' le ferie. E il Senato riaprì addirittura il 17 agosto per una seduta straordinaria sulla manovra economica. Si presentarono in 11. Non uno di più.
Rinunciare alla spiaggia? Alla barca? Al viaggio in Polinesia? Ma siamo matti? Sempre «l'Espresso», in quegli stessi giorni, rivelava percentuali di assenteismo da far paura: il coordinatore del Pdl Denis Verdini, per esempio, bigia il 70 per cento delle sedute, il segretario del Pd Pier Luigi Bersani il 69,52 per cento. Par condicio rispettata persino nel marcar visita. Il recordman italiano della latitanza dal proprio dovere è però un deputato del gruppo misto, Antonio Gaglione, eletto nelle file del Pd e poi trasmigrato altrove: nei primi due anni di mandato ha bucato il 93 per cento delle votazioni. «Stare in Parlamento è una perdita di tempo e una violenza contro la persona» ha dichiarato. Libero di pensarlo, per carità. Ma allora, ci consenta, perché diavolo si è fatto eleggere?
Di male in peggio: il 19 settembre 2011, mentre le Borse crollano e gli spread impazzano, una fotografia impietosa pubblicata dal «Fatto Quotidiano» mostra una Camera completamente vuota. Presenti in tutto 9 deputati. L'argomento della discussione? Un disegno di legge sugli spazi verdi urbani e l'equiparazione dell'elettorato. Del resto, il «Corriere della Sera» di qualche settimana dopo rivela che nei primi dieci mesi dell'anno sono state approvate appena 14 (quattordici!) leggi di iniziativa parlamentare. Fra queste quattordici, alcune fondamentali per la vita della Repubblica, come una per cambiare il nome al Parco del Cilento, una intitolata «disposizioni concernenti la preparazione, il confezionamento e la distribuzione dei prodotti ortofrutticoli di quarta gamma», cioè l'insalata in busta, e una che aumenta i contributi alla Biblioteca italiana per ciechi Regina Margherita di Monza. Sia detto con il massimo rispetto per i non vedenti, sia chiaro, ma non è un po' poco?
Ma il massimo lo si è raggiunto durante l'ultima pausa natalizia: appena approvata la manovra che prosciuga le tasche degli italiani, i parlamentari che fanno? Chiudono i battenti e si concedono una bella vacanza: dal 22 dicembre 2011 al 10 gennaio 2012 (unica eccezione una brevissima riapertura di Montecitorio il 30 dicembre per «comunicazioni del presidente»). Risultato? Diciannove giorni di festa tutti di fila, che consentono a molti di loro di organizzarsi viaggi di lusso: Casini, Rutelli, Schifani e Fini, per esempio, sono stati fotografati tutti insieme alle Maldive, nello stesso elegante Palm Beach Resort, mentre se la spassavano fra bagni di sole e champagne, alla faccia della sobrietà tanto esaltata e imposta agli italiani. Al ritorno solo silenzi imbarazzati. L'unico che risponde è Francesco Rutelli: «E il mio viaggio di nozze in ritardo» si giustifica. Per l'amor del cielo: la luna di miele non sì ferma davanti a nulla. Ma, ecco, se ci è consentito, quel viaggio di nozze alle Maldive mentre l'Italia affonda, oltre che un po' fuori tempo appare proprio fuori luogo. Non trova, onorevole?