20

Sabato 13 dicembre

Owen

Il sabato è il suo giorno preferito. Ma non di molto: anche tutti gli altri hanno dei lati positivi. Dal lunedì al venerdì sta per lo più all’aria aperta: il lavoro manuale è abbastanza vario da non annoiarlo, e lo sfinisce a tal punto da garantirgli un buon sonno notturno. La domenica mattina la dedica alla manutenzione del sito web, alla realizzazione dei progetti per i clienti e all’aggiornamento della contabilità. Nel pomeriggio si concede tre o quattro ore ininterrotte per fare piccole riparazioni nel garage, restituendo vecchi tosaerba al loro antico splendore.

Ma rispetto agli altri giorni il sabato ha una marcia in più, perché, fin dal momento in cui si alza, dedica tutta la giornata a se stesso. Gli piace cominciarla restando a letto un po’ di più, anche fino alle otto, se ne ha voglia. Fa colazione con calma mentre ascolta Radio 2: ai cereali non rinuncia, magari anche qualcosa di più sostanzioso. Poi monta sul furgone e se ne va a un mercatino dell’usato da qualche parte. Hunter’s Lodge è il suo preferito, ma non c’è tutto l’anno. Ha provato quasi tutti quelli che vengono organizzati in zona e di solito ne trova uno che fa al caso suo.

Il pomeriggio invece gli piace controllare la programmazione del Cineworld nella speranza che diano un film che meriti di essere visto. Se è così, di solito va allo spettacolo del tardo pomeriggio o a quello in prima serata e, sulla via di casa, compra fish and chips. In caso contrario magari si allena con i pesi nella camera degli ospiti o cerca in TV qualcosa di decente. In linea di massima per le nove è a letto, ma la cosa non gli pesa. Oltretutto, più tardi va a dormire, più aumentano le probabilità di doversi sorbire le lamentele di Willie per qualche altro errore che avrebbe commesso. Addormentarsi presto è un po’ una benedizione.

Quindi stamattina è di buon umore e, sta giusto versando i cereali nella ciotola e controllando la data di scadenza della confezione del latte che ha appena tirato fuori dal frigorifero, quando squilla il telefono. Non riceve molte chiamate, a parte i messaggi preregistrati delle compagnie assicurative e i sondaggi di mercato condotti da persone con accenti talmente marcati che riesce a malapena a capire cosa dicono. Ma di solito non telefonano così presto. Se arriva una chiamata prima delle nove, specialmente nel fine settimana, di solito è Malkie, che gli telefona per avvisarlo che c’è un nuovo tosaerba che conta di passargli.

Invece questa volta è Abi. La voce sembra affaticata, un po’ provata, come se avesse avuto una nottataccia. E vuole sapere se ha da fare. Le potrebbe fare un favore? Owen valuta l’idea di dirle del mercatino dell’usato, ma, se lo fa, la prossima volta lei potrebbe decidere di non disturbarlo e chiedere invece a qualcun altro. Non può sperare di diventare la persona alla quale lei si rivolge in automatico se si rifiuta di aiutarla la prima volta che ha bisogno di qualcosa. Così le risponde di no: non ha programmi.

Allora lei gli chiede se può rubargli un’oretta. Se per lui va bene, anziché dirglielo per telefono, gli spiegherà tutto di persona più tardi. Per evitargli la strada fino a Bosham, passerà a prenderlo.

«È molto gentile da parte tua», gli dice. «Lo apprezzo molto. Va bene alle dieci?».

Dice che alle dieci va bene.

«Dove andiamo?»

«Agli orti», risponde.

E, prima che possa chiederle cosa mai dovranno fare agli orti, lei riattacca. Ma forse è così che va quando hai un rapporto stretto con una persona. Forse la vita è piena di sorprese e strane richieste come questa. Si chiede come faccia la gente a crearsi una propria routine.

Torna alla colazione e se la prende comoda, sfogliando mentalmente le pagine della conversazione appena conclusa a caccia di indizi. Il perché non ha importanza: gli basta che abbia bisogno di lui. Che abbia chiamato lui anziché chiunque altro. Però non ha mai accennato a un appezzamento in affitto nella zona degli orti, ed è piuttosto sicuro che Callum si sia sempre tenuto alla larga da qualunque cosa implicasse un’attività manuale. Si chiede se può aver capito male, poi si dice che tanto lo saprà al più presto, non appena verrà a prenderlo. Sì, verrà a prendere proprio lui.

Finisce la colazione e sale al piano superiore per togliersi la vecchia felpa con le maniche bucate e metterne un’altra più presentabile. Non vuole correre il rischio di farla sfigurare.

 

Gli sembra che le dieci non arrivino mai. In realtà lei si presenta con cinque minuti di anticipo. Meno male. Altrimenti ci avrebbe scavato un solco, sul tappeto. Abi non fa nemmeno in tempo a scendere dall’auto che lui è già fuori. Un attimo di panico chiudendo la porta di casa finché non sente che le chiavi sono al sicuro in tasca. Non ha pensato di prendere del denaro e le chiede se può essere un problema. Lei scuote la testa e, non appena lui sale in macchina, parte.

Auto sportiva. Gli ricorda la spiacevole sensazione di panico che ha provato quando ha cercato di guidare in retromarcia la BMW di Callum su Honer Lane. Al di là di quei brevi istanti gli unici veicoli che abbia mai guidato sono il pick-up della Mitsubishi e una Marina di vent’anni almeno che la madre usava sempre per andare in centro. Se provava a spingerla oltre la terza, il motore urlava contrariato. Questa macchina è del tutto diversa. All’inizio fa un po’ paura – per via di quello slancio improvviso che lo appiattisce contro il sedile – ma decide che potrebbe anche farci l’abitudine. Se la immagina nei mesi estivi con la capote abbassata. Magari una domenica, quando la temperatura sarà abbastanza mite, potrebbero andare a fare un giro in campagna. Così fanno gli amici. L’ha visto abbastanza spesso nei vecchi film degli anni Cinquanta. Cary Grant. Audrey Hepburn. Capitava che andassero a fare un picnic da qualche parte sulle Sussex Downs.

Le chiede dove stanno andando e, quando lei si gira a guardarlo in faccia, ha modo di studiarla per la prima volta. Gli occhi sono rossi e gonfi, come se fosse raffreddata o magari avesse dormito poco. Le chiede se sta bene e si accorge che lei fa un po’ fatica a parlare.

La ascolta mentre gli spiega perché ha bisogno del suo aiuto. È ancora Adam a creare problemi. È tornato ieri sera da Leeds, le ha telefonato per ringraziarla di aver badato alla gatta e per scusarsi di come si era comportato il weekend precedente. Sembrava convinto che bastasse chiedere perdono e sarebbe finito tutto nel dimenticatoio. Abi dice di aver accettato le sue scuse. Caspita, pensa Owen; quando era stato lui a comportarsi male, non era stata altrettanto comprensiva. E sì che la sua unica colpa era aver dato un’occhiata alla sua camera da letto. Non le aveva urlato contro o niente del genere, e però le ci erano voluti quasi tre mesi per perdonarlo, non una misera telefonata.

Ma chiaramente Adam non capisce quando è il momento di smettere di tirare la corda, perché la mossa successiva è chiederle se ha voglia di incontrarlo nel fine settimana. Magari una cena: offre lui.

«Naturalmente ho detto di no», gli spiega. «Non ci penso proprio a stare sola con lui. Non mi sento a mio agio. Non ora che ho visto un lato diverso del suo carattere. Non mi sono espressa proprio in questi termini, ma lui non è stupido. Sapeva cosa cercavo di dire in realtà ed è bastato a scatenarlo. Ha cominciato ad alterarsi».

E non è il solo. Anche Owen comincia a sentire una certa irrequietudine. Quest’Adam Kitchener deve capire che non può continuare a turbare Abi in questo modo. E si vede che il suo linguaggio del corpo tradisce la sua agitazione, perché Abi gli appoggia una mano sul ginocchio. Gli dice che va tutto bene.

«Alterarsi forse è il termine sbagliato», lo rassicura. «Forse sarebbe più giusto dire che ha messo il broncio. È diventato freddo e distaccato, proprio come prima. Ha detto che tanto per cominciare sarebbe passato a prendere le chiavi a casa mia. Comunque io non volevo che stamattina venisse da me. Non dopo quello che è successo l’ultima volta. Così ho detto che gliele avrei portate io. Lui sarà tutta la mattina agli orti di Sandringham Way. È molto meglio che andare a casa sua, perché immagino ci sarà in giro altra gente e sarà obbligato a comportarsi bene. Ma giusto per sicurezza ho pensato di chiederti di accompagnarmi. Mi sento meglio se ci sei anche tu. Più al sicuro».

E a lui la cosa piace. Molto. Essere il difensore di Abi è un’idea affascinante che ultimamente lo sprona negli allenamenti con i pesi. Ora sa che tutto quel duro lavoro non è stato inutile. Abi si sente più al sicuro con lui. È questa la definizione che ha usato. Più al sicuro.

Lei lo sottolinea ancora una volta: vuole solo che lui sia presente. Non deve farsi coinvolgere.

«Anche se Adam perde le staffe e comincia a dire cose che ritieni offensive, non voglio che tu intervenga. Owen, me lo devi promettere».

«D’accordo».

«Sul serio. Dico davvero. Devo sapere che posso fidarmi di te. Se non sei in grado, dimmelo ora».

Così lui glielo promette di nuovo. Non muoverà un dito, se è questo che vuole. Se ne starà lì a guardare. Sarà lì per lei. Certo, può farlo.

Svolta in Hawthorne Road, ignorando il limite dei cinquanta chilometri orari e seguendo le indicazioni del cellulare. Quando arrivano al Wheatsheaf, il navigatore dice di girare a sinistra in Sandringham Way, una stradina fiancheggiata su un lato da alcune villette a schiera e sull’altro dagli orti, protetti da una rete metallica alta circa un metro e ottanta. Davanti alle case ci sono dei parcheggi a spina di pesce. Abi vede un buco e ci si infila, lasciando a Owen giusto lo spazio per aprire la portiera e scendere.

Attraversano e raggiungono un cancello chiuso da un lucchetto. C’è un avviso plastificato: un angolo si è staccato e penzola in avanti. C’è scritto: REGOLAMENTO COMUNALE: SI PREGA DI CHIUDERE SEMPRE A CHIAVE IL CANCELLO. Eppure, non appena Abi lo spinge con il piede, il cancello si spalanca.

Davanti a loro si apre un reticolo di vialetti verdi, che si snodano tra i vari appezzamenti di terra. Alcune aree sono tenute con cura e ricoperte di teli per pacciamatura di plastica nera posti a protezione del suolo. Altre sembrano trascurate da tempo: sparsi tra le erbacce ci sono dei pezzi di legno. Superano una sedia bianca di plastica riversa su un fianco e una carriola che non è stata capovolta e si è arrugginita a causa della pioggia accumulatasi anno dopo anno. Che spreco. La serra più vicina alla strada ha alcuni vetri in frantumi: un obiettivo facile per i ragazzini del posto che la sera non hanno nulla di meglio da fare.

Da quel che riesce a vedere ci sono cinque o sei persone sparpagliate qua e là. Gli orti di cui si stanno occupando sembrano tutti ben curati. Uno di loro pare molto più giovane degli altri. È seduto su uno sgabello e sta dando gli ultimi ritocchi al capanno che ha pitturato di verde scuro. È uno strano periodo dell’anno per farlo, ma il risultato non è niente male. Per un attimo Owen pensa che potrebbe aver trovato uno spirito affine, ma poi si accorge che Abi si dirige proprio verso di lui, facendo bene attenzione a dove mette i piedi sull’erba bagnata.

Kitchener alza gli occhi, la vede e torna al lavoro. Quando arrivano a una decina di metri da lui, Abi si gira e chiede a Owen di aspettarla lì: lo chiamerà se ne avrà bisogno. Il suo obiettivo non è parlare in privato con Adam – a meno che non abbiano intenzione di sussurrare o entrare nel capanno, è abbastanza vicino da sentire qualunque cosa si diranno. Forse non si fida ancora abbastanza della sua parola, ha paura che possa arrabbiarsi e aggredirlo all’improvviso. Rammenta a se stesso che le ha fatto una promessa. E la manterrà. Qualunque cosa succeda, non interverrà. O la prossima volta lei telefonerà a qualcun altro.

Kitchener li ignora. Continua a dipingere come se niente fosse. Owen rimpiange di non averlo visto prima, si sarebbe risparmiato un sacco di preoccupazioni inutili. Se avesse avuto modo di inquadrarlo, non l’avrebbe mai considerato un serio rivale. Altezza media, di certo più alto di Abi, ma non supera assolutamente il metro e ottanta. Sarà al massimo un metro e settantacinque o poco più. Se si trovassero faccia a faccia, Owen svetterebbe su di lui. Potrebbe sollevarlo con un braccio solo.

Non è neanche attraente. Ha un naso lungo e sottile che gli dà un’aria da furetto e sta tentando di farsi crescere la barba, ma non è per niente curata e alla moda come vorrebbe, è solo un mucchietto di ciuffi, come se negli ultimi giorni non si fosse preso il disturbo di radersi. Per quanto odiasse Callum, Owen doveva ammettere che non era male. A scuola era abbastanza carino da essere corteggiato da tutte le ragazzine, e anche abbastanza sicuro di sé da conquistarsi la simpatia dei maschi. Quasi tutti volevano essere suoi amici. Invece quel tipetto inutile? Proprio un altro paio di maniche. Deve aver capito male fin dal principio. Abi non avrebbe mai potuto sceglierlo come compagno. Impossibile.

Inutile come erbaccia nell’orto, si dice. E gongola.

Ora Abi è proprio accanto a Kitchener, quindi lui non può ignorarla.

«Ti ho portato le chiavi», dice, infilando la mano nel cappotto e porgendogliele. Per un istante lui le guarda, poi allunga la mano, in modo che Abi possa lasciargliele cadere nel palmo. Lei sbaglia la mira e le chiavi cadono a terra, mancando di poco il barattolo di vernice. Kitchener scuote la testa, le recupera e se le mette in tasca. Poi si rialza. Assolutamente, pensa Owen. Un metro e ottanta al massimo. E, ora che riesce a vederlo meglio, si rende conto che è proprio un tipo scialbo. Uno che non si prende cura di sé. Sembra che non abbia mai fatto un solo giorno di lavoro manuale in tutta la vita. Lavora in una libreria? Non c’è da stupirsi.

Kitchener non ha ancora detto nulla. Si avvia verso delle pile di vasi da fiori vuoti. Ne sceglie una, tira fuori i primi due vasi, allunga la mano nel terzo e recupera un’altra chiave, o così pare a Owen. Non può esserne sicuro dal punto in cui si trova. Poi va alla porta del capanno e la apre. Owen non sa cosa stiano combinando, ma non riesce ad attirare l’attenzione di Abi senza parlare e ha promesso che non interverrà. Può attendere. Nessun problema. Tra cinque minuti risaliranno in auto e sarà tutto finito.

Kitchener esce dal capanno con un sacchetto di plastica con la scritta MONSOON stampata sopra. Chiude e rimette la chiave dove l’ha presa: terzo vaso della pila. Poi porge il sacchetto ad Abi, che pare sorpresa di riceverlo.

«È un maglione», le dice, rimettendosi a sedere e riprendendo in mano il pennello. «L’ho preso a Leeds. Ho pensato che potesse starti bene».

Abi non apre neanche il sacchetto per guardarci dentro.

«Adam… non posso accettarlo».

«Regalo di Natale in anticipo», dice, alzando le spalle. «Tienilo. Non saprei a chi darlo. E non ho intenzione di farmi un viaggio assurdo per farmelo rimborsare».

«Non posso», dice lei. E Owen pensa: povera Abi. La gente si mette in fila per farle dei regali che non può tenere. Per lo meno ora sa che può indossare la collana tutte le volte che vuole. Non crede che tra due mesi farà lo stesso con un maglione da quattro soldi. Non c’è paragone.

«Scusa per il sacchetto», dice lui. «Te l’avrei incartato, ma poi ho pensato: perché preoccuparsi tanto? Non me ne fotte un cazzo».

Abi arretra di un passo, come se qualcuno l’avesse spinta fisicamente, ma non dice nulla. Nel frattempo per la prima volta Kitchener sembra mostrare un minimo di interesse per Owen.

«E lui chi è?», chiede, facendo un cenno nella sua direzione.

«Un amico».

«Ah. Un amico». Mentre lo dice, fa una risatina sarcastica, ma Owen sa che il suo compito è ignorare la cosa. «Dove l’hai trovato? Ti sei presa uno Shrek a noleggio?».

Abi non dice nulla, si limita a guardarlo per un attimo, poi gli lancia il sacchetto. Lui alza istintivamente una mano per bloccarlo, rendendosi conto troppo tardi che è quella che regge il pennello, che finisce per scivolare lungo l’esterno del sacchetto, macchiandolo di verde. Impreca e afferra in fretta e furia la busta per controllare che il maglione non si sia danneggiato. Nel frattempo Abi gira i tacchi e si allontana.

Ma Kitchener non ha ancora finito.

«Ehi, ragazzone», lo chiama mentre si dirigono verso il cancello. «Lo vuoi un consiglio?».

Owen si ferma e fa per voltarsi, ma Abi gli mette la mano sul braccio per incoraggiarlo a proseguire.

«Ehi amico. Guarda che io ci sono già passato». Kitchener alza la voce e un paio di giardinieri interrompono ciò che stanno facendo per alzare gli occhi. «Ci sono già passato. E non sono neanche stato il primo. Ti avviso, è una storia trita e ritrita».

«Ignoralo», sussurra Abi, prendendolo per un braccio e conducendolo via da lì. «Non ascoltarlo».

«Ehi tu, non so cosa ti abbia detto, ma, se pensi che ti stia addosso per la tua bella faccia, ti consiglio di metterti uno specchio in bagno. Lei vuole qualcosa. Puoi scommetterci il culo, ti sta usando».

E perfino un bel po’ di tempo dopo essere risalito in macchina con Abi, Owen ha ancora nelle orecchie la sua risata beffarda.

 

Più tardi, quella sera, si compiace di se stesso. Ha avuto un’idea. Una buona idea, il che significa che a Willie ovviamente non piace. A dire il vero è un’ottima idea, ragione per cui Willie alterna piagnucolii a commenti sarcastici, con un sacco di riferimenti a collane, mazze da baseball, fiato sprecato e orecchie che non vogliono sentire. Ma può frignare quanto vuole: non prende in giro nessuno. Sanno entrambi che è la cosa giusta da fare. L’unico problema è che non è stato Willie a pensarci. È abituato a essere il creativo della situazione. Crede che, se l’idea non parte da lui, allora non vale niente.

Ma adesso sanno entrambi che non è vero.

Buffo come si sia messa la giornata. L’ultima cosa che si aspettava stamattina era passare la serata a scribacchiare idee su un foglio di carta e assicurarsi che la cosa funzioni. Ma il piano è più o meno pronto. Sa qual è la prossima mossa da fare. Ma non riesce a posizionare l’ultimo pezzo del puzzle: come farà la polizia a capire dove andare a cercare? Ci ha riflettuto, ma nessuna soluzione gli garantisce di uscirne pulito. Non al cento per cento. E, qualunque cosa accada, non deve fare passi falsi. Non andrà fino in fondo, se prima non sarà completamente sicuro. Ma in tutti i progetti che ha escogitato c’è un difetto da qualche parte. Willie glielo fa sempre notare al volo. Ecco cosa succede quando uno agisce d’impulso, dice. Non ci hai riflettuto bene, vero?

Ma lui ci sta riflettendo, altroché. E prima o poi risolverà tutto. C’è qualche dettaglio da limare, certo, ma questo non significa che non possa almeno portarsi avanti con i preparativi. La cosa principale adesso è spostare la mazza dal capanno degli Alderton. Tanto dovrà comunque tirarla fuori di lì presto, nel caso in cui decidano di rientrare per alcuni giorni durante il periodo natalizio. E allora perché non rimetterla dove può causare più danni, e cioè al suo posto? In un modo o nell’altro il resto si sistemerà.

Willie sta ancora piagnucolando e lamentandosi dei possibili rischi. Ed è la conferma che le cose stanno cambiando. Non molto tempo fa era Willie a spronarlo a raccogliere la mazza e sbarazzarsi di Callum una volta per tutte. Ci tiene proprio a parlare di rischi? Allora perché non cominciare da lì? Quel giorno non si è fatto tanti problemi a giocarsi tutto, o no? Ma, adesso che si rende conto di non avere più le redini della situazione, non fa altro che dire aspetta, rifletti, non essere precipitoso. Come se solo lui fosse in grado di prendere le decisioni importanti.

E anche ora blatera di prudenza, di calcolo delle probabilità. Owen pensa che non abbia tutti i torti. Se non altro magari lo zittirà per un po’, perché non ha dubbi che il dado si esprimerà a suo favore. Come ogni altro fattore fino a quel momento. La collana. La mazza con i numeri speciali. Se usciranno i numeri giusti anche con il dado, neppure Willie sarà in grado di controbattere. Forse allora alla fine gli concederà un po’ di pace.

Così va al mobile del salotto, apre il cassetto di mezzo e tira fuori il Trivial Pursuit con cui lo faceva giocare sua madre. Estrae un dado dalla scatola, poi si siede sul pavimento della cucina. Sul linoleum rotolerà liberamente, senza incontrare ostacoli: non vuole esiti ambigui. Solleva il dado all’altezza della bocca, sussurrandogli parole di incoraggiamento, anche se è certo che non ce ne sia bisogno. Scuote la mano e la apre, lasciandolo rotolare sul pavimento, finché il dado non sbatte con violenza contro la base del lavello e rimbalza via. Si trascina sul posteriore e lo raccoglie.

Uno.

Uno? Che significa? Che numero è? Né carne né pesce, come diceva sempre sua madre. Se fosse stato un tre o un sei, allora sarebbe stato chiaramente semaforo verde. Se fosse uscito un due o un cinque, avrebbe saputo che doveva lasciar perdere. Ma uno… non gli suggerisce niente. Così tira di nuovo… e naturalmente la cosa non sta bene a Willie, che a quanto pare ora vuole inventarsi nuove regole a gioco iniziato. Il risultato dimostra che il piano non è buono, insiste. Se fosse stato vantaggioso, sarebbe uscito un tre, o un sei. Rilanciare equivale a opporsi a un sistema su cui hanno sempre fatto affidamento in passato. Ma non è lui che decide. È Owen.

Rilancia.

Ancora uno.

Questa volta non esita neppure per un istante, non lascia tempo per le obiezioni. Afferra il dado e tira di nuovo. Continuerà a farlo finché non avrà ottenuto un messaggio chiaro.

Questa volta è un quattro, e si profila un’altra discussione. Willie dice che ha avuto tre possibilità. Il numero fortunato è il tre e non sono ancora usciti né il tre né il sei. Dovrebbe essere un avvertimento abbastanza chiaro per chiunque. Ma Owen non lo ascolta. Al contrario, si prepara a dare battaglia.

Tanto per iniziare: uno più uno più quattro fa… sei. Multiplo di tre. E, se si prendono in considerazione i numeri tutti in fila, anziché separatamente, si ottiene centoquattordici, e lo sa anche un bambino che è multiplo di tre. Il semaforo non potrebbe essere più verde di così. Ma Willie non si arrende. Piovono urla di scherno e accuse di aver barato, di aver manipolato i risultati per piegarli allo schema generale che Owen si intestardisce a vedere, invece di lasciare il dado libero di decidere, come hanno sempre fatto in passato.

Ma la sua indignazione è aria fritta.

Per Owen il risultato è buono.

E sa qual è la prossima mossa.

 

Quando esce nell’aria fredda della sera, è quasi mezzanotte. Sul parabrezza sta già cominciando a formarsi la brina. Una brezza tesa gli sibila nelle orecchie. Di solito per le nove è a letto, quindi per lui è davvero tardi. L’adrenalina lo tiene sveglio. Il cuore batte all’impazzata.

La mazza è appoggiata sul sedile del passeggero, accanto a lui. Di tanto in tanto allunga la mano per controllare che ci sia ancora. È andato a prenderla prima, nel pomeriggio, al capanno degli Alderton. Nulla di sospetto: i vicini sono abituati a vederlo lì in orari diversi della giornata. Durante il tragitto verso casa lo ha assalito la stessa ansia che lo tormenta adesso: rispetta religiosamente i limiti di velocità, stando bene attento a non fare nulla che possa attirare l’attenzione. Nella peggiore delle ipotesi, se la polizia dovesse fermarlo, ha una scusa pronta. Ha trovato la mazza nel suo capanno, sa che la stanno cercando. Pensa che qualcuno stia tentando di incriminarlo e sta andando a consegnarla alle autorità.

Naturalmente non è vero.

Proprio come ha fatto prima, tiene d’occhio ogni auto che gli si accoda. A quest’ora della notte è molto più facile controllare che nessuno lo stia seguendo. C’è davvero poco traffico e nello specchietto retrovisore non ha visto luci sospette. Invece di percorrere la via più breve, imbocca un mucchio di vie secondarie, tornando sui propri passi, a volte accostando e ripartendo… per sicurezza.

Quando è certo di non correre rischi, svolta in Sandringham Way e si ferma in uno spazio poco distante da dove poco prima aveva parcheggiato con Abi. Spegne il motore e i fari. Resta seduto qualche secondo nell’oscurità, guardandosi intorno e assicurandosi di essere solo. Nessuno accende la luce in casa, nessuno tira le tende, nessuno sceglie proprio quel momento per aprire la porta e lasciare le bottiglie del latte vuote sulla soglia o richiamare dentro il gatto. Scende dal pick-up e chiude la portiera con la massima delicatezza, tenendo d’occhio la strada. Persino a tarda sera potrebbe esserci qualcuno ancora in giro e lui deve essere assolutamente sicuro che nei prossimi minuti non lo veda anima viva. Aspetta ancora qualche secondo, poi apre la portiera del lato passeggero e prende la mazza, accarezzandola dolcemente con le mani guantate. Gli mancherà. Ha riflettuto sulla possibilità di ordinare online una sostituta identica e conservarla come ricordo. Ma così lascerebbe una traccia e sa di non poterselo permettere. Dovrà rinunciarci. Ma almeno ne farà il miglior uso possibile.

Dopo un ultimo, accurato controllo attraversa la strada e spinge con un piede il cancello che conduce agli orti. Questa volta è chiuso a chiave, ma per una persona della sua statura non è un problema. Lancia la mazza al di là della recinzione, poi afferra con entrambe le mani la sommità del cancello e si tira su, facendo passare una gamba dall’altra parte. Si issa, scavalca e si lascia cadere al di là del cancello il più silenziosamente possibile.

È buio pesto. Non ci sono lampioni ad aiutarlo e riesce a malapena a vedere a qualche metro di distanza. Procede con estrema cautela lungo i vialetti, ricordandosi la strada che ha fatto prima con Abi. Un cane abbaia in lontananza, troppo distante per rappresentare una minaccia. Se non fosse per il rumore di qualche rara macchina che percorre Hawthorne Road, il silenzio sarebbe totale quanto l’oscurità. Solo il crock, crock, crock dei suoi passi man mano che procede a fatica. Nient’altro.

Pian piano gli occhi cominciano ad abituarsi all’oscurità e riesce a distinguere delle sagome scure che gli si stagliano intorno all’improvviso. Ricorda la sedia bianca di plastica: è ancora lì, appoggiata su un fianco. Ed ecco la carriola: dal punto in cui si trova non può vederne la cavità, ma è di sicuro sulla strada giusta. Se a un certo punto devia a sinistra, dovrebbe trovare…

Eccolo. Ci sono diversi capanni nelle vicinanze, ma lui ha memorizzato la posizione con esattezza. Quello che cerca è il quarto. Ci si ferma davanti e sta per sfilarsi un guanto e toccarlo appena per capire se è ancora appiccicoso, ma si ferma in tempo. Nessuna impronta. Non potrebbe neanche sostenere di averle lasciate prima: è rimasto a qualche metro dal capanno. Non rischiare. Non distrarti.

Va verso i vasi da fiori vuoti. Non ha portato con sé una torcia, perché non vuole correre il rischio che qualcuno noti il raggio luminoso e chiami la polizia, ma decide che non può esserci nulla di male a usare per qualche secondo la luce del cellulare: ci sono così tanti vasi intorno e vuole essere sicuro di individuare la pila giusta.

Era convinto di aver guardato attentamente e memorizzato tutto prima, ma la memoria forse gli sta giocando qualche brutto scherzo. Individuare il mucchio giusto non è semplice come pensava. Si domanda se Kitchener abbia spostato i vasi dopo che se ne sono andati. O forse si è addirittura portato a casa la chiave, perché le prime cataste sono tutte vuote. Per sicurezza, nel caso in cui abbia visto male prima, prova ogni vaso di ogni pila, non solo il terzo a partire dall’alto. Niente. E questo intoppo comincia veramente a fargli perdere le staffe, perché, se dovesse forzare la porta, non sarà la stessa cosa. Non vuole lasciarsi alle spalle delle prove chiare di un’irruzione. Il piano generale non contempla questa eventualità. Poi, al sesto o settimo tentativo, estrae i primi due vasi di una pila, infila la mano ed eccola lì. Si rovescia la chiave nel palmo e la stringe in pugno, facendo dei respiri profondi per ricomporsi. Si accorge che nonostante il freddo sta sudando parecchio. Ma ora ha tutto ciò che gli serve.

Ci siamo.