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Qualche tempo prima: domenica 21 settembre
Phil
Si era già rasato per metà quando si rese conto che aveva puntato la sveglia per errore. Quel giorno non era di servizio: giornata libera prima che la tabella dei turni lo risucchiasse nella zona grigia. Rifletté sulla possibilità di tornare a letto per un paio d’ore, ma non sapeva cosa ne avrebbe pensato la sua coscienza. Se mai aveva intenzione di sposare non solo a parole la fantasia di recuperare una forma fisica degna di questo nome, allora doveva superare la riluttanza e uscire a correre. Non c’era nulla che lo potesse fermare a parte la pigrizia più totale. Nessuna lesione. Nessuna visita urgente. E non era necessario cominciare con un obiettivo troppo ambizioso. Magari poteva iniziare con quindici minuti. Farne venti l’indomani. Avrebbe aumentato gradualmente con il passare delle settimane. Con il tempo ne avrebbe sentito i benefici. E dato ad Anna una scusa per prenderlo in giro nel successivo turno di ronda.
Così prese il coraggio a due mani, tornò in camera e si mise pantaloncini e maglietta, recuperando le scarpe da ginnastica dagli anfratti della sacca, dov’erano rimaste inutilizzate troppo a lungo. Andò in cucina, ma poi decise che avrebbe rimandato la colazione al rientro. Il pensiero di vomitarla tutta prima di svoltare l’angolo non gli piaceva neanche un po’.
Quando attraversò il salotto, la casa era ancora al buio. Stava giusto allungando una mano per scostare le tende, quando intravide una sagoma seduta in poltrona.
«Cristo».
Le scarpe gli sfuggirono di mano, rimbalzarono sul bordo del divano e caddero sul pavimento. In quel momento la porta del salotto si chiuse dietro di lui con un tonfo e le lampade sul soffitto si accesero. Si girò e restò di sasso trovandosi davanti altre due figure che si erano materializzate dal nulla: una bloccava la porta, l’altra stava appoggiata alla mensola sopra il camino, le braccia conserte, le gambe incrociate all’altezza delle caviglie.
«Per il momento credo sia meglio se lasciamo chiuse le tende», disse Cunningham, sfogliando rapidamente una rivista di programmi TV che aveva preso dal tavolino. «Un po’ di privacy è sempre apprezzabile, non crede?».
Phil fece un respiro profondo, cercando di riportare il battito cardiaco sotto controllo, per quanto possibile.
«Cunningham, che diavolo significa tutto questo? Cosa ci fate in casa mia?»
«Davvero carino qui, devo dire», disse Cunningham. «Le tende. Fanno molto… Laura Ashley. Ho sentito che gli anni Settanta stanno tornando di moda».
«Uscite subito da casa mia!», sbraitò Phil. «E, comunque, come diavolo avete fatto a entrare?».
Cunningham rimise con delicatezza la rivista al suo posto, posizionandola ad angolo retto rispetto al bordo del tavolino.
«Ah sì. Stendiamo un velo pietoso. Ho dovuto chiedere al giovane T.J. di usare un po’ della sua magia per ottenere un risultato soddisfacente con la porta posteriore, ma temo che sia in giornata no. Credo anzi che possa aver danneggiato la serratura stessa. Ma non è il caso di preoccuparsi. Non appena la lasceremo, chiamerò subito un fabbro. Provvederemo a rimediare a qualunque danno in men che non si dica».
Mentre cercava di valutare la situazione, Phil si spostò in modo da tenere d’occhio gli altri due. Si guardò intorno alla ricerca di qualcosa da utilizzare nel caso in cui le cose si fossero messe male. Però si rese conto che quasi sicuramente non sarebbe stato necessario. Qualunque fosse il motivo dell’intrusione, un’esplosione di violenza non sembrava affatto probabile. Sempre che non avesse commesso l’errore di sfidarli. Ma non sarebbe stato così stupido. I ragazzi di Cunningham, gli stessi dell’altra sera, erano lì più per fare figura che per altro. Non erano armati, o almeno non lo davano a vedere, e oltretutto, se l’intento era solo dargli una bella lezione per fargliela pagare per mercoledì sera, era piuttosto sicuro che gli sarebbero saltati addosso non appena avesse varcato la soglia, anzi, meglio, addirittura quando era ancora nel mondo dei sogni. Di certo non avrebbero annunciato la loro presenza, rinunciando al fattore sorpresa. Cunningham non lavorava con dei dilettanti.
Ma allo stesso tempo quella non era di certo una visita di cortesia. Phil non aveva mai avuto a che fare con quell’uomo in tutti i suoi anni in polizia, ma nell’ambiente quel nome era molto noto. Ormai da tempo era il braccio destro dei fratelli Bellamy. E quei due non li avvicinavi, se prima non avevi dimostrato il tuo valore.
Quando l’aveva affrontato quella sera Phil sapeva che avrebbe sollevato un vespaio. Una reazione istintiva, a caldo, era un conto. Dover affrontare le conseguenze a mente fredda… era un bel po’ diverso. Non aveva idea di cosa avesse in mente Cunningham ed era a dir poco intimidito alla prospettiva di scoprirlo. Ma non gli avrebbe mai dato la soddisfazione di farglielo capire.
«Vedo che ha deciso di correre un rischio», disse, sedendosi sul divano con una nonchalance che di sicuro non rifletteva il suo stato d’animo. Si infilò le scarpe. «Si è ridotto a commettere effrazioni. Non me lo aspettavo».
Cunningham sorrise. «Credo che se si dovesse arrivare a tanto – e, tra parentesi, sappiamo entrambi che non succederà – ho iniziato una partita di golf circa… tre quarti d’ora fa? Un match a quattro… un mucchio di testimoni. A quest’ora sono giunto probabilmente al quarto green. Spero che il mio putting stia dando segni di miglioramento».
Si alzò dalla poltrona e andò alla mensola, da cui prese la foto di Phil e Sally a Puerto Banus. «Inoltre», disse, «sarebbe arduo considerarla un’effrazione, quando è stato lei a invitarmi l’altra sera. Mi corregga se sbaglio, ma mi è parso oltremodo desideroso di avere qualsiasi notizia potessi darle a proposito di suo figlio. Se ho frainteso, me lo dica e toglieremo il disturbo».
«Se non ricordo male, non mi è sembrato troppo disposto a dare una mano», disse Phil, stringendo il primo laccio. «Quindi cos’è cambiato da mercoledì?»
«Dunque, diciamo semplicemente che sono rimasto colpito dalla sua situazione. È chiaramente sottoposto a un forte stress al momento e ha bisogno di cure amorevoli».
«E inoltre lei non vuole una bomba a orologeria ambulante che le sbuchi davanti ogni cinque minuti, o sbaglio? Potrebbe farla un tantino sfigurare?»
«Una signora gradevole, devo dire», disse Cunningham, riposizionando la cornice sulla mensola. «Farmi sfigurare? No, non credo di dovermi preoccupare di questa eventualità. Diciamo solo che non mi è mai sembrato ragionevole inimicarmi il prossimo. Se è possibile, ha molto più senso cercare una specie di compromesso».
«D’accordo», disse Phil. «La ascolto».
E fu quello che fece quando Cunningham si schiarì la gola e lo mise a conoscenza di ciò che uno dei suoi sottoposti gli aveva raccontato giusto la sera prima, a quanto pareva. Phil era incline a classificare gran parte del racconto come un mucchio di stupidaggini dettate dal semplice interesse personale. In particolare la tempistica: Cunningham non era certo entrato in possesso dell’informazione la sera prima. Se conosceva un minimo quell’uomo, non c’era nulla di quello che gli stava dicendo che già non sapesse quando avevano parlato al ristorante. Allora però non aveva visto alcun vantaggio nel passargli quell’informazione: se in quel momento lo stava facendo, era perché aveva avuto un ripensamento. Ricordò a se stesso che, trattandosi di Cunningham, sarebbe stato un grosso errore prendere per oro colato le sue parole. Ogni singola frase avrebbe avuto di certo un secondo fine.
Ma strano a dirsi, il racconto stava in piedi più di quanto ci si potesse aspettare. A dispetto della dose di scetticismo con cui si era apprestato ad ascoltare, scoprì con sua grande sorpresa che, rimosso il linguaggio fiorito e l’eccessiva teatralità, il succo del discorso gli pareva credibile.
Per farla breve: poco meno di un mese prima, per la precisione sabato 23 agosto, l’autista di Cunningham era stato spedito a un indirizzo di Wick, nei pressi di Littlehampton, a prendere un ospite importante invitato a una cena che si doveva svolgere lì. Quando era arrivato all’ingresso, aveva incontrato Callum che stava uscendo in compagnia di una donna non meglio identificata. L’autista lo conosceva per via degli incontri di squash del giovedì sera e aveva scambiato qualche parola con lui. Lo aveva visto ripartire a bordo di un’auto sportiva gialla insieme alla donna. Quasi immediatamente, stando al racconto dell’autista, un furgone era sbucato da una via laterale ed era partito nella stessa direzione. Al momento l’autista non ci aveva fatto caso. Aveva solo notato che il conducente sembrava andare di fretta.
Cinque minuti dopo, una volta recuperato l’ospite, l’autista si era avviato verso casa. Era rimasto sorpreso quando, superando il Body Shop, aveva visto lo stesso furgone parcheggiato nella strada di accesso alla stazione di servizio con le luci spente, cosa che l’aveva colpito per la sua pericolosità: chiunque fosse arrivato a grande velocità l’avrebbe visto solo all’ultimo momento, prima di svoltare nel piazzale. Lui aveva proseguito e qualche minuto più tardi l’auto sportiva gialla gli era sfrecciata accanto, seguita a ruota dal furgone, che andava a tutto gas nel tentativo di starle alle calcagna.
Secondo l’autista sembrava piuttosto chiaro che il conducente del furgone stava seguendo o Callum o la donna che l’accompagnava. Aveva preso in considerazione l’idea di pedinarli, per osservare eventuali sviluppi, ma era in servizio e la sua responsabilità principale era quella di assicurarsi che l’ospite arrivasse a casa sano e salvo. Così aveva svoltato verso Felpham e quella era stata l’ultima volta che li aveva visti.
Non aveva più pensato all’episodio fino a quando, alcuni giorni dopo, aveva sentito che Callum era stato picchiato a morte in un campo da qualche parte vicino a South Mundham. In un primo momento aveva avuto paura che fosse successo la stessa sera in cui era andato a prendere il cliente a Wick; poi, quando aveva saputo che l’omicidio era avvenuto un paio di giorni dopo, aveva tirato un sospiro di sollievo. Ciononostante non si era deciso a raccontare tutto a Cunningham perché – secondo la versione pesantemente ritoccata di quest’ultimo – era preoccupato che qualcuno potesse criticarlo per non aver detto niente prima. Si era fatto avanti malvolentieri quando Cunningham aveva annunciato alla sua cerchia che voleva essere informato su ogni diceria attualmente in circolazione.
Naturalmente poteva essere un racconto del tutto inventato. Cunningham era un maestro nel distorcere la realtà, ed era più che capace di inventarsi una bugia elaborata per scrollarsi Phil di dosso. Ma ciò che più di ogni altra cosa tenne vivo il suo interesse fu che, quando gli chiese di descrivere il furgone, Cunningham alzò le spalle e gli rispose che non aveva molto da dirgli. Era solo un vecchio furgone, aveva raccontato l’autista, con un mucchio di attrezzatura sul cassone. Era piuttosto sicuro che sulla fiancata ci fosse una scritta, ma non l’aveva memorizzata. Sembrava il mezzo di un tuttofare di qualche tipo. Quella era stata la descrizione che aveva fornito a Cunningham.
E fu proprio quella cosa ad attirare l’attenzione di Phil.
Cunningham e i suoi gorilla se ne andarono poco dopo. Mentre varcava la porta d’ingresso, chiarì che, per quanto lo riguardava, aveva fatto fin troppo per aiutare Phil.
«Per quanto gradisca queste brevi chiacchierate con lei», disse, «mi aspetto che le nostre strade non si incrocino di nuovo nel prossimo futuro. La prego, signor Green, non mi deluda». E con quelle parole si allontanò lungo il vialetto, lasciando Phil in compagnia dei suoi pensieri a proposito di un furgone rosso della Mitsubishi, che aveva visto parcheggiato di recente fuori dalla casa di Abi. E del suo proprietario, che aveva fatto chiaramente capire che Callum non gli andava affatto a genio.
In particolare, ricordò l’accesso d’ira e il modo in cui aveva afferrato istintivamente la pesante chiave inglese.
È ora di fare qualche altra telefonata, pensò tra sé e sé, chinandosi per sfilarsi le scarpe.
Abi
«Tutto bene?»
«Uhm?».
Alzò gli occhi dal caffè, colta per un attimo alla sprovvista. Da quanto tempo era assente? Cercò di ricordare qual era l’ultima cosa che aveva detto Mary prima che si distraesse, ma l’imbarazzante verità era che non ne aveva la più pallida idea.
«Sembri un po’ in pensiero, cara».
«Scusa», disse lei, sedendosi bella dritta e rivolgendole un sorriso di scuse. «Avevo la testa altrove. Cosa stavi dicendo?».
Mary rise. «Nulla di importante», rispose. «Mi stavo giusto dilungando come al solito sulla presentazione del libro della settimana prossima. Mi chiedevo se potessi fare un salto per darmi un po’ di sostegno morale. Sono ossessionata dall’idea di ritrovarmi seduta dietro un’enorme pila di libri davanti a una platea vuota».
Abi le diede un buffetto sulla mano per rassicurarla. Non sarebbe accaduto. L’ultimo libro di Mary stava scalando le classifiche di Amazon e il suo fedele esercito di devoti seguaci le assicurava una platea gremita ogni volta che compariva in pubblico. Nessuno lo sapeva meglio di Mary, ma adorava che i suoi interlocutori le ricordassero quanto era famosa.
Abi promise che ci sarebbe andata e le rivolse un altro sorriso.
Affondando la forchetta in un cupcake, Mary si lanciò in un altro aneddoto sul suo agente, che aveva fatto un mezzo pasticcio nelle trattative per la vendita dei diritti di traduzione – o almeno quello era il punto di vista di Mary.
Abi sorseggiò il caffè, guardando l’amica negli occhi oltre l’orlo della tazza, e cercò di concentrarsi su quello che diceva, ma nel giro di qualche secondo si ritrovò a lanciare un’occhiata furtiva all’orologio. Le undici e quarantacinque. Rifece mentalmente il calcolo. Il volo atterrava intorno alle 10,40, un’ora o giù di lì per recuperare il bagaglio e tornare all’auto, un’altra ora da Gatwick a Chichester. Probabilmente non le avrebbe detto subito qualcosa, perché il volo era lungo e Freja sarebbe arrivata esausta. Non sarebbe stato corretto comunicarglielo in quel modo, dopo che si era fatta tutta quella strada solo per vederlo. Lui aveva persino avanzato l’ipotesi di lasciar passare la settimana senza dire nulla, aspettando che Freja fosse in procinto di ripartire. Ma lei la considerava un’idea assurda. Freja avrebbe capito che c’era in ballo qualcosa. Per forza.
Non è un problema tuo, ricordò a se stessa. Lei e Adam ne discutevano ormai da un po’ e avevano stabilito con chiarezza i confini del loro rapporto. Se lui voleva troncare la storia con Freja, non significava che avesse intenzione di tuffarsi in un’altra relazione. E lei al momento era sola e con il morale sotto i tacchi, d’accordo, ma non per questo doveva gettarsi tra le braccia del primo uomo che trovava. Erano amici, ormai da un po’. Lui era in grado di ascoltarla senza cercare di manipolare tutto a suo beneficio, e, se le dava un’opinione, in linea di massima valeva la pena ascoltarla. E questo le piaceva. Sperava che Adam apprezzasse a sua volta il sostegno che lei era in grado di offrirgli. È a questo che servono gli amici, si ripetevano a vicenda… tanto spesso che era diventato una specie di mantra. Il fatto che Callum e Freja fossero stati estromessi dall’equazione non era un motivo sufficiente per far mutare il loro rapporto.
Tutto molto chiaro.
Eppure si ritrovava a controllare l’orologio un minuto sì e uno no.
«A me sembra un po’ scortese», stava dicendo Mary. «Insomma, se tu fossi nei miei panni, non lo tollereresti, vero?»
«No», disse lei, tirando a indovinare.
Il sorriso stampato sulla faccia di Mary le fece capire che aveva azzeccato la risposta.
Phil
Lo Steam Packet si trovava in River Road, appena oltre l’Arun View, che lui aveva sempre preferito ai tempi in cui abitava a Littlehampton. Entrambi i pub erano proprio di fronte al fiume, con vista sul porto, ma negli anni Ottanta lo Steam Packet aveva sempre avuto l’aria del parente povero. Contava su una manciata di habitué fedeli e devoti, mentre l’Arun View aveva una clientela di più ampio respiro. Circa cinque o sei anni prima il Packet aveva cessato la propria attività, ma negli ultimi tempi era stato rilevato da nuovi proprietari intraprendenti, desiderosi di esaltare la storia dell’edificio. Lo stabile risaliva alla metà del diciannovesimo secolo, quando era il punto di ritrovo preferito dai passeggeri in attesa di salire a bordo di uno dei battelli postali a vapore che solcavano la Manica diretti a Honfleur. Grazie al denaro e alle energie profusi per ristrutturare e ammodernare il locale, l’equilibrio tra il Packet e l’Arun View era stato in gran misura ristabilito.
Phil non impiegò molto a individuare Mick Hall. Era seduto da solo a un tavolino all’angolo, Sembrava uscito da una pubblicità progresso sulla sanità mentale. Tipo quelle foto “prima” e “dopo” il trattamento – lui era la foto “prima”. Phil sospettava che probabilmente fossero più o meno coetanei, ma in tutta onestà Hall dimostrava almeno vent’anni più di lui. La faccia butterata, sfregiata da quello che doveva essere stato un brutto caso di acne giovanile cronica, aveva un pallore slavato. Poca esposizione al sole negli ultimi tempi. Non si era sbarbato e aveva i capelli unti e pettinati all’indietro, raccolti in un codino che gli ricadeva sul colletto macchiato della giacca di pelle. Sia la giacca che il proprietario avevano visto giorni migliori.
Stava sfogliando la «Littlehampton Gazette» di due giorni prima e si attaccava con una certa frequenza alla pinta che, come avrebbe chiarito successivamente, andava costantemente rimpinguata in cambio del suo prezioso tempo, se qualcuno voleva che rispondesse a qualche domanda. Un’ora prima, al telefono, Phil si era spacciato per un reporter freelance ingaggiato per fare qualche ricerca preliminare per un articolo sul recente assassinio di South Mundham. Aveva deciso di avvicinarlo in quel modo perché voleva che Hall si aprisse il più possibile, e aveva paura di metterlo troppo sulla difensiva, se si fosse presentato come il padre di Callum.
Preoccupazioni infondate. All’inizio Hall aveva cercato in tutti i modi di rifiutare la richiesta di Phil, facendola sembrare una terribile intrusione nella sua vita privata – come se riaprire vecchie ferite e riportare alla luce del sole ricordi dolorosi fosse un peso insostenibile per un’anima sensibile come la sua. «Gli sbirri si sono già presi la loro libbra di carne… non so se posso sopportare tutto questo un’altra volta». Phil tuttavia aveva avuto a che fare con i Mick Hall di questo mondo abbastanza a lungo da riconoscere a prima vista una mossa d’apertura. Hall aveva fiutato l’occasione, e voleva sondare la possibilità di beccarsi soldi facili. Ci aveva messo ben poco a capire che non c’erano speranze, e si era accontentato di farsi pagare le consumazioni al bar per un paio d’ore. Sempre meglio di un pugno in faccia.
Per cominciare Phil prese una lager per sé e due pinte di un’oscura real ale per Hall. Come volevasi dimostrare, non appena vide i bicchieri davanti a sé Hall scaldò i motori, pronto a partire. Con ogni evidenza le lamentele sulla propria famiglia e sui colpi feroci che gli aveva assestato la vita erano il pezzo forte delle sue conversazioni. Per dargli il via erano sufficienti un bicchiere e un orecchio disposto ad ascoltare. Phil sapeva bene che, come con Cunningham, doveva fare attenzione a non prendere tutto per oro colato. Hall era un piagnone seriale; tutto ciò che gli era andato storto nella vita era dovuto a una qualche forza naturale ostile, o a oscuri cospiratori invisibili che ovviamente ce l’avevano con lui. Non era mai colpa sua, quindi. Era chiaro che non fosse un testimone affidabile.
Per qualche minuto Phil fu felice di lasciarlo parlare a ruota libera. Più gli si scioglieva la lingua, più era probabile che si allontanasse dal copione e gli lasciasse intravedere ciò che realmente si nascondeva sotto lo schermo protettivo che aveva eretto la sua autostima … o quello che ne restava. Ci mise un’eternità a spostare il discorso su Owen. Ma quando lo fece, il suo approccio non fu certo diplomatico.
«Il nanerottolo», disse, interrompendosi per sciacquarsi via il saporaccio dalla bocca con un’altra sorsata dal bicchiere. «Non era all’altezza del fratello. So che, quando si parla di figli, non bisognerebbe avere preferenze, ma è la natura umana, dico bene? Non si può mica farsi piacere tutti. Ad alcuni ragazzini ti affezioni, ad altri no».
«Non sapevo che Owen avesse un fratello», disse Phil.
«William. Il gemello. Uno splendido nome inglese. Mia moglie lo chiamava sempre Willie… mi faceva innervosire, maledizione. Non si dice Willie Shakespeare, le ripetevo sempre. Non si dice Willie Wordsworth. Si dice William. Io ho scelto il nome di uno, lei quello dell’altro: avevamo deciso così. Il minimo che potesse fare era rispettare la mia decisione e chiamarlo nel modo giusto. Come ci sarebbe rimasta se io avessi cominciato a chiamare il suo amato bambino O? E se lo avessi chiamato O-i?». Ridacchiò senza allontanare il bicchiere.
«Mi sembrano parole un po’ forti», disse Phil, aprendo un pacchetto di patatine e mettendole al centro del tavolo. «Quand’è l’ultima volta che l’ha visto?».
Hall tirò su con il naso e, visto che erano gratis, prese una manciata di patatine. «Un bestione, non è vero?», ridacchiò. «L’ho beccato in città un paio d’anni fa. Difficile rivederci il ragazzino di una volta. Se ha preso dal padre, sa il cazzo chi è, perché non sono io: questo è poco ma sicuro. Ma allora era il nanerottolo e basta. Uscì fuori più o meno quindici minuti dopo il fratello. Lottando per respirare, con il cordone attorcigliato attorno al collo o qualcosa del genere. Faccia tutta blu. Peccato che non gli avessero fatto fare giusto qualche giro in più per chiudere lì la faccenda. Ci avrebbero fatto un favore a tutti».
Phil sapeva che si aspettava una qualche reazione. Aveva già sentito tante volte crudeltà spicce di quel genere e le prendeva per ciò che erano. Alcune persone avevano un desiderio di scioccare il prossimo ed enfatizzare un’immagine di sé costruita ad arte che li spogliava di ogni sensibilità e educazione. Nulla poteva ferire Mick Hall né toccarlo in alcun modo. Ma più tentava di dimostrarlo, più si smentiva.
«Quindi William era il suo preferito?», chiese.
Hall afferrò un’altra manciata di patatine dal pacchetto e se la ficcò in bocca. «Bambino meraviglioso. Rideva sempre: quella era la prima cosa che chiunque notava di lui. Un sorriso impertinente, un vero monello, ha presente? Più simile a me da bambino, direi. Insomma, a volte passava un po’ il segno e ogni tanto ti toccava dargli un ceffone, solo per fargli capire cosa era giusto e cosa sbagliato… ma lui non ci badava, capisce? Non ti teneva mai il muso. Dieci minuti dopo scorrazzava per la stanza come se nulla fosse. Non si poteva fare a meno di volergli bene».
«E Owen era diverso?».
Ci mancò poco che si strozzasse mentre mandava giù un sorso. «Se era diverso?», disse, asciugandosi la bocca con il dorso della mano. «Già… è proprio quella la parola. Era diverso, ecco. Quelli dell’ospedale… l’ho sempre detto io… loro lo sapevano fin dall’inizio. Quando è nato, se lo sono tenuti un paio di settimane… hanno fatto tutti quegli esami. Hanno detto che avrebbe potuto avere dei problemi con… sa il cazzo… non mi ricordo. Roba troppo complicata. Un mucchio di paroloni. A essere onesti, ho delegato tutto alla signora. Non che bisognasse faticare troppo per convincerla a badare a lui. Io glielo dicevo che aveva avuto due gemelli. C’era un altro bambino che avrebbe gradito un po’ di attenzioni, se solo lei fosse riuscita a staccarsi da Owen un paio di minuti. Meno male che c’ero io, altrimenti a William non avrebbe dato un’occhiata nessuno. Le prime settimane lei si allontanava a stento da Owen».
«Quindi lei ha avuto la sensazione… come dire… che trascurasse William?»
«Non voglio parlar male di lei», disse Hall, salutando con un cenno un cliente che era appena entrato nel bar. «Faceva del suo meglio. Ma Owen le portava via tanto di quel tempo. Lo esigeva. Era una piccola testa di cazzo bisognosa di tutto e lei era preoccupata per quello che avevano detto all’ospedale, sa, sul fatto che potesse essere un po’ ritardato. Era decisa a impedirlo. In qualsiasi modo. Ha presente quella roba che va tanto di moda adesso? Quando fanno in modo che le donne e altre minoranze ottengano dei lavori che magari non avrebbero altrimenti?»
«Discriminazione positiva?»
«L’ha detto. Discriminazione positiva. Lei la faceva molto prima che a tutti questi filantropi venisse in mente. Era determinata a fare tutto il possibile affinché Owen non rimanesse indietro. Insomma, William era un bambino brillante, giusto? Sa, leggeva ancor prima di finire la scuola materna. A quattro anni se ne stava seduto a darsi da fare con quei vecchi libri per bambini… Janet and John… che lei si era tenuta fin da quando era piccola. Owen non riusciva a fare lo stesso, e lei passava ore e ore insieme a lui, a leggere mille volte le stesse maledette pagine. Cristo, persino io dopo un po’ sapevo la storia a memoria, quindi non c’è da stupirsi se Owen a un certo punto riusciva a riconoscere un paio di parole, e quando ce la faceva… cazzo! Neanche fosse riuscito a risolvere uno dei quei cubi di Ruby o roba del genere».
«Forse Owen era semplicemente più bravo a fare altre cose», suggerì Phil. «Se la cava con i numeri, no?»
«Se se la cava? È stupefacente. Ma per quello non può prendersi meriti. Non è una cosa su cui ha lavorato o si è impegnato. Ce l’ha da quando è nato, capisce cosa intendo? Io ho sempre detto che aveva a che fare con il modo in cui è uscito fuori. Quando aveva quel cordone attorcigliato intorno al collo ed è rimasto senza ossigeno per non so quanto tempo… insomma, non mi vorrà far credere che la cosa non ti sfasi un po’ in qualche modo. Deve per forza farti diventare diverso, causare una magagna da qualche parte nel sistema. Il povero stronzetto ci è rimasto fregato in così tanti modi… voglio dire, doveva pur esserci un minimo di compensazione, no? Comunque, quando mia moglie ha scoperto che aveva questo dono, credo si dica così, ci si è aggrappata come se fosse una zattera di salvataggio del cazzo. Come se la cosa rimediasse a tutto il resto. L’ha trasformata in una specie di numero da circo. A dir la verità mi faceva proprio incazzare. Quando qualcuno veniva a trovarci, lei attaccava con i suoi: “Owen, quanto fa ventisette per ventiquattro?” e lui: “Mille vattelappesca”, prima ancora che uno avesse capito la domanda. E poi, naturalmente, dato che non si dovevano fare disparità, a William toccava leggere qualcosa e chi cazzo ha voglia di star seduto ad ascoltare un bambino di quattro anni che ti racconta di un gatto seduto su un maledetto tappeto? E allora tu vedevi gli ospiti, chiunque fossero, che alzavano gli occhi al cielo mentre lei non guardava, perché faceva così ogni cazzo di volta. Indovina un po’, a un certo punto nessuno s’è più fatto vivo. Insomma, se hai voglia di vedere una foca ammaestrata vai allo zoo, o sbaglio?».
Si scolò il secondo bicchiere e lo agitò davanti al naso di Phil, che si alzò e chiese al barista di riempirlo di nuovo. Ma una volta soltanto. Restava ancora un unico particolare su cui voleva concentrarsi.
«E poi cos’è capitato a William?», chiese non appena tornò al tavolo.
Per un istante Hall non disse nulla. Un gruppo di cinque o sei persone che aveva un tavolo prenotato entrò e ordinò da bere al bancone. Un vecchio golden retriever si sollevò faticosamente sulle zampe, fece un paio di giri e poi si lasciò cadere di nuovo a terra a peso morto accanto a un uomo anziano, che allungò distrattamente il braccio, grattandogli l’orecchio senza alzare gli occhi dal suo «Mail on Sunday».
«Gli è capitato il fratello».
«Il fratello? Che vuole dire?»
«Sei anni. Avevano sei anni. Troppo piccoli, ma tutti e due mi assillavano già da mesi perché volevano la casetta sull’albero in giardino. Casetta sull’albero un cazzo! Non avevamo neanche un maledetto albero. Ma erano stati alla festa di compleanno di questo bambino e quella grandissima testa di cazzo del padre aveva messo su questa piattaforma sostenuta da pali e poi ci aveva costruito sopra una casetta. Ha presente il genere? Con i gradini che salgono da una parte e uno scivolo e delle funi che vengono giù dall’altra. Mai vista, sto a quello che mi diceva mia moglie. Comunque, appena arrivavano a casa attaccavano: “Papà ce ne costruisci una? Per favore, papà. A Robin suo papà l’ha costruita”. Come se io avessi tutto il tempo del mondo – se non lo faccio, vuol dire che non sono un padre come Dio comanda, capito? Ho cercato di tenerli buoni, sperando che se ne dimenticassero e si appassionassero al calcio o qualcos’altro, ma loro non la finivano più e mia moglie non era da meno, e così alla fine ho ceduto per non doverli più stare a sentire. Ho pagato quest’amico per venire da me e fare la maggior parte del lavoro, perché io con le mani sono negato… sempre stato. Negato quasi per tutto».
Restò un attimo in silenzio e con il dito tracciò dei cerchi nella birra che era colata sul tavolo. Per un brevissimo istante nello sguardo fisso, assente, scintillò un barlume del padre di famiglia che si nascondeva sotto tutta quella spavalderia.
«Comunque», proseguì, «un giorno sono tornati da scuola e hanno visto in giardino questo maledetto affare enorme e sembrava che fosse già arrivato Natale. All’improvviso ero diventato il papà migliore del mondo e quella notte loro volevano passarla lì dentro. E provi un po’ a indovinare chi ha dovuto dormire fuori nel sacco a pelo buttato sul prato per tenerli d’occhio? Come se non bastasse proprio nel bel mezzo di un formicaio. Mi sono svegliato e avevo il braccio pieno di punture». Si fece una risatina al pensiero, ma non durò abbastanza a lungo per alleggerire l’atmosfera.
«E poi un giorno ero al lavoro e il capo mi chiama. Dice che forse è meglio se telefono a casa, perché c’è la signora che urla come una pazza e, quando lo faccio, mi risponde uno dei vicini e mi dice che è appena uscita. Sta andando in ospedale, dietro all’ambulanza, e vuole che mi faccia trovare lì e io dico una cosa tipo: “Ma di che cazzo di ambulanza parli?”. Ed è stato così che ho scoperto che William era caduto dalla casetta sull’albero, atterrando di testa. Gli infermieri ci avevano messo un secolo a spostarlo perché erano preoccupati per il collo, forse temevano addirittura una frattura al cranio. Comunque il capo mi ha tolto le chiavi di mano e mi ha accompagnato lui in auto. Diceva che non ero in condizioni di guidare. E, quando sono arrivato in ospedale, avevano messo mia moglie e Owen in una saletta e lei era in lacrime e sa qual è la prima cosa che mi ha detto quando sono entrato? Prima ancora che potessi chiedere cos’era successo? “Owen era con me in cucina, si stava esercitando a leggere”. Ecco cos’ha detto. E io ho pensato, d’accordo… un po’ strano, ma forse è solo sotto shock. Però poi, mentre aspettavamo che qualcuno venisse a spiegarci cosa stava succedendo, me l’avrà ripetuto tipo cinque o sei volte, tanto che ricordo di aver pensato: “Già, insomma, se avesse dato un occhio anche a William, non sarebbe successo”».
Si mise in mano un paio di patatine e cercò di invogliare il retriever ad alzarsi per prenderle, ma il cane si era già tirato su una volta negli ultimi minuti e non sembrava affatto desideroso di rifarlo per un bottino tanto scarso.
«Comunque», proseguì, «a un certo punto entra questo chirurgo, bello tranquillo. Dimostra dodici anni. Gongola tutto, neanche fosse un adolescente. Comincia a usare un sacco di paroloni e io sto per chiedergli se quand’era piccolo qualcuno gli ha infilato un dizionario su per il culo, insomma, perché non parla come mangia, così riusciamo a farci una vaga idea di cosa cazzo sta dicendo… e a un certo punto un’infermiera mette dentro la testa, dice che il dottore è urgentemente richiesto in sala operatoria. E sentiamo tutto questo trambusto nella stanza accanto, le macchine che fanno bip bip, gli allarmi che saltano, tutti che corrono da una parte all’altra. Ha presente come vanno queste cose? Solo che a noi nessuno dice un cazzo. Saremo stati lì mezz’ora da soli a chiederci cosa cazzo stesse succedendo. Poi lui è tornato con una faccia da cane bastonato e ci ha detto che era desolato: c’era stata una forte emorragia nel cervello o qualcosa del genere, e non erano riusciti a fare nulla per salvarlo. Andato. Così. Come quando si spegne un interruttore. E mentre tengo stretta mia moglie con tutte le forze, perché, glielo giuro, altrimenti mi crolla a terra, riesco a sentire solo Owen, seduto lì nell’angolo che gioca con questa macchinina Bugatti che gli avevamo comprato e canticchia tra sé e sé una stupida canzoncina, come se nulla fosse. E io lo so, ha solo sei anni, eppure… Cristo santo! Qualcosa doveva pur esserci, mi spiego? Qualcosa doveva pur esserci».
Scosse la testa e attaccò con foga la pinta successiva. A quel ritmo, calcolò Phil, ne avrebbe bevute cinque o sei in un’ora. Si chiese se fosse un’abitudine consolidata o se stesse solo approfittando dell’occasione che gli aveva offerto Phil. Forse entrambe le cose, stabilì.
«Mi dispiace», disse, ed era sincero. Si sforzò di non pensare al momento in cui gli avevano detto che suo figlio era morto. Erano passate meno di quattro settimane. Qualunque opinione nutrisse su Hall come persona, per lo meno avevano una cosa in comune.
«Sì, insomma…». Di nuovo la maschera di indifferenza: Mick Hall è un duro. «Comunque nelle settimane seguenti ho pensato che avevo bisogno di capire se c’era una maniera per costruire un qualche tipo di rapporto con Owen. Insomma, sapevo che non sarebbe stato facile. Per come la vedevo io, ci avevano tolto il seme buono ed eravamo rimasti con lo scarto della gravidanza, ma poi lei era in uno stato pietoso e allora mi sono detto: “Al diavolo”. Lo portavo al cinema, gli compravo delle sorpresine tornando dal lavoro… sa com’è, niente di che. Dolci o cioccolato. Era fissato con le Jelly Tots… se le ricorda? Ne mangiava a tonnellate. Ma potevo fare anche tutti i tentativi del mondo; la verità era che con me non sembrava a suo agio. Quando uscivamo insieme non faceva altro che piagnucolare chiedendo: “Quando andiamo a casa?”. E appena rientravamo, correva dalla madre e le si aggrappava alle gambe come se non si vedessero da anni. Ai bambini non gliela fai. Non crede? A loro non sfugge niente».
Callum era tale e quale, ricordò Phil. Sempre più a suo agio in compagnia di Sally. Sempre consapevole che da lei avrebbe ottenuto un trattamento migliore che non dal padre. Sceglieva ogni volta d’istinto chi gli era più congeniale. Adesso gli pareva di comprendere la sensazione di rifiuto che Hall cercava di esprimere, anche se sperava ardentemente di non avere errori altrettanto gravi da rimproverarsi.
«E così passano due o tre mesi e io e mia moglie facciamo sempre fatica a farcene una ragione. Per me parte del problema stava nel fatto che non riuscivo proprio a capire. William era un bambino così sicuro di sé. Si arrampicava sempre su e giù dalla scala della casetta sull’albero, neanche fosse uscito fuori dal Libro della giungla. Come aveva fatto a cadere giù in quel modo? Un paio di volte gliel’ho buttata lì e lei subito a dire che non lo sapeva, non c’era, era in cucina con Owen. E io allora: “Ma porca puttana, piantala di tirare sempre in ballo Owen! Perché continui con questa storia di dove stava Owen?”. E sa una cosa? Credo che sia tipo cominciato tutto da lì».
Phil lo guardò con attenzione.
«Crede che Owen avesse qualcosa a che fare con la caduta?», domandò.
«Non lo so, giusto? Neanch’io c’ero. Ma di lì a poco il pensiero mi si è tipo insinuato dentro e si vede che non sono stato tanto in grado di tenermelo per me. Infatti un giorno lei ha dato fuori di matto e mi ha aggredito come una pazza. Ha detto che sapeva a cosa alludevo. Ma che razza di padre ero? Come potevo pensare anche solo per un minuto che mio figlio potesse fare una cosa del genere? E la cosa divertente era che, se lei non avesse continuato a tirarla per le lunghe, a me non sarebbe neanche mai venuto in mente. E poi c’è stata la goccia che ha fatto traboccare il vaso: una sera sento lui che urla contro William in camera sua. Insomma, continuava a parlargli come se non se ne fosse mai andato e, Cristo santo, quello rendeva le cose parecchio difficili. Ma quella volta – dovevano essere passati tre o quattro mesi dall’incidente – lo stava sgridando… diceva che non era colpa sua. Parlava della sua macchinina Bugatti, diceva che era sua, non di William. Quante volte doveva ripetergli che non poteva giocarci senza chiedere il permesso? “È colpa tua”, continuava a dire. “È colpa tua”. E, insomma… uno sente una cosa del genere e non può fare a meno di chiedersi di cosa sta parlando, giusto? Qual era di preciso la “colpa di William?”». E mimò le virgolette con le mani.
«Ecco», proseguì facendo spallucce, «per me era troppo. Poco tempo dopo me ne sono andato e non sono mai più tornato. Cosa che, lo ammetto, non fa esattamente di me il padre dell’anno, ma sa come si dice, chi non ha peccato scagli la prima pietra. Forse quando dai un bacio al tuo bambino prima di andare al lavoro e non sai che sarà l’ultima volta che lo vedrai… ecco, se mai le dovesse capitare, allora può venire qui e accusarmi, d’accordo?».
Phil si morse la lingua, trattenne il respiro, passò in rassegna tutti i luoghi comuni che conosceva. Non disse nulla. Alla fine si alzò e ringraziò Hall per il tempo che gli aveva dedicato.
«Non mi dirà che va già via?», replicò Hall, sbigottito che il suo buono pasto fosse all’improvviso sul punto di infilare la porta. «Posso dirle un sacco di altre cose».
Phil pensò di gettare sul tavolo una banconota da cinque sterline, poi lasciò perdere.
Aveva l’impressione di aver sentito abbastanza.
Anna
Già prima delle nove aveva passato in rassegna le sue opzioni, giungendo alla deprimente conclusione che tra tutte il letto era di gran lunga la migliore. Aveva stilato una lista di cose da fare, scartando le varie voci, una a una:
Guardare la tele? Che merda. Ti riduce il cervello in pappa.
Una corsetta? Ma sul serio? Ancora? Quante volte potevi andare a correre nell’arco di una giornata prima di farti qualche domanda?
Leggere un libro? Non era dell’umore.
Chiamare un amico? Come no. Alle nove di domenica sera. Non voleva allarmare nessuno né niente del genere. I suoi amici la ritenevano già un caso senza speranza. L’ultima cosa di cui avevano bisogno erano delle prove aggiuntive.
Capitolare, afferrare una bottiglia e unirsi alla festa al piano di sotto? Neanche per sogno. Sapeva che l’invito era un gesto di cortesia dell’ultimo minuto che rispondeva a uno scopo ben preciso: assicurarsi di averla al di qua della barricata e non dalla parte opposta. Non volevano che lei cominciasse a lamentarsi del rumore. O almeno quella era l’interpretazione più magnanima. Una lettura più plausibile era che ci fosse una grave carenza di donne pronte all’uso e qualcuno avesse avuto la brillante idea di arruolare la come-si-chiama del piano di sopra. Sempre meglio di niente. Grazie tante, ma lei non ci pensava proprio a essere la non meglio identificata rappresentante del gentil sesso.
Gli invitati avevano cominciato ad arrivare circa mezz’ora prima e da allora il suo appartamento rimbombava dei rumori provenienti dal piano di sotto: porte che sbattevano, scalpiccio di passi sulle scale e voci che aumentavano di volume con il passare dei minuti. Tutta quell’ilarità. Non ci pensava nemmeno. Il letto cominciava a invogliarla. Sapeva che esisteva il concreto pericolo di ritrovarsi a fissare il soffitto per ore, sforzandosi di mettere insieme brandelli di conversazione provenienti dal balcone sottostante. Però poteva anche avere fortuna e scivolare nel sonno prima che i pub si svuotassero e la baraonda si scatenasse davvero. In ogni caso, in mancanza di qualcosa di meglio, valeva la pena fare un tentativo.
Era così presa a piangersi addosso che sentì il telefono vibrare solo all’ultimo minuto e rischiò quasi di non fare in tempo a rispondere. Afferrò il cellulare dal tavolino e controllò chi era.
«Pronto», disse, lasciandosi cadere sul divano e cercando di simulare un’allegra nonchalance per camuffare il sollievo che l’aveva invasa.
«Anna?»
«Phil?»
«Ti disturbo?»
«In che senso?»
«Se ti telefono così».
«Figurati. Perché dovresti?»
«Avevo paura che potesse essere un po’ tardi».
Guardò l’orologio. «Sono da poco passate le nove», disse, ridendo per l’ironia della cosa. «Forse in questo periodo la mia vita sociale non è esattamente scoppiettante, ma mi rifiuto di andare a letto così presto».
«Dimmelo se non puoi… Possiamo anche rimandare a domani mattina».
«Non ce n’è bisogno. Va bene ora».
«A dire il vero non so perché ho chiamato. Insomma, se preferisci, potremmo parlarne mentre siamo di pattuglia».
«È per la barzelletta della papera, vero?»
«La cosa?»
«Non l’hai capita, ma non avevi il coraggio di dirlo».
«Molto divertente», disse. «No, non è per quello. È per qualcosa che hai detto a inizio settimana. Quando hai suggerito che dovrei andare a caccia di informazioni, vedere se riesco a trovare qualcosa che… sai a cosa mi riferisco».
«La storia dell’investigatore privato?», disse, mettendosi a sedere. «Dimmi che hai intenzione di fare un tentativo».
«Insomma, stavo pensando che forse…».
«Avrai bisogno di una segretaria affascinante. Tutti i migliori investigatori privati ne hanno una. Una persona che gestisce lo studio, tiene la vita del capo in ordine, per quanto possibile, e lo ascolta quando lui le chiede un parere. E all’inizio lui la dà un po’ per scontata, pensa che sia lì solo per rispondere al telefono e preparare il caffè, ma a un certo punto comincia a rendersi conto di quanto è sveglia. È lei a individuare quel minuscolo dettaglio che lui ha trascurato, permettendogli di fare quel passo avanti fondamentale per il caso. Sì, potrei farlo. Potrei essere una specie di Lois Lane e tu… chi è che era?»
«Superman?»
«Superman non era un investigatore privato, tontolotto».
«Perché, scusa, Lois Lane era una segretaria?»
«Mi sa che forse ti sta sfuggendo il punto».
«Comunque, stiamo correndo un po’ troppo», disse. «Pensavo a qualcosa di più informale. Quello che hai detto l’altro giorno mi ha fatto riflettere e stasera ho finalmente mosso il mio posteriore e ho fatto qualcosa».
«E cosa esattamente?»
«Sono andato a trovare il padre di Owen Hall».
Senza di me?, fu la domanda che le venne alle labbra. Perché non mi hai chiesto di venire?
«E quindi? Cos’aveva da dirti?»
«Ti aggiorno domani. Ma è stato davvero interessante e mi ha dato un’idea su come potrei andare avanti adesso, solo che… Non credo di poterlo fare da solo. Avrei bisogno di aiuto».
C’era qualcosa nel tono della sua voce, una specie di strana esitazione. Una necessità di andarci piano, con prudenza.
«È una cosa legale?»
«Sì», disse. «Credo di sì».
«È pericolosa?».
«A dire il vero no».
«Credi di sì e a dire il vero no? Wow, tu sì che sai come vendere un’idea. Dovrò pensarci su».
«Sul serio?»
«Ci ho pensato. Ci sto».
«Per un attimo mi hai fatto preoccupare», rise lui. «Ma non sai ancora cos’ho intenzione di proporti».
«Lo so», disse lei, saltando giù dal divano e stanando le sue Converse. «Hai voglia di vederci per un drink, così mi puoi dire qualcosa di più?»
«Cosa? Adesso?»
«Certo. Perché no? Hai di meglio da fare?»
«Ah quello no. Di sicuro».
«Conosci Spoons sulla Queensway?»
«Spoons?»
«Wetherspoons».
«Intendi l’Hatter’s Inn?»
«Posso arrivare lì tra dieci minuti».
«Sei sicura che non sia un problema?»
«Insomma, vorrà dire che mi toccherà rimandare la pedicure a domani, ma sopravviverò, se lo farai anche tu».
Ci fu una pausa, e per un attimo lei si chiese se stesse cercando una scusa. Poi sentì la sua voce, forte e chiara.
«D’accordo. Dieci minuti. Ci vediamo lì».
«E questo», disse lei chiudendo il cellulare, «è quello che si definisce un appuntamento. Mi dispiace ragazzi: la rappresentante del gentil sesso ha altri impegni».