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Qualche tempo prima: mercoledì 17 settembre

Owen

Oggi è solo. Lei lavora in libreria. Tutto il giorno. Ieri gliel’aveva accennato, ma lui se ne è dimenticato, altrimenti se ne sarebbe stato a casa a lavorare. Quando lei non c’è, è diverso. Non sembra più una cosa che fanno insieme.

Di recente non l’ha vista molto. Per la precisione non la vede da sabato. Si sente in imbarazzo per la questione della collana? Quello che è successo l’ha lasciato confuso: non capisce perché non può accettarla e basta. È un regalo. Le persone fanno sempre regali il giorno del compleanno. Non si restituiscono dicendo che costano troppo. Non ce la vede a fare una cosa del genere a Callum. Del resto lei l’ha anche ammesso. E poi è convinto che se gliel’avesse comprata quel suo nuovo amico, quell’Adam, avrebbe reagito molto diversamente. Perché fa così solo con lui? Gli ha detto che deve riprendersela, che stupidata. Cosa dovrebbe farsene lui di una collana? A chi dovrebbe darla se non a lei?

Non la rivuole indietro. Preferirebbe che fosse lei a venderla e a comprarsi qualcosa con il ricavato. Ma ciò che gli piacerebbe di più in assoluto è che le cose tornassero com’erano prima del fine settimana, perché, quando lei non c’è, non è lo stesso. Ha bisogno di poterle mostrare ciò che ha fatto nel giardino. Ha bisogno che lei esca di tanto in tanto, a dirgli quant’è contenta del suo lavoro, quanto sta cambiando volto a quel posto. Non è giusto lasciarlo lì da solo. Gli sembra una punizione.

Willie non è per niente contento della reazione di Abi. Era contrario all’idea di regalarle la collana, ma pensa che lei avrebbe dovuto mostrare un po’ di gratitudine. Era proprio il minimo. Sospetta inoltre che non gli abbia detto proprio tutto riguardo all’amicizia con quell’Adam. Sostiene che lei menta. Come ha mentito la mamma quando ha detto che si sarebbe sempre presa cura di noi. Come ha mentito la signora Winstone quando ha detto che non avrebbe tollerato atti di bullismo nella sua scuola. È ciò che fanno le donne: non possono farne a meno. Le bugie sono solo un altro armamentario del loro make up. Chiedi a papà, dice Willie. Te lo spiega lui.

Owen crede che siano parole un po’ dure, ma ha come la sensazione che si sia spezzato qualcosa e gli piacerebbe se qualcuno gli spiegasse come rimediare. Quando lui e Abi stanno insieme qualche minuto, lei riesce sempre a buttare lì un riferimento alla collana, cercando di convincerlo a riprendersela. Forse dopo tutto Willie aveva ragione. Forse non avrebbe dovuto regalargliela. Ma ormai l’ha fatto e non può tornare indietro. Continua ad aggrapparsi all’idea che un giorno, in un momento di debolezza, se la proverà e vedrà quant’è graziosa. Allora sarà felice di tenerla.

Quanto al suo nuovo amico, non sa che pensare. Non gli piace l’idea che lei gli dica una bugia, ma, come ha sottolineato Willie, non sarebbe la prima volta. Aveva incontrato quell’Adam in segreto… e non si fa una cosa così senza un motivo, giusto? Gli piacerebbe capire meglio le donne e cosa hanno in testa. Se si potesse credere a ciò che dicono, sarebbe tutto molto più semplice. Quelle riflessioni lo infastidiscono, gli tolgono il gusto di lavorare.

Verso le 12,30 fa una pausa per pranzare. Entra in casa con la chiave di scorta che Abi tiene in un nascondiglio nel giardino sul retro, per permettergli di entrare, quando ne ha bisogno. Si versa un bicchiere d’acqua e sta per attaccare l’uovo sodo, il pasticcio di maiale in crosta e i panini con il pollo, ma ancora non riesce a mettersi a tavola. Ha una sensazione strana allo stomaco, si dice che forse è per via di tutti quei dubbi. Questa storia gli ha rovinato la mattinata; non lascerà che gli guasti anche il pranzo. Se c’è qualcosa che dovrebbe sapere sulla nuova amicizia di Abi, in casa ci saranno delle tracce, no? Tutto sta a sapere dove guardare. Lei non tornerà che tra diverse ore. È l’occasione perfetta per mettersi il cuore in pace e mostrare a Willie che non sa proprio tutto.

Così si sfila le scarpe, prende il bicchiere d’acqua e il cestino del pranzo e sale le scale. Non ci sarà niente al piano terra, si dice. Di certo non così in bella vista. Il posto migliore da dove cominciare è la sua camera. Il cuore gli martella nel petto mentre abbassa la maniglia e spinge la porta, solo per scoprire che si tratta del bagno. Non c’è uno spazzolino solo, anzi, vede diversi articoli da toilette, ma potrebbe benissimo essere roba di Callum, si dice. Non crede che lei abbia già tolto di mezzo le sue cose.

La stanza successiva sembra una camera degli ospiti: letto fatto con cura, nessun oggetto personale di alcun tipo. Lungo il corridoio altre tre porte: una ospita un essiccatoio, un’altra si apre su quella che in origine era forse una cameretta degli ospiti ma è stata poi trasformata in ufficio. Scrivania, sedia dall’aspetto costoso con braccioli e supporto lombare regolabili. Spazio per un computer portatile… forse l’ha preso la polizia. Foto di Abi… se se la portasse via, lei se ne accorgerebbe? Decide di sì.

Ultima stanza: grande letto matrimoniale, sopra a una trapunta rosa con disegni floreali orientaleggianti. Armadi enormi. Bagno in camera. Finestrone affacciato sul giardino retrostante. Beve un sorso d’acqua e appoggia il bicchiere su uno dei comodini accanto a un romanzo di Michael Connelly. Poi apre il cestino del pranzo, estrae l’uovo e lo addenta, gironzolando per la stanza in cerca di indizi.

Gli ci vogliono dieci minuti per trovare ciò che sta cercando, anche se in realtà sperava di non rinvenire nulla di incriminante. Due cose, invece. La prima è in uno degli armadi, nascosta su una mensola dove ci sono almeno sei maglioni ripiegati con cura. Lontana dagli occhi, lontana dal cuore. Sapeva che non l’aveva messa nel portagioie sul comodino, perché aveva controllato qualche minuto prima, e si stava convincendo che forse la stava indossando proprio in quel momento. Se l’era provata e non aveva saputo resistere? Invece no: è lì, ancora nel cofanetto, non l’ha nemmeno portata alla luce del sole, in un punto in cui potrebbe vederla tutti i giorni e subire la tentazione.

Prende il cestino e lo porta alla finestra. Lo appoggia sul davanzale e, per avere entrambe le mani libere, ci mette accanto il pasticcio di maiale in crosta, di cui ha mangiato solo un boccone. Poi solleva il coperchio ed estrae con delicatezza la collana, lasciando che la luce dalla finestra la illumini. È così incantevole. Il suo posto non è dentro un armadio buio. La porta sul cuscino e la appoggia lì. Vorrebbe lasciarla in quel punto, così lei la vedrebbe subito, come prima cosa, rientrando a casa. Ma non sa come farlo senza rivelarle che ha rovistato in camera sua. La rimette via con il cuore pesante, facendo grande attenzione a posizionarla nel punto esatto dove l’ha trovata.

L’altra cosa la scopre quasi per caso, proprio quando è sul punto di abbandonare la stanza. Prende il libro, chiedendosi cosa legga. Lui preferisce guardare la televisione, ma sapere che genere di letture ama gli darà qualche spunto per il regalo di Natale. Appoggia il volume sulle gambe e lo apre alla pagina con il segnalibro. Ma non si tratta di un vero segnalibro. È un biglietto di auguri: lungo, sottile. Lo prende in mano e guarda la foto di un tranquillo paesaggio rurale, con un pallido sole che si trascina sulla sommità di una collina a indicare l’inizio di un nuovo giorno. La scritta sulla copertina recita:

 

Su alcune cose semplicemente sai di poter contare.

 

Proseguendo all’interno:

 

…idem su alcune persone.

 

Firmato Adam. Con una crocetta dopo il nome. Adam e un bacio.

Non va bene. Non gli dà l’idea di un amico che è semplicemente bravo ad ascoltare. Gli dà l’idea di qualcuno che è qualcosa di più. E sta proprio cercando di elaborare il pensiero quando all’improvviso un forte trillo scuote la casa: c’è qualcuno alla porta. Il suono lo spaventa e balza in piedi, dimenticando il libro, che cade per terra e si chiude. Resta lì, tenendo il biglietto in una mano e pentendosi di non aver preso nota del punto in cui era arrivata, perché non sa più dove dovrebbe stare quel segnalibro improvvisato. In preda alla disperazione raccoglie il libro e infila il biglietto in un punto qualsiasi: è la cosa migliore che possa fare.

Deve uscire da lì. Sa che non può essere Abi: se avesse dimenticato le chiavi, avrebbe fatto il giro dal retro e usato la chiave di scorta. Ma se fosse il suocero? Il poliziotto. E se sapesse dove tiene la chiave? Cosa penserà se lo scopre a gironzolare al piano superiore?

Sistema la trapunta, afferra il cestino del pranzo, ricordandosi all’ultimo minuto del bicchiere vuoto, e attraversa di corsa il pianerottolo. Poi scende in punta di piedi al piano terra, il più velocemente e silenziosamente possibile, e si precipita in salotto. Sbircia oltre la tenda appena in tempo per vedere il postino voltare le spalle alla porta e allontanarsi lungo il vialetto. Sollevato, picchia sulla finestra per attirare la sua attenzione, poi va all’ingresso e ritira il pacco, firmando a nome di Abi. Quando torna in cucina e comincia a mangiare il panino al pollo avanzato, ha il respiro di nuovo quasi regolare.

Ha la bocca asciutta, forse per l’eccitazione degli ultimi minuti, così si versa un altro bicchiere d’acqua e si rimette a tavola. Ha le idee più chiare di qualche minuto fa. Non ne è contento, ma almeno sa come stanno le cose.

Adesso ha un rivale.

 

Anna

«Ti racconto una barzelletta», disse lei. «Questa sì che è bella».

«Meglio dell’ultima?»

«Qual era quella?»

«Quella sul ballerino».

«Sì. Anche meglio».

«Allora spara».

«D’accordo. Una papera entra in un panificio, va dal panettiere e chiede: “Ce li avete i fiammiferi?”. E il panettiere: “No, mi dispiace”. Così la papera esce. Il giorno dopo la papera entra di nuovo e chiede: “Ce li avete i fiammiferi?”. E il panettiere: “No. Gliel’ho già detto ieri. Non vendiamo fiammiferi. È un panificio: vendiamo torte, pane, pasticcini… i fiammiferi no”. La papera dice: “D’accordo” ed esce. Il giorno dopo…».

«Non ripetermelo. Immagino che la papera entri di nuovo».

«Aaah, l’hai già sentita allora», disse lei sarcastica. «No, ascolta. Questa è buona. Dunque… il giorno dopo la papera entra di nuovo, va dal panettiere e chiede: “Ce li avete i fiammiferi?”. A quel punto il panettiere perde la pazienza, allunga una mano oltre il bancone, afferra la papera per il collo e dice: “Ascolta. Te lo ripeto: questo è un panificio. Se vieni qui un’altra volta a chiedermi se abbiamo i fiammiferi, giuro che prendo un maledetto martello e ti inchiodo quel becco al bancone. Intesi?”. La papera annuisce e se ne va».

«E il giorno dopo…», disse lui.

«Il giorno dopo la papera entra, va dal panettiere e chiede: “Ce li avete i chiodi?” E il panettiere è tipo tutto stupito e allora risponde: “I chiodi? No, non li abbiamo”. Allora la papera dice: “Bene. Ce li avete i fiammiferi?”».

Lei aveva già cominciato a ridacchiare ancora prima di arrivare alla battuta finale. A quel punto scoppiò a ridere. Lui amava la sua risata: era disinibita, genuina. Contagiosa anche, al punto che una coppia anziana che si dirigeva verso di loro non poté fare a meno di sorridere, come se volesse unirsi alla conversazione.

«Bella, vero?», disse, tamponandosi un angolino dell’occhio con il dito.

«Sì. È bella».

«Più di quella sul ballerino?»

«Qualunque cosa sarebbe meglio di quella sul ballerino».

«Be’ comunque ti ha fatto ridere», disse lei. «L’ho raccontata a Lucia… mia sorella. Niente. Neanche un accenno di un sorriso. Sai che ha detto? “Perché a una papera dovrebbero servire dei chiodi?”. Sul serio», aggiunse, quando lui le lanciò un’occhiata incredula. «Te lo giuro. Perché la papera dovrebbe volere dei chiodi? A volte mi preoccupa davvero. Se le appoggi l’orecchio sulla tempia senti il rumore del mare».

Lui sorrise e fecero ancora qualche passo, scambiando dei cenni di saluto con i passanti.

«Stamattina hai voglia di chiacchierare», disse alla fine lei.

«Scusa».

«Non sei riuscito a buttar lì neanche una parola. Stai bene?»

«Sì, sto bene», rispose, girandosi per scusarsi con un cliente che aveva urtato inavvertitamente. «Un po’ sovrappensiero, credo».

«Per Callum?»

«Più o meno. Sì».

«Insomma, se hai voglia di parlarne, non farti scrupoli, anche perché abbiamo ancora cinque ore e mezza di questa solfa davanti a noi e sono quasi a corto di barzellette. E poi sai come si dice?»

«Come?»

«Mal comune… mezzo male. Non è così, vero?»

«Non proprio».

«Qualcosa del genere però. Quindi forza. Il tizio ombroso e lunatico fa sempre effetto ma quando è troppo è troppo».

Lui si fermò vicino all’ingresso di Estelle Roberts, la gioielleria al secondo piano, e fece un cenno a Danny, uno dei commessi che lavoravano lì. Anna si appoggiò alla vetrina accanto a lui, in attesa.

«Non è niente di particolare», disse infine. «Solo che…».

«Ti manca».

«Sì. È così. Stupido, vero? Non è che vivessimo in simbiosi o nulla del genere. Anzi, mi capitava di non vederlo per settimane. Settimane. E forse trascorrevo più tempo a lagnarmi di lui che a fare qualsiasi altra cosa».

«È quello che fanno i papà».

«Già, insomma… sai, non era il ragazzino più semplice sulla faccia della Terra. Sempre nei guai, un casino dietro l’altro. Speravo che un giorno avrebbe superato quella fase. Pensavo che magari in fondo in fondo ci fosse un Callum migliore, che cercava di uscire fuori. Ma, se c’era, non l’ho mai visto veramente. Una cosa piuttosto orribile da dire riguardo al proprio figlio, non credi?»

«Non so», rispose Anna, strofinando distratta una macchia sulla divisa. «Ho sempre avuto la sensazione che mio padre non mi ami abbastanza. Magari tu e Sally avete amato Callum un pizzico di troppo. Immagino che sia piuttosto difficile trovare un equilibrio».

«L’abbiamo viziato, intendi?»

«Oh», disse lei, sollevando le mani in un esagerato gesto di difesa. «Non spetta a me dirlo. Solo che non vedo perché tu ti debba rimproverare, tutto qui. Se tanto si finisce comunque per sbagliare, sempre meglio averlo amato troppo, fidati».

Lui non disse nulla e fissò con sguardo assente i gioielli in vetrina. Anna era pronta a scommettere che non sarebbe stato in grado di descrivere un solo articolo, di tutti quelli che aveva guardato.

«E le indagini?», chiese lei, più per rompere il silenzio che per altro. «Come procedono?»

«Un po’ incasinate, se vuoi la mia opinione», disse. Le raccontò della visita di Abi di sabato pomeriggio e del successivo colloquio con Holloway: il poliziotto di certo non aveva fatto i salti di gioia quando era venuto a sapere delle inesattezze della prima dichiarazione.

«E tu?», gli chiese, notando la durezza nella sua voce quando aveva parlato di Abi. «Sembri un po’ seccato con lei».

«Un po’. Forse».

«Perché si vedeva con quell’altro ragazzo?»

«Dice che è solo un collega di lavoro. Una cosa da niente. Un amico con cui voleva confidarsi».

«Ma tu pensi che ci sia dell’altro?»

«Non lo so. Insomma, Callum l’aveva tradita ma due torti non fanno una ragione, giusto?»

«No. Però siamo umani. Nella vita non mi è capitato di incontrare tutti questi santi».

«Lo so. Comunque non sono affari miei… davvero. È solo che…».

«Avevi un’opinione migliore di lei».

«Già. Credo. Che stupido».

Anna gli chiese qualche dettaglio in più sulle indagini e lui le disse ciò che sapeva, ossia ben poco.

«La mia sensazione è che non stiano venendo a capo di nulla», disse. «Continuo a chiamarli e loro sono sempre gentili e tutto quanto, dicono le cose giuste e sono così carini. Ma, se stanno dando la caccia a qualcuno in particolare, a me non l’hanno detto, questo è poco ma sicuro. Mi hanno intimato di starne fuori con una certa chiarezza. Di lasciarli fare il loro lavoro».

«Ma tu non pensi che stiano lavorando bene, giusto?»

«Non lo so», rispose. «So che sono sottoposti a una pressione enorme per via di quel ragazzino scomparso. Dicono che ogni indagine abbia un momento topico. Sono solo preoccupato che si deconcentrino e si lascino sfuggire quello di Callum. E poi già di mio non sono molto bravo a restarmene con le mani in mano a guardare, figuriamoci ora che c’è di mezzo mio figlio…».

«E allora non farlo», disse lei.

Lui si fermò e la guardò.

«Non fare cosa?»

«Non stare a guardare. Perché non vai a caccia di qualche informazione? Vedi cosa riesci a trovare».

Lui scosse la testa. «Mi hanno fatto capire che è meglio lasciar perdere. Sono stati molto chiari», disse.

«E allora fallo con discrezione. Nessuno lo verrà a sapere. Se ti serve una volontaria per dare una mano, basta chiedere. Mi sono sempre ritenuta una specie di segugio. Appostamenti. Inseguimenti. Anna Castrogiovanni, investigatrice privata. Suona bene, non credi?».

Lui rise.

«Dico davvero», insistette. «Anziché startene a rimuginare tutto il giorno, perché non muovi il posteriore e fai qualcosa? Ti aiuto io. Tanto, quanto a vita sociale, nessuno di noi due ha un’agenda che scoppia di impegni. Possiamo fare le nostre indagini, vedere cosa riusciamo a portare alla luce. Sarà divertente. Ti ricordi cos’è il divertimento, vero?».

Lui le mise la mano sulla spalla stringendola in un rapido abbraccio, che le fece capire quanto le era riconoscente e allo stesso tempo quanto ritenesse ingenua quella proposta. Non la stava prendendo sul serio.

«Avanti», le disse. «Ti offro un caffè».

«Però pensaci», replicò lei. «Se non ne hai voglia, posso andare avanti io per conto mio. Tra dieci anni avrò un’agenzia investigativa tutta mia e tu ti chiederai perché non sei entrato in affari con me quando ne hai avuto la possibilità. Provaci. Se sono rose cresceranno».

«Fioriranno», rise lui.

«Come?»

«Se sono rose, fioriranno».

Lei si interruppe e lo fissò.

«Dici delle cose stranissime, lo giuro su Dio».

 

Owen

Sta preparando la cena. Mentre gira le salsicce nella padella e controlla che l’acqua delle patate non esca, squilla il telefono.

È Abi.

«Owen», dice. «Sei entrato nella mia camera?».

Oh.

Abbassa la temperatura dei fornelli. Dovrà concentrarsi.

«No».

«Te lo chiedo un’altra volta», dice e sembra molto arrabbiata con lui. Non va bene. «Ho trovato un pasticcio di maiale mezzo mangiato sul davanzale della finestra. Quando sono uscita stamattina di sicuro non c’era e, da quando vieni qui, te ne porti uno nel cestino del pranzo praticamente ogni giorno. C’erano anche un paio di quei ricci appiccicosi che ti si attaccano ai vestiti: li ho trovati accanto al letto, sul pavimento. Quelli delle piante, hai presente? Quindi te lo chiedo un’altra volta: sei entrato nella mia camera da letto?».

Ricorda vagamente di aver appoggiato il pasticcio in modo da poter aprire il cofanetto e guardare la collana alla luce del giorno. Come può essere stato tanto stupido da lasciarlo lì? Ha bisogno di una scusa. E in fretta.

«Mi dispiace», dice, quasi sussurrando.

«Perché eri in camera mia? Cosa ci facevi lì?»

«Cercavo la collana». È soddisfatto della risposta. Addossarle la responsabilità. Buona idea. Se l’avesse indossata come avrebbe dovuto, lui non sarebbe entrato. Non è necessario che sappia il vero motivo.

«Allora me la devi chiedere, Owen. Se la rivuoi, me lo chiedi. Non si va a curiosare nella camera della gente senza permesso. È un luogo privato!».

È ancora arrabbiata. Lui crede sia un po’ ingiusto. Se non avesse continuato a nascondergli le cose, come l’amicizia con Adam, lui non si sarebbe neanche avvicinato alla camera da letto. Prima o poi glielo spiegherà, quando la situazione sarà più tranquilla, ma forse adesso non è il momento giusto.

«Mi dispiace», le dice di nuovo, perché è ciò che lei vuole sentirsi dire.

«Sì, be’ dispiace anche a me, Owen. Ma se hai intenzione di lavorare qui quando non sono in casa, devo potermi fidare di te. Penso che dovremo metterci a sedere con calma e stabilire qualche regola base. Non credo proprio che sia una buona idea lasciarti una chiave. Se vuoi continuare a lavorare qui, dovrai farlo quando ci sono anch’io. O si fa così oppure dovrai regolarti come un professionista qualsiasi. Ma non voglio che gironzoli per casa. La mia camera da letto, Owen? Sul serio? La mia camera da letto?».

Un professionista qualsiasi? È ancora bloccato su quel passaggio della conversazione, non riesce a crederci! Come può essere così sgarbata? E va bene, è entrato in camera sua – che sarà mai? Ha sentito dire che a volte le donne possono essere irrazionali. Di sicuro in quel momento sta dicendo cose senza senso.

«E per quanto riguarda la collana, domani mattina te la restituisco», dice.

«Non la r-rivoglio».

«Pensavo che avessi detto che era quello il motivo per cui sei entrato nella mia camera».

«Ma… ma la stavo solo cercando», risponde, tentando disperatamente di improvvisare. «Volevo vedere se ce l’avevi ancora. Avevo paura che p-potessi averla già venduta».

«Allora avresti dovuto chiedermelo», dice. A quanto pare non ha ancora intenzione di lasciar perdere. Non si era mai arrabbiata prima con lui. Forse deve andare a casa sua. Se potesse guardarlo in faccia, si renderebbe conto di quanto è dispiaciuto. Allora gli prenderebbe la mano e gli direbbe che va tutto bene. Ma non farlo più. È il caso di dirle del segnalibro? Ma non vede proprio come possa farlo adesso senza innervosirla ulteriormente.

Sta insistendo ancora sulla collana. Dice delle cose che di sicuro non pensa davvero. Non nel profondo del cuore. Ha intenzione di restituirgliela domani. Se lui non accetterà, pensa di portarla in un negozio dell’usato e donarla in beneficienza. Sta a lui. Riprendersela o lasciarla. Ma no, non può dire sul serio. Sta per sottolinearlo quando lei gli attacca il telefono in faccia. Così. Né arrivederci né niente.

Non aveva mai fatto nulla del genere.

E Willie lo guarda seduto al tavolo della cucina, un sorriso compiaciuto stampato in faccia, con quell’arietta da te l’avevo detto.

 

Phil

Sul momento non aveva preso davvero sul serio il suggerimento di Anna. Forse era un retaggio degli anni passati in polizia, ma l’idea di andare contro delle chiare indicazioni di un superiore era una prospettiva che lo metteva semplicemente a disagio. Se ti veniva detto di lasciar perdere, allora obbedivi. Subito. Un concetto che gli era stato inculcato per bene, un codice di comportamento che eliminava il bisogno di calcoli complessi e riduceva tutto a una semplice regola incontrovertibile: si fa così perché lo dico io.

Ma quel pensiero continuò a tormentarlo per tutto il pomeriggio. Forse era quella voce flebile flebile ma insistente che non smetteva mai di ricordargli che ormai era padrone di sé, non più vincolato alle loro regole, ai codici. O forse era solo la crescente frustrazione per un’indagine che era giunta a una specie di punto morto, o almeno così pareva, stando ai feedback che arrivavano a lui. E oltretutto, ragionava tra sé e sé, mica aveva chiesto di lavorare al fianco di Holloway e Horgan. Non era stupido: capiva bene che sarebbe stato del tutto fuori luogo.

Eppure, più ci pensava più era risentito perché, se toglieva tutte le strette di mano solidali e le manifestazioni di sostegno, aveva la sensazione di essere stato… insomma, emarginato, per così dire, perché era praticamente questo che stava succedendo, o no? Ma che male c’era se faceva qualche domanda qua e là, magari, cincischiando un po’ dietro le quinte? Nulla di appariscente, ovvio. Massima discrezione. Solo per soddisfare la sua curiosità su alcuni particolari. Se si fosse limitato a rompere un po’ le scatole in giro, magari sarebbe saltato fuori qualcosa di utile, giusto? Cioè, chi poteva escluderlo? Alla fin fine chi avrebbe mai biasimato un padre che voleva, tanto per usare le parole di Anna, muovere il posteriore e fare qualcosa?

Così, prima di staccare dal lavoro, era riuscito a convincersi che aveva ragione lei, anche se forse la sua era solo una piccola provocazione. Era la cosa giusta da fare. Un suo diritto.

Appena rientrò a casa, cominciò a fare qualche telefonata.

Ragione per cui, appena un’ora dopo, era in piedi davanti all’ingresso della sala da pranzo del Golf Club di Bognor a stringere un accordo con se stesso: se fosse già andato via, avrebbe lasciato perdere; ma se l’avesse trovato lì…

Non gli ci volle più di qualche secondo per scorgere Ezra Cunningham. Era seduto da solo a un tavolino al centro della sala e stava trasferendo nel suo piatto l’insalata del contorno, sistemandola con cura attorno a un qualche pesce. Phil si fece largo tra i clienti e gli si parò davanti. Cunningham si interruppe per un momento, poi si servì un’altra cucchiaiata senza sollevare lo sguardo.

«Posso esserle utile?», chiese a un certo punto.

«Devo parlarle».

«Mi scusi?»

«Ho detto che devo parlarle».

Cunningham alzò gli occhi, aggrottando la fronte come se si stesse sforzando di rammentare.

«Sì, ho capito. È solo che mi trovo in una condizione spiacevole, per così dire. Temo di non avere la più pallida idea di chi sia lei».

«Mi chiamo Phil Green».

Cunningham ci rifletté per un secondo o due.

«Il suo nome dovrebbe dirmi qualcosa? Perché le assicuro che non…».

«Sono il padre di Callum».

«Ah». Appoggiò lentamente la posata sul tavolo, poi fece per alzarsi dalla sedia. «In questo caso… le andrebbe di unirsi a me?»

«Non ho intenzione di trattenermi».

«Allora posso forse offrirle qualcosa da bere? Mi farebbe piacere condividere questa bottiglia», disse, toccando un bicchiere da vino pulito, «ma, se preferisce qualcosa dal bar…».

«Non è una visita di cortesia».

Cunningham sorrise.

«Ma è pur sempre una visita e sono sicuro che, da seduto, si sentirà più a suo agio. Per quello che vale, preferirei non essere costretto ad allungare il collo per guardarla. Prego». Indicò la sedia di fronte a lui. Phil esitò, poi decise di accettare l’invito. Un cameriere gli sbucò accanto dal nulla. Cunningham gli fece cenno di allontanarsi.

«Dunque», disse. «Ha detto che non è una visita di cortesia. Questo rende inevitabile la domanda… che genere di visita è? Come posso esserle utile?»

«Sono qui per parlare di mio figlio».

«Naturalmente». Cunningham si rabbuiò, l’incarnazione di un composto cordoglio. «Le mie condoglianze, signor Green. Mi sarebbe piaciuto incontrarla in circostanze meno dolorose. Callum parlava sempre di lei con il massimo rispetto e non minor affetto».

Si chinò e giunse le mani sul tavolo davanti a lui, in silenzio, come se si aspettasse una replica di qualche tipo da Phil. Quando fu chiaro che l’attesa sarebbe stata vana, prese la saliera e cominciò a condire i pomodori e la lattuga.

«Io non ho figli», proseguì imperterrito, «quindi non ho idea di come si possa sentire in questo momento, ma ci tengo a esprimerle tutta la mia vicinanza. Spero che abbia ricevuto i fiori».

«Sì. È il motivo per cui sono qui».

«Sì, ecco… era il minimo che potessi fare. Mi dispiace non aver partecipato alla cerimonia. Spero che mi capirà. Se mi fossi presentato, la cosa avrebbe facilmente generato, per così dire, una sgradita dose di attenzione da parte delle autorità. Trovo che abbiano la tendenza a saltare a conclusioni inappropriate quando ci sono io di mezzo, e comparire al funerale di una vittima di omicidio non mi sembrava la linea di condotta più saggia. Per non parlare della pena che avrebbe potuto causare a lei e agli altri familiari di Callum».

«È commovente che si preoccupi per noi».

Se Cunningham colse il sarcasmo, non diede l’impressione di essersi offeso.

«Ma lei voleva parlare del suo ragazzo. Mi dica pure: come posso esserle utile?»

«Può cominciare spiegandomi come diavolo è finito a bazzicare gente della sua risma?».

Cunningham si bloccò nell’atto di infilzare un pomodoro.

«La mia risma?». Scosse la testa, poi si portò la forchetta alla bocca. «Signor Green, sembra proprio che siamo partiti con il piede sbagliato. Se è per qualcosa che ho detto o fatto, non posso far altro che scusarmi, ma sospetto che i motivi dei suoi modi un po’ bruschi, per così dire, risiedano altrove. Temo che lei si sia fatto un’idea anche troppo precisa sul mio conto ancora prima che ci sia stato modo di conoscerci. Se possibile, mi piacerebbe dissipare alcuni dei pregiudizi più fantasiosi che mi sembra lei possa nutrire nei miei confronti».

«Tipo?»

«Allora, tanto per cominciare, Callum non aveva l’abitudine di “bazzicare gente della mia risma”, per usare la sua colorita espressione. In ogni caso non nel senso che insinua. In realtà a quanto ricordo, non avevamo rapporti d’affari di alcun tipo. Il nostro legame, se proprio vuole saperlo, era di gran lunga più prosaico».

«Si spieghi».

«Giocavamo a squash insieme».

«Cosa?». Doveva ammetterlo: quella risposta non se l’aspettava proprio.

«Cioè, sarebbe più accurato dire che mi insegnava a giocare a squash. Mi sono iscritto alla società del centro sportivo Arun diciotto mesi fa, un regalino che mi sono fatto per i cinquant’anni».

Phil sorrise.

«Callum la allenava? E si aspetta che io ci creda?».

Cunningham ricambiò il sorriso.

«Forse no, credo di no. Devo ammettere che il suo scetticismo è del tutto comprensibile. A parti invertite, non credo che reagirei in maniera diversa. Eppure si dà il caso che sia la verità. Ma in tutta sincerità a me non interessa se mi crede o no. Immagino che, se ne emergesse la necessità, sarebbe relativamente semplice comprovarlo. Abbiamo prenotato la stessa fascia oraria la maggior parte dei giovedì sera: dalle sei e quaranta alle sette e venti. Non mi stupirei se il centro sportivo conservasse i registri delle prenotazioni».

Piluccò delicatamente il pesce, con movimenti calmi e precisi. Quasi ostentati.

«Quando ero più giovane giocavo molto ed ero abbastanza bravo, anche se è solo la mia opinione. Così pensavo che sarebbe stato piuttosto semplice ricominciare, ma temo che il passare degli anni e la vanità coprano inevitabilmente di ridicolo l’essere umano. Ho dovuto giocare una delle prime partite nell’ambito di un torneo ad handicap… ha presente di cosa si tratta? La sfortuna – o la fortuna, come si è scoperto nel lungo periodo – ha voluto che il sorteggio mi assegnasse come avversario al primo turno il suo ragazzo. Mi ha annientato, anche se solo Dio sa quanti punti di vantaggio avevo in partenza. Una specie di campanello di allarme, temo».

Bevve un sorso dal bicchiere e lo agitò, come per controllare se Phil avesse cambiato idea sulla proposta di bere qualcosa. Lui scosse la testa e aspettò che Cunningham proseguisse.

«A ogni modo la maggior parte dei giocatori di punta… sa, loro odiano giocare con persone come me. Uno spreco di tempo, ecco. Ci neutralizzano senza neanche faticare troppo. Non vedono l’ora di lasciare il campo. Il suo ragazzo invece… lui era diverso. Riguardoso, credo lo si potrebbe definire così. Sapevo che prolungava gli scambi per allenarsi meglio, ma non lo faceva mai in modo sprezzante. E, quando si complimentava con me per un buon colpo, non mostrava alcun senso di superiorità. Sembrava che si divertisse a incoraggiarmi. Poi, quando la partita finiva, invece di squagliarsela in tutta fretta, mi offriva da bere e passavamo mezz’ora o giù di lì chiacchierando al bar. Ero… ero colpito, devo ammetterlo. È raro trovare giovani così rispettosi al giorno d’oggi».

«La adulava».

«Come dice?»

«Conosco mio figlio», disse Phil, lieto di aver trovato una scusa per essere sgarbato, in modo da bucare il manto di autocompiacimento che Cunningham indossava come un’armatura. «Se Callum trovava il tempo di ronzarle attorno, di sicuro il rispetto c’entrava ben poco. Può star certo che la stesse usando».

Seguì una pausa, durante la quale Cunningham si mostrò teatralmente assorto in profonda riflessione. Poi stupì Phil ridacchiando tra sé e sé.

«Insomma, sì. Certo, potrebbe aver ragione lei», disse. «Com’è quell’espressione che si usa oggigiorno? Accumulo di guadagni marginali? Di certo a Callum non dispiaceva assicurarsi qualunque vantaggio potesse derivargli dalla nostra frequentazione, per quanto superficiale. Ritengo sia possibile, persino probabile, che mi considerasse come un mezzo per raggiungere un fine. Una persona che gli poteva spianare un tantino la strada, presentandolo a una quantità di utili conoscenze di lavoro. Del resto non sarebbe stato un essere umano se non avesse tenuto gli occhi aperti per cogliere le opportunità che potevano presentarglisi, non crede?»

«E queste “utili conoscenze di lavoro”? Chi sarebbero?».

Cunningham puntò la forchetta verso di lui.

«Ah, ecco… con tutto il rispetto, signor Green, per quanto voglia soddisfare la sua curiosità, in questo caso bisogna tenere in conto un certo grado di discrezione e buona creanza professionale. Quando mi metto in affari con qualcuno, esigo la massima riservatezza e i miei colleghi si aspettano altrettanto da parte mia. Per essere schietti, non sono sicuro che siano in alcun modo affari suoi».

«Ah no?»

«Già. Sono felice di stare qui seduto a parlare con lei di suo figlio e di chiarirle qualche punto che le è oscuro, se posso, ma c’è un limite. Sono sicuro che capirà».

Phil incrociò le braccia e si appoggiò allo schienale, increspando le labbra. Poi, avendo deciso come voleva giocarsela e fin dove poteva spingersi, si chinò in avanti, appoggiando entrambi i gomiti sul tavolo.

«Se capisco?», chiese, allungando una mano verso la caraffa dell’acqua e versandosene un po’ nel bicchiere da vino pulito. «Lasci che le dica cosa ho capito, d’accordo? Ho capito che grazie al cielo mio figlio se la passava piuttosto bene. Si era costruito una reputazione e portava a casa in una settimana più soldi di quanti io ne abbia mai guadagnati ai miei tempi in un anno intero. Poi si imbatte in lei e comincia a darsi stupide arie da gran signore, mischiandosi con gente ambigua, e se avesse avuto un pizzico di buon senso avrebbe compreso che sarebbe stato più saggio tenersene alla larga. Nel giro di due anni finisce in un campo con la testa fracassata, mentre lei se ne sta seduto qui con i suoi discorsi ben educati e i modi raffinati a offrire tè e condoglianze, invitandomi a credere che si tratti solo di un’enorme coincidenza… che non abbia nulla a che vedere con gli ambienti nei quali si muove lei. Questo è quello che capisco. E so che tutti questi discorsi sull’etica professionale e l’aura di rispettabilità di cui vuole circondarsi non sono altro che fumo negli occhi. Quindi andiamo al sodo, va bene? Glielo chiedo di nuovo: chi sono queste conoscenze di lavoro di cui parla? E, in particolare, chi tra loro potrebbe essersi risentito per ciò che combinava Callum?».

Se la speranza era che Cunningham rimanesse spiazzato dal cambiamento di tono, doveva ammettere di aver fallito. Lungi dall’essere preso alla sprovvista, il suo interlocutore si limitò a tamponarsi la bocca con il tovagliolo, spinse via il piatto, come se fosse stanco di giocare con il contenuto, e poi guardò Phil dritto negli occhi.

«Molto bene», disse, schiarendosi la gola e allungando ancora la mano per prendere il bicchiere. «Ho cercato di mostrarmi comprensivo, viste le orribili circostanze personali in cui si trova, ma a quanto pare ciò non ci conduce da nessuna parte. Mi lasci provare a questo punto con una diversa tattica».

Bevve un altro sorso, poi indicò con un cenno della testa verso la sua destra.

«Vede il giovane all’estremità del bancone che sta svuotando in malo modo la ciotola di arachidi senza che nessuno dica nulla? E quello più giovane un po’ più in là che cerca con scarse prospettive di successo di ingraziarsi la giovane signora del bar? Ecco, preferirei davvero non effettuare concretamente la prova, ma ho fondati motivi di credere che, se alzassi un tantino la voce, si fionderebbero qui e la nostra conversazione giungerebbe al termine. Le chiederebbero molto educatamente di uscire».

Phil si ripromise di non guardare, ma non riuscì a farne a meno. Il divoratore di arachidi di certo era un fan delle palestre. A giudicare dalle difficoltà con cui le maniche contenevano i bicipiti, passava molto tempo a sollevare pesi. Il Romeo dei poveri era più piccolo, nerboruto, ma Phil aveva già visto tipi di quel genere. Era facile sottovalutare persone come lui, ma non era un errore che ripetevi due volte di fila.

Il più giovane scelse proprio quel momento per fare un cenno a Phil, come se fosse al corrente di ciò di cui stavano discutendo.

«Dunque, dato che, a quanto pare, il garbo ha abbandonato questa tavola e abbiamo concordato di parlarci a chiare lettere, lasci che le dica questo. Poco fa ho fatto riferimento al fatto che non ho figli. Se li avessi, tuttavia, mi piace pensare che conoscerei mio figlio un po’ meglio di quanto lei conoscesse il suo, signor Green, a quanto pare. Callum, mi dispiace dirlo, era un opportunista profittatore costantemente a caccia di occasioni favorevoli. Era affascinante, questo sì. Carismatico? Sicuramente. Un’eccellente compagnia. In grado di adattarsi con disinvoltura a qualunque riunione mondana in cui si venisse a trovare. Un vero animale sociale, si direbbe. Ma era anche un parvenu egoista e senza principi che abbagliava e ammaliava le persone, sfruttandole come se niente fosse per tutto il tempo necessario per individuare il successivo gradino della scala. Lei sostiene che prima di conoscermi Callum se la cavasse bene, ma ho il sospetto che lei non sappia neanche metà della storia. Aveva le mani in pasta ovunque, al punto che dubito fosse in grado di seguire tutti gli affari in cui era coinvolto. Se si presentava un’opportunità, lui la afferrava, senza curarsi di qualsivoglia suggerimento ritenessi opportuno dargli, come anche di qualsiasi serena valutazione dei rischi. Perché ad attrarlo era innanzitutto il rischio. Non poteva farne a meno. E ora…».

Si interruppe per rivolgere un sorriso a un altro cliente che passava di lì, poi guardò nuovamente in faccia Phil.

«Lei ha subito una terribile perdita ed è libero di credere a qualsiasi versione dei fatti le possa sembrare preferibile, ma, a prescindere da quale sarà la storia che si stringerà al petto in cerca di conforto, la solleciterei a non chiudere gli occhi di fronte a un fatto molto importante. E cioè che suo figlio portava in sé i semi della sua distruzione, a dir poco. Non aveva bisogno né del mio aiuto né di quello dei miei colleghi in affari per firmare la propria condanna. Volava troppo vicino al sole. Era solo questione di tempo prima che si verificasse un incidente».

Sollevò una mano e, come nella migliore tradizione pavloviana, i due gorilla lasciarono il bancone e si avviarono verso di lui.

«E ora», proseguì, senza staccare gli occhi da quelli di Phil, «credo che abbiamo trattato più o meno tutti i punti. Mi rammarico per la sua perdita e vorrei poterle essere d’aiuto, ma temo che non ci sia nulla che io possa fare. Questa conversazione termina qui. Mick e T.J. l’accompagneranno fuori».

I due gorilla affiancarono Phil, che da parte sua faceva il possibile per ignorarli. Invece di alzarsi, allungò una mano e si versò altra acqua nel bicchiere, per poi scolarsela tutta d’un fiato. Lo posizionò quindi accanto a quello di Cunningham con una cura esagerata.

«Questa conversazione per il momento può anche restare in sospeso», lo corresse, «ma le prometto una cosa: è ben lungi dall’essere terminata. Vuole sapere una cosa che ho imparato in tutti questi anni di vita? La gente come lei… è molto raro che faccia qualcosa. Non siete il genere di persone che si sporcano le mani. Ma sapete come stare in campana. È come se foste sintonizzati su ogni pettegolezzo, ogni diceria. Non lasciate trapelare nulla, perché non potete permettervelo. Sapete sempre cosa bolle in pentola. Qualunque cosa sia accaduta al mio ragazzo, che lei sia convolto o meno, sa sicuramente qualcosa. Non sprechi fiato a cercare di convincermi del contrario. E le prometto una cosa: continuerò a farmi vivo nei momenti meno opportuni in assoluto, rendendomi insopportabile finché non avrà recepito il messaggio. Ho intenzione di cogliere ogni opportunità di metterla a disagio in pubblico. Ora deve chiedersi per quanto tempo può permettersi di sopportare una cosa del genere… signor Cunningham».

Si alzò, confrontandosi con il più alto dei gorilla.

«Conosco la strada», disse.