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Il giorno del delitto: lunedì 25 agosto
Owen
I disegni le piacciono. Di più… le piacciono sul serio. L’ansia l’ha divorato per tutto il giorno, ma finalmente il responso è arrivato. Quando poco fa ha acceso il portatile e ha visualizzato i progetti sullo schermo per mostrarglieli, gli tremavano le dita. Quattro bozzetti. Per metterli insieme gli ci sono volute otto ore ieri e altre sei oggi, per non parlare di quelle che ha passato sabato sera a letto senza chiudere occhio, ad architettare progetti su progetti, finché non si è figurato tutto bene in testa. Quattro disegni, ognuno con un budget diverso. Il denaro non dovrebbe rappresentare un problema per lei, ma non vuole che possa utilizzarlo come pretesto per dirgli di no, così ha ridotto al minimo i suoi margini di profitto. Quindi non è per i soldi che spera davvero che sceglierà il più costoso dei quattro. È perché è quello che richiederà più tempo, e quindi lui dovrà restare lì per due o tre mesi almeno. E se Abi sarà soddisfatta del risultato, magari gli chiederà di farle da giardiniere personale. Potrebbe trasformarsi in una cosa a lungo termine.
Come ai vecchi tempi. Quando arrivava a scuola, la prima tappa la faceva sempre da lei. La cercava fuori nel cortile, la seguiva dappertutto, si sedeva con lei e le sue amiche a uno dei tavoli da picnic, in attesa che suonasse la campanella. Abi faceva parte della sua routine quotidiana e la routine contava davvero tanto.
Abi Jessop (non riusciva ancora a obbligarsi a chiamarla Abi Green, neppure adesso).
Abi: totale=12, multiplo di 3. Owen: totale=57, multiplo di 3.
Sicuri. Felici.
Abi Hall: totale=45, multiplo di 3 e 5. Owen Hall: totale=90, multiplo di 3 e 5.
Sicuri. Felici.
Quando era stato ritirato da scuola, il suo più grande rimpianto era che si sarebbero inevitabilmente persi di vista. Dato che la famiglia di lei viveva in un paesino da qualche parte a nordest di Chichester, non c’era modo di restare in contatto. Come volevasi dimostrare, si erano allontanati. Aveva anche sentito dire che si era trasferita in Francia. Eppure, anche se non l’aveva più vista dai tempi della scuola, non aveva mai smesso di pensare a lei. Non del tutto. Abi era un pensiero che aleggiava sempre ai confini della sua mente, appena fuori. E poi quella telefonata. Di punto in bianco. Neanche lei l’aveva dimenticato. Ora si è presa i progetti, ha promesso di chiamarlo domani mattina per fargli sapere quale sceglie. E tutto tornerà come una volta. Alla normalità. Ogni cosa al proprio posto.
L’orologio a pendolo all’ingresso è il primo a battere le ore, seguito a ruota da quello antico di mogano sulla mensola sopra il caminetto. Ogni giorno perde un minuto, e con l’avvicinarsi della sera, rintocca sempre più in ritardo. Due rintocchi gravi il primo, due tintinnii metallici il secondo.
Le diciannove e trenta.
Non ha ancora cenato e, anche se la programmazione comincerà non prima delle 20,45, il che significa che il film non avrà inizio prima delle ventuno, decide d’impulso di uscire subito. Al Chichester Gate c’è un KFC e ha voglia di qualcosa di più nutriente della zuppa che aveva in programma di mangiare. Ce la fa, se esce nel giro di un paio di minuti. Senza problemi.
Si tocca la guancia nel punto in cui lei l’ha appena baciato alzandosi in punta di piedi.
Sarà una bella serata. La conclusione perfetta per una giornata perfetta.
Prende la strada secondaria per Chichester, quella che passa da Lagness e North Mundham. È più breve e, anche se può essere una seccatura restare bloccati dietro le macchine agricole che entrano ed escono da Barfoots o da uno dei tanti vivai lungo il tragitto, è molto più piacevole attraversare l’aperta campagna che battagliare con il traffico intenso della strada principale. Questo itinerario gli farà evitare la A27 fino alla rotonda di Whyke. Allora sarà praticamente arrivato al Chichester Gate.
Non vede l’ora di assistere alla proiezione. Non sono molte le cose che lui e la madre facevano insieme e che non ha abbandonato dopo la sua morte. Avevano un abbonamento familiare, andavano al Cineworld almeno una volta alla settimana, o anche più spesso. I film non erano sempre il massimo. «Non fanno più i capolavori di una volta», diceva quasi sempre lei. «Paul Newman o Steve McQueen tutta la vita». A lui tuttavia non importava. Una serata al cinema era sempre un’avventura: schermo maxi, audio surround, porzione enorme di popcorn e bicchierone di Coca-Cola Light che poteva riporre nel sostegno accanto alla poltrona. L’abbonamento non ce l’ha più. Non può permetterselo, quindi deve essere più selettivo nella scelta dei film, ma ci va ancora almeno una volta al mese. Più o meno. È un passatempo che dà un senso alla serata.
Scuola elementare di North Mundham che spunta sulla destra. Semaforo pedonale rosso in corrispondenza delle strisce proprio davanti all’ingresso, anche se non ci sono bambini in giro a quest’ora. Un anziano attraversa la strada zoppicando, inarcando in modo innaturale le gambe per non caricare le anche doloranti. A condurre la colonna di mezzi provenienti dalla direzione opposta, un pony e un calesse… guidati da due tizi che sembrano molto compiaciuti. I cavalli non gli sono mai andati a genio. Lo mettono a disagio. Anni fa la mamma gli ha passato una mela da dare a un vecchio cavallo da tiro in una fattoria didattica. Il modo in cui l’animale gli ha risucchiato il frutto dalla mano e l’ha trangugiato in un solo boccone, lasciandogli una scia di saliva sulle dita e sulla manica del cappotto… Da allora non si è mai più avvicinato a una di quelle bestie.
Il semaforo scatta. Riparte lentamente. Sfila accanto alla colonna dall’altra parte della strada, che si allunga oltre la curva successiva. Una delle auto è un bolide sportivo piuttosto pacchiano. L’uomo al volante è piegato in avanti, cerca di prendere qualcosa dal vano portaoggetti. Si rende conto che ha qualcosa di familiare. Poi capisce, una consapevolezza quasi immediata. Adesso l’ha superato di due o tre macchine, ma, guardando indietro nello specchietto retrovisore, lo vede tirarsi su. Anche se è girato di spalle sa che è Callum. Improbabile che lo confonda con qualcun altro.
Prima che possa chiedersi perché va in quella direzione, l’ha già superato di un centinaio di metri. Devono essere passati almeno venti minuti da quando ha telefonato ad Abi per dirle che stava partendo per Bournemouth. A quest’ora dovrebbe aver già superato Portsmouth. E invece non è lontano da Honer Lane e da quel cottage, quello di South Mundham dov’è andato con quella donna sabato sera. Una coincidenza? Ha un buon motivo per essere lì o sta mentendo di nuovo ad Abi?
Sa già che non potrà farne a meno: deve scoprirlo. Non può lasciar perdere e basta. Così prosegue fino alla rotonda successiva. A sinistra per Selsey, a destra per Chichester. Ignora entrambe le svolte e fa inversione, tornando al punto dove ha incrociato l’auto di Callum. Non la vede da nessuna parte, ma non importa. È convinto di sapere dove lo riprenderà. Non che voglia raggiungerlo. Vuole solo esserne sicuro.
Alla rotonda davanti al Walnut Tree svolta a destra, poi dritto su Mill Lane. Incrocia due auto che provengono dalla direzione opposta, entrambe multipli di tre. Non vede un numero primo da quando è partito: significa che è sulla pista giusta. Sa qual è la prossima mossa. Sarebbe molto più semplice se Abi fosse sul furgone accanto a lui, così potrebbe vedere con i suoi occhi cosa combina Callum. Dirglielo non sarà sufficiente. Lei non gli crederà. Magari deciderà addirittura che non vuole più saperne dei progetti per il giardino… le malelingue non piacciono a nessuno, così dice Willie. Gli servono delle prove. Se riesce a fare una foto dell’auto di Callum fuori dal cottage, con la data e l’orario in bella evidenza, può salvarla da qualche parte. Continuare a raccogliere informazioni anche nelle prossime settimane. Poi, quando ne avrà a sufficienza, potrà presentare ad Abi tutte le prove in un’unica volta. Neanche Callum riuscirà ad abbindolarla a quel punto. E un giorno Abi lo ringrazierà. Si renderà conto che è una persona di buon cuore.
Ora è in Punches Lane, svolta in Honer Lane e si dirige verso Pagham Harbour. Procede con più attenzione. Il cottage dove sono andati l’altra notte è a poco più di un chilometro e mezzo sulla sinistra, appena prima che finisca la strada. A quest’ora Callum dovrebbe essere lì, forse è già entrato. Ma se così non fosse? Se fosse andato solo a prenderla? Di certo non vuole incrociarlo su quella stradina. Perché come potrebbe spiegargli che cosa sta facendo lì nel mezzo del nulla? Callum non gli crederebbe nemmeno se inventasse la scusa migliore del mondo. Capirebbe di essere stato seguito. Forse sarebbe meglio fare inversione e tornare indietro. Dimenticare tutta quella storia. Ma non vuole arrendersi e restare senza qualcosa da mostrare ad Abi. Deve pensarci su. Così entra in un campo non recintato e parcheggia il furgone in un punto invisibile dalla strada. Si concede del tempo per vagliare le alternative.
La cosa migliore sarebbe lasciare lì il pick-up e farsi il resto della strada a piedi, ma così rimarrebbe un po’ allo scoperto. Se fosse più tardi, anche solo un paio d’ore, non sarebbe così scoraggiato, ma, nonostante le nuvole scure che si addensano in cielo e la luce che si affievolisce rapidamente, a occhio e croce non potrà approfittare del favore delle tenebre prima di un’ora. E non può proprio permettersi di aspettare lì così tanto. Tutta questa storia del viaggio a Bournemouth magari è solo l’ennesima bugia, ma in caso contrario Callum potrebbe trattenersi solo per pochi minuti, e tornare da un momento all’altro. In quel caso, addio foto. Non può correre il rischio. Se ha intenzione di agire, deve farlo subito.
Così abbandona il pick-up lì dov’è, ben nascosto, e si fa di corsa un paio di curve, le orecchie aperte, pronte a captare qualunque rumore che indichi un veicolo in avvicinamento. Memorizza tutti gli incroci – forse sarà costretto a lasciare la strada. Altra curva. Davanti, ancora cinquanta metri di strada. Altra curva. Comincia a chiedersi se può aver sottovalutato la durata del tragitto a piedi. Poi svolta un angolo ed ecco il cottage, a non più di trenta metri di distanza. Nel vialetto c’è un’auto, ma vede subito che non è quella di Callum. È gialla: è quella che guidava la donna quando è passata a prendere Callum al parcheggio sabato sera. E invece lui poco prima era su un’auto nera, ma di quella non c’è traccia. Accanto al cottage c’è un garage, ma la vettura di lei blocca l’ingresso… Callum non può aver parcheggiato dentro, a meno che lei abbia fatto manovra per lasciarlo passare. Ma perché mai avrebbe dovuto farlo?
Si chiede se possa essersi sbagliato. Forse dopo tutto Callum non aveva la minima intenzione di andare a trovarla. Quando Owen lo ha incrociato, magari stava andando da qualche altra parte. Si trovava vicino a South Mundham, sì, ma potrebbe essere una semplice coincidenza. In tal caso, addio foto.
Ma, proprio mentre sta venendo a patti con la sua delusione, gli viene in mente un’altra possibilità – di gran lunga più allarmante. E se Callum fosse effettivamente diretto lì, ma prima fosse andato da qualche altra parte? Potrebbe sbucare da un momento all’altro, e c’è solo una strada per tornare indietro, giù fino a Manor Lane. Deve andarsene. Subito.
Si gira e si mette a correre, diretto al furgone. Il respiro si fa di minuto in minuto più affannato. Non è uno sportivo. È forte ma non ha la corporatura adatta alla corsa e a spingerlo in avanti è solo la disperazione crescente. Raggiunge il furgone e resta qualche secondo piegato in due a riprendere fiato. Poi sale, gira la chiave nel quadro. Niente. Riprova… il motore scoppietta, poi si spegne. Riprova un’altra volta. Picchia la mano sul cruscotto, si maledice per essersi messo in quel pasticcio. Fa un bel respiro e ritenta. Questa volta il motore si avvia con un rombo e lui tira un sospiro di sollievo. Forse dopo tutto è la sua giornata fortunata.
Toglie il freno a mano e si avvia verso l’uscita del campo. Manda il motore un po’ troppo su di giri e le ruote faticano a fare presa mentre si lancia sulla stradina, dirigendosi verso North Mundham.
E, proprio mentre si affaccia alla prima curva, ecco sbucare a non più di cinquanta metri da lui l’auto di Callum, che procede a velocità moderata.
Si fermano entrambi, guardandosi in faccia. Callum scende per primo e se ne sta lì immobile un momento, una mano sulla portiera. Owen non capisce cosa sta facendo. Sicuramente non sta verificando se c’è spazio per passare. Si capisce benissimo anche dall’abitacolo che uno dei due dovrà fare retromarcia. Ha capito di chi è il pick-up e guarda Owen come se stesse cercando di stabilire se c’è una qualunque possibilità che si tratti semplicemente di una coincidenza. Pensa di scendere dal furgone a sua volta, ma non riesce a muoversi. Il suo corpo non risponde. Sta disperatamente cercando di farsi venire in mente una spiegazione credibile per giustificare la sua presenza lì, in una strada senza uscita, esattamente nello stesso momento in cui ci si trova Callum. Ma non gli viene in mente niente. Vuoto totale.
Dopo qualche secondo Callum si avvicina al furgone. Il finestrino è aperto. Owen vorrebbe quasi chiuderlo, ma sa che peggiorerebbe solo le cose. E adesso Callum potrebbe allungare la mano e prenderlo per la collottola come faceva sempre una volta. Una consapevolezza dolorosa. Uno dei suoi giochetti preferiti era afferrargli la cravatta e stringerla a tal punto che lui riusciva a malapena a riprendere fiato. Poi ne afferrava l’estremità, si voltava e, facendosi passare la cravatta sulla spalla, lo costringeva a camminare per il cortile, chiedendo a tutti se avessero visto il suo animaletto mongoloide. Owen aveva sempre pensato che quel termine indicasse una razza di cani, finché un giorno la madre non gli aveva aperto gli occhi e si era precipitata a scuola per lamentarsi. Di nuovo. Owen ora non ha la cravatta, ma la tagliente miscela di paura e vergogna è forte e nitida proprio come tanti anni fa – così acuta da oscurare il fatto che ormai supera il suo aguzzino di diversi centimetri e pesa almeno venti chili più di lui. Rimpiange con tutto il cuore di aver seguito Callum. Se solo potesse riportare indietro le lancette di un quarto d’ora, adesso forse starebbe ordinando la cena da KFC.
«Ti dispiacerebbe spiegarmi che ci fai qui nel bel mezzo del nulla?», chiede Callum, la testa inclinata mentre si affaccia al finestrino, gli avambracci appoggiati sulla portiera.
Owen sbatte le palpebre. Deglutisce. Sbatte di nuovo le palpebre. Di certo da qualche parte una risposta deve pur esserci.
«Ti ho fatto una domanda», dice ancora una volta Callum. Non urla e non sembra particolarmente arrabbiato. Semmai pare perplesso, ma le amare esperienze del passato suggeriscono a Owen che non gli ci vorrà molto per arrivare al limite. Può esplodere di punto in bianco. «Mi stai seguendo o cosa?».
Owen scuote la testa. Gli viene in mente un’ottima risposta: com’è possibile che lo stia seguendo se vanno in direzioni opposte? Ma è come se le parole non riuscissero a prendere forma. Non gli esce fuori nulla.
«P-Pensavo che stessi a-andando a B-B-Bournemouth», dice a un certo punto, conscio che quella, invece, non è una risposta. E di sicuro non basterà a calmare Callum, che squadra rapidamente la strada, come se fosse in grado di vedere con la mente il tragitto oltre le curve fino al cottage. Poi si volta a guardare in faccia Owen, accigliato.
«Ci sto andando», dice dopo un attimo di riflessione. «Devo solo lasciare questi documenti a casa di un cliente… non che siano affari tuoi. E tu non mi hai ancora detto cosa ci fai qui».
Alla fine nella testa di Owen si insinua un pensiero. Ed è così felice di aver riscontrato dei segnali di vita nel suo cervello che se lo lascia scappare senza analizzarlo a fondo.
«Ho appena f-fatto un salto dai B-Brady», dice. «Mi o-occupo del loro giardino».
Callum ci riflette su un momento.
«I Brady, eh? E dov’è che abitano?».
Owen sta per indicare un punto alle sue spalle, quando gli viene in mente che in quella direzione ci sono solo tre case prima della fine di Honer Lane, e una di quelle è dell’amica di Callum. Non sarebbe certo difficile verificare con lei e scoprire di chi sono le altre abitazioni, no? E così gli dice la verità.
«Vivono laggiù», risponde, indicando dritto davanti a lui, nella direzione da cui è arrivato Callum. «In Manor Lane».
«E allora cosa ci fai qua?», chiede Callum.
«Volevo… volevo s-scoprire se si può u-uscire anche da questa parte. Se m-magari c’è una strada che si r-ricollega a quella di P-Pagham. Non s-sono mai arrivato fin qui prima».
Tranne sabato sera. Liquida subito quel pensiero. Non deve tradirsi. Callum ha sempre saputo quali tasti toccare con lui, sembra che capisca istintivamente cosa gli passa per la testa. Con suo grande sgomento sente che il sangue comincia ad affluirgli alle guance e non ha bisogno di lanciare un’occhiata allo specchietto per sapere che sta arrossendo.
«Stronzate!».
Callum si allontana dal furgone, si gira a guardare l’auto un istante.
«No», dice Owen, e ormai farfuglia. «Io…».
«Credi di potermi raccontare delle balle, idiota del cazzo? Tu per mei sei un libro aperto. Da sempre. Gesù, mi stavi seguendo».
Owen scuote la testa, ma non osa dire altro.
«E invece sì. Non so come hai fatto a scoprire dove stavo andando, ma mi stavi seguendo, cazzo. Perché? L’hai già fatto altre volte?»
«N-n-no. Ti g-g-giuro che n-on ti stavo s-seguendo. Stavo…».
«Certo, lo so… hai a-a-a-appena f-f-fatto un s-s-salto dai tuoi c-c-cari a-a-amici B-B-Brady». Callum scuote la testa disgustato, guarda di nuovo l’auto. Se ne sta lì, profondamente assorto. Owen non ha idea di cosa stia pensando, ma è piuttosto sicuro che non gli piacerà scoprirlo. Sono di nuovo nel cortile, la pausa del pranzo sembra prolungarsi all’infinito e Callum è a caccia di un passatempo per ingannare la noia.
«Cazzo», dice a un certo punto. Si volta e va all’auto. Owen spera sia finita lì, che salga a bordo e aspetti pazientemente che lui raggiunga in retromarcia un punto più largo. Sarà più che lieto di farlo. No problem. Ma invece lui fa il giro dell’auto e apre il bagagliaio. Estrae qualcosa e chiude il portellone con un colpo secco. Poi torna nella sua direzione e Owen adesso lo riesce a vedere per bene: ha in mano un grosso bastone, o così sembra a prima vista, e invece no, è una mazza da baseball. Callum lo guarda, mentre lui se ne sta ancora seduto ingobbito nel pick-up e non osa muoversi. Per un attimo restano fermi tutti e due. Sembra che Callum stia valutando bene la situazione. Poi sorride, accarezza il cofano dell’auto e dice: «Mi dispiace tanto, bellezza», e poi tira indietro la mazza e assesta un colpo al faro anteriore sinistro. Si sente un tonfo secco mentre il vetro va in frantumi. Si china a controllare il danno. Poi fa il giro della macchina e mira all’altro fanale.
Nel corso di questa bizzarra sequenza di eventi Owen deve essere sceso dal furgone senza neanche accorgersene, perché all’improvviso si rende conto che sta camminando verso Callum. Non ha preso in modo consapevole la decisione di interferire, ma non capisce cosa stia succedendo e non può starsene semplicemente lì a guardarlo distruggere un’auto costosa senza una buona ragione.
Cerca di capirci qualcosa, ma tutta quella storia non ha senso. I fatti che si susseguono davanti ai suoi occhi travalicano a tal punto la sua esperienza da spaventarlo sul serio. Quando Callum si volta e si incammina verso di lui, si riscuote dallo stato di trance e fa un passo indietro. Poi altri due. Callum si ferma, solleva la mano libera.
«Ehi», dice, ridacchiando per fargli capire quanto si sta divertendo. «Calmati, ok? Cosa credi di fare?»
«Ora voglio a-andarmene», dice Owen, continuando ad arretrare a poco a poco verso il pick-up.
«E come, con la mia macchina in mezzo alla strada? Vedi di rilassarti, d’accordo? Che problema hai? È per questa? È la mazza che ti preoccupa?». La solleva e la guarda come se fosse stupito di ritrovarsela ancora in mano. «Ecco… la metto giù, d’accordo? Guarda… è a terra, vedi?». La lascia cadere ai suoi piedi e mostra a Owen le mani libere, come se questo gesto possa in qualche modo rassicurarlo. Ma non basta.
«D’accordo», ricomincia. «Hai detto che vuoi andartene. Per me va bene. Ma ho bisogno che tu mi faccia un favore, prima».
«Devo andare al cinema».
«Ho capito», scatta, irritato. «Tra trenta secondi a partire da adesso vado in retro fino a quel campo laggiù e così potrai passare con il furgone. Poi puoi andare a vedere tutti i film che vuoi. Ma prima c’è una cosa che devi fare per me».
Owen riflette.
«Vuoi un passaggio?», chiede.
Callum lo fissa per un attimo, poi scoppia a ridere; ha le lacrime agli occhi da quanto si diverte.
«Gesù, sembra di parlare con un frigorifero. No, Owen… non voglio un passaggio».
«Allora cosa vuoi?»
«Voglio che tu mi colpisca». Callum si interrompe vedendo Owen che adocchia la mazza che giace a terra. «Non con quella… e che cazzo, vuoi scherzare? L’idea è di andarmene via da qui sulle mie gambe, non di passare due settimane in terapia intensiva».
Owen lo guarda, aspettando che si rimetta a ridere, perché naturalmente è una battuta. Non è mai stato bravo con le battute. Non le ha mai capite. Solo che Callum non ride. Sembra serio.
«Vuoi che ti colpisca?»
«Sì».
«Ma perché?»
«E perché adesso tutte queste domande? Non ci pensare al perché. Voglio che tu mi colpisca… una volta sola. Mi raccomando, non troppo forte. Solo quanto basta per lasciarmi un segno».
«Non capisco».
«Non c’è niente da capire. Fallo e basta. Forza. Un pugno omaggio. Sarebbe meglio qui», dice, indicando una zona vicino al sopracciglio sinistro. «Coraggio, ragazzone. Pensa a tutte le volte che ti ho preso di mira a scuola. Avrai pur sognato qualche volta di farlo. Ecco la tua occasione. Cazzo, ce le hai le palle o no? Avanti. Un pugno solo».
Owen scuote la testa. «No».
«Che vuol dire no?»
«No. Non voglio».
Stenta a credere di averlo detto davvero, perché Callum ha ragione. Ha accarezzato tante volte ferventi fantasie da adolescente vessato: nella maggior parte dei casi Callum finiva sotto le ruote di un autobus o faceva una brutta fine perché una volta tanto aveva preso di mira la persona sbagliata. Se la stessa possibilità gli fosse stata offerta a quei tempi, avrebbe rifiutato comunque, ma solo perché sapeva che ci sarebbero state delle ripercussioni e Callum in qualche modo gliel’avrebbe fatta pagare. Ci sarebbe stata una fregatura… c’era sempre. Il fatto che ora si mostri altrettanto esitante non ha nulla a che fare con la paura… o almeno così crede. Adesso è molto più grosso. Non ama la violenza – in vita sua non è mai finito in una rissa – ma pensa che non avrebbe problemi a difendersi, in caso di necessità. No, la sua reticenza è dovuta più che altro all’incertezza. È una richiesta così ridicola. Ciò che Callum ha fatto alla sua auto è già abbastanza folle, ma nessuna persona sana di mente chiederebbe a qualcuno di prenderlo a pugni. Non ha senso. Deve esserci un trucco da qualche parte.
Callum per un attimo sembra arrabbiato. Poi sospira e si china a raccogliere la mazza.
«Avrei dovuto immaginarlo», dice. «Fighetta del cazzo. Com’è il detto? Chi fa da sé fa per tre».
Mentre lo dice protende la mazza, in posizione verticale, impugnandola con entrambe le mani. Chiude gli occhi per un secondo o due, fa un paio di respiri profondi, buttando fuori l’aria in sbuffi lunghi e regolari. Poi la fa scattare verso di sé, fermandosi all’ultimo istante. Scoppia a ridere e chiede a Owen se è sicuro di non voler dare una mano. In mancanza di una risposta, si rimette in posizione e questa volta il colpo va a buon fine, ed è abbastanza forte da farlo barcollare di lato, anche se Owen ha l’impressione che si sia tirato leggermente indietro all’ultimo momento. È probabile che il dolore sia bello intenso, e magari si gonfierà un po’, ma nulla di più.
Tornando verso l’auto Callum vacilla appena: sbircia nello specchietto laterale, poi si infila dentro per verificare meglio in quello retrovisore. «Merda», dice, giungendo probabilmente alla stessa conclusione di Owen. Nulla di che.
Scivola di nuovo fuori dalla macchina e si appoggia al cofano. Calibra il colpo per la seconda volta. Owen non riesce a trattenersi: lo implora di smetterla. Callum gli chiede se ha cambiato idea e lui scuote la testa.
«Be’… se è così…», dice Callum. E questa volta riesce ad assestare il colpo con un po’ più di convinzione. Si accascia di lato, restando chiaramente intontito per un paio di minuti, poi fa scorrere un dito sull’arcata sopraccigliare che si è spaccata, liberando un rivolo di sangue che gli cola giù sulla guancia. Impreca, getta la mazza per terra, cerca di fare qualche passo in avanti, ma non sta in equilibrio e sbanda di lato. Owen lo raggiunge e lo afferra al volo. Lo appoggia delicatamente a terra, dove resta seduto con la testa tra le mani. Poi scivola giù, il sangue che gli cola dalla ferita sopra l’occhio imbratta la maglietta di Owen, impiastricciandogliela tutta. Callum scuote la testa come per schiarirsi le idee, poi lancia un urlo che sembra anche più folle di tutto quello che ha fatto finora. Quasi come se stesse esultando.
«Ti senti bene?», chiede Owen.
Callum alza la testa e sbatte le palpebre.
«L’occhio mi si sta chiudendo? Credo di sì», mormora. Di certo c’è un bel rigonfiamento che gli sta rapidamente crescendo sopra l’occhio sinistro.
«Devi andare all’ospedale», insiste Owen. «Dovrai farti mettere i punti».
Callum ride, si appresta ad alzarsi in piedi, poi decide che è un’idea ancora un po’ troppo ambiziosa. Gli occorre un altro minuto.
«Più tardi», dice.
«Non capisco», replica Owen, come se ripeterlo possa procurargli una qualche illuminazione.
«No, certo che no. La vita per te è un enorme mistero, non è vero, ragazzone?».
Owen lo lascia lì un attimo e torna al furgone. Sul sedile anteriore c’è una bottiglia di Evian, se la mette sotto il braccio mentre rovista in cerca di uno straccio. Ne scarta due prima di trovarne uno relativamente pulito. Poi porta bottiglia e straccio a Callum, che sta controllando il cellulare, prima di richiuderlo con un gemito, frustrato.
«Merda. Non c’è campo. Da non credere».
Prende la bottiglia che gli porge Owen, svita il tappo e fa due o tre belle sorsate, poi la svuota sullo straccio. Quando è bagnato a sufficienza, si tampona esitante la ferita. La ripulisce dal sangue facendo una smorfia. Quasi immediatamente si riforma una macchia irregolare.
«Chi vuoi chiamare?», chiede Owen. «Un’ambulanza?». Sente che dovrebbe fare qualcosa di più che gironzolargli attorno. Forse sarebbe meglio raggiungere il cottage della donna? Possono telefonare da lì, no? Sarebbe il degno coronamento di una serata folle. E poi di certo non gli mancherebbero occasioni di scattare una foto.
«D’accordo», dice Callum, come se gli stesse leggendo nel pensiero. «Vuoi davvero saperlo? Stavo per chiamare la polizia».
«Perché?»
«Perché», ripete tra sé e sé, come se fosse non una domanda, ma un problema che va affrontato con serietà. «Allora, vediamo un po’ come suona, d’accordo? Agente, dovevo già essere in viaggio verso Bournemouth, quando mi sono reso conto all’ultimo minuto che avevo dimenticato di far firmare questi importanti documenti a un cliente, così sono venuto prima qui. Sono giunto a quest’altezza e poi mi sono visto arrivare questo furgone dalla direzione opposta, e io sapevo chi era, perché è il ragazzo che fa dei lavoretti di giardinaggio per noi… sa, niente di che. A essere onesti è un po’ inesperto, ma ogni tanto gli diamo qualcosa da fare, giusto per aiutarlo a restare a galla. Facciamo solo la nostra parte per la comunità, ok?».
Butta la testa all’indietro e ridacchia. Owen vede che l’occhio è ormai poco più che una fessura. Sta anche cambiando colore, con i gialli e i violetti che si infiltrano nel quadro generale.
«La comunità», ridacchia. «Mi piace. Devo ricordarmelo. Comunque, agente, scendo dalla macchina per chiedergli se può tornare indietro in retromarcia, ma sfortunatamente è di cattivo umore. Non che capiti spesso, ma, quando è così, la cosa migliore è girargli alla larga, perché, se gli salta la mosca al naso, può fare davvero il pazzo. E allora lui comincia a urlarmi contro e io cerco di calmarlo, ma lui non mi ascolta e di punto in bianco mi spintona via e con quei maledetti stivaloni dà un calcio a uno dei fari. Così urlo anch’io e cerco di impedirgli di fare lo stesso con l’altro, ma lui si gira di scatto e mi colpisce dritto all’occhio. Per un secondo o due devo aver perso i sensi, perché tutt’a un tratto sono a terra e lui si avvicina con passo pesante al furgone. E ho paura che metta in moto e si faccia strada speronando la mia macchina e facendola finire nel canale o qualcosa del genere, per avere spazio sufficiente per passare. Allora vado al bagagliaio della mia auto… e lo so che è un’idea stupida, ma ero intontito, credo. Non connettevo. Comunque, tiro fuori dal baule la mazza da baseball… la tengo solo per autodifesa, sa com’è. E… no. Forse no», dice, interrompendo il racconto. «Forse sarebbe meglio senza la mazza. Io in questo caso sono la vittima, giusto? Meglio non introdurre elementi che possono confondere le acque».
Mormora più a se stesso che a Owen, analizzando i punti salienti man mano che procede. Owen è ancora lì in piedi, ed è sbalordito.
«Ma… n-non è vero», dice. «Neanche una parola».
Callum ride.
«Merda, non ti si può proprio nascondere niente».
«Non capisco. Perché ti dovresti inventare una cosa del genere?»
«Ah, ecco», ansima Callum, piegandosi in avanti e cercando di riprendere fiato. «Questa è la parte migliore. Vedi, al momento nella vita ho due problemi principali. In realtà è una bugia. Ne ho un sacco, ma tu puoi aiutarmi solo con due di questi. Il primo è che non riesco ancora a stabilire se poco fa mi stavi seguendo o no. Se la risposta è sì, non ho idea di cosa sai o cosa sospetti, e mi piacerebbe davvero credere che sia solo un’enorme coincidenza… noi che ci incontriamo qui in questo modo… ma non credo di potermi permettere di correre il rischio. In effetti, siamo sinceri. Per me dici un sacco di stronzate. Non ti credo. Quindi ho bisogno di rimediare, ecco, di fare in modo che nessuno creda a una parola di quello che dici.
E il secondo problema è che per tre anni a scuola ho dovuto sopportare che sbavassi dietro ad Abi, comportandoti come se rappresentassi qualcosa di speciale nella sua vita, quando la dura e cruda verità, bello mio, è che lei prova solo compassione per te. Non vuole ferire i tuoi sentimenti. A me invece non me ne frega un cazzo, quindi non ho problemi a dirti ciò che penso. Sei imbarazzante. Non ti dovrebbero permettere di mescolarti con le persone normali. Nessuno ha voglia di alzare gli occhi nel bel mezzo del pranzo e vederti mentre ti impiastricci la faccia con il cibo. Nessuno ha voglia di aspettare mezz’ora che tu riesca a pronunciare una frase elementare. V-v-v-v-vaffanculo! E, quanto a me, di certo non ho voglia che tu ti faccia mantenere dal buon cuore di Abi. Pensavo che avessi recepito il messaggio ai tempi in cui ti prendevo a pedate in cortile, ma continuo a dimenticare quanto sei lento di comprendonio, quindi lascia che te lo spieghi in tutta calma. Non so come cazzo hai fatto a intrufolarti di nuovo nelle nostre vite, ma, così come sei entrato, puoi anche uscirne. Se credi anche solo per un minuto che tollererò di vederti gironzolare per casa come una specie di brutto fantasma, allora è ovvio che non mi conosci molto bene».
Appoggia un momento la testa al cofano. Owen è scioccato. Se ne sta lì in piedi a bocca aperta, cercando di incamerare tutto. Si chiede cosa deve fare, ma riesce a pensare solo ad Abi. Che dirà lei di tutto questo?
«Non puoi farlo», protesta. «Io d-dirò alla polizia cos’è successo davvero».
«Sì, bene, allora in b-b-bocca al l-lupo», lo imita Callum. «Agente, sta mentendo. Io non l’ho colpito. È stato lui a fare a pezzi la sua auto e a colpirsi in faccia con una m-mazza da b-baseball. Io mi sono limitato a guardare. Cazzo, fa male», aggiunge, tamponandosi con delicatezza la ferita ancora una volta.
«È la verità», dice Owen e sente l’esasperazione montargli dentro. Callum non la farà franca indisturbato.
«E chi lo dice? È solo la mia parola contro la tua. Secondo te chi è il più convincente tra noi due? Un imprenditore di successo in grado di esprimersi in modo forbito – imprenditore… cazzo, ho trovato una parola che fa per te. Quanto tempo ci metteresti a dirla? Un uomo d’affari di successo che non ha nessun motivo di mentire o un idiota maldestro che non sa dire due parole una dietro l’altra senza b-b-balbettare? Lo vuoi un consiglio? Faresti bene a ripulire per bene la tua versione dei fatti. Così com’è ha troppe magagne. Pensi che qualcuno ti crederà quando dirai perché sei qui? Se andiamo a bussare alla porta del signor e della signora Dooberry o come diavolo si chiamano e chiediamo se sei passato da loro questa sera, credi che confermeranno? Io no. Per come la vedo io, c’è un’unica ragione per cui puoi esserti spinto fin qui: volevi cogliere al volo una buona occasione per picchiarmi a sangue. Se credi che, quando avrò finito, qualcuno la penserà diversamente, ti sbagli di grosso. Oh Cristo», geme, voltando la testa disgustato. «Non ti starai mettendo a piangere, vero?».
E invece sì. Riesce a sentire le lacrime bruciargli gli occhi. Per lui è troppo. Sa che Callum ha ragione. Non è mai stato bravo a spiegarsi. Nessuno gli crederà. Si sente smarrito e percepisce che il dondolio incombe. Da un momento all’altro comincerà a oscillare avanti e indietro. E Callum avrà un altro motivo per ridere di lui.
Allora? Cosa pensi di fare?, chiede Willie, che è sbucato fuori dal nulla. Willie, che ha l’abitudine di lasciarlo solo a sbrigare i dolorosi preliminari per poi intervenire all’ultimo minuto per prendersi tutti i meriti.
«Non so».
Sì che lo sai.
Sta guardando la mazza, che è ancora per terra accanto a Callum.
«Non posso farlo», dice Owen.
«Con chi cazzo stai parlando?», chiede Callum, cercando di alzarsi.
Sì che puoi. Te l’ha chiesto lui di colpirlo, ricordi? È stata una sua idea.
Owen guarda Callum allungare la mano per raccogliere la mazza. Sa che non può lasciarglielo fare. Si fa avanti e ci pianta sopra un piede, intrappolandoci sotto le dita di Callum, strappandogli una specie di guaito. È un suono bizzarro, stridulo. Quasi da ragazzina.
Avanti, dice Willie. Hai sentito che ti ha detto, no?
Tutt’a un tratto inizia a piovere. Non ancora forte, ma sulla sua faccia rivolta all’insù cominciano a cadere i primi goccioloni e sa che il peggio deve ancora venire. La mattina ha ascoltato le previsioni del tempo, dicevano che ci sarebbero stati rovesci intensi, forse anche un paio di temporali.
Willie comincia a preoccuparsi.
E se qualcuno decidesse di andare a fare una passeggiata a Pagham Harbour?
«Willie, sta piovendo».
La gente non cammina sotto l’acqua? E se qualcuno che abita in una di quelle tre case ha in programma di andare a Chichester per la serata? Cosa pensi di fare se qualcuno capita qui prima che tu abbia sistemato tutto? Una bella bastonata anche a loro?
Ha fatto la lista delle cose che Owen deve fare. E in tempo record. Willie è bravo con le liste – nulla di scritto, ma pare che non dimentichi mai niente.
Numero 1: toglilo dalla strada e rimettilo in macchina.
Facile. Trascina Callum dal lato del passeggero, apre la portiera posteriore e lo getta sul sedile. Sente un forte tonfo quando la testa picchia sulla portiera e un braccio ricade pesantemente per un riflesso involontario, ma la cosa non lo impensierisce. Sa che non dovrà preoccuparsi mai più di Callum. Basta guardargli la faccia per capirlo. È andato. Sbatte la portiera, ma quella si riapre perché c’è di mezzo il piede. Allunga una mano e gli piega il ginocchio per far spazio per la gamba, poi chiude di nuovo.
Numero 2: sposta l’auto dalla strada e mettila dove nessuno può vederla.
Owen ricorda il campo dove ha nascosto il pick-up. Sarebbe perfetto, ma c’è di mezzo il furgone. Allora si siede al volante dell’auto sportiva di Callum, gira la chiave, che è ancora inserita nel quadro, ma, nel momento in cui cerca di farla andare in retromarcia, non riesce a evitare che si spenga. La frizione è spietata, ben diversa da quella del furgone.
Ci riprova e fa la strada in retromarcia, il più velocemente possibile, con la macchina che procede sobbalzando, come se soffrisse dell’equivalente meccanico della sindrome di Tourette. Calcola le distanze con grande attenzione, non vuole scivolare in un fosso. Quello sarebbe un problema. È consapevole dell’eventualità che qualche altro veicolo possa passare di lì, ma non ha paura. Sente invece una strana risolutezza, un senso di calma interiore che non ricorda di aver mai provato prima. Non ha senso agitarsi per cose che sono al di fuori del proprio controllo. E in ogni caso Willie sa cosa sta facendo.
A un certo punto trova un campo che è praticamente perfetto. Nessun cancello, siepi alte e un’area circondata da balle di fieno e strani pezzi di macchinari. Ci entra con l’auto e fa un tentativo simbolico di nasconderla con dei rami sparsi lì attorno, pur sapendo che non ha abbastanza tempo per fare un bel lavoro. Deve passare alla voce successiva della lista.
Numero 3: liberati di quei vestiti.
Su questo non è sicuro, ma deve fidarsi dell’istinto di Willie. C’è quella macchia di sangue sul davanti della maglietta, se l’è fatta quando ha tentato di attutire la caduta di Callum. Non può permettersi che qualcuno lo veda in questo stato. Nel furgone ha la tuta da lavoro. Si slaccia rapidamente gli stivali e se li sfila, così può togliersi i jeans. Poi si leva anche la maglietta e indossa la tuta. Willie vuole che per il momento nasconda i vestiti. Uno dei sacchi di compost sul retro. Si arrampica sul furgone, prende un sacco, rovescia un po’ del contenuto. Poi ci infila dentro i jeans e la maglietta e ci butta sopra una quantità di compost sufficiente a nasconderli. È seccato, e non poco, per questa cosa. Non tanto per i jeans, quanto per la maglietta, una delle sue preferite. Sul davanti ha un’immagine del molo di Bognor e sul retro la scritta: «Mia madre è andata in vacanza a Bognor e mi ha portato solo questa maglietta schifosa». L’ha comprata un paio di anni fa a un mercatino dell’usato a Fontwell. È una battuta – qualche volta lo fa ancora sorridere quando la mette. Ma Willie insiste, quindi via nel sacco. Poi ne apre un altro e fa lo stesso con la mazza. Non può lasciarla lì nei paraggi. In un secondo momento, spiega Willie, potrà sbarazzarsi della mazza e dei vestiti. Farne un falò. Per il momento ciò che conta è passare al punto successivo.
Numero 4: vattene via.
L’orologio dice che sono ancora solo le 20,32. Difficile credere che tante cose possano essere accadute in un così breve lasso di tempo, ma è la verità, e finora è stato fortunato. Nessuno è andato a farsi una passeggiata. Nessuno ha deciso di passare la serata fuori. Ma il grande lavoro degli ultimi minuti sarà inutile se attirerà l’attenzione su di sé in qualunque modo. La luce si affievolisce progressivamente, soprattutto ora che nuvole rigonfie di pioggia sono proprio sopra la sua testa. Di solito non accenderebbe le luci di posizione, non ancora, e invece adesso lo fa. Non vuole incrociare qualche auto della polizia troppo puntigliosa. Viaggia dieci chilometri sotto il limite di velocità. Gli abitanti del posto non devono avere nessuna ragione per notare il suo veicolo. Guida con la massima attenzione. E, quando la strada alla fine si allarga in una via a doppio senso, si volta verso Willie e sorride. Ormai dovrebbero essere al sicuro. C’è ancora molto da fare, ma dovrebbero essere salvi.
Numero 5: andare al Cineworld.
Deve ritirare il biglietto e andare a vedere il film. Willie non capisce perché mai qualcuno dovrebbe chiedergli dov’era quella sera, ma non costa nulla procurarsi per sicurezza un bell’alibi. Ormai è troppo tardi per la cena da KFC, ma farà in tempo a prendere i popcorn. Una porzione grande anziché la solita media. Con la tuta si sente un po’ in imbarazzo; si chiede se darà nell’occhio. Ma deve solo ritirare il biglietto dalla macchinetta e in men che non si dica sarà dentro al buio. Lì nessuno potrà vederlo.
Decide che si godrà il film. Ha proprio bisogno di distrarsi un po’.
Finisce tardi e, nonostante i popcorn, quando esce sotto il diluvio universale è pronto per un vero pasto. KFC ha chiuso qualche minuto fa, così prende un takeaway da Masala Gate e si dirige verso casa, con i tergicristalli che possono ben poco contro il muro d’acqua che scivola giù lungo il parabrezza. Fa una deviazione verso la zona industriale di Southern Cross e brucia i vestiti in un grosso barile dietro a un garage, usando la benzina per ravvivarlo mentre la pioggia scende a secchiate. Resta lì finché non è sicuro che tutto sia andato come doveva. Poi lascia che le fiamme si estinguano sopra gli ultimi brandelli di stracci.
A casa scalda la cena nel microonde, sgranocchiando nel frattempo un poppadom omaggio. Poi si porta la cena nella veranda e mangia con il vassoio appoggiato sulle gambe. Pensa ai due piccoli gesti di ribellione che ha commesso stasera. Gesti di cui è segretamente soddisfatto, ma che a Willie non sono piaciuti mica tanto. Ha dovuto sorbirsi le sue lamentele per tutto il tragitto verso casa. Secondo lui già solo il fatto che ci abbia pensato dimostra che è un idiota, ma Willie non sa tutto. Stasera è stato davvero utile, e sinceramente Owen non sa cosa avrebbe fatto senza di lui. Ma, anche se è sempre stato uno che pensa in fretta, non è furbo quanto crede. Neanche per sogno.
Owen ha ceduto quasi su tutto, inclusa la decisione di bruciare la sua maglietta preferita, ma su due cose ha puntato i piedi. Willie può frignare quanto vuole su quanto sia pericoloso tenerle, ma lui non ha intenzione di cambiare idea. Le terrà.
La mazza avrà bisogno di un po’ di lavoro. Dovrà strofinarla bene per ripulirla, forse addirittura piallarla un po’, per assicurarsi che non resti alcuna traccia. È ammaccata qua e là, ma è logico: è una mazza da baseball. Negli anni deve per forza aver preso qualche colpo. Ma ci si dedicherà con cura, la pulirà, la renderà liscia, la strofinerà un sacco di volte con olio di lino, finché non sarà sicura, garantita al cento per cento. E anche allora troverà un posto dove tenerla, un posto che non gli darà problemi. Perché non si sa mai. Si sentono dire cose incredibili su cosa riesce a fare oggi la Scientifica. Troverà un modo per assicurarsi che non possano mai collegarla a lui.
Ma sicuramente non ha intenzione di bruciarla. L’ha capito dal momento in cui ha intravisto il logo, riprodotto in blu proprio sotto l’impugnatura. Una K con una C più piccola unita al tratto discendente della K: entrambe maiuscole. E sotto il numero sessantanove: KC 69. Ha fatto una ricerca su Google e ha scoperto che KC sta per Kansas City. È una squadra di baseball della Major League. Il numero indica l’anno in cui la società è stata fondata e ha ricevuto l’autorizzazione a entrare a far parte dell’American League.
Sei, nove, sessantanove: tutti multipli di tre. Sicuri.
Come può pensare Willie che abbia intenzione di bruciarla?
Non accadrà.
E poi c’è il pacchetto che ha trovato sul sedile anteriore dell’auto di Callum prima di mollarla. Willie non è per niente contento della cosa. Dice che a un certo punto la sua imprudenza gli presenterà il conto, ma il suo è solo panico. Fa sempre così quando sente che la sua posizione rispetto a Owen viene minacciata. Ma, nel momento in cui l’ha aperto e ha visto all’interno la collana, ha capito subito cosa farne. L’ha capito e basta.
C’era una H maiuscola sulla carta da regalo e, anche se non sa come si chiama lei, è certo di sapere a chi era destinata. Be’, peccato. Lei non ci metterà mai le mani sopra. Callum era sposato. Se proprio ci teneva a comprare regali costosi, avrebbe dovuto farli ad Abi, non a quell’altra donna. E infatti sarà Abi ad averla. Il suo compleanno è alle porte. Mancano poco più di quindici giorni. Le farà un regalo, qualcosa che le faccia capire quanto è importante per lui. Com’è felice che si siano ritrovati dopo tanti anni!
Naturalmente non è stato lui a comprarla, il che rende la cosa un po’ una bugia, ma non si lascerà condizionare da così poco. Ricorda quanto gli riusciva difficile dire bugie quand’era piccolo, ma con il passare degli anni ha imparato che a volte si può fare. Anzi, a volte è la cosa giusta. L’ha imparato quel giorno di tanti anni fa. Ricorda sua madre che lo stringeva forte sussurrandogli ancora e ancora: «Non eri nella casetta sull’albero. Eri in cucina con me. Ci stavamo esercitando a leggere. Allora, dov’eri?». E così per tutto il tempo in cui avevano atteso l’arrivo dell’ambulanza. E poi per l’intero tragitto verso l’ospedale. Gliel’ha fatto ripetere finché non l’ha imparato a memoria.
Quindi sa che a volte si può mentire. Persino ad Abi.
E potrebbe anche abituarcisi.
Dovrà farlo molto più spesso, finché la cosa non finirà nel dimenticatoio.