7.
Gli scenari degli anni 2000

1. Il silenzio sulla mafia.
La nuova tendenza del quadro normativo

Dopo la torbida stagione delle trattative, nella seconda metà degli anni ’90 si verifica progressivamente un mutamento profondo nello stato dell’azione di contrasto a Cosa nostra. Mentre si intensifica il fragore delle insinuazioni e delle accuse contro i magistrati della Procura di Palermo1, comincia a scendere il silenzio sulla mafia, che cessa di essere un’emergenza (tant’è che figura in proclami più o meno retorici, ma di fatto sparisce dalle “agende”).

In particolare sembra fermarsi quel processo di ricerca della verità che aveva ricevuto un contributo importante dalle rivelazioni dei collaboratori di giustizia. Non una novità per i pentiti, anzi un problema dibattuto da sempre. Falcone, forte della sua esperienza “sul campo”, avrebbe voluto una legge sui pentiti che incentivasse le collaborazioni, ma non c’era verso di ottenerla. Tanto da spingerlo a sospettare che questa ostilità verso i pentiti nascesse dal fatto “che in realtà non si [volesse] far luce sui troppi, inquietanti misteri di matrice politico-mafiosa per evitare di rimanervi coinvolti”2, posto che “una delle cause principali, se non la principale, dell’attuale strapotere della criminalità mafiosa risiede negli inquietanti suoi rapporti col mondo della politica”. Considerazioni che consentono di vedere con nettezza, anche dietro la questione dei pentiti, l’incombere costante del poli-partito: in questo caso per... legittima difesa, interfacciata da un chiaro conflitto di interessi.

Tornando alla seconda metà degli anni ’90, è un fatto che vengono realizzate riforme legislative che rendono più difficile l’accertamento delle responsabilità per i reati di mafia. Una evoluzione del quadro normativo specifico (almeno in alcune parti significative)3, che per un incredibile e atroce paradosso appare in “controtendenza” rispetto ai fatti criminali gravissimi che hanno insanguinato il Paese e ai successi ottenuti nell’azione di contrasto.

Questa “controtendenza” – nella versione “ufficiale” di una parte consistente (praticamente maggioritaria) della classe politica – sarebbe giustificata da un problema di asserito “riequilibrio” fra politica e magistratura, dopo il dissolvimento della classe dirigente della Prima Repubblica provocato dalle inchieste a tutto campo di “Tangentopoli” e di “Mafiopoli”. Inchieste a causa delle quali la magistratura, dal 1992 in poi, si trova a svolgere – soprattutto sui fronti della corruzione politico-amministrativa e delle collusioni tra mafia e politica – un ruolo e un’attività senza precedenti nella storia del Paese; subito contestati dai benpensanti come “supplenza” o “invasione di campo”, mentre si tratta in realtà di interventi in (o necessitati da) latitanza della politica, con conseguente delega alle forze dell’ordine e alla magistratura di un problema che essa avrebbe dovuto prima di ogni altro affrontare. L’ennesima dichiarazione di non (troppa) belligeranza – se non proprio un sintomo di... amorosi sensi – fra la politica e le altre facce del poli-partito.

Naturalmente gli atteggiamenti sono molto diversi. Per alcuni il “riequilibrio” si pone come problema di “razionalizzazione” del sistema, per dare una esatta collocazione all’attività giudiziaria nel mondo istituzionale. Altri invece (e non pochi) sembrano piuttosto ispirati da intenti di “restaurazione” dei tradizionali modelli burocratici di intervento dell’autorità giudiziaria, con lo scopo (mai esplicitato ma di per sé evidente) di ridurre l’indipendenza della magistratura, specie se “troppo” indipendente. Facile intravedere in ogni caso forme di indulgenza (inconsapevole? miope?) o di alleanza con le altre componenti del poli-partito: un convitato di pietra della situazione.

Anche perché – a ben vedere – la questione è complicata dalla presenza di interessi forti d’ogni tipo (economico, politico e criminale), accomunati dal tentativo di bloccare il processo di rinnovamento e di far ritornare indietro l’orologio della storia. Un percorso che indirettamente sfocia, appunto, nel tema del poli-partito.

2. La nuova politica di Cosa nostra.
Il “patto di coesistenza” con lo Stato

La somma di una legislazione insufficiente più le furibonde e pretestuose polemiche sul pentitismo ha come risultato meno pentiti. Meno pentiti significa meno informazioni sulla mafia. Sono due semplici sillogismi. A volte però il diavolo (absit iniuria verbis... in questo caso la politica) fa le pentole ma non i coperchi.

Dai pentiti, infatti, si passa alle intercettazioni, che di anno in anno diventano lo strumento principale (soprattutto quelle “ambientali”) per arrivare a risultati concreti nelle indagini di mafia, in quanto strumento che più di ogni altro consente di penetrare nei segreti di Cosa nostra. Così come delicato e importante si è rivelato l’esame attento dei “tabulati” attraverso i quali è possibile individuare rapporti e contatti, sui quali poi lavorare a fondo dal punto di vista investigativo.

Nel contempo gli strumenti di controllo si sono sempre più raffinati e quindi la possibilità di accertare notizie prima tenute nascoste è notevolmente aumentata. Anche se i criminali via via si sono a loro volta aggiornati, ricorrendo spesso alle cosiddette “disinfestazioni ambientali” per trovare eventuali microspie installate segretamente a fini investigativi.

Nel merito, l’intercettazione può risultare ancor più probante della dichiarazione di un collaboratore, che è pur sempre una testimonianza talvolta indiretta, qualcosa che viene riferito e che ha bisogno di più di un riscontro. Mentre l’intercettazione è diretta, quasi una involontaria confessione, che si può subito esibire in un qualsiasi processo. Va peraltro detto che la testimonianza di un collaboratore riesce spesso a fornire informazioni non solo su fatti specifici, ma perfino sul contesto nel quale la storia si è svolta. Mentre all’intercettazione manca di solito una visione d’insieme, assai importante per il sostegno dell’impianto investigativo. Ma è un difetto che poco toglie all’incisività dello strumento. Si delinea dunque un nuovo contesto, al quale Cosa nostra si “adegua”. Vale a dire che le azioni di contrasto della magistratura e delle forze di Polizia modificano gli equilibri di potere interni e la politica delle “relazioni esterne” dell’organizzazione, determinando nuove trasformazioni e l’evoluzione della sua effettiva “costituzione materiale”.

Proprio in questo capitolo (che prova a rispondere alla domanda: “Quale Cosa nostra dopo le stragi?”) risalterà l’importanza delle intercettazioni. Ne utilizzeremo infatti alcune di portata probatoria decisiva, riprodotte in vari provvedimenti della Procura e del giudice per le indagini preliminari di Palermo4. Su di un piano di carattere generale, dopo la fase “emergenziale” dovuta alla cattura di Leoluca Bagarella (24 giugno 1995) e di Giovanni Brusca (20 maggio 1996), il vertice di Cosa nostra inizia ad attuare concretamente un complesso progetto di “ricostruzione” del suo assetto organizzativo, nel quale confluiscono via via le varie componenti storiche dell’associazione. Al centro del progetto vi è Bernardo Provenzano5 che coagula attorno a sé un ristretto vertice, allo scopo di realizzare una transizione dalla fase “emergenziale” a una fase di restaurazione della struttura organica di Cosa nostra. L’obiettivo primario è restituire a un vertice ordinato e coeso la competenza di gestire una “politica generale” dell’organizzazione mafiosa, sia per la soluzione dei problemi interni, sia per i rapporti con la società, l’economia, le istituzioni. Il progetto di ricostruzione e restaurazione prosegue e si consolida negli anni successivi, secondo alcuni precisi moduli operativi.

Innanzitutto il recupero – nel reclutamento – della valorizzazione dei legami di sangue, dell’appartenenza a famiglie storicamente inserite nell’organizzazione. Poi, il rafforzamento del radicamento nel territorio, mediante un capillare controllo di ogni attività economica, legale e illegale.

Ancora più importante, il “trattamento politico” dei collaboratori di giustizia. Cosa nostra – preso atto della vastità del fenomeno nel periodo 1992-96 – adotta una strategia volta a neutralizzarne gli effetti (e a prevenire ulteriori collaborazioni) mediante un “trattamento politicamente adeguato”, sostituendo al metodo della violenza e del terrore quello della corruzione e delle lusinghe. In una parola, il metodo del “figliol prodigo”, con cui Cosa nostra invia ai collaboratori segnali di “persuasione”, che prevalgono facilmente di fronte ai paradossali segnali di “dissuasione” che provengono dallo Stato6.

Per quanto riguarda gli obiettivi di “politica generale” dell’organizzazione, e in senso più ampio della cosiddetta “borghesia mafiosa”, essi si possono sintetizzare in una politica di “mediazione” all’interno e di “coesistenza” con l’esterno, passando per una strategia di “inabissamento” e di “mimetizzazione” (che consiste nell’evitare azioni delittuose tali da destare allarme sociale e provocare una nuova ondata di reazione e di repressione).

Per passare a profili più specifici, varie intercettazioni convergono7 verso un’evoluzione dell’organizzazione caratterizzata da un interesse sempre più spiccato per gli “affari” economici e per il mondo dell’imprenditoria: vuoi con la sistematica interferenza nell’aggiudicazione e gestione dei lavori pubblici (per le quali vengono mantenuti e consolidati i rapporti con politici e amministratori), vuoi con la diffusione della figura dell’“imprenditore mafioso”, il quale (oltre ad aggiudicarsi i lavori) esercita una diffusa e generalizzata azione di imposizione di forniture e servizi in regime di tendenziale monopolio su interi settori di mercato, anche se di minore rilevanza economica.

Una intercettazione di speciale rilievo8 riguarda un colloquio estremamente confidenziale fra (e con riferimenti a) personaggi di primo piano dell’associazione mafiosa. L’ascolto offre uno spaccato fedele dello “stato” dell’organizzazione. Le questioni più dibattute si possono così riassumere: le “cose sono cambiate”; “si è rotto il giocattolo”; “c’è stata una situazione di stallo”. Provenzano esprime dubbi sulla possibilità di “rimettere in piedi il giocattolo”, se non gli “arrivano indicazioni dal carcere”, perché altrimenti dovrebbe “andare contro” Riina e Bagarella. Non si può avallare e condividere tutto quello che è stato fatto nel passato, perché nel passato “sono state fatte cose giuste e cose sbagliate”, anche “cose tinti assai” (molto cattive, discutibili); ci sono “lamentele” da parte di chi vorrebbe pure “riorganizzare”, ma senza essere costretto a “fare il quadro” (nel senso di “icona”, immagine sacra) degli errori del passato.

In sostanza, dall’intercettazione emerge l’immagine di una Cosa nostra – quella diretta da Provenzano – pienamente operativa, gestita in modo verticistico, il cui gruppo dirigente sta metabolizzando le conseguenze delle “scelte sbagliate” del passato e punta alla ricucitura di vecchi strappi, per poter rimettere il “giocattolo in piedi” attraverso una sorta di “convivenza” con lo Stato: si tratta della scelta più utile per la sopravvivenza e il rafforzamento dell’organizzazione, condizione essenziale di espansione e prosperità. Si potrebbe dire che alla sua porzione di poli-partito Cosa nostra fa una specie di “tagliando”, perché la sua corsa possa riprendere.

Ma c’è chi “il quadro” lo fa, ad esempio il figlio di Riina, Giuseppe Salvatore9, che in una intercettazione10 esalta il padre come uno degli “uomini che hanno fatto la storia della Sicilia”, perseguendo la “linea dura” e “pagandone le conseguenze”; che se non fosse stato arrestato (“si ò Statu un ciavissi fattu calari i corna”), “le corna” allo Stato gliele avrebbero fatte calare loro. Se c’è “chi è da fuori [là fuori: N.d.A.] dice minchia, sbagliarono”, Salvo Riina risponde che non è vero, perché “noi le corna gliele facevamo”. E prosegue criticando Provenzano (“non ha avuto il fegato di portare avanti” la linea dura11) e la debolezza dei “palermitani”, incapaci di sopportare il 41 bis, a differenza del padre e dello zio Leoluca Bagarella.

Nelle intercettazioni ricorre spesso il complesso tema dei rapporti fra i mafiosi ancora in libertà e quelli detenuti: la raccomandazione è che “i nostri in carcere li dobbiamo cercare in qualunque maniera di accontentarli... di portargli il più rispetto possibile... anche se sono sbagliate [le cose] che hanno combinato e te lo dicono in maniera arrogante”. Per parte loro i detenuti lanciano segnali, anche all’esterno, di inquietudine e insofferenza.

Mafiosi di rango criminale elevato12, nel corso di una udienza del processo “Borsellino ter” davanti alla Corte di assise di Caltanissetta, comunicano di avere intrapreso uno sciopero della fame per protestare contro le condizioni disumane del regime carcerario speciale cui sono sottoposti.

Leoluca Bagarella13, collegato in videoconferenza dal carcere de L’Aquila con la Corte di assise di Trapani, legge “a nome di tutti gli altri imputati” una lunga dichiarazione contro il 41 bis. Nel contesto di questa dichiarazione afferma testualmente: “Noi detenuti a L’Aquila con il regime 41 bis siamo stanchi di essere umiliati, strumentalizzati, vessati ed usati come merce di scambio dalle varie forze politiche”. Secondo Bagarella, i detenuti sarebbero stati “presi in giro”, e “le promesse non [...] mantenute”.

Pietro Aglieri14, in una lettera, chiede “un ampio confronto tra detenuti [...] per trovare soluzioni intelligenti e concrete che producano dei frutti positivi”. Una iniziativa ben lungi dal poter essere interpretata come una sorta di resa o una manifestazione di debolezza dei boss mafiosi detenuti. Si presentava piuttosto come un adeguamento alle pressanti istanze di garantismo che stavano diventando la “specializzazione” di molte forze politiche, ma era un adeguamento strumentalmente finalizzato all’allentamento della pressione investigativo-giudiziaria e, soprattutto, all’emanazione di nuove norme che consentissero, anche ai condannati in via definitiva al carcere a vita, di nutrire qualche speranza di revisione dei processi.

A tali segnali corrisponde oggettivamente il periodico riemergere di iniziative favorevoli a un riconoscimento dell’istituto della “dissociazione”, una pedina fondamentale della scacchiera su cui ancora oggi gioca il gruppo dirigente dell’organizzazione. Il riconoscimento legale della “dissociazione”, infatti, consentirebbe di sanare, all’interno di Cosa nostra, la ferita ancora aperta sulla sorte dei boss condannati all’ergastolo, con la prospettiva di salvare i propri beni, di intravedere una via d’uscita dal carcere e di acquisire nuovamente il proprio ruolo nell’organizzazione. In altri termini, un progetto funzionale al riconsolidamento di Cosa nostra15. Per il poli-partito, una specie di sanatoria con la rimpatriata di vecchi amici.

3. Le relazioni con la politica raccontate
dalle intercettazioni ambientali

Quali sono, in questo periodo, le “aspettative” (lato sensu politiche) di Cosa nostra? Pure in questo caso, di particolare interesse si sono rivelate alcune conversazioni intercettate nell’ambito delle indagini finalizzate alla ricerca di Bernardo Provenzano16. Esse si svolgono tra alcuni fidati fiancheggiatori del capo di Cosa nostra, ed evidenziano un particolare impegno profuso in favore della candidatura dell’onorevole Marcello Dell’Utri in occasione della competizione elettorale del 13 giugno 1999 per la nomina dei parlamentari europei. È evidente che non si tratta di una libera scelta di ordine ideale-politico, ma di una direttiva impartita “altrove”, per fini dichiarati ed espliciti: garantire l’immunità di Dell’Utri da conseguenze giudiziarie, e proprio con riferimento al processo che allora lo vedeva imputato innanzi al Tribunale di Palermo per il reato di concorso esterno in associazione mafiosa.

I “concetti” che le intercettazioni17 rivelano sono ben chiari fin dall’approccio: “per chi devi votare tu?... per il Polo voto io... e allora daglielo a Dell’Utri il voto... io siciliano sono come lo è lui... già questo era scontato”; “dobbiamo portare a Dell’Utri”, perché altrimenti “lo fottono”, e se invece viene eletto “non lo tocca più nessuno”. Eventuali incertezze o riserve vanno accantonate: “onestamente non è che glielo voglio dare a lui onestamente... io glielo do, perché c’è un impegno per ora, perché lo vogliono fottere”; e poi “è sempre bersagliato [perché] la Camera ha detto no... pungono sempre minchia questi pezzi di cornuti”; “si sta lavorando compare... ci dobbiamo dare aiuto a Dell’Utri... perché se no, questi sbirri non gli danno pace”; “questo si deve portare in Europa... qua già si stanno girando le persone”. Si sollecita esplicitamente sostegno elettorale in favore di Dell’Utri: “diglielo che ci votiamo... che prendiamo qualche cosa... il presidente ‘i tascia’ [fonetico; incomprensibile: N.d.A.]... perché lui fa il capo, il capo zona e gli dicono: presidente, tu che ci hai fatto prendere duemila voti... lui ha ancora tutti i voti di Ciancimino”.

In altre conversazioni assai interessanti18 gli interlocutori fanno riferimento alle (allora prossime) elezioni politiche del 13 maggio 200119, intrecciando le loro valutazioni al riguardo con una incontenibile ostilità verso l’odiata magistratura, con prese di posizione sull’andamento dei processi e con duri attacchi alla politica del governo in tema di giustizia.

Ecco un breve catalogo delle frasi memorabili in tema di prossime elezioni. Punto di partenza è che si confida nel fatto che “poi cambia tutta la situazione politica”, “ci sono le elezioni”, “ce n’è ancora cose”. Andrà meglio dopo il voto: “da giugno in poi”. E si commenta quel che accadrà con le prossime elezioni, sottolineando (così soprattutto il devoto figlio di Riina) che, anche se c’è qualche problema a Palermo, “la cosa importante è che non salgano più i Soviet” a Roma; perché “Minchia, quelli se ne devono andare a fare in culo che in Italia la gente ne ha la minchia piena”. L’importante è che “il pesce si smonta dalla testa”, dopo di che non si dovranno più sopportare certi giudici che “stanno ammazzando a tutti fino a quando c’è questo governo... Allora, non passa un processo dalla Corte D’Appello che non ti conferma le condanne... Allora, primo grado assoluzione, stanno ‘cafuddando’ [colpendo con forza: N.d.A.] a tutti nei secondi gradi, vedi che mentalità che c’è, perché devono chiudere i processi... prima che cade il governo”. Come si vede, si sprecano i commenti rabbiosi contro la condotta dei magistrati (altri esempi: “Il P.M. ha richiesto l’ergastolo, quel figlio di cornuto”; “Minchia, sullo strapotere di merda che hanno loro... Te lo giuro, mi schifio a essere giudicato da quattro merde”, “Diu ’nni scansa”).

Rabbia anche per il metodo seguito nella valutazione delle accuse dei pentiti, che sono valide per gli “uomini d’onore” e non bastano invece per Berlusconi e per Andreotti (chiede il figlio di Riina: “ma me lo vuoi spiegare sto fatto perché... i pentiti, ora per Berlusconi, per Andreotti, per ‘ù sbirru’ non sono valevoli, e per qua sono valevoli? Cioè, su quale base si basano loro, va?”). In ogni caso, i vertici dell’organizzazione, come era già avvenuto nella seconda metà degli anni ’80 in relazione al maxiprocesso, anche ora considerano centrale il “problema” dei processi.

Ovviamente nelle conversazioni intercettate trova largo spazio pure la “normalità”, nel senso di quel “tran tran” ordinario che anche un’organizzazione criminale deve amministrare nel quotidiano. Ecco allora informazioni e discussioni sull’evoluzione degli organigrammi di importanti famiglie mafiose, la programmazione della turbativa di numerose gare d’appalto, la costituzione di società al fine di reinvestire capitali provenienti da attività illecite, il condizionamento da parte dei mafiosi (uti domini) della vita e dell’attività di imprese assegnatarie di importanti lavori pubblici; mentre, al tempo stesso, si discute di minacce a imprenditori riottosi, di danneggiamenti e di estorsioni o si cercano contatti con esponenti politici.

Di eccezionale interesse si sono rivelate le intercettazioni ambientali eseguite nell’ambito di un’altra inchiesta della Procura di Palermo contro Giuseppe Guttadauro e altri 45 indagati20. Oltre allo spessore criminale di Guttadauro (colto nel pieno esercizio del suo ruolo di capo del mandamento), emergono con vigore plastico gli interna corporis del mandamento di Brancaccio, una delle più potenti articolazioni metropolitane di Cosa nostra.

Con frequenza quasi quotidiana, Guttadauro riceve nella sua abitazione un suo uomo di fiducia, reggente della famiglia di Roccella, al quale impartisce le disposizioni riguardanti gli affari criminali del mandamento: l’esercizio dell’attività estorsiva, la gestione della cosiddetta “cassa”, l’assistenza economica a favore dei mafiosi detenuti e delle loro famiglie, il reclutamento dei nuovi affiliati, il reperimento e la custodia di armi, la neutralizzazione di collaborazioni in atto con la magistratura, nonché i rapporti e i contatti con gli altri capi-decina. La routine del capo mafia...

L’abitazione di Guttadauro è anche meta di soggetti appartenenti ad altri mandamenti (un vero e proprio gotha mafioso21), i quali si recano da lui per risolvere questioni specifiche riguardanti i gruppi criminali di appartenenza, oppure per risolvere contrasti insorti con esponenti di altre articolazioni di Cosa nostra. In particolare, per stabilire con esattezza il limite territoriale che divide i mandamenti mafiosi al fine di decidere a chi esattamente spetti la “competenza” sulle tangenti da richiedere a una azienda ubicata sul confine.

In sintesi, le conversazioni intercettate all’interno dell’abitazione di Guttadauro costituiscono un documento eccezionale non solo da un punto di vista probatorio ma addirittura “culturale” e storico, perché forniscono una rappresentazione autentica e diretta delle fasi ideative, decisionali e organizzative connesse con l’esercizio quotidiano della forza di intimidazione della mafia sul territorio. Oltre a rivelare fatti e rapporti che vanno oltre l’ambito dell’articolazione territoriale di Brancaccio e che investono direttamente il cuore e il centro decisionale di tutta Cosa nostra.

4. Quali prospettive di successo ha questa politica
di Cosa nostra?

La routine, che rende anche uno spietato mafioso un travet (del crimine), si mescola con le preoccupazioni, vere spine nel fianco, che travagliano l’organizzazione. A fronte di qualche risultato, molte aspettative di Cosa nostra, quelle che si potrebbero definire delle “costanti”, restano insoddisfatte.

Si era, ad esempio, attenuato il “problema” dei pentiti, per il progressivo depotenziamento della rilevanza probatoria delle dichiarazioni dei collaboratori di giustizia22 e per l’inaridimento dello stesso fenomeno della collaborazione23.

Altro “problema” parzialmente superato era quello del regime carcerario speciale per i mafiosi, divenuto meno gravoso che in passato: oltre che per la chiusura delle carceri dell’Asinara e di Pianosa, per i temperamenti via via introdotti nel regime del 41 bis dalla Corte costituzionale, dai tribunali di sorveglianza e dalle conseguenti direttive del Dap. “Problema” ancora insuperato era invece (ed è) quello dell’ergastolo, che – dapprima soppresso (nei casi di giudizio abbreviato) con la legge 16 dicembre 1999, n. 479 – è stato poi reintrodotto (a seguito delle forti critiche di settori della magistratura e dell’opinione pubblica) con il decreto legge 24 novembre 2000.

5. La mafia dopo la morte di Provenzano e Riina

Secondo la già citata analisi della Dia24, dopo la morte di Provenzano (13 luglio 2016) e di Riina (17 novembre 2017), Cosa nostra – saldamente ancorata alle proprie radici territoriali, ma anche proiettata ben oltre i confini nazionali – si presenta ancora come un’organizzazione verticistica, unitaria e strutturata in famiglie raggruppate in mandamenti nella parte occidentale e centrale dell’isola.

Sebbene ridimensionata, perché raggiunta da importanti provvedimenti di sequestro e di confisca di beni, è tuttavia ancora pervasiva, e dotata di dinamismo e potenzialità offensiva. In grado cioè di muoversi sia secondo una direttrice geo-referenziata, cercando di mantenere il controllo del territorio nelle aree storicamente asservite al potere mafioso, sia in base a logiche affaristiche, infiltrandosi negli ambienti imprenditoriali e finanziari – nazionali ed esteri – per riciclare capitali illeciti, accaparrarsi appalti, catalizzare sovvenzioni pubbliche, indirizzare scelte industriali.

Cosa nostra si fa sempre più impresa, grazie anche ai considerevoli vantaggi di cui gode rispetto alla concorrenza onesta: la disponibilità di capitali a costo zero frutto di attività illecite; l’elusione delle normative fiscali; l’assunzione di personale in nero; la possibilità di “scorciatoie” (prezzi di favore e pagamenti dilazionati o elusi); l’impiego crescente di professionisti collusi e soggetti insospettabili, che non esitano a porsi a disposizione in un rapporto di reciproco interesse e vantaggio.

Il tentativo di ricostituzione della “Cupola” sembra non aver avuto finora successo anche per la continuità dell’azione di contrasto. Ma proprio in ragione di questo fallimento, non è possibile escludere che le difficoltà dell’organizzazione e le complesse dinamiche tra le componenti che ne sono parte possano sfociare in forti dissidi, anche con atti di violenza. Né escludere che le conflittualità interne possano essere esasperate da nuove collaborazioni con la giustizia.

Scenari variabili Dunque, nonostante la “normalizzazione” ricercata con l’“inabissamento”, nonostante la metabolizzazione del passato e la ricostituzione del “giocattolo”, si configura uno scenario incerto e contraddittorio, che potrebbe evolversi in direzioni assai diverse: dal mantenimento dell’attuale politica di “coesistenza” alla tentazione della riaffermazione di un potere egemonico sull’economia e sulla società (anche riesumando una qualche forma di “linea dura”, ove contingenti circostanze vi si prestino); dall’aggravamento dei fattori di instabilità interna a una crisi profonda e irreversibile dell’organizzazione. Risultato, quest’ultimo, che presuppone (con una decisa inversione delle tendenze prevalse negli ultimi anni) la volontà precisa di affrontare e risolvere una volta per sempre il nodo delle “relazioni esterne” di Cosa nostra. Nodo di compiacenze, collusioni, complicità e coperture che sono il codice genetico del poli-partito.

L’insostenibile leggerezza dell’Europa (e dell’Italia...) Intanto una allarmante variabile potrebbe ricollegarsi alla già ricordata decisione della Cedu (13 giugno 2019; di fatto confermata dalla Grande Chambre l’8 ottobre 2019) di escludere l’applicabilità dell’ergastolo ostativo ai mafiosi, una decisione che crea nuove incertezze, oltre che vari dubbi. Tanto più che le decisioni europee sono state seguite a ruota, il 23 ottobre, da una sentenza della nostra Consulta (n. 253/2019, motivazione depositata il 4 dicembre; si veda www.cortecostituzionale.it25) secondo cui la mancata collaborazione con la giustizia non può impedire la concessione di permessi premio ai detenuti condannati al massimo della pena, anche per fatti di mafia e terrorismo. In altre parole, la presunzione di “pericolosità sociale” del detenuto non collaborante non è più assoluta ma diventa relativa e quindi può essere superata dal magistrato di sorveglianza, “se sono stati acquisiti elementi tali da escludere sia l’attualità della partecipazione all’associazione criminale sia, più in generale, il pericolo del ripristino di collegamenti con la criminalità organizzata”.

Cedu e Consulta si differenziano solo perché la prima ha cancellato l’ostatività dell’ergastolo per i mafiosi rispetto a qualunque beneficio, mentre la seconda ha sentenziato con riferimento unicamente ai permessi premio. Ma nella sostanza si prestano alle stesse considerazioni.

È vero che la pena (articolo 27 della Costituzione) deve tendere alla rieducazione del condannato, per cui in linea di principio l’ergastolo può essere temperato concedendo alcuni benefici, ma ciò ha un senso solo quando si tratta di condannati che mostrano di volersi reinserire o almeno fanno sperare che prima o poi ci proveranno. Non è assolutamente il caso dei mafiosi “irriducibili”, che non si sono pentiti e perciò vengono assoggettati al regime carcerario del 41 bis e dell’ergastolo ostativo. Non lo è ontologicamente, culturalmente e strutturalmente. Perché – lo abbiamo dimostrato parlando di identità mafiosa nel quarto capitolo – quando si tratta di mafiosi non si può prescindere da due fatti incontestabili: essi giurano fedeltà perpetua all’associazione; e chi non si pente conserva lo status di “uomo d’onore” fino alla morte. Il mafioso non pentito continua a essere convinto di appartenere a una “razza” speciale, nella quale rientrano soltanto coloro che sono davvero uomini (non a caso autodefinitisi “d’onore”). Tutti gli altri, quelli del mondo esterno, non sono uomini. Sono individui da assoggettare. Non persone ma oggetti, esseri disumanizzati.

Una realtà all’evidenza assolutamente incompatibile con ogni prospettiva di recupero, salvo che il mafioso – pentendosi – dimostri concretamente di voler disertare dall’organizzazione criminale, cessando di esserne strutturalmente parte26.

La Consulta pone a base del suo ragionamento il principio secondo cui “è corretto ‘premiare’ la collaborazione con la giustizia [...] riconoscendo vantaggi nel trattamento penitenziario; non è invece costituzionalmente ammissibile ‘punire’ la mancata collaborazione, impedendo [...] l’accesso ai benefici penitenziari normalmente previsti per gli altri detenuti”. Va dato atto alla Consulta di riconoscere esplicitamente la “forte intensità del vincolo associativo” mafioso, facendone discendere la conseguenza che le valutazioni in ordine agli eventuali “cambiamenti sia nel detenuto sia nel contesto esterno” debbono “in concreto [svolgersi] sulla base di criteri particolarmente rigorosi proporzionati alla forza del vincolo criminale di cui si esige dal detenuto il definitivo abbandono”. E tuttavia si potrebbe osservare che il principio base – in astratto condivisibile – in concreto urta con un dato di fatto: non si tratta di “punire” la non collaborazione di un singolo, ma di “punire” la mafia come organizzazione criminale, tenendo conto – anche nel caso di specie, come sempre occorre fare – della realtà, che esclude in modo assoluto che il vincolo imposto possa cessare fuori dell’ipotesi di collaborazione. Una realtà, a ben vedere, che richiama proprio il “contesto esterno” evocato dalla Consulta; e che in punto perpetuità del vincolo (salvo “pentimento”) è storia plurisecolare e immutabile della mafia confermata da esperienze univoche e convergenti.

Ricordare questi dati non significa cedere a logiche vendicative ispirate al “cattivismo” giustizialista. Sono riflessioni basate sulla facile previsione che per i mafiosi “irriducibili” la riforma dell’ergastolo ostativo significherebbe aprire loro spazi di libertà, dei quali molti saprebbero approfittare per rientrare in un modo o nell’altro – rafforzandolo – nel giro delle attività criminali tipiche della mafia (droga, “pizzo”, gioco d’azzardo, appalti truccati ecc.), con l’inevitabile corredo, quando necessario, di violenza, armi comprese. Una falla nell’antimafia. Un lusso che non ci possiamo assolutamente permettere.

Vero è che dovrà pur sempre esserci un giudice di sorveglianza a decidere caso per caso, per cui non ci saranno automatismi nella concessione dei benefici. Del pari vero, come rileva la Consulta, è che il giudice deciderà “non da solo”, ma con l’ausilio delle relazioni delle autorità penitenziarie e delle informazioni del Cposp (Comitato provinciale ordine e sicurezza pubblica), nonché delle comunicazioni del procuratore nazionale e distrettuale antimafia27 sull’attualità dei collegamenti. Ma questi paletti contro “la solitudine” del giudice risultano per lo più burocratici e di facciata, posto che – va ribadito – senza “pentimento” al giudice mancheranno segni esteriori di apprezzabile concretezza per poter valutare le possibilità di un effettivo distacco dal clan con conseguenti prospettive di recupero. Sicché le decisioni del magistrato di sorveglianza rischiano di essere una sorta di azzardo surreale, con forti rischi di sovraesposizione personale. A parte gli inconvenienti che possono derivare dalla delega pressoché esclusiva alla magistratura (com’è purtroppo costume...) di un segmento nevralgico del contrasto alla mafia, caricandola di responsabilità pesantissime. Difatti, ora che la Consulta ha stabilito che i permessi si possono dare, agli occhi del mafioso – poco avvezzo ai “distinguo” – il giudice che li nega diventa un “nemico”. Lo diventa automaticamente (e anche questo automatismo dovrebbe preoccupare...), con tutte le possibili nefaste conseguenze di cui la storia di Cosa nostra è maestra, posto soprattutto l’irredimibile interesse dei boss per i compagni detenuti che in tutto il libro abbiamo dimostrato. In ogni caso, un segnale di debolezza che la mafia potrebbe cogliere per avviare nuove, come dire, “scomposte” strategie criminali28.

Le recenti sentenze sembrano quindi ispirate a una sorta di “distacco dalla realtà”. E, se nel caso della sentenza europea si poteva pensare che i giudici sapessero poco o nulla della realtà della mafia, la stessa cosa non può dirsi a cuor leggero quando si tratta di giudici italiani, che dovrebbero appunto conoscere la storia della mafia e delle sue atroci efferatezze. Tant’è che la Cedu ha deciso praticamente all’unanimità con un solo dissenziente; mentre nella Consulta29 a imporsi sarebbe stata una risicata maggioranza di otto contro sette.

E poi ci sono anche le vittime dei delitti di mafia (familiari compresi, ovviamente), i cui diritti non sono da meno di quelli dei mafiosi detenuti. Che in ogni caso vanno bilanciati (con più attenzione di quanta, di fatto, finisce per emergere dalla Cedu e dalla Consulta) con le esigenze di tutela della collettività, messe a rischio di collasso proprio dal crimine organizzato di stampo mafioso. E ciò in Italia come in Europa, stante la diffusione capillare delle mafie. Per cui c’è da sperare che gli effetti di queste sentenze non finiscano per replicare il don Ferrante di Alessandro Manzoni: che negava l’esistenza della peste mentre ne stava morendo.

A chi sostiene (giustamente, ci mancherebbe) che la Costituzione vale per tutti, si può osservare che essa non è un taxi da prendere solo quando fa comodo. Il mafioso è vissuto e vive per praticare un metodo di intimidazione, assoggettamento e omertà capace di dominare parti consistenti del territorio nazionale e momenti significativi della vita politico-economica del Paese. In questo modo il mafioso contribuisce in maniera concreta e decisiva a creare tutta una serie di ostacoli di ordine economico e sociale che limitano fortemente la libertà e l’uguaglianza dei cittadini, impedendo il pieno sviluppo della persona umana. In altre parole, il mafioso è la negazione assoluta dell’articolo 3 cpv. su cui si fonda la Costituzione. E se vuole accedere ai benefici che la Carta prevede, deve dimostrare di essere davvero rientrato nella Costituzione. Altrimenti pretenderebbe benefici senza meritarli, e sarebbe sostanzialmente una truffa.

La società civile Da ultimo va sottolineato il ruolo importante che spetta alla società civile. Occorre sforzarsi di essere presenti sulla questione mafia e legalità, anche con la ricerca di una convivenza più giusta e più umana, più equa nella distribuzione dei beni. Applicando il principio che denunzia e prassi devono andare nella stessa direzione e che questa deve essere riconoscibile. Perché denunziare l’immoralità e il clientelismo, e nello stesso tempo servirsene, vuol dire aiutare la mafia, la sua cultura, il suo potere. Lamentare la crisi della legalità e poi praticare indifferenza e privatismo significa perpetuare i guasti del sistema e aiutare di conseguenza la mafia. Che non è frutto soltanto di cattivo funzionamento dell’ordine pubblico, ma è segno visibile che tutto il sistema è malato. E come ogni malattia deve essere combattuta in tutte le sue manifestazioni, anche per toglierle sempre più spazio.

Non basta limitarsi a inseguire emergenze, pronunziando condanne occasionali e isolate in risposta ad ansie ed emotività che non superano il tempo e lo spazio della superficialità. Occorre muoversi secondo un piano progettato intorno a valori democratici e di libertà, di rispetto della dignità umana, dei diritti civili di ogni persona e della collettività. Occorre essere capaci di rileggere l’oggi affinché il domani sia migliore. Ricordando che le vittime di mafia sono morte anche perché tutti noi (noi cittadini) “non siamo stati abbastanza vivi”. Nel senso che non siamo stati sufficientemente capaci di vigilare e di scandalizzarci per l’ingiustizia. Le vittime della violenza mafiosa hanno visto la sopraffazione, la ricchezza facile e ingiusta, l’illegalità, la compravendita di democrazia, lo scialo di morte e di violenza, il mercato delle istituzioni. Questo hanno visto e questo hanno cercato di contrastare. Quante volte, invece, noi ci siamo accontentati di mediazioni e accomodamenti, ipocrisie e quieto vivere? Così sovraesponendo coloro che vengono lasciati soli nel momento in cui noi preferiamo chiuderci nel recinto dei nostri egoismi.

1 Paradossale che protagonisti delle accuse di politicizzazione a magistrati in servizio siano anche magistrati prestati alla politica, che praticano a volte lo sterminio della logica e del significato delle parole, pur ricoprendo cariche prestigiose di particolare responsabilità come la presidenza della Commissione parlamentare antimafia. Ricordiamo le parole in libertà sul processo Andreotti (“mafiosità malamente sbugiardata”) del senatore Roberto Centaro, stroncato con un’Ansa dal presidente della Corte di appello di Palermo che gli “consigliava” di leggersi la sentenza. Un’altra desolata riflessione si ricollega al confronto tra la vicenda giudiziaria di Contrada e quella di Andreotti: i giudici di primo grado che condannarono Contrada furono linciati (Tiziana Parenti, anch’essa presidente della Commissione parlamentare antimafia, parlò di “sentenza terrificante, tipica dei regimi nazisti”), mentre fu un coro di osanna quando fu assolto (in primo grado) Andreotti. Senza che nessuno avvertisse che le due sentenze erano state pronunziate dalla stessa sezione del Tribunale di Palermo, composta per due terzi dalle stesse persone fisiche. Un modo di (s)ragionare, certamente non sgradito al poli-partito, quello che valuta i provvedimenti giudiziari in base agli interessi di bottega.

2 Questa citazione e quella che segue sono tratte da un’annotazione manoscritta del giudice Falcone per i lavori di un comitato della sezione siciliana dell’Associazione nazionale magistrati (“Il ruolo fondamentale del pentitismo”). Il 27 ottobre del 1990 fu approvato, nel corso dell’assemblea nazionale dell’Associazione, il documento finale nel quale è stata successivamente inserita una frase che è il caso di ricordare: “Il fenomeno mafioso si colloca ormai in un ambito principalmente politico, perché sotto le vesti della democrazia, si intravedono sempre più rapporti di potere reale basati sul decadimento del costume morale e civile, su intrecci fra istituzioni deviate e organizzazioni occulte, su legami tra mafia e politica”.

3 Così secondo le valutazioni di alcuni autorevoli esponenti del Csm di quel periodo (riportate da “la Repubblica” il 7 aprile 2000, p. 8) che evidenziano: “interventi legislativi fatti senza tener conto delle conseguenze pratiche” (Giovanni Verde, vicepresidente del Csm); “un modello di processo inadeguato per affrontare le diverse criminalità nel nostro Paese”, quando invece sarebbero necessari “modelli differenziati” (Gioacchino Natoli); “pseudoriforme che introducono solo garanzie formali e moltiplicano i tempi”(Armando Spataro); “un rischio di scarcerazioni”, determinato dalla riforma del “giusto processo” (Margherita Cassano), come dal regime della custodia cautelare (Antonino La Torre, componente di diritto del Csm in quanto procuratore generale della Cassazione).

4 Per il superamento della fase “emergenziale” (primo tema ora affrontato) si fa riferimento soprattutto all’ordinanza 26 luglio 2000 emessa nel procedimento 6391/00 del Gip di Palermo contro Antonino Cinà (uno degli attori, come si è visto, della trattativa Stato-mafia). Medico, titolare di un avviato studio a Palermo, Cinà è stato – oltre che esponente di rilievo del mandamento di San Lorenzo – uomo di fiducia di Salvatore Riina e Bernardo Provenzano. Nel periodo successivo al 1995 ha fatto parte della struttura di vertice di Cosa nostra.

5 Bernardo Provenzano, detto “Binnu u Tratturi” (Bernardo il trattore), per la violenza usata contro i suoi nemici, ovvero “Zu Binnu” (Zio Binnu) o “il ragioniere”. Nato a Corleone il 31 gennaio 1933, morto in carcere a Milano il 13 luglio 2016, è stato a capo del mandamento di Corleone insieme a Salvatore Riina. A partire dal 1995 (anno della cattura di Bagarella), fino al suo arresto avvenuto l’11 aprile 2006, è stato il capo riconosciuto di Cosa nostra.

6 Emblematico il caso di Fedele Battaglia (2000-2001), rivelato da alcune intercettazioni. I mafiosi temono che il suo pentimento possa avere effetti devastanti (“ora ci consuma [...] a tutti fa arrestare [...] ha tutta la mappa”). Convincono i familiari a operare pressioni psicologiche sul loro congiunto, che alla fine cede e ritratta alcune dichiarazioni già rese, scrivendo al Gip che erano frutto del suo stato confusionale e della sua “fervida fantasia”.

7 Di particolare interesse si sono rivelate le indagini svolte dalla Procura di Palermo in un procedimento per la ricerca di Bernardo Provenzano, base di un’ordinanza di custodia cautelare (datata 23 gennaio 2002) del Gip di Palermo nel procedimento n. 4715/98, emessa nei confronti di Lorenzo Agosta e altri 29 imputati.

8 Conversazione svoltasi il 2 agosto 2000 tra Giuseppe Lipari e Salvatore Miceli (già condannato con sentenza definitiva per il reato di partecipazione all’associazione mafiosa Cosa nostra), che contiene anche alcuni riferimenti a una riunione di vertice alla quale avrebbero partecipato: Bernardo Provenzano (“Bino”); Antonino Giuffrè (Nino “Manuzza”, capo del mandamento di Caccamo); Salvatore Lo Piccolo (capo del mandamento di San Lorenzo); Benedetto Spera (capo del mandamento di Belmonte Mezzagno); Antonino Cinà (esponente di rilievo del mandamento di San Lorenzo); e lo stesso Giuseppe Lipari (gestore e amministratore di beni di Provenzano, Riina e Bagarella, nonché punto di riferimento dell’organizzazione mafiosa per il controllo di appalti di opere pubbliche).

9 Giuseppe Salvatore Riina, detto “Salvuccio”, terzogenito del capomafia Totò Riina, condannato alla pena di otto anni e dieci mesi per associazione mafiosa.

10 Conversazione del 2 luglio 2002 tra il figlio di Riina e Salvatore Cusimano.

11 Che al figlio di cotanto padre piace assai, al punto di irridere il cippo che ricorda la strage di Capaci esclamando in tono dispregiativo “ci appizzano ancora le corone di fiori, a ’stucosu”. Si noti che l’intercettazione (là dove parla di “linea dura” finalizzata a “fare calare le corna” allo Stato) può anche leggersi come conferma indiretta della corrispondenza delle motivazioni che avevano portato Salvatore Riina all’eliminazione di Falcone e Borsellino, rispetto alla ricostruzione del processo di primo grado sulla trattativa Stato-mafia operata dalla Corte di assise di Palermo.

12 Raffaele Ganci (capo del mandamento della Noce, uomo di fiducia di Totò Riina, membro della Commissione provinciale di Cosa nostra); Domenico Ganci (“Mimmo”, figlio di Raffaele), considerato uno dei più pericolosi sicari di Cosa nostra, condannato per la strage di Capaci del 1992; Giuseppe e Filippo Graviano (capi del mandamento di Brancaccio); Salvatore Biondo (della famiglia di San Lorenzo, uomo di fiducia di Totò Riina) e Giuseppe Calò (soprannominato “Pippo”), già capo della famiglia di Porta Nuova, noto come il “cassiere di Cosa nostra” perché fortemente coinvolto nella parte finanziaria dell’organizzazione, soprattutto nel riciclaggio di denaro.

13 Leoluca Bagarella, cognato di Totò Riina, affiliato al clan dei Corleonesi, autore di svariati omicidi negli anni ’70 e ’90, oltre che diretto responsabile di alcuni tra i più gravi fatti di sangue di Cosa nostra, tra cui la strage di Capaci e il sequestro del piccolo Giuseppe Di Matteo. Condannato all’ergastolo.

14 Pietro Aglieri, affiliato alla famiglia di Santa Maria di Gesù, ne diviene il capo dopo essersi legato ai Corleonesi e avere ucciso per loro incarico Giovanni Bontate. Coinvolto anche nelle stragi di Capaci e di via D’Amelio, condannato all’ergastolo, poco dopo la cattura sembrò disponibile a collaborare con la giustizia, ma alla fine rinunciò a questa opportunità. Durante la latitanza, un frate carmelitano (don Mario Frittitta) lo frequentava regolarmente per celebrare messa in una cappella apposita ricavata nel suo rifugio segreto...

15 In questo contesto può essere interessante ricordare una vicenda analiticamente raccontata dal magistrato Alfonso Sabella nel libro Cacciatore di mafiosi. Le indagini, i pedinamenti, gli arresti di un magistrato in prima linea (Mondadori, 2008). In sintesi si tratta di questo. Nel maggio 2000 la Dna, all’esito di alcuni colloqui investigativi del procuratore nazionale Vigna con cinque capi-mandamento detenuti, sottopone al ministro della Giustizia (all’epoca Piero Fassino) la possibilità di far incontrare costoro in carcere con altri quattro boss affinché potessero concordare una pubblica dissociazione da Cosa nostra. Nel contempo si chiede che fosse valutata – in sede politica – la possibilità di estendere ai mafiosi dissociati benefici già previsti per chi – senza collaborare – si dissociava dal terrorismo. Fassino inoltra la questione a Caselli – coautore di questo libro, allora capo del Dap –, che a sua volta interessa Sabella, suo diretto collaboratore in quanto capo dell’ispettorato del Dap. L’iniziativa viene immediatamente bloccata. Qualche tempo dopo (secondo governo Berlusconi) a capo del Dap viene nominato il procuratore di Caltanissetta Giovanni Tinebra. Sabella, rimasto a dirigere l’ispettorato, scopre che Salvatore Biondino (capo-mandamento di San Lorenzo e fedelissimo di Riina) era stato incaricato di trattare nuovamente la dissociazione con lo Stato, ma stavolta per conto di tutte le organizzazioni mafiose italiane: Cosa nostra, Camorra, ’Ndrangheta e Scu (Sacra corona unita, pugliese). Biondino stava cercando di incontrare in carcere gli stessi boss oggetto della richiesta rivolta a Fassino dalla Dna. Sabella segnala per iscritto quanto scoperto a Tinebra – che il giorno dopo sopprime l’ispettorato senza adottare (a quanto risulta) provvedimenti contro l’iniziativa di Biondino – e comunica ogni cosa a Roberto Castelli (nuovo guardasigilli), illustrandogli il forte interesse delle mafie a ottenere importanti benefici in cambio di una pubblica presa di distanza dall’organizzazione, inutile in quanto escludente ogni forma di collaborazione processuale. Per tutta risposta, il ministro ingegner Castelli “licenzia” Sabella dal Dap – struttura dipendente dal ministero – e lo mette a disposizione del Csm.

16 Riportate nella già citata ordinanza di custodia cautelare del Gip di Palermo del 23 gennaio 2002.

17 La prima si svolge il 5 maggio 1999 tra Carmelo Amato e Michele Lo Forte. Amato riferisce che è venuto a trovarlo “Enzo”, il cugino di Ciancimino (identificato in Vincenzo Salvatore Zanghì), per raccomandargli la candidatura di Dell’Utri. Vi è poi una successiva conversazione tra gli stessi soggetti il 7 maggio 1999 e un’altra ancora il 22 maggio 1999, cui prendono parte Gioacchino Severino e Gaetano Cinà. Il 28 maggio 1999, nuova conversazione tra Amato e Lo Forte. Infine, il 13 giugno 1999, sempre Carmelo Amato conversa con Salvatore Carollo.

18 Conversazioni intercettate in un procedimento della Procura di Palermo, avviato nei confronti di Giuseppe Salvatore Riina (figlio di Totò) e altri 21 indagati. Riportate in una ordinanza di custodia cautelare del Gip di Palermo del 3 giugno 2002. La prima conversazione si svolge il 20 marzo 2001 tra il figlio di Riina, Roberto Enea e Salvatore Cusimano; l’altra risale al 10 maggio 2001, tra il giovane Riina e Antonio Bruno.

19 Nella legislatura precedente queste elezioni (la XIII), aveva governato la coalizione di centrosinistra (governi: Prodi I; D’Alema I e II; Amato II). Le elezioni del 13 maggio 2001 furono vinte nettamente dalla coalizione di centrodestra (Casa delle libertà), e il presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi conferì a Silvio Berlusconi l’incarico di formare il nuovo governo. Nacque così il governo Berlusconi II (dopo il primo esecutivo costituitosi nel 1994), che rimase in carica fino al 2005.

20 Procedimento denominato “Ghiaccio”, nel quale sono confluiti – oltre alle dichiarazioni del collaboratore di giustizia Antonino Giuffrè – i risultati di una complessa attività investigativa svolta dalla sezione anticrimine del Ros di Palermo sul mandamento di Brancaccio.

21 Come Vincenzo Cascino, esponente di rilievo del mandamento di Pagliarelli; Giovan Battista Pipitone, appartenente alla famiglia di Carini; Antonino Maranto, appartenente alla famiglia di Polizzi Generosa; Antonino Gioacchino Capizzi, esponente della famiglia di Villagrazia di Palermo, e altri ancora.

22 Determinato anche da alcune disposizioni della legge 1° marzo 2001, n. 63 (cosiddetta legge sul “giusto processo”). Questa legge ha dato luogo a valutazioni fortemente controverse, in quanto – modificando varie norme del codice di procedura penale – ha introdotto regole destinate a suscitare più che a risolvere problemi. E si è paventato il rischio che, proprio in relazione a vicende che suscitano un particolare allarme sociale, le nuove regole possano condurre a costruire “verità processuali” ampiamente difformi dal reale svolgimento dei fatti, impedendo il raggiungimento delle essenziali finalità che caratterizzano il processo penale.

23 Certamente non incentivato dalla nuova legge sui collaboratori e testimoni di giustizia nei procedimenti di criminalità organizzata (13 febbraio 2001, n. 45); legge che racchiude in sé (insieme a innovazioni apprezzabili, dettate dall’esigenza di perfezionare il sistema vigente) anche norme suscettibili di gravi e fondate critiche, in quanto sembrano frutto di una pregiudiziale e irragionevole diffidenza verso il fenomeno in sé dei collaboratori di giustizia, fino a rendere concreto il rischio di negativi contraccolpi.

24 Relazione del Ministro dell’Interno al Parlamento sull’attività svolta e sui risultati conseguiti dalla Direzione Investigativa Antimafia, cit. Vedi supra, cap. 5, par. 7.

25 In particolare l’ampio comunicato stampa ufficiale, da cui saranno prevalentemente tratte le ulteriori citazioni virgolettate.

26 Si obietta che gli ergastolani per delitti di mafia non sarebbero liberi di scegliere di collaborare perché metterebbero in pericolo l’incolumità propria e dei loro familiari. Ma l’obiezione urta contro la constatazione che ormai da anni lo Stato italiano ha dimostrato coi fatti di essere in grado di proteggere migliaia di pentiti e le loro famiglie.

27 Se la comunicazione del procuratore nazionale antimafia o del procuratore distrettuale è nel senso dell’attualità, la Consulta ricorda che, in base al comma 3 bis dell’art. 4 bis dell’ordinamento penitenziario, i benefici non possono essere concessi, ma – osserva ancora la Corte – “ferma restando l’autonomia valutativa del magistrato di sorveglianza”.

28 Realisticamente la Consulta osserva che “non basta un regolare comportamento carcerario (la cosiddetta buona condotta)”: difatti soltanto Alice nel paese delle meraviglie potrebbe fidarsi del mafioso che rivendica come titolo valutativo quello di essere stato un detenuto modello, perché il rispetto formale dei regolamenti carcerari non equivale a un inizio di resipiscenza, ma è una regola che il mafioso “doc” si impone proprio in quanto irreversibilmente “doc”. Del pari realistica è l’affermazione della Consulta che nemmeno basta “una soltanto dichiarata dissociazione”: atteggiamento tutt’affatto ambiguo e facilmente strumentalizzabile per dissimulare il persistere di una sostanziale adesione al clan, cui i mafiosi hanno più volte cercato di puntare, come dimostrano la lettera di Pietro Aglieri e le manovre stoppate dal Dap (in ultimo da Alfonso Sabella) di cui abbiamo già parlato nel cap. 7.

29 Vedi l’articolo di Giovanni Bianconi, Una scelta faticosa e contrastata, passata per un solo voto, in “Corriere della Sera”, 24 ottobre 2019.