Introduzione
La mafia nemico invisibile?
Quasi trent’anni ormai ci separano dalle stragi di Capaci e via D’Amelio del 1992.
Questo duplice attacco al cuore della democrazia – che Andrea Camilleri ha paragonato in quanto a potenza simbolica all’abbattimento delle Twin Towers – aveva naturalmente come obiettivo l’uccisione di due pilastri dell’antimafia come Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Fu tuttavia chiaro fin da subito (in un caso e nell’altro) che la ferocia criminale rispondeva anche a un disegno politico di Cosa nostra. Disegno che trovò ancora più evidente realizzazione con le stragi che seguirono nel 1993 a Firenze, Milano e Roma.
Nel giro di pochi mesi si consumò una tragedia nazionale che sembrò scuotere irreversibilmente le coscienze e che provocò una reazione finalmente determinata dello Stato contro la mafia. Con risultati – è bene ricordarlo – straordinari. La mafia siciliana è stata indubbiamente indebolita e destrutturata da indagini e condanne. Ma altre organizzazioni criminali sono cresciute in rilevanza e potere, occupando vaste aree prima estranee a una radicata presenza mafiosa. E la questione della criminalità organizzata resta ancora oggi – purtroppo – in primo piano.
Dispiace, per contro, dover rilevare che l’attuale politica antimafia è inadeguata, così come difettosa è la rappresentazione mediatica del fenomeno, oscillante tra il diffuso silenzio informativo e il noir delle mattanze napoletane e foggiane o il folclore sulla latitanza (e peggio... sulle camicie) di Matteo Messina Denaro.
Di fatto, la mafia continua a essere considerata un problema di ordine pubblico, la cui pericolosità si coglie soltanto in situazioni di emergenza, quando cioè mette in atto strategie sanguinarie. Non è (solo) così: sfugge, non casualmente, che la mafia è un vero e proprio “sistema di potere criminale”, funzionale a sempre nuove rapacità e nuovi interessi. Perché c’è una “richiesta di mafia”1 in ambito politico, economico e imprenditoriale; vale a dire che la forza della mafia risiede non solo nella sua organizzazione interna, ma anche e soprattutto nelle “relazioni esterne”, cioè nelle laide connivenze o complicità e nelle vili coperture di cui essa gode – strutturalmente – in pezzi consistenti del mondo legale. Possiamo anzi dire che Cosa nostra è stata (e può continuare a essere) componente e strumento di un sistema criminale più ampio. Un sistema criminale raffigurabile come un complesso edificio, in cui l’associazione ha rappresentato – per le sue tradizioni criminali e per la sua potenza storica – una pietra angolare; ma che, come tutti gli edifici, ha anche altri piani e altri abitanti variamente comunicanti fra loro.
Tutto ciò proietta, sulla storia della mafia, vari interrogativi, ai quali questo libro cercherà di rispondere. Quando si è verificata una trasformazione della mafia da “semplice” organizzazione criminale a entità politica? E ancora: è possibile parlare di una “politica” di Cosa nostra, di un suo “ordinamento istituzionale”, di “funzioni di governo interne” paragonabili a quelle di uno Stato? Quale ruolo hanno avuto nella storia del nostro Paese le “relazioni esterne” di Cosa nostra con segmenti della società e dello Stato (con l’alternarsi di situazioni di coesistenza, di compromesso, di alleanza, o – al contrario – di conflitto)? Che ruolo hanno avuto in questo contesto le stragi mafiose? Infine, quali sono gli scenari attuali della mafia e le sue potenziali prospettive “politiche”?
Alcune (incredibili) storie del passato
Nel cercare gli elementi per dare delle risposte, sarà utile partire da una ricostruzione storica. Vogliamo riportare in particolare alcuni episodi del passato che presentano inquietanti analogie con vicende molto più recenti.
In primo luogo, vogliamo ricordare un coraggioso uomo pubblico: Diego Tajani, un deputato che era stato magistrato, uno dei primissimi ad aver combattuto la mafia cercando di fronteggiarne la collusione con parte della Polizia e denunciando le coperture assicurate a esponenti mafiosi dalla politica locale e nazionale. L’11 giugno 1875, mentre in Parlamento si dibatteva un progetto di legge del governo sulla “applicazione di provvedimenti straordinari di pubblica sicurezza” soprattutto con riferimento alla Sicilia, Tajani si alzò e tenne un discorso memorabile, affermando con franchezza, nel gelo dell’aula: “La mafia che esiste in Sicilia non è pericolosa, non è invincibile di per sé, ma perché è strumento di governo locale”2.
Un principio poi fatto sostanzialmente proprio dagli storici che vedono nella mafia siciliana una “parte integrante del modo in cui l’Italia è stata governata fin dalla metà dell’Ottocento”; per cui la sua storia si intreccia con quella “di una comprensione e di una battaglia mancate, malgrado il nemico da capire e da combattere sia stato sempre visibile”3.
La mafia, quindi, lungi dall’essere un nemico invisibile, è da sempre ben conosciuta dai governi del Paese. Non solo un nemico sempre visibile, ma addirittura, a volte, “volentieri” tollerato: come dimostra la lunga stagione in cui di indagini non se ne facevano e i pochissimi processi che si celebravano si concludevano “regolarmente” con l’assoluzione dei boss per insufficienza di prove; la certificazione su carta bollata che la mafia c’era, ma era più forte dello Stato.
Uno “statuto” della mafia Per quanto, come abbiamo visto, già sul finire dell’Ottocento la realtà della mafia fosse stata “squadernata” persino in Parlamento, per troppo tempo c’è stata una gara fra i tartufi di turno per sostenere che la mafia fosse nulla più di una innocua “mentalità”. Qualche esempio? Indagini ben condotte dal funzionario di Polizia di origini romagnole Ermanno Sangiorgi sulla “Fratellanza”, una organizzazione mafiosa di Agrigento, portarono all’arresto di più di duecento persone. Uno dei capi fu sorpreso nell’atto di iniziare due “fratelli” incappucciati. Non solo: per un caso straordinario, aveva con sé una copia, per così dire, autentica dei regolamenti dell’associazione, uno “statuto” della mafia. Peraltro, la struttura della “Fratellanza” presentava sorprendenti analogie con quella di Cosa nostra, che un secolo dopo sarebbe stata rivelata a Giovanni Falcone dal notissimo pentito di mafia Tommaso Buscetta. I suoi membri, infatti, erano divisi in “decine”. Ciascuna decina aveva un comandante noto soltanto ai suoi membri, ma celato al resto della “Fratellanza”, salvo che a un unico capo. Nel 1885 gli affiliati finirono tutti sotto processo ad Agrigento; molti ritrattarono le loro confessioni, sostenendo di averle rese sotto tortura, ma alla fine furono tutti condannati e incarcerati. Dunque tutt’altro che un problema da ridurre nei confini che quei tartufi volevano far credere. Ma come si sa, non c’è peggior cieco di chi non vuol vedere.
E gli esempi possono continuare. Nel 1872 il chirurgo Gaspare Galati inviò inutilmente al ministro dell’Interno un articolato memorandum sulla cosca mafiosa dominante nel quartiere palermitano di Malaspina. Con il risultato che fu costretto a lasciare la Sicilia, sconfitto dall’omertà degli abitanti e dalla collusione di parte delle istituzioni.
Ancora: nominato questore di Palermo nel 1898 dal capo del governo Luigi Pelloux, Ermanno Sangiorgi scrisse un dettagliato rapporto sulla organizzazione e sulle attività illecite della mafia palermitana e lo inviò al prefetto – perché a sua volta ne informasse il presidente del Consiglio – con una lettera dal seguente tenore: “Ho specialmente bisogno del di Lei autorevole e legittimo interessamento presso l’Autorità giudiziaria e di tutto il di Lei appoggio presso il Governo, perché, disgraziatamente, i caporioni della mafia stanno sotto la salvaguardia di Senatori, Deputati ed altri influenti personaggi che li proteggono e li difendono, per essere poi, alla lor volta, da essi protetti e difesi”. Come usa dire, pane al pane e vino al vino: parole schiette, senza le cautele o le ipocrisie che in ogni epoca caratterizzano il linguaggio burocratico.
Il primo grande pentito Sangiorgi era convinto che alla base del modus operandi della mafia vi fosse il racket sostenuto da adeguati contatti politici. L’occasione per dimostrarlo si presentò nell’ottobre 1899, quando Francesco Siino, commerciante di limoni di grande successo, sfuggì miracolosamente a un agguato e cominciò a collaborare. Considerato da Sangiorgi il “capo regionale o supremo” della mafia, Siino nel gennaio 1897 aveva presieduto un vertice dei capi delle otto cosche palermitane. Il suo contributo fu di eccezionale rilievo, paragonabile anche in questo caso a quello di Buscetta del 1984; il rapporto presentato alla Procura di Palermo portò a un processo iniziato nel maggio 1901. L’anno precedente, però, era caduto il governo Pelloux e Sangiorgi aveva perso il suo appoggio politico a Roma. Intuendo il mutato clima, Siino ritrattò completamente le sue dichiarazioni. Molti testi si prodigarono in attestati di stima degli imputati, descritti come “veri gentiluomini”: soltanto alcuni furono giudicati colpevoli di aver dato vita a un’associazione criminale; tenuto conto del tempo già trascorso in carcere, molti furono rilasciati il giorno dopo.
Era così svanita un’occasione importante per dimostrare fin d’allora che la mafia è un fenomeno organico, quindi unitario. Sangiorgi commentò laconicamente che “non poteva essere diversamente, se quelli che denunziavano [i mafiosi] la sera, andavano a difenderli la mattina”4.
Il primo omicidio “eccellente” Ma la vicenda più eclatante è senza dubbio quella dell’omicidio del marchese Emanuele Notarbartolo di San Giovanni, avvenuto il 1° febbraio 1893 su un treno fra Termini Imerese e Palermo. Di fatto, il primo omicidio “eccellente”, essendo Notarbartolo componente dell’élite socio-economica palermitana (fu infatti sindaco di Palermo per tre anni e poi direttore generale del Banco di Sicilia). L’avere svolto questi incarichi con integrità e senza compromessi finì per costargli la vita. I processi che seguirono misero a nudo – oltre che il rapporto tra la mafia ed esponenti della politica, della magistratura e delle forze dell’ordine – anche vicende, per così dire, intramontabili, come la lotta senza quartiere tra i custodi del comune interesse in crescente isolamento e i comitati d’affari politico-criminali in ascesa; la storia di una famiglia lasciata sola che si scontra con i muri di gomma e i depistaggi di una malagiustizia a protezione dei potenti e con lo stuolo degli ipocriti complici intorno5; un intreccio tra politica, banche e mafie che ritornerà più volte nella storia d’Italia, tra l’altro nei casi Calvi e Sindona6.
Le indagini, incanalate nella giusta direzione dal questore Sangiorgi, si avvalsero del decisivo contributo del figlio della vittima, Leopoldo, militare di carriera nella Regia marina, che fin dal 1911 e per tutta la vita lavorò alle memorie del padre. Esse svelarono progressivamente ogni cosa: il movente del delitto, ovvero la volontà del marchese di spezzare l’intreccio di connivenze politico-mafiose che condizionavano i finanziamenti concessi dal Banco di Sicilia; gli esecutori e soprattutto il mandante, l’onorevole Raffaele Palizzolo, che possiamo definire il “prototipo” di tutti i futuri politici collusi7.
Il processo di primo grado si concluse a Bologna il 30 luglio 1902 con l’esemplare condanna di Palizzolo a trent’anni di carcere. La sentenza fu accolta favorevolmente in tutto il Paese, mentre a Palermo fu vista come un oltraggio e un attacco del Nord contro la terra dei Vespri. Si formò persino il comitato Pro Sicilia, a difesa di Palizzolo e dell’onore della regione. Un clima quasi secessionista, che ebbe la sua rilevanza nel contesto in cui si svolsero le successive fasi del processo8.
Sei mesi dopo la sentenza bolognese fu annullata in Cassazione per un vizio di forma9; il processo di rinvio, celebrato a Firenze, si concluse il 23 luglio 1904 con una assoluzione per insufficienza di prove. Palizzolo tornò a Palermo da trionfatore e fu al centro di un ciclo di festeggiamenti che durarono parecchi giorni; il coraggioso figlio del marchese assassinato fu invece costretto a lasciare l’isola e morì a Firenze, di fatto dimenticato da tutti, nel 194710.
La storia del processo Notarbartolo va segnalata anche perché vi si può scorgere un copione che rimarrà purtroppo sempre uguale. Quando sulla scia di delitti clamorosi si solleva la pubblica indignazione, alcune segrete verità della mafia possono cominciare a venire a galla. Ben presto, però, cessata l’emergenza, cala il silenzio. E si avvia invece un paradossale repertorio di insinuazioni e polemiche strumentali, miranti a rappresentare i più importanti processi di mafia come frutto di nefandezze varie (gettonatissimi i “teoremi” inventati in mancanza di prove). Un grave effetto indotto è che in questo modo, anziché rafforzarsi, si dissolve gradualmente la coesione politico-istituzionale necessaria per elaborare un progetto politico di delegittimazione dei mafiosi e dei loro complici.
Molte altre ancora sarebbero le storie da raccontare. Poco conosciuta è forse quella che si ricollega allo sbarco in Sicilia delle truppe inglesi e americane del luglio 1943, preceduto da contatti tra i servizi segreti Usa e Lucky Luciano, che segnalò agli americani i mafiosi residenti in Sicilia che avrebbero certamente cooperato al momento dello sbarco (operazione Husky). Il principale interlocutore di Lucky Luciano nell’isola fu don Calogero Vizzini, detto don Calò, tra i più influenti capimafia della Sicilia11. Fatto sta che pochi giorni dopo lo sbarco, gli ufficiali statunitensi nominarono noti mafiosi come nuovi sindaci di vari Comuni. Calogero Vizzini diventa sindaco di Villalba. Proprio a Villalba, nel settembre 1944, il Partito comunista organizza un comizio dove Girolamo Li Causi parla ai contadini di mafia, di terra e di feudi, finché don Calò ordina ai suoi di sparare e lanciare bombe a mano, causando una quindicina di feriti. Non fu, del resto, un episodio isolato: in Sicilia i contadini e coloro che li sostenevano sono stati costretti a un durissimo scontro, lungo e sanguinoso, con i proprietari terrieri e i mafiosi loro alleati, in quanto affittuari dei latifondi (gabellotti) o detentori in regime di monopolio di una risorsa primaria come l’acqua.
Il movimento contadino Un vero e proprio movimento di massa iniziò con i “Fasci siciliani” del 1891-94 ed ebbe poi varie fasi, sempre caratterizzate da rivendicazioni che innescavano le reazioni violente della mafia, spesso con l’appoggio delle forze dell’ordine. La fase più cruenta fu nel secondo dopoguerra, quando il movimento contadino assunse le dimensioni di una “epopea popolare”, dando vita a una vera e propria “lotta di liberazione” (queste le formule utilizzate da Francesco Renda12 e Umberto Santino13). Dal 1944 al 1948 si ebbero moltissime vittime tra i contadini che manifestavano e sindacalisti, amministratori locali e politici che stavano fattivamente dalla loro parte. Il tragico culmine della spietata violenza anticontadina si ebbe con la strage di Portella della Ginestra del 1° maggio 1947, che affronteremo nel secondo capitolo.
Negli anni ’50, con il grande esodo dalla Sicilia di uomini e donne alla ricerca di un lavoro in altre regioni italiane o in Europa, il movimento di fatto si dissolse14. Intanto, col passaggio dal feudo alla città e con il mercato ortofrutticolo, i cantieri navali, l’edilizia, il cosiddetto “sacco di Palermo” e il boom della droga, la mafia (che assume il nome di Cosa nostra) registra una profonda ristrutturazione. Sulle stagioni successive, fino ad arrivare a oggi, ci soffermeremo ampiamente in seguito.
Un modello di sviluppo inquinato e inquinante
Abbiamo voluto ricordare tutte queste storie lontane nel tempo perché a nostro avviso dimostrano che la mafia non costituisce una “semplice” anomalia in un corpo sociale complessivamente sano, una patologia del nostro sistema, ma un fenomeno molto più grave: l’esplicazione di un modello di sviluppo inquinato e inquinante che rischia di frenare e ostacolare la crescita dell’intero nostro Paese dopo aver bloccato quella del Mezzogiorno.
Questa concezione è in linea con i risultati di una analisi multidisciplinare delle “mafie”15, secondo cui la mafia siciliana (come le altre) non è tanto il prodotto di una mentalità arcaica e/o di una arretratezza economica e culturale, quanto piuttosto l’esito di una precisa caratteristica della società e dello Stato che determina una irresistibile attrazione reciproca.
Non è quindi un caso se i primi concreti successi contro la mafia sono stati possibili quando la magistratura (in particolare il pool antimafia di Falcone e Borsellino e la Procura di Palermo del dopo stragi) ha deciso di affrontare direttamente il nodo delle “relazioni esterne”16.
È così cominciata a emergere, anche sul piano giudiziario, una realtà già ampiamente analizzata a livello di studi storici: l’assunzione della mafia come entità politica o Stato illegale, funzionale a un modello di sviluppo distorto, che le assegna un “ruolo” di rilievo – non solo criminale – nella storia del nostro Paese.
L’ottica di questo libro La nostra ricostruzione non sarà condotta secondo i canoni propri della storiografia, ma attraverso la particolare ottica di giuristi che sulla mafia hanno raccolto elementi strettamente collegati ad attività di carattere investigativo-giudiziario. Sappiamo bene che c’è tutta una lunga e complessa sequenza di temi generali con i quali la storia della mafia come entità politica risulta profondamente intrecciata, a partire dalle modalità in cui fu realizzata l’Unità d’Italia. La forte disomogeneità che subito si manifestò fra Centro-Nord e Sud del Paese è una delle cause del fenomeno del brigantaggio, che fece esplodere tale frattura territoriale e fu represso con modalità che si rivelarono un humus avvelenato propizio alle organizzazioni criminali. Da subito – dunque – la “questione meridionale”, ancora oggi sostanzialmente irrisolta, si pose come una delle ferite più profonde della nostra storia unitaria. Questo tema è intimamente collegato alle speranze ripetutamente frustrate di una riforma agraria che fosse realmente a vantaggio dei contadini, e quindi capace di rompere la rete di interessi e patti conseguenti che univano mafiosi, proprietari terrieri e politici collusi.
Altre vicende della storia della mafia si intrecciano strettamente con quella più generale del Paese. Abbiamo già accennato al decisivo contributo che lo sbarco e l’occupazione degli Alleati fornirono alla rinascita e riabilitazione politica della mafia. Si pensi ora alla guerra fredda e alla collocazione organica dell’Italia in uno dei due blocchi contrapposti, comodo alibi per i tanti che con la mafia convivevano e facevano affari proponendola come baluardo ai “cosacchi in piazza san Pietro”. O ancora alle distorsioni della Cassa per il Mezzogiorno, da possibile volano per lo sviluppo economico a veicolo di assistenzialismo parassitario e clientelare, una vera manna per la mafia. Infine, ricordiamo anche i troppi silenzi, ritardi e paure della Chiesa, spesso timida se non assente nella lotta per la liberazione dell’uomo dal potere mafioso che lo opprime e ne sfigura la dignità, nonostante l’evidenza delle infamie tremende e del doloroso turbamento umano e sociale causati alla comunità17.
Va da sé che ogni storia della mafia come entità politica va rapportata al mosaico di cui abbiamo ora indicato i principali tasselli. Ma siamo convinti che anche dal nostro perimetro settoriale possa derivare un contributo utile, capace di offrire utili spunti di conoscenza e riflessione.
Non solo mafia Ovviamente sarebbe ingenuo, per non dire stupido, leggere nella chiave esclusiva dei rapporti con la mafia tutta la nostra storia, dimenticando i tanti aspetti positivi che la caratterizzano: dalla lotta di Liberazione alla ricostruzione del secondo dopoguerra; dal “miracolo economico” degli anni ’50 e ’60 al rinnovamento sociale e politico dei “mitici” anni ’70. Densi di effetti anche sulla giurisdizione, perché con lo Statuto dei lavoratori (maggio 1970) i giudici si videro attribuire un inedito ruolo di garanti e promotori dei diritti sociali e il sistema giudiziario divenne strumento di emancipazione dei cittadini. Il modello era, per definizione, espansivo, e in breve si affermò anche in altri settori: la casa, lo studio, i diritti degli utenti, la famiglia, i minori, l’handicap, le aree emarginate, la tossicodipendenza, la sofferenza psichica, l’immigrazione ecc. Passò meno di un decennio e la magistratura dovette misurarsi con la stagione del terrorismo (nero e rosso) e poi con i fatti e i misfatti di poteri occulti e illegali (dai servizi deviati alla P2), con una corruzione di estensione abnorme e addirittura “sistemica”, oltre che con una mafia sempre più aggressiva e potente (come emerge anche in questo libro). Di qui la proiezione della magistratura nella dimensione, egualmente inedita (e non senza forti esposizioni anche personali), di garante del diritto dei cittadini alla “legalità” nei confronti dei poteri forti, sia privati che pubblici, e di strumento di controllo dell’esercizio di tali poteri.
L’antimafia Altrettanto ovvia è la considerazione che l’Italia è sì un Paese con gravi problemi di mafia, ma possiamo orgogliosamente dire di essere anche il Paese dell’antimafia. In primo luogo per il prezzo altissimo che l’Italia ha pagato subendo un’infinità di vittime innocenti. Le vittime di mafia ci lasciano una “eredità” che lo storico Salvatore Lupo riconduce a questi concetti: dall’impegno di alcuni, e (purtroppo) dal martirio di altri, nasce la sorpresa che, in un’Italia senza senso della patria e dello Stato, ci siano persone disposte a morire per il loro dovere, per questa patria e per questo Stato. Prende così forma l’idea (di per sé contraddittoria) delle persone vittime di mafia come “rivoluzionarie”, in quanto portatrici di legalità. Viviamo in un Paese nel quale agli occhi dei cittadini lo Stato si manifesta troppo spesso solo con i volti impresentabili di tanti personaggi eccellenti che con il malaffare hanno scelto di convivere, o peggio. Le vittime di violenza mafiosa sono state soprattutto straordinarie creatrici di credibilità e rispettabilità. Vale a dire che operando come hanno operato in vita, e sacrificandosi fino alla morte, hanno restituito lo Stato alle persone, che così riescono a dare un senso alle parole “lo Stato siamo noi”.
C’è di più: l’Italia è all’avanguardia per ciò che compete la legislazione e l’organizzazione del contrasto dei fenomeni mafiosi.
Non è un caso se Eurojust18, l’embrione della futura Procura europea, è modellato sulla nostra Procura nazionale antimafia. E non è un caso che l’Onu abbia tenuto proprio a Palermo, nel dicembre 2000, la Conferenza contro la criminalità organizzata transnazionale. Soprattutto, non è un caso che, sottoscrivendo la Convenzione finale, circa due terzi degli Stati aderenti alle Nazioni Unite abbiano assunto l’impegno di inserire nel proprio ordinamento tutta una serie di misure, “pensate” con riferimento alla concreta realtà delle organizzazioni criminali, mutuate dall’esperienza investigativo-giudiziaria maturata in particolare nel nostro Paese. L’elenco delle principali misure comprende infatti – fra l’altro – la previsione come reato della partecipazione a un gruppo criminale organizzato; la confisca dei beni dell’associazione; la protezione dei testimoni e l’assistenza delle vittime; l’incentivazione dei “pentimenti” mediante sconti di pena fino all’immunità; il ricorso nelle indagini a operazioni sotto copertura. Una specie di Little Italy antimafia...
Ma il nostro fiore all’occhiello, ovunque studiato e imitato, è l’antimafia sociale o dei diritti. Di nuovo, non è un caso se la Comunità europea – con apposite direttive – ha recentemente indirizzato gli Stati membri verso la strada della confisca dei beni mafiosi e della loro destinazione ad attività socialmente utili. Esattamente ciò che avviene in Italia fin dal 1996 grazie a una legge, la n. 109, voluta dall’associazione Libera, che l’ha saputa “imporre” col traino irresistibile di un milione di firme raccolte. Ed ecco un’antimafia che paga in termini di lavoro e iniziative economiche libere. Un recupero di dignità, che materializza la legalità come vantaggio per la collettività, attraverso la restituzione di ciò che le mafie le hanno tolto19. Anche questo è l’Italia.
Nota degli autori
Come “certificazione” di questo libro, pur consapevoli di poter apparire presuntuosi, gli autori presentano la loro esperienza in tema di contrasto investigativo-giudiziario della criminalità organizzata. Un’esperienza maturata sul campo, che ben può dirsi sufficientemente estesa e profonda, in particolare per quanto concerne la realtà rappresentata da Cosa nostra. Su di essa, pertanto, verteranno prevalentemente le ricostruzioni storiche. Anche se – come risulterà – la cornice interpretativa sarà facilmente riferibile anche alle altre realtà rientranti nella fattispecie dell’articolo 416 bis del codice penale. Invero, Guido Lo Forte è stato pubblico ministero a Palermo per più di trent’anni, prima come sostituto e poi come procuratore aggiunto, e a Messina, come procuratore capo della Repubblica presso il Tribunale. Con la Direzione distrettuale antimafia di Palermo ha curato tra l’altro i processi Andreotti, Dell’Utri e Carnevale nella fase delle indagini e del dibattimento di primo grado. Gian Carlo Caselli ha lavorato per quasi sette anni come procuratore capo di Palermo, avendo chiesto di essere nominato a questo ruolo subito dopo le stragi del 1992. Successivamente, come procuratore capo di Torino, si è occupato di insediamenti della ’ndrangheta in Piemonte.
Anche questa volta Ellekappa (Laura Pellegrini) ha regalato – al nostro libro e a noi – un contributo dei suoi, come sempre assai prezioso. Vogliamo ringraziarla di cuore.
1 Così Salvatore Lupo nell’articolo L’evoluzione di Cosa nostra: famiglia, territorio, mercati, alleanze, in “Questione giustizia”, 3, 2002, pp. 499-506.
2 Prima avvocato e poi magistrato (procuratore generale di Catanzaro dal 1866 al 1867 e di Palermo dal 1868 al 1872), Tajani fu eletto deputato nel 1874; ministro di Grazia e Giustizia nel biennio 1878-79 e poi dal 1885 al 1887 nei gabinetti Depretis; vicepresidente della Camera dei deputati negli anni 1878, 1880 e 1885; e infine senatore dal 25 ottobre 1896 per decreto di re Umberto I.
3 Così John Dickie, storico e accademico britannico, docente di Italianistica presso l’University College di Londra, nell’Introduzione del suo libro Cosa Nostra. Storia della mafia siciliana, Laterza, 2005.
4 Sorte decisamente peggiore toccò nel 1984 al mafioso Leonardo Vitale, che più di dieci anni prima aveva fornito preziose informazioni sui segreti di mafia, senza essere creduto da nessuno. Era l’epoca in cui si negava l’esistenza stessa della mafia. Raccontare una cosa “inesistente” è da pazzi. E infatti Leonardo Vitale fu rinchiuso in manicomio. Aveva detto importanti verità (lo scoprirà in seguito Falcone), ma le sue accuse non ebbero alcuno sviluppo. Nonostante questo, la mafia lo uccise ugualmente quando uscì dal manicomio. Solo perché aveva parlato. Era ormai inoffensivo, ma Cosa nostra non può mai permettersi che un suo aderente affidi a verbali ufficiali la verità sulle sue attività.
5 Vedi Antonio Calabrò, nella Nota di presentazione del libro di Leopoldo Notarbartolo, Mio padre Emanuele Notarbartolo, Sellerio, 2018.
6 Ne parleremo nel cap. 2.
7 Il politologo Gaetano Mosca lo ha descritto come una persona che “accoglieva tutti, prometteva a tutti, stringeva a tutti la mano, chiacchierava infaticabilmente con tutti” (così ancora Antonio Calabrò, nella Nota al libro di Leopoldo Notarbartolo, Mio padre Emanuele Notarbartolo, cit.).
8 Così Francesco Bruno, Banchiere, burocrate, ucciso dalla mafia: l’importanza attuale del caso Notarbartolo, in “Il Sole 24 Ore – Econopoly”, 28 ottobre 2018 (recensione del libro Storia del Banco di Sicilia, a cura di Pier Francesco Asso, Donzelli, 2017).
9 Come vedremo nel seguito di questo libro, gli annullamenti delle condanne inflitte nei processi di mafia sembrano essere stati, per certi profili, una sorta di “specialità” della Cassazione, naturalmente con lodevoli eccezioni.
10 Per una analisi approfondita del delitto Notarbartolo e del relativo contesto, vedi Enzo Ciconte, Chi ha ucciso Emanuele Notarbartolo? Il primo omicidio politico-mafioso, Salerno, 2019; e Salvatore Lupo, Tra banca e politica: il delitto Notarbartolo, in “Meridiana”, 7-8, 1989-1990, pp. 119-155.
11 Sul punto, vedi Andrea Cionci, La vera storia dello sbarco in Sicilia, “La Stampa – Cultura”, 24 febbraio 2017.
12 Francesco Renda, Il movimento contadino in Sicilia, in Campagne e movimento contadino nel Mezzogiorno d’Italia dal dopoguerra a oggi, De Donato, 1979, vol. I, p. 559.
13 Umberto Santino, Storia del movimento antimafia. Dalla lotta di classe all’impegno civile, Editori Riuniti, 2000, p. 139.
14 Al movimento contadino si ricollega, per certi profili, la figura di Danilo Dolci, anch’egli impegnato per svincolare l’agricoltura dal controllo mafioso. L’esperienza di Dolci in Sicilia inizia nel 1952 e si sviluppa (a Trappeto e Partinico) dalla parte degli oppressi e con gli oppressi, con varie iniziative non violente. Le più significative: il digiuno sul letto di un bambino morto di fame (interrotto soltanto quando le autorità promisero di costruire finalmente un impianto fognario); uno sciopero della fame collettivo contro la pesca di frodo tollerata dallo Stato ancorché devastante per i “veri” pescatori del posto (manifestazione impedita dalle autorità con la motivazione, in sostanza, che era vietato digiunare in spiaggia); lo sciopero alla rovescia (disoccupati che “scioperano” lavorando alla riparazione di una “trazzera”). Dimostrazioni che causarono a Dolci e ai suoi compagni arresti, carcere e condanne per resistenza e oltraggio, istigazione a disobbedire alle leggi, invasione di terreni, oltre naturalmente all’accusa di essere un pericoloso sovversivo. Inoltre il cardinale Ruffini, in un’omelia del 1964, lo additò (insieme al romanzo Il Gattopardo e al gran parlare di mafia...) come uno dei fattori che maggiormente disonoravano la Sicilia.
15 Vedi ad esempio quella svolta – fra storia, filosofia e scienze sociali – da Fabio Armao, Il sistema mafia. Dall’economia-mondo al dominio locale, Bollati Boringhieri, 2000.
16 Bisogna ammettere che il ruolo della magistratura è stato spesso insufficiente e contraddittorio, con una sostanziale incapacità di cogliere in concreto i punti di snodo dell’intreccio tra vicende politiche e vicende di mafia, magari riconosciuti e proclamati in teoria. Nel libro Giudici. Cinquant’anni di processi di mafia (Sellerio, 1994) Giuseppe Di Lello, componente del pool di Falcone e Borsellino, parla al riguardo di “grande scaltrezza”. Torneremo sul punto, osservando peraltro che, naturalmente, in vari periodi storici ci sono anche stati magistrati privi di tale “scaltrezza”. Gli autori di questo libro, avendo fatto parte della Procura di Palermo operante dopo le stragi del ’92, rivendicano (senza timidezze e anzi orgogliosamente) di non essere stati “scaltri”. Così, la Procura tutta nel periodo 1993-99 ha potuto raggiungere – dati alla mano – risultati imponenti e di grande rilievo sia sul versante delle “relazioni esterne” (accertando le responsabilità di vari imputati eccellenti), sia su quello della mafia “militare”.
17 Una svolta davvero decisiva si è avuta solo di recente con papa Francesco, quando in Calabria, il 21 giugno 2014, davanti a una folla immensa ha proclamato che la mafia “è adorazione del male e disprezzo del bene comune. Questo male va combattuto, va allontanato! Bisogna dirgli di no! [...] Coloro che nella vita seguono questa strada di male, come sono i mafiosi, non sono in comunione con Dio: sono scomunicati!”. Parole finalmente chiare quanto pesanti. Mai pronunziate prima. Una condanna esplicita al massimo della pena, l’espulsione dalla comunione dei fedeli. Nello stesso tempo un severo monito alla Chiesa, perché sia reciso ogni rapporto con i boss, rinunziando alle ambiguità, passività e disattenzioni.
18 Unità di cooperazione giudiziaria istituita dal Consiglio dell’Unione europea con decisione del 28 febbraio 2002.
19 Carlo Alberto Dalla Chiesa, ucciso dalla mafia il 3 settembre del 1982, nell’intervista che Giorgio Bocca gli fece pochi giorni prima (“Come combatto contro la mafia”, in “la Repubblica”, 10 agosto 1982), prefigura l’antimafia sociale o dei diritti quando – lui, uomo “programmato” per la repressione nel rispetto delle regole – non dice che per sconfiggere la mafia ci vogliono manette e ancora manette, ma altro: “Ho capito una cosa molto semplice ma forse decisiva; gran parte delle protezioni mafiose, dei privilegi mafiosi caramente [nel senso di “a caro prezzo”: N.d.A.] pagati dai cittadini non sono altro che i loro elementari diritti. Assicuriamoglieli, togliamo questo potere alla mafia, facciamo dei suoi dipendenti i nostri alleati”. In altre parole, se i diritti fondamentali dei cittadini non sono soddisfatti, i mafiosi li intercettano e li trasformano in favori che elargiscono per rafforzare sempre più il loro potere. Così la mafia vince sempre. I mafiosi ne sono ben consapevoli. E la gente non fa certo quadrato con lo Stato.