5.
L’ordinamento istituzionale di Cosa nostra
e le sue funzioni politiche interne
1. La mafia è un’istituzione organizzata
Roderico Pantaleoni, procuratore generale del Re presso la Corte di appello di Palermo, nel 1902, all’inaugurazione dell’anno giudiziario, ebbe a dire: “Se vi è tra voi chi creda ch’entrando a parlare della delinquenza io debba intrattenermi sulla maffia si disilluda o meglio si conforti. Se ne è parlato tanto, si è fatto tanto abuso di questo vocabolo che, francamente lo dico, non se ne può più di sentirne parlare senza provare un senso di nausea e di disgusto”1. Confidiamo che i nostri lettori non la pensino così, anche se per oltre un secolo l’opinione prevalente – non solo di Pantaleoni – convergeva (sia pure con alcune varianti) nel negare la mafia come organizzazione criminale, riducendola all’innocuo livello di semplice “mentalità”, “costume”, “stato d’animo”2.
La verità sulla mafia emerge per la prima volta nel maxiprocesso di Palermo istruito dal pool antimafia di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino3. Una dettagliata ricostruzione fondata essenzialmente sulle dichiarazioni di Tommaso Buscetta e di Salvatore Contorno (poi confermata dalle dichiarazioni di molti altri pentiti4, oltre che dall’esito di numerose indagini di Polizia giudiziaria) accerta che Cosa nostra è una organizzazione segreta disciplinata da regole non scritte, tramandate oralmente, di cui non si troverà mai traccia documentale non esistendo elenchi di appartenenza, né attestati di alcun tipo.
L’ingresso nell’associazione avviene per “cooptazione”, basata – secondo schemi simili a quelli del costume feudale – su criteri ereditari e/o di selezione “meritocratica”. I requisiti richiesti sono: l’appartenenza a famiglie già inserite o comunque vicine all’organizzazione; il possesso accertato di doti di “coraggio” e di “valore” (in senso criminale); una situazione familiare “limpida” secondo gli archetipi dell’antica cultura siciliana; l’assenza di vincoli con persone che rappresentino l’autorità dello Stato (“sbirri”).
Il soggetto in possesso di questi requisiti viene dapprima avvicinato e poi “studiato”, per sondare le sue capacità e la sua disponibilità a far parte dell’associazione. Quindi il neofita viene “iniziato”, mediante una cerimonia rituale e arcaica che si svolge alla presenza di almeno tre “uomini d’onore” della “famiglia” di cui andrà a far parte. In gergo mafioso, la cerimonia prende il nome da una sua fase, la cosiddetta punciuta, cioè la puntura dell’indice della mano (il dito che si utilizza per sparare) con una spina di arancio amaro o, a seconda del clan mafioso, con un’apposita spilla d’oro. Il sangue versato bagna una immaginetta sacra a cui viene dato fuoco mentre il nuovo affiliato la tiene tra le mani e pronuncia parole vincolanti: “Giuro di essere fedele a Cosa nostra; possa la mia carne bruciare come questo santino se non manterrò fede al giuramento”. Dopo il giuramento – e solo allora – l’“uomo d’onore” diventa a tutti gli effetti membro dell’associazione: viene presentato al capo-famiglia, del quale prima non doveva conoscere la carica; è ammesso a conoscere i segreti di Cosa nostra; può entrare in contatto con gli altri associati.
La qualità di “uomo d’onore”, una volta acquisita, cessa soltanto con la morte. Anche se egli si trasferisce in luoghi lontani dalla Sicilia, e quindi non viene impiegato attivamente negli affari della famiglia, deve sempre essere disponibile a soddisfare qualunque richiesta gli provenga dall’organizzazione.
2. Gli organi di Cosa nostra: famiglie, mandamenti, Commissione
Già nell’immediato dopoguerra, Cosa nostra (che si era “mimetizzata” nel periodo fascista5) si ricostituisce con il suo tradizionale assetto gerarchico e territoriale.
La cellula primaria dell’organizzazione è la “famiglia”, una struttura rigidamente ancorata al territorio, che controlla una zona della città, in genere una borgata o un intero centro abitato da cui prende il nome (ad esempio, a Palermo, famiglia di Porta Nuova, famiglia di Ciaculli ecc.). La famiglia è governata da un capo di nomina elettiva chiamato anche “rappresentante”, il quale a sua volta nomina il “sottocapo”, uno o più “consiglieri” e i “capi-decina”, che hanno la funzione di coordinare l’attività degli “uomini d’onore” loro affidati.
La struttura secondaria è costituita dal “mandamento”, che comprende normalmente due o tre famiglie contigue: ciascun mandamento è governato da un “rappresentante”.
In ciascuna provincia esiste poi una struttura di vertice. Originariamente a Palermo, negli anni ’50, come in tutte le altre province siciliane, gli organi di vertice sono costituiti dal “rappresentante provinciale”, dal “vicerappresentante” e dal “consigliere provinciale”. Nel 1957 si registra una evoluzione, con la creazione di un organo collegiale di vertice: la “Commissione”, di cui fanno parte i capi-mandamento della provincia, con a capo Salvatore Greco “Cicchiteddu”6. Questa innovazione istituzionale è – quasi sicuramente – conseguenza di una intesa fra Cosa nostra siciliana e Cosa nostra americana, realizzata nel dopoguerra, che ebbe una manifestazione visibile in una riunione di mafiosi siciliani e italo-americani avvenuta al Grand Hotel et des Palmes di Palermo il 2 ottobre 1957.
Dopo la prima “guerra di mafia” (anni 1962-63), e in particolare dopo la strage di Ciaculli del 1963, nella quale perdono la vita sette uomini delle forze dell’ordine, l’organizzazione mafiosa subisce un periodo di sbandamento, determinato anche dalla reazione dello Stato. L’ordinamento mafioso viene sciolto; e la ristrutturazione gerarchica dell’organizzazione si verifica solo alla fine degli anni ’60, quando, subito dopo la strage di viale Lazio (10 dicembre 1969), viene costituito un organismo straordinario, il cosiddetto “triumvirato”, composto da Gaetano Badalamenti, Luciano Leggio7 e Stefano Bontate, incaricato – come precedentemente accennato – proprio di riorganizzare la mafia palermitana.
Gli organismi ordinari si ricostituiscono solo verso la metà degli anni ’70, dopo il “processo dei 114”8. Con Salvatore Greco “Cicchiteddu” viene infatti ricostituito l’organismo collegiale della Commissione, composto dai capi-mandamento. E già nell’ottobre 1975, Nicola Greco9 riferisce al catanese Giuseppe Calderone10 che a breve come “segretario” della Commissione provinciale di Palermo sarebbe stato nominato Michele Greco11.
3. Funzioni e competenze della Commissione
La funzione originaria della Commissione è quella di risolvere i contrasti fra i membri delle varie famiglie e i rispettivi capi; successivamente, si estende fino a disciplinare e coordinare le attività di tutte le famiglie esistenti in una provincia. Solo a Palermo l’organismo di vertice ha una struttura collegiale: ciascun membro rappresenta tre famiglie territorialmente contigue. Nelle altre province continua a esservi un organismo singolo, costituito dal rappresentante provinciale.
Al di sopra degli organi di vertice provinciali viene successivamente costituita la Commissione interprovinciale o regionale, formata dai capi delle varie province (un rappresentante per ogni provincia), con compiti di coordinamento degli affari di interesse per più province.
Sebbene il rapporto tra le province sia formalmente paritario, per ragioni di priorità storica e di maggiore potenza militare ed economica della mafia palermitana, la Commissione provinciale di Palermo ha una preminenza di fatto: le sue decisioni “sono orientative per le altre Commissioni”12; anzi, “chi ha in mano la mafia di Palermo detta legge ovunque”13, per la “prevalenza assoluta della parte palermitana”14.
Per un lungo periodo storico la Commissione ha una competenza esclusiva per i fatti criminosi di maggiore importanza, in particolare per le decisioni riguardanti gli omicidi di “uomini d’onore” e di personaggi di rilievo, estranei all’organizzazione (ad esempio, appartenenti alle forze dell’ordine, magistrati, uomini politici, giornalisti, avvocati). Ciò perché tali uccisioni possono determinare reazioni dello Stato o della corporazione di appartenenza della vittima, con possibili conseguenze negative per gli interessi generali di Cosa nostra e non soltanto di singoli esponenti dell’organizzazione. In altre parole “questi omicidi apportano [...] un danno a tutti, e quindi il consenso deve essere di tutti”15.
Queste “procedure non soffrono eccezione”16: era impensabile che qualcuno dei componenti la Commissione restasse escluso dal processo decisionale. E proprio per questa sua strutturazione verticistica, e per il rigoroso procedimento di formazione delle decisioni di maggiore importanza, Cosa nostra è riuscita ad acquisire nel tempo un potere (criminale) enorme, che ha condizionato per molti decenni la vita di una intera regione e non solo17.
La ricostruzione della struttura di Cosa nostra compiuta sulla base delle dichiarazioni dei pentiti è stata confermata anche da straordinari e precisi riscontri esterni. Ricordiamo in particolare: 1) le ormai famose (quanto meno per gli “specialisti”) intercettazioni ambientali eseguite dalla Polizia canadese il 22 aprile e il 10 maggio 1974 all’interno del Reggio Bar di Montréal, ma trascritte e utilizzate processualmente in Italia solo molti anni dopo; 2) le intercettazioni (questa volta telefoniche) utilizzate dalla Corte di assise di Palermo nel maxiprocesso – perciò “storiche” – eseguite nel corso degli anni nell’ambito di vari procedimenti penali; 3) le intercettazioni ambientali eseguite dalla Dia in via Ughetti, a Palermo, nel marzo del 1993, nelle quali si parla anche dell’attentatuni, cioè della strage di Capaci.
In tutte queste intercettazioni, si rileva l’impiego abituale di una terminologia (Cosa nostra, famiglie, mandamenti, province, consiglieri, rappresentanti, capo-provincia, capo-mandamento...), insieme a espliciti riferimenti alla Commissione e alla sua attività decisionale sul comportamento degli “uomini d’onore”. Terminologia e riferimenti esattamente sovrapponibili alle dichiarazioni dei pentiti, delle quali costituiscono pertanto la più completa e indiscutibile conferma.
Va poi sottolineato che dalle intercettazioni ambientali di via Ughetti (poi confermate da uno dei protagonisti di quelle conversazioni, Gioacchino La Barbera) risulta evidente che la strutturazione istituzionale di Cosa nostra è rimasta sostanzialmente immutata almeno fino al 199318.
4. L’“ordinamento giuridico” di Cosa nostra
Stando a quel che risulta dalle intercettazioni e dal racconto dei pentiti, Cosa nostra non è stata, e non è, una comune associazione criminale, bensì un vero e proprio “Stato illegale”. In quanto tale, Cosa nostra ha quindi un “ordinamento giuridico” costituito da strutture istituzionali competenti per specifiche funzioni e regolato da norme di comportamento. Le funzioni di governo e di determinazione dell’indirizzo politico dell’organizzazione, nonché le funzioni normative e quelle superiori di giurisdizione, per un lungo periodo storico sono state riservate alla Commissione. Agli organi subordinati (i capi-mandamento e i capi-famiglia) sono invece demandate le funzioni di gestione “amministrativa” dei propri territori, nonché il controllo delle attività economiche che si esercitano nei rispettivi ambiti.
Nell’ordinamento giuridico di Cosa nostra sono comprese norme di comportamento cui tutti gli associati devono immancabilmente attenersi: norme garantite mediante sanzioni, graduate in relazione alla gravità delle violazioni (morte, espulsione, sospensione ecc.).
Organi di “giustizia” sono, in ordine crescente di importanza, i capi-famiglia, i capi-mandamento e la Commissione (cui è riservata ogni decisione per quanto riguarda le sanzioni da applicare agli “uomini d’onore”). Per l’accertamento delle eventuali responsabilità, Cosa nostra svolge rapide e incisive “investigazioni” (la tortura è mezzo “inquisitorio” ampiamente praticato). Si può dire pertanto che l’organizzazione è in grado di conoscere quanto avviene nel territorio di ogni famiglia quasi in tempo reale, applicando – se occorre – le relative insindacabili sanzioni.
Nell’aspetto funzionale l’ordinamento giuridico di Cosa nostra comprende in sé – oltre che una attività di governo e di giurisdizione – anche una attività di vera e propria “imposizione fiscale”. Infatti, secondo una regola fondamentale e inviolabile, l’organizzazione deve partecipare ai proventi di tutte le attività economiche che si svolgono nel suo territorio indistintamente, nell’ambito delle sfere di competenza già descritte. Criterio di individuazione dell’organo “impositivo” competente è il luogo di insediamento dell’attività produttiva di reddito; sicché sono competenti i capi delle famiglie nei cui territori le varie attività si svolgono, salvo l’obbligo di investire i capi-mandamento o la Commissione per tutti i problemi derivanti dall’esercizio della funzione “impositiva” che possono coinvolgere gli interessi generali del mandamento o dell’intera organizzazione. La regola è – come già detto – assolutamente inderogabile: tant’è che si applica anche alle attività produttive di reddito facenti capo agli stessi “uomini d’onore”, quando si svolgono nei territori di altre famiglie. Questa attività “impositiva” – che, al di là dell’eufemismo, si concreta in sistematiche condotte estorsive e nelle collaterali attività delittuose (intimidazioni, danneggiamenti, attentati dinamitardi ecc.) – è di interesse vitale per l’organizzazione mafiosa. Attraverso le estorsioni, infatti, Cosa nostra realizza due obiettivi fondamentali: uno economico, determinato dall’acquisizione costante e “regolare” di considerevoli profitti; un altro di “politica criminale”, costituito da un sistematico controllo del territorio, sul quale l’organizzazione, sostanzialmente sostituendosi allo Stato, esercita un potere illegale di “imposizione fiscale” in ragione dei corrispettivi servizi di “protezione”, in tal modo riuscendo anche a ottenere dagli stessi operatori economici vittime del fenomeno un certo consenso, sia pure “drogato”19.
La “sovranità” di Cosa nostra sul territorio non si esaurisce nello sfruttamento estorsivo delle attività economiche legali (il “pizzo” nelle sue varie forme), ma si manifesta anche nel controllo delle attività illegali della criminalità comune, alla quale non è consentito di operare come una variabile indipendente e autonoma.
Nei territori delle famiglie mafiose, pertanto, gli esponenti della criminalità comune sono soggetti passivi di una duplicità di ordinamenti: quello statale e quello parallelo di Cosa nostra, che hanno il monopolio della forza, rispettivamente legale e illegale20.
La subordinazione a Cosa nostra della delinquenza comune si manifesta in varie forme cogenti: in particolare l’obbligo di informare preventivamente, ottenendo la necessaria “autorizzazione”, la famiglia mafiosa del luogo in cui si intende operare. Le violazioni espongono i trasgressori a sanzioni che, nei casi più gravi, possono giungere alla morte. La motivazione ultima e determinante delle sanzioni consiste essenzialmente nel fatto che l’organizzazione non può ammettere forme di concorrenza incontrollata.
5. La gestione del “quotidiano”
Dopo la cattura di Giuseppe Graviano21, a capo del mandamento di Brancaccio viene collocato Antonino Mangano, già “uomo d’onore” della famiglia di Roccella e legato a Leoluca Bagarella. Arrestato, Mangano viene trovato in possesso di vari documenti. Di eccezionale interesse tre lettere scambiate con Giuseppe Graviano (che si firma sobriamente “madre natura”)22, detenuto sottoposto a 41 bis, all’evidenza – nel caso di specie – assai “allentato”.
Di tali lettere, riportiamo testualmente qualche brano che non ha bisogno di alcun commento, essendone assolutamente chiari, espliciti e sconcertanti sia il significato sia le implicazioni.
Scrive Graviano:
– “Ci sono venti carcerati che sono rovinati processualmente e non hanno mezzi economici per affrontare la situazione; l’impegno è di darci dai tre a quattro appartamenti ciascuno per avere un futuro economico sicuro sia loro che le loro famiglie.
– Sempre i carcerati mi chiedono perché gli è stato diminuito il mensile dopo il mio arresto [...].
– [...] solo per me spendo venti milioni al mese di avvocato, vestirmi, libretta e colloqui.
– Quando ero fuori si incassavano 800 milioni annuo (sic) effettivi + da 1 a 1 ½ miliardi extra [...].
– [...] i costruttori che sono in moto debbono uscire questi appartamenti [omissis], se qualcuno babbìa [scherza, fa il finto tonto: N.d.A.] vi dico io quali sono stati i patti [...].
– [...] non fate società con i costruttori che ho io, forse qualcuno babbìa e gliela debbo fare pagare, chi approfitta dei carcerati la paga perché è un infame”.
Rispondono gli interlocutori di Graviano:
– “[...] inoltre quando c’è (sic) lo chiedono diamo i soldi per gl’avvocati. Per esempio nel 94 quelli documentati sono 66 M, nel 95 fino a oggi sono 36 M. Ti faccio un quadro della situazione gli stipendi attuali ammontano a 474 M per i carcerati, 156 M x latini [latitanti: N.d.A.], 270 M per le persone indispensabili che girano vicini a noi [...].
– [...] per quanto riguarda i costruttori che sono in moto stiamo facendo come ci hai mandato a dire”.
Se queste lettere si leggono in parallelo con altra documentazione sequestrata a Mangano, si ottiene un quadro in cui risultano meticolosamente registrate le “normali” attività dell’associazione mafiosa nel territorio di quel mandamento, e cioè: le spese, anche minute, ma complessivamente piuttosto ingenti, sostenute nell’interesse dell’associazione mafiosa, dagli “stipendi” pagati agli associati al sostentamento dei detenuti e delle loro famiglie, fino alle parcelle degli avvocati; e poi gli introiti, con indicazione dell’origine (traffico di stupefacenti, rapine, estorsioni ecc.); gli incarichi conferiti ai singoli associati e i contatti avuti sia con gli uomini dipendenti da Mangano, sia con quelli a lui sovraordinati (e cioè Leoluca Bagarella, indicato come “zio Franco”), sia con quelli di altre famiglie.
Come si vede, si tratta di uno straordinario “spaccato” (in collegamento diretto e senza filtri con personaggi di primissimo piano dell’organizzazione criminale) che offre un irripetibile quanto cupo “affresco” di quella che è la “normale”, quotidiana, segreta attività criminosa di Cosa nostra, nonché della permanenza di vincoli associativi e operativi tra gli “uomini d’onore” senza che la detenzione di alcuni sia più che tanto di intralcio.
Crediamo, senza esagerazione, che questa documentazione dovrebbe essere utilizzata ogni volta che si parla – a qualunque livello e in ogni contesto – di organizzazione mafiosa. Anche per evidenziare che per la sola gestione del “quotidiano” occorre un budget di entità tale da spiegare (senza che occorrano altre disquisizioni) quanto l’economia pulita sia esposta al rischio di inquinamento mafioso.
6. La funzione repressivo-penale
È evidente, a questo punto, che Cosa nostra – a differenza di altre comuni organizzazioni criminali – non può assolutamente tollerare violazioni delle sue regole; e se ciò avviene, deve necessariamente intervenire con una attività di repressione, modulata secondo la maggiore o minore importanza, evidenza e persistenza della trasgressione.
La sanzione più grave è l’omicidio, al quale Cosa nostra ricorre quando il trasgressore non si piega all’osservanza della regola, malgrado i richiami e gli avvertimenti inviatigli. La sanzione dell’omicidio può essere, in questi casi, irrogata dal capo-famiglia o dal capo-mandamento oppure dalla stessa Commissione, a seconda della dimensione territoriale e della rilevanza degli interessi posti in discussione dal trasgressore. La competenza è, ovviamente, della Commissione quando la trasgressione diviene, per le modalità con cui si manifesta, un atto di ribellione contro l’autorità di Cosa nostra, o pone in pericolo – per i suoi effetti diffusivi – il “prestigio” dell’intera organizzazione. Fra le tante, emblematiche al riguardo sono le vicende di Libero Grassi23 e del meno noto ma altrettanto valoroso Donato Boscia24.
Nell’ordinamento di Cosa nostra, anche gli omicidi costituiscono strumenti di attuazione e tutela dei “valori” politici dell’organizzazione. E presentano caratteristiche socio-criminali talmente peculiari da costituire una categoria assolutamente autonoma, non paragonabile a nessun’altra nell’intero panorama criminale nazionale.
La prima e fondamentale caratteristica è che l’omicidio mafioso, tranne ipotesi marginali, non è un evento storicamente ricostruibile con riferimento alla “solita” sequenza vittima-movente-autore. E ciò perché esso non si verifica all’interno di contesti meramente “interindividuali”, tali cioè da coinvolgere solo i conflitti di interesse dei singoli individui protagonisti dell’evento. L’omicidio mafioso infatti, in misura minore o maggiore a seconda delle sue finalità specifiche, riassume e riflette nel suo iter decisionale e nella sua attuazione la dimensione “superindividuale” dell’organizzazione, in quanto costituisce lo strumento privilegiato attraverso il quale Cosa nostra manifesta la sua esistenza e realizza le sue “regole” nella collettività sociale.
Questo significato “ordinamentale” di ogni singolo omicidio si esplicita in tutte le fasi dell’iter criminoso. Nella fase della decisione, è lo status delle vittime che determina il livello istituzionale competente, previa valutazione dei “costi” e dei “benefici” dell’atto criminoso25. L’esecuzione di omicidi di “ordinaria amministrazione” – concernenti cioè vittime esterne all’organizzazione, la cui eliminazione non determina rischi e conseguenze di rilievo – è sottoposta invece al vaglio preventivo di un livello istituzionale inferiore, potendo essere decisa o autorizzata dai capi-mandamento e dai capi-famiglia. Quale che sia la vittima, nessun “uomo d’onore” può – senza con ciò commettere una grave violazione delle regole sanzionabile con la morte – decidere autonomamente ed eseguire un qualsiasi omicidio in assenza di un ordine ricevuto in tal senso o dell’autorizzazione dell’organo competente.
La dimensione superindividuale dell’omicidio si manifesta anche nella fase della progettazione e dell’esecuzione del delitto, che vede normalmente coinvolti e partecipi con ruoli diversi una pluralità di “uomini d’onore”, spesso appartenenti a famiglie diverse; in questo modo l’intera organizzazione è impegnata nel garantire il buon esito dell’operazione, e i singoli partecipanti compiono una attività “doverosa”, che prescinde da qualunque coinvolgimento di interessi personali.
Infine, profili “ordinamentali” si ricollegano anche alle minuziose disposizioni che regolano i rapporti tra le famiglie e i territori che siano interessati dallo stesso omicidio.
7. La
costituzione formale e la costituzione materiale
di Cosa nostra
Il sistema di regole e strutture che abbiamo descritto, che si potrebbe definire la “costituzione formale” di Cosa nostra, non è mai stato ufficialmente posto in discussione, fino ai giorni nostri. Né potrebbe essere diversamente, poiché Cosa nostra è una organizzazione che esiste come tale in quanto si identifica con quelle regole e quelle strutture.
Ma come ogni struttura di carattere politico-istituzionale, anche quella di Cosa nostra ha subito nel tempo variazioni; non già nel senso formale di mutamento delle “regole”, piuttosto nel senso sostanziale di una “costituzione materiale” plasmata da esigenze storiche contingenti. In particolare, questa discrasia fra “costituzione materiale” e “costituzione formale” si è verificata nei cosiddetti momenti di crisi dell’organizzazione, determinati da gravi conflitti interni (ad esempio la cosiddetta “guerra di mafia” dei primi anni ’80) oppure nei momenti di più decisa repressione da parte dello Stato.
Nel corso degli anni ’80, dunque, dopo l’ascesa al potere dei Corleonesi di Salvatore Riina, se da un lato si ostentano la permanenza della “costituzione formale” e l’apparente scrupolosa osservanza delle regole più tradizionali di Cosa nostra, in realtà la struttura politica dell’associazione mafiosa subisce una evoluzione radicale e profonda.
Gli omicidi di Stefano Bontate (23 aprile 1981) e di Salvatore Inzerillo (11 maggio 1981) segnano infatti una svolta: da una situazione di occulti conflitti interni, nell’ambito di una organizzazione pluralistica retta da regole che – se non fosse bestemmia – si potrebbero ancora definire formalmente “democratiche”, si passa a una strategia di conquista del potere assoluto da parte dei Corleonesi. Cosa nostra si trasformerà in una “dittatura”, fondata non più sulla ricerca del consenso ma esclusivamente sul terrore, sia all’interno sia nei confronti della società e dello Stato.
Alla organizzazione precedente, avente le caratteristiche di una federazione orizzontale di strutture radicate nel territorio, si sostituisce gradualmente un altro principio organizzativo, il “principio del capo” (quello che gli storici chiamano Führerprinzip), che comincia a permeare di sé tutta l’organizzazione e a influenzare le stesse modalità di funzionamento dell’organo di vertice: fino a manifestarsi non più in riunioni plenarie della Commissione, bensì in riunioni frazionate dei vari capi-mandamento con il capo.
Come spiega Salvatore Cancemi26, egli stesso membro della Commissione27, in questo periodo storico la Commissione provinciale di Palermo di Cosa nostra è totalmente egemonizzata da Riina, il quale diviene progressivamente un “dittatore”, nel senso che di fatto assume personalmente l’iniziativa di tutte le decisioni importanti, pur sottoponendole formalmente all’assenso dell’organo collegiale. In pratica però nessuno dissente mai dalle sue proposte, avendo una tale egemonia in Cosa nostra da rendere estremamente difficile la manifestazione di una opinione contraria.
Dopo le stragi e l’arresto di Riina (15 gennaio 1993) l’incisività dell’azione di contrasto dello Stato – mai avute prima tanta intensità e determinazione – innesca in Cosa nostra ulteriori processi di trasformazione, che sostanzialmente modificano gli equilibri di potere interni e la politica delle “relazioni esterne”, determinando una ulteriore evoluzione della sua “costituzione materiale”.
In particolare, dopo la fase “emergenziale” seguita alle stragi, e più precisamente subito dopo la cattura di Leoluca Bagarella (24 giugno 1995) e di Giovanni Brusca (20 maggio 1996), il vertice di Cosa nostra inizia ad attuare concretamente un complesso progetto di “ricostruzione” del suo assetto organizzativo28. In questo periodo, la Commissione non può funzionare regolarmente: di fatto, il governo di Cosa nostra è gestito da una oligarchia di capi, anche disomogenei e tra loro rivali29, tenuta insieme dal carisma e dalla capacità di mediazione di Bernardo Provenzano. Per quanto riguarda il vertice di Cosa nostra, un dato che emerge con estrema chiarezza dalle indagini giudiziarie30 è la mancanza di un organismo collegiale operativo competente ad assumere decisioni di particolare importanza o di valenza generale. Le funzioni spettanti al vertice direttivo, un tempo rappresentato dalla Commissione, sono esercitate da alcuni soggetti che sembrano non essere stati al riguardo formalmente investiti, ma ai quali è diffusamente riconosciuta un’autorità superiore.
Dopo la morte di Provenzano (13 luglio 2016) e di Riina (17 novembre 2017), secondo una recente analisi della Dia31, Cosa nostra si presenta ancora come un’organizzazione verticistica unitaria, secondo tradizione strutturata in famiglie raggruppate in mandamenti nella parte occidentale e centrale della Sicilia. Continua peraltro la fase di transizione di Cosa nostra palermitana. E con la morte di Riina e Provenzano si aprono nuove prospettive: quelle della successione, caratterizzate da aspetti assai delicati e problematici, legati agli schieramenti, alle alleanze tra famiglie e ai nuovi rapporti di forza. In questa fase emerge anche una tendenza volta a superare la vecchia governance corleonese, per assicurare finalmente all’organizzazione una guida definita, riconosciuta e pienamente operativa. In tale contesto, trovano spazio – ormai da tempo – anche i cosiddetti “scappati” o “americani”, ovvero i perdenti sopravvissuti alla “guerra di mafia” vinta dai Corleonesi. Molti di loro, tornati a Palermo, stanno recuperando l’antico potere anche rapportandosi con l’ala corleonese, nonché avvalendosi degli storici rapporti con i boss d’oltreoceano.
1 La frase è citata da Attilio Bolzoni nell’apertura del libro FAQ mafia, Bompiani, 2010.
2 Un’altra citazione, per non negarci nulla in tema di improntitudine: ancora nel 1965, in un processo per l’assassinio del sindacalista siciliano Salvatore Carnevale, Tito Parlatore, procuratore generale presso la suprema Corte di Cassazione, responsabile della pubblica accusa (?), se ne uscì sostenendo che “gli imputati non sono mafiosi, bensì portatori di una mentalità mafiosa. La mafia è materia per conferenze e come tutti i problemi sociali esula dalle funzioni della corte di cassazione”.
3 Vedi la sentenza della Corte di assise di Palermo del 16 dicembre 1987, condivisa in appello e poi in Cassazione.
4 Ricordiamo Vincenzo Marsala, Antonino Calderone, Francesco Marino Mannoia, Gaspare Mutolo, Giuseppe Marchese, Leonardo Messina, Salvatore Cancemi, Francesco Di Carlo, Giovanni Brusca.
5 Il fascismo volle fare della lotta alla mafia una bandiera propagandistica: fu lo stesso Mussolini (23 ottobre 1925) a inviare in Sicilia Cesare Mori, presto soprannominato il “prefetto di ferro”. La sua azione fu vigorosa e colpì anche in alto, senza curarsi dell’opposizione di molti fascisti della prima ora. Mori non si fece problemi nemmeno a perseguire sia l’uomo più in vista del fascismo in Sicilia, Alfredo Cucco, sia l’ex ministro della Guerra, il generale Antonino Di Giorgio. Molti mafiosi dovettero emigrare negli Stati Uniti dove furono accolti e aiutati da Cosa nostra americana. Alcune cosche piegarono il capo sotto la repressione; altre invece rimasero in stato di latenza e colsero l’occasione dello sbarco degli Alleati in Sicilia per rialzare la testa, con gli americani che spesso misero proprio dei mafiosi ai vertici delle amministrazioni locali siciliane, etichettandoli sbrigativamente come sicuri antifascisti. La repressione di Mori fu brutale ma gli valse una popolarità che rischiava di offuscare il regime. Così, mentre Mori chiedeva maggiori poteri, Mussolini lo pensionò (1929) a 57 anni. Le statistiche parlano di un crollo dei reati mafiosi, ma il regime vietava di darne notizia, per cui la mafia più che sconfitta fu “silenziata”; non debellata, perché la repressione (per quanto vasta) a fronte di un fenomeno così complesso da sola anche allora non poteva bastare.
6 Il soprannome “Cicchiteddu” (uccellino, in siciliano) derivava dalla sua bassa statura.
7 Luciano Leggio, meglio conosciuto come “Liggio” (da un errore di trascrizione di un brigadiere), detto anche “Lucianeddu” o “Primula rossa di Corleone”, è stato il capo della mafia di Corleone prima di Salvatore Riina. Tra gli imputati del maxiprocesso di Palermo, morì in carcere a Nuoro il 15 novembre 1993.
8 A seguito degli attentati e degli omicidi della prima “guerra di mafia” negli anni ’60, nel 1968 si svolse a Catanzaro (ove era stato spostato per “legittima suspicione”) il cosiddetto “processo dei 114”. Il 22 dicembre 1968 fu pronunziata la “storica” sentenza che sancì la bancarotta dell’impegno giudiziario e repressivo degli anni ’60. Il risultato giudiziario fu infatti di assoluzione per tutte le imputazioni di omicidio e di poche condanne per il reato di associazione per delinquere semplice (non c’era ancora il 416 bis).
9 Nicola Greco, detto “Nicolazzo”, fratello di Salvatore Greco “l’ingegnere”, è stato uno degli esponenti maggiormente influenti e importanti di Cosa nostra sia in Sicilia sia negli Usa. In Sicilia era considerato il rappresentante più prestigioso dell’organizzazione, secondo soltanto a Salvatore Greco “Cicchiteddu”.
10 Giuseppe Calderone, detto “Pippo”, è stato capo della “provincia” mafiosa di Catania e, nel 1975, capo della Commissione regionale di Cosa nostra.
11 Michele Greco, soprannominato “il papa” per la sua capacità di mediare tra le varie famiglie mafiose, era dapprima conosciuto come un signorotto di campagna che amava circondarsi di conti, marchesi, prefetti e presidenti di Corti d’appello. Nel 1974 divenne capo del mandamento di Ciaculli, Croceverde, Brancaccio.
12 Così Tommaso Buscetta (interrogatorio al giudice istruttore di Palermo del 23 luglio 1984), che pure chiarisce come ogni provincia sia autonoma, a eccezione delle famiglie di Napoli, che rientrano nella giurisdizione della Commissione di Palermo.
13 In questi termini, Antonino Calderone, quando racconta l’episodio della nomina di Michele Greco a capo della Commissione provinciale di Palermo (vedi interrogatorio al giudice istruttore di Palermo del 28 luglio 1987). Antonino Calderone è fratello di Giuseppe, ex capo della Commissione regionale di Cosa nostra.
14 Così Francesco Marino Mannoia, nell’interrogatorio alla Procura di Palermo del 7 novembre 1989. Fra i più stretti collaboratori di Stefano Bontate, Francesco Marino Mannoia (spesso citato in questo libro) si “specializzò” nella raffinazione dell’eroina partendo dalla morfina (donde i soprannomi “il chimico” o “u dutturi”). In quel periodo era uno dei pochi in grado di raffinare tale droga e lavorava un po’ per tutte le famiglie palermitane e siciliane, ma in particolare per il suo boss Stefano Bontate. Nel 1983 si legò ai Corleonesi di Totò Riina. Arrestato nel 1985, cominciò a collaborare nel 1989, in seguito all’uccisione di suo fratello Agostino. Subì poi altre atroci vendette trasversali, poiché i Corleonesi gli uccisero la madre, la sorella e la zia. Condannato a diciassette anni nel maxiprocesso di Palermo, ha vissuto per sedici anni negli Usa sotto la protezione dell’Fbi, con cui collabora ancora oggi. Tra le sue rivelazioni più importanti, quelle relative ai due (ormai noti) incontri di Andreotti con Bontate e soci per discutere di Piersanti Mattarella.
15 Così Salvatore Cancemi, rispondendo alle domande del pubblico ministero nel dibattimento sugli omicidi (cosiddetti politici) del segretario provinciale della Democrazia cristiana di Palermo Michele Reina (Palermo, 9 marzo 1979), del presidente della regione siciliana Piersanti Mattarella (Palermo, 6 gennaio 1980), del segretario regionale del Partito comunista italiano Pio La Torre (Palermo, 30 aprile 1982). Cancemi faceva parte della Commissione, essendo stato nominato da Salvatore Riina “reggente” del mandamento di Porta Nuova dopo l’arresto di Pippo Calò (1985). Nel maggio 1992, nei pressi dello svincolo di Capaci dell’autostrada Palermo-Punta Raisi, Cancemi supervisionò il commando mafioso che piazzò il tritolo che uccise Giovanni Falcone, la moglie e tre agenti della scorta.
16 Tommaso Buscetta, nell’interrogatorio al giudice istruttore di Palermo del 21 luglio 1984.
17 Quando si verificarono dei forti contrasti, destinati ben presto a sfociare in aperti dissidi e nella soppressione fisica dei “perdenti”, la regola subì talune eccezioni, peraltro facilmente riconoscibili ex post. Così (secondo Marino Mannoia) nel caso di Pio La Torre, il cui omicidio era “comunque ascrivibile alla Commissione di Cosa nostra”.
18 Sempre articolata in province, mandamenti e famiglie; ricorreva ai reggenti in caso di impedimento dei titolari; manteneva stretti rapporti tra le varie zone della Sicilia; e – soprattutto – continuava a programmare e attuare senza esitazione i delitti più feroci.
19 Peraltro, a forza di estorsioni ci sono sempre più operatori economici che vanno in crisi, finché la mafia non propone un “aiutino” con interessi salati, prodromico all’esproprio dell’attività.
20 Si può capire allora perché l’affiliazione in Cosa nostra rappresenti per molti esponenti della criminalità comune una aspirazione costante, un traguardo sociale che garantisce l’acquisizione di un nuovo status, con tutti i vantaggi connessi.
21 Giuseppe Graviano – affiliato alla famiglia di Brancaccio (insieme al fratello maggiore Filippo) – nel 1990 divenne reggente del mandamento di Brancaccio-Ciaculli. I fratelli Graviano ebbero un ruolo importante nell’assassinio di don Pino Puglisi (parroco di Brancaccio) e nell’organizzazione delle stragi del 1993 a Firenze, Milano e Roma (sul punto si rinvia al cap. 6 sulla trattativa Stato-mafia). Furono arrestati il 27 gennaio 1994 a Milano.
22 La corrispondenza di tale soprannome a Giuseppe Graviano risulta dalle dichiarazioni del collaboratore di giustizia Pasquale Di Filippo.
23 L’imprenditore palermitano Libero Grassi (ucciso a Palermo il 29 agosto 1991) era divenuto punto di riferimento di un vasto movimento di opinione pubblica, che – per la sua rilevanza e pericolosità nei confronti di Cosa nostra (anche sul versante anti-pizzo) – non poteva essere tollerato dall’organizzazione.
24 Giovane responsabile dell’impresa romana Ferrocementi, che stava realizzando un’opera pubblica in località San Ciro-Maredolce (Palermo), venne ucciso (il 2 marzo 1988) perché la Ferrocementi non intendeva cedere alle richieste estorsive, pur dopo alcuni attentati.
25 Già si è visto, in particolare, che solo la Commissione, organo di governo e di determinazione dell’indirizzo politico generale, può deliberare o autorizzare l’esecuzione di omicidi che, riguardando esponenti di rilievo delle istituzioni statali o di ceti professionali, possono determinare l’insorgere di gravi reazioni da parte dello Stato. Spetta inoltre alla Commissione la decisione di omicidi concernenti “uomini d’onore”; ciò anche al fine di disinnescare il pericolo di faide personali o interfamiliari che potrebbero destabilizzare l’intera organizzazione.
26 Interrogatorio alla Procura di Palermo del 5 novembre 1993.
27 Quale sostituto di Giuseppe Calò, in rappresentanza del mandamento di Porta Nuova, fino al 22 luglio 1993 (data in cui si consegnò ai Carabinieri e alla Procura di Palermo).
28 La cosiddetta ricostruzione del “giocattolo”, di cui parleremo nel cap. 7.
29 Antonino Rotolo, capo-mandamento di Pagliarelli, che ha un ruolo decisivo nelle vicende dell’organizzazione in buona parte della città di Palermo; Antonino Cinà, “reggente” del mandamento di San Lorenzo, alleato di Rotolo; Salvatore Lo Piccolo, che – al di là del ruolo di capo-mandamento di Tommaso Natale – ha esteso la sua influenza in gran parte della zona occidentale della città, riducendo drasticamente il potere effettivo di Antonino Cinà su quello di San Lorenzo; Giuseppe Savoca, “reggente” del mandamento di Brancaccio, alleato di Lo Piccolo.
30 In particolare, ci riferiamo al procedimento della Procura di Palermo denominato “Gotha”, nome attribuito all’operazione scattata il 20 giugno 2006 a Palermo e al conseguente processo. L’operazione decapitò le famiglie di Cosa nostra di Pagliarelli, San Lorenzo e Uditore, rivelando le dinamiche di conflitto venutesi a creare tra i boss palermitani dopo l’arresto di Provenzano il 26 aprile 2006.
31 Vedi Relazione del Ministro dell’Interno al Parlamento sull’attività svolta e sui risultati conseguiti dalla Direzione Investigativa Antimafia, Luglio-Dicembre 2018, pp. 59-71, http://direzioneinvestigativaantimafia.interno.gov.it/semestrali/sem/2018/2sem2018.pdf.