2.
La politica delle “relazioni esterne”
di Cosa nostra dall’immediato dopoguerra all’omicidio Dalla
Chiesa
1. La strage di Portella della Ginestra e il separatismo
Nel capitolo precedente abbiamo rievocato alcune vicende processuali della storia repubblicana più recente. Ma se andiamo a ritroso nel tempo, scopriremo che la storia degli intrecci tra criminalità organizzata e poteri “legali” affonda le proprie radici ben più lontano.
La strage di Portella della Ginestra del 1° maggio 1947 rappresenta il culmine di un attacco organizzato e sistemico contro il movimento contadino, che con la sua coraggiosa resistenza scrisse una pagina davvero epica della nostra storia nazionale. Mafiosi, agrari e politici programmarono e attuarono per anni l’uso della violenza contro i contadini e l’eliminazione fisica di quanti li appoggiavano. Oltre ai moltissimi manifestanti trucidati, ben 18 sindacalisti (comunisti, socialisti e democristiani) furono assassinati, insieme a 15 fra sindaci, segretari di camere del lavoro e politici. Un disegno criminale culminato – ripetiamo – nella strage di Portella della Ginestra con il suo esito crudele di 11 morti e 56 feriti.
Ma tale eccidio va ricondotto a un disegno criminale ancora più ampio ed eversivo, che si può vedere mettendo in sequenza alcuni fatti. A Portella qualche migliaio di persone si era riunito non solo per la festa dei lavoratori, ma per festeggiare anche la netta vittoria del Blocco del popolo (socialisti e comunisti) alle elezioni regionali del 20 aprile 1947. Il 12 maggio 1947, sul piano nazionale si registrò una radicale svolta politica, con la dichiarazione del presidente del Consiglio Alcide De Gasperi di cessata adeguatezza alle esigenze del governo della formula dell’unità nazionale fin lì applicata. In sostanza, si sanciva la fine della collaborazione con il partito socialista e con quello comunista. Intanto in Sicilia, tra il 22 e il 23 giugno, si verificarono vari attentati contro le sedi del Partito comunista di Partinico (due morti e quattro feriti), Carini, Borgetto, San Giuseppe Jato, Monreale e Cinisi.
Se la storia del movimento contadino risulta “governata” da due regole base (il ricorso alla violenza contro ogni tentativo di riforma e l’impunità di violenti e mandanti), dopo Portella le cose non cambiano. Perché fin da subito venne imposta una verità ufficiale, ben lontana dalla realtà. Infatti, già il 2 maggio 1947, davanti all’Assemblea costituente, il ministro dell’Interno Mario Scelba dichiarava che dietro l’episodio non vi era alcuna finalità politica o terroristica, ma che esso doveva essere considerato un fatto circoscritto. E ciò nonostante i cinquant’anni di storia del movimento contadino conclamassero una realtà ben diversa e complessa, fatta non di episodi circoscritti, ma di strategie e intrecci torbidi tra forze diverse.
La stessa tesi del ministro viene in sostanza avallata dal processo giudiziario, iniziato nel 1950 a Palermo e poi trasferito a Viterbo per “legittima suspicione”. Il processo si conclude nel 1953, con la conferma della versione secondo cui gli unici colpevoli erano il bandito Salvatore Giuliano (ucciso il 5 luglio 1950) e i suoi uomini, che furono condannati all’ergastolo, con esclusione di ogni altra responsabilità.
Nel corso del processo, però, Gaspare Pisciotta, compagno di Salvatore Giuliano e considerato il secondo in comando nella banda, racconta una sua “verità” completamente diversa e inquietante. In primo luogo dichiara di essere stato lui a uccidere Giuliano nel sonno, contraddicendo la versione delle forze dell’ordine secondo cui il bandito era morto in uno scontro a fuoco, ucciso dal capitano dei Carabinieri Antonio Perenze. Sostiene inoltre di avere raggiunto un accordo di collaborazione con il Comando forze repressione banditismo in Sicilia1, con la promessa di interventi in suo favore qualora fosse stato arrestato.
Al processo per il massacro di Portella, Pisciotta chiama poi in causa alcuni alti esponenti politici dell’epoca2, che avevano fatto delle promesse non mantenute, tanto che – conclude l’imputato – “servimmo con lealtà e disinteresse i separatisti, i monarchici, i democristiani e tutti gli appartenenti a tali partiti che sono a Roma con alte cariche, mentre noi siamo stati scaricati in carcere. Banditi, mafiosi e Carabinieri eravamo la stessa cosa”.
Pisciotta morirà nel carcere dell’Ucciardone poco dopo la conclusione del processo: la mattina del 9 febbraio 1954, bevuto un caffè, si sente male e spira poco dopo nell’infermeria della prigione. Secondo l’autopsia, aveva ingerito 20 milligrammi di stricnina, veleno usato per i topi che infestavano il carcere3.
A parte le accuse di Pisciotta, resta il fatto che il processo di Viterbo non riesce a far luce sull’evidente intreccio fra interessi politici e mafiosi che contrassegna quel periodo storico e le vicende in esso accadute. Nessuna luce neppure dalla Commissione parlamentare antimafia della quinta legislatura, presieduta dall’onorevole Francesco Cattanei: essa infatti relega nella sfera del “mistero” le ragioni per le quali il bandito Giuliano aveva materialmente eseguito la strage di Portella, senza individuare alcuna responsabilità politica.
Vi sono peraltro successive acquisizioni che riguardano specificamente il ruolo politico di Cosa nostra in quei fatti. Tommaso Buscetta, in un interrogatorio alla Procura di Palermo del 29 aprile 1994, espone la ricostruzione che gli risulta dall’interno di Cosa nostra. Egli premette che “l’immediato dopo-guerra non fu un’epoca di grossi ‘affari’ per Cosa nostra, ma fu tempo di grande politica. Infatti, in quel periodo, molti esponenti di Cosa nostra [...] abbracciarono l’idea ‘separatista’ di Finocchiaro Aprile [secondo Buscetta, “uomo d’onore” della famiglia di Porta Nuova: N.d.A.]”. Buscetta dichiara di avere conosciuto personalmente Salvatore Giuliano, che nel 1947 gli era stato presentato come “uomo d’onore” della famiglia di Montelepre da Salvatore Greco. Sempre secondo Buscetta, non era stata Cosa nostra a farlo uccidere, ma a tradirlo erano stati proprio alcuni “uomini d’onore”4, oltre a Pisciotta (che però non era “uomo d’onore”). Quasi tutti i “traditori” erano stati poi uccisi, questa volta per ordine di Cosa nostra: in particolare, Pisciotta era stato avvelenato nel carcere di Palermo su incarico specifico di Vincenzo Rimi5, mettendo della stricnina nello zucchero.
A dire di Buscetta, la morte di Giuliano era stata dunque decisa non da Cosa nostra, ma dai “politici separatisti” dell’epoca, che lo avevano indotto ad abbracciare l’idea separatista “quando essi cominciarono ad abbandonar[la] e [...] ad avvicinarsi a formazioni politiche nazionali”.
2. L’abbandono
del separatismo e la ricerca
di una nuova alleanza
Sarà utile ricordare che il separatismo siciliano è stato un fenomeno politico di breve durata, caratterizzato da una estrema labilità ideologica. Nacque e si diffuse tra il 1943 e il 1947, con lo scopo di creare in Sicilia uno Stato indipendente. Dopo lo sbarco alleato, con la spinta dell’oligarchia latifondista e con il sostegno della mafia anche d’oltre Atlantico (che progettava addirittura di fare dell’isola uno Stato degli Usa), si organizzò nel Movimento per l’indipendenza della Sicilia (Mis) guidato da Andrea Finocchiaro Aprile. Si formarono anche le bande di un proprio Esercito volontario per l’indipendenza della Sicilia (Evis), di cui la più famosa comandata appunto da Salvatore Giuliano. Il separatismo si esaurì con la concessione dell’autonomia regionale (1946) e con l’adesione dal 1948 della sua base sociale al sistema di potere democristiano.
Instaurando rapporti dapprima di compromesso e poi di alleanza con parti del sistema politico, Cosa nostra (maestra di opportunismo) – dopo avere scelto di investire politicamente nel separatismo – cambia registro e si avvicina ai partiti politici unionisti di centro. Anche perché attratta dalla prospettiva di uno Statuto speciale per la Sicilia che sembra prefigurare una autonomia molto vicina all’indipendenza e che, fra l’altro, prevedeva l’attribuzione dei poteri di Polizia al presidente della regione. A riprova di questo nuovo rapporto, molti capi famiglia di Cosa nostra divengono sindaci dei loro paesi6.
Ma un riscontro fra i più emblematici dell’intreccio che si sviluppa tra Cosa nostra e potere politico negli anni del dopoguerra è costituito dalla corrispondenza sequestrata dalla Polizia italiana nel 1952 al mafioso italo-americano Frank Coppola7, nell’ambito di una indagine su un traffico di stupefacenti. Delle lettere che documentano la quantità e la qualità dei rapporti intrattenuti dal mafioso – anche i convenevoli non sembrano soltanto rituali – con esponenti politici di primo piano, ne ricordiamo alcune:
– lettera su carta intestata “Il Giornale d’Italia – Il Direttore”, datata 3 aprile 1948, a firma di Santi Savarino (senatore della Repubblica, del Gruppo misto): “Carissimo don Ciccio, dovrei rimproverarla, ma non posso non accettare il gentile pensiero che rivela il suo animo e testimonia del suo affetto per me. Di questo le sono molto grato, posso assicurarla che ricambio con pari affetto la sua cara amicizia. Siamo di Partinico e ci comprendiamo benissimo. Disponga di me. Non ho avuto ancora risposta da Atene, appena l’avrò, gliela comunicherò. Venga da me quando vuole, avrò sempre piacere di vederla. Grazie ancora del suo bel regalo e mi creda suo affettuosissimo Santi Savarino”;
– lettera su carta intestata “Assemblea Costituente”, datata 11 luglio 1948, a firma di Vittorio Emanuele Orlando (deputato al Parlamento, ministro di Grazia e Giustizia, ministro dell’Interno, presidente del Consiglio dei ministri durante la prima guerra mondiale; primo presidente della Camera dei deputati e membro dell’Assemblea costituente dopo la caduta del fascismo): “Caro Coppola, mi è pervenuto il fusto del suo vino eccellente” (seguono ringraziamenti);
– lettera dattiloscritta, su carta intestata “Senato della Repubblica”, datata 3 gennaio 1950, ancora a firma di Vittorio Emanuele Orlando: “Caro Coppola, avevo ricevuto da parte vostra atti di cortesia, per cui avrei ben voluto ringraziarvi, ma non mi risultava il vostro indirizzo di Partinico, sicché dovetti ricorrere ad un amico il quale si informò e mi disse che non era precisato il vostro indirizzo di codesta città. Ora mi perviene il vostro telegramma e ve ne esprimo direttamente ringraziamenti, nonché il ricambio degli auguri stessi, affidandomi alla posta la quale, suppongo, troverà il modo di recapitare o quantomeno ritornerà la presente. Credetemi vostro, Vittorio Emanuele Orlando”;
– lettera su carta intestata “Senato della Repubblica”, datata 28 marzo 1951, sempre a firma di Vittorio Emanuele Orlando: “Caro Coppola, ho ricevuto il vostro affettuoso telegramma di auguri per queste feste pasquali, vi ringrazio molto anche per le espressioni così cordiali di cui vi servite e ricambio cordialmente ed aggiungo i più amichevoli saluti”;
– lettera su carta intestata “Camera dei Deputati”, datata 13 aprile 1951, a firma di Giovanni Palazzolo (deputato al Parlamento, liberale): “Carissimo don Ciccio, l’ultima volta che ci vedemmo all’Hotel delle Palme, lei mi diceva giustamente che a Partinico occorreva un deputato regionale giovane, svelto ed amico ed a portata di mano degli amici. L’amico Totò Motisi risponde a tutti questi requisiti ed io ho deciso di aiutarlo con tutte le mie forze. Se a Partinico mi aiutate, lo faremo diventare Deputato. Con affettuosi saluti, mi creda, Giovanni Palazzolo”.
D’altra parte, lo stesso Coppola non farà mistero delle sue qualificate relazioni politiche: raggiunto da un mandato di cattura per il reato di associazione per delinquere – in un interrogatorio reso il 6 agosto 1965 al giudice istruttore di Palermo Aldo Vigneri8 –, afferma che già nel 1948, trovandosi casualmente a Partinico, proveniente dagli Stati Uniti, era stato pregato da Sua Eccellenza Vittorio Emanuele Orlando, a cui era stato sempre devoto, di propagandare e sostenere la candidatura dell’onorevole Giovanni Palazzolo. E aggiunge ancora che – dopo il suo trasferimento dagli Stati Uniti in Italia – aveva sostenuto personalmente la candidatura di vari uomini politici, tutti nominativamente indicati.
3. La morte di Enrico Mattei
Il rapporto di scambio tra Cosa nostra e sistema politico registra nel periodo in esame momenti di rilevanza anche nel contesto internazionale: è il caso del misterioso incidente aereo verificatosi la sera del 27 ottobre 1962 a Bascapè (Pavia), dove poco prima d’atterrare a Linate precipitò il Morane Saulnier 760 dell’Ente nazionale idrocarburi (Eni), che portava da Catania a Milano il presidente Enrico Mattei. Con lui persero la vita il pilota e un giornalista americano.
A inserire la morte di Mattei nel contesto della “politica” di Cosa nostra è ancora una volta Tommaso Buscetta, che nell’interrogatorio alla Procura di Palermo del 29 aprile 1994 dichiarò che “il primo delitto eccellente di carattere politico” ordinato dalla Commissione di Cosa nostra, costituita subito dopo il 1957, era stato proprio quello di Mattei. Così gli avevano riferito personalmente alcuni componenti della Commissione9. L’indicazione di uccidere Mattei era giunta da Cosa nostra americana per il tramite di Angelo Bruno (autorevole esponente della famiglia di Filadelfia), che chiese questo favore a nome della Commissione degli Usa e nell’interesse sostanziale delle maggiori compagnie petrolifere americane. Fu deliberato di non usare ordigni o armi per lasciare nel dubbio la matrice del crimine, e pertanto si pensò di simulare un incidente aereo. L’incarico di organizzare materialmente l’attentato fu dato a Salvatore Greco “Cicchiteddu”10.
Fin qui il racconto di Buscetta. C’è da dire però che su questo episodio gli accertamenti della magistratura competente di Pavia – malgrado l’impegno profuso – non sono riusciti a far luce. Le dichiarazioni di Buscetta sono state ritenute (sebbene di per sé attendibili) insufficienti per un processo, e le indagini sono state archiviate nel 2005, per mancata identificazione dei responsabili, pur nella certezza che il presidente dell’Eni fosse morto a causa di un attentato.
4. Il
riaffiorare delle tentazioni separatiste
e il golpe Borghese
Quello in esame è anche un periodo nel quale i rapporti tra Cosa nostra e pezzi dello Stato registrano pure momenti di crisi, con il riaffiorare nell’organizzazione – di quando in quando – delle tentazioni separatiste. È il caso dei primi anni ’70, in cui si susseguono le trattative fra Cosa nostra e segmenti deviati dello Stato per la partecipazione al golpe Borghese del 7-8 dicembre 1970, il sequestro e l’omicidio del giornalista Mauro De Mauro (16 settembre 1970)11, l’omicidio del procuratore della Repubblica di Palermo Pietro Scaglione (5 maggio 1971)12.
In proposito, vanno ricordate le dichiarazioni di Antonino Calderone al Tribunale di Palermo nel processo Andreotti (udienza del 17 settembre 1996). Calderone riferì anche (incidentalmente) una circostanza inedita di particolare interesse: l’inserimento del sequestro di Mauro De Mauro e dell’omicidio del procuratore Scaglione in una strategia perseguita all’epoca da Gaetano Badalamenti. E raccontò (riferendo in parte le parole di Badalamenti): “Ci sono stati tantissimi fatti in Sicilia. Dobbiamo buttare i carabinieri a mare, si dovevano mettere le bombe per Capodanno, si doveva fare marasma incominciando con i giudici, con giornalisti, con uomini politici, si è sequestrato Mauro De Mauro, si è attentato alla vita all’onorevole Nicosia13, c’è stato l’omicidio di Scaglione [...]. Dovevano fare vedere che o era una parvenza politica o era per far vedere che erano ritornati dopo 6, 7 anni di assenza nella mafia in Sicilia”.
Ma l’episodio più significativo di quel periodo è la vicenda delle trattative intercorse fra i vertici di Cosa nostra ed esponenti dell’eversione nera e della massoneria deviata per una eventuale partecipazione della mafia siciliana al golpe Borghese: un colpo di Stato programmato per la notte fra il 7 e l’8 dicembre 1970 da Junio Valerio Borghese (noto anche come “il principe nero”)14, sotto la sigla Fronte Nazionale, in stretto rapporto operativo con Avanguardia nazionale, pericolosa e famigerata organizzazione neofascista fondata il 25 aprile 1960 da Stefano Delle Chiaie, plurinquisito (anche per le stragi di piazza Fontana a Milano il 12 dicembre 1969 e di Bologna il 2 agosto 1980) ma sempre “regolarmente” prosciolto...
Il golpe era stato progettato nei minimi particolari. Dal 1969 erano stati formati gruppi clandestini armati in collegamento con elementi dell’Esercito. D’intesa con alcuni vertici militari e membri dei ministeri, il golpe prevedeva: l’occupazione dei palazzi sede del ministero dell’Interno e della Difesa, della Rai e degli altri mezzi di comunicazione (radio e telefoni); la deportazione degli oppositori presenti in Parlamento; il rapimento del presidente della Repubblica Giuseppe Saragat e l’assassinio del capo della Polizia Angelo Vicari. Il piano cominciò a essere attuato con il concentramento a Roma di diverse centinaia di congiurati e con azioni simili in diverse città italiane, tra cui Milano. Quando l’esecuzione era ormai in fase avanzata, improvvisamente Valerio Borghese ne ordinò l’immediato annullamento, per motivi mai chiariti.
La vicenda è stata ampiamente ricostruita, dal punto di vista di Cosa nostra, nelle dichiarazioni rese da Tommaso Buscetta15 e da Antonino Calderone16. Il primo parla di un incontro svoltosi nel 1970 a Catania, presenti lo stesso Buscetta, Salvatore Greco (giunto appositamente dal Sud America), Giuseppe Calderone, Giuseppe Di Cristina e Luciano Leggio.
Oggetto di questo incontro era la proposta di partecipazione al golpe del principe Borghese da questi formulata. Agli affiliati a Cosa nostra sarebbe stata affidata la “gestione” del territorio ricompreso nel mandamento di ciascuna famiglia, per “calmare e far vedere al popolo siciliano che Cosa nostra era d’accordo”. In contropartita il principe Borghese offriva la revisione di molti processi in corso a carico di esponenti dell’organizzazione criminale, con particolare riferimento al “processo Rimi”, cioè contro i capimafia di Alcamo Vincenzo e Filippo Rimi17.
Il principe Borghese – in caso di accettazione della proposta – avrebbe richiesto un elenco di tutti gli “uomini d’onore” partecipanti; in subordine, che durante l’insurrezione armata gli “uomini d’onore” si rendessero riconoscibili agli altri golpisti mediante una fascia di colore verde al braccio.
Proprio queste ultime richieste avevano indotto i partecipanti alla riunione di Catania a diffidare della proposta. Tuttavia, poiché si sapeva che Gaetano Badalamenti teneva in modo particolare alla revisione del processo Rimi (essendo Filippo suo cognato)18, si stabilì di coinvolgere nella decisione definitiva lo stesso Badalamenti, all’epoca in soggiorno obbligato nei pressi di Milano. Vi fu quindi un secondo incontro a Milano con Badalamenti, presenti – insieme a Buscetta, Giuseppe Calderone e Salvatore Greco – anche Salvatore Riina e Gerlando Alberti. Si deliberò nuovamente di rifiutare l’offerta. Tuttavia la famiglia Rimi aveva autonomamente continuato a interessarsi del golpe, tanto che Natale Rimi – figlio di Vincenzo –, cui premeva la revisione del processo a carico del padre, fu tra coloro che nella notte tra il 7 e l’8 dicembre del 1970 avevano preso delle armi in una caserma militare di Roma (dettaglio riferito a Buscetta da Badalamenti)19.
Analoga versione sulle trattative per il golpe Borghese è stata poi data da Antonino Calderone nel processo Andreotti20. Calderone riferisce di varie riunioni tra gli esponenti di vertice di Cosa nostra e di un incontro a Roma di suo fratello Giuseppe (designato dall’organizzazione) con il principe Borghese. Questi voleva conoscere i nomi degli affiliati a Cosa nostra e offriva in cambio la revisione dei processi di Rimi e di Leggio. Quello che “spingeva fortissimo” era Badalamenti, ma le trattative non avevano avuto esito positivo. E tuttavia Natale Rimi “aveva continuato a muoversi [...] aveva avuto un ruolo personale nel fallito golpe”.
Sugli intrecci sottostanti al golpe, riguardanti anche il coinvolgimento di Cosa nostra, sono stati acquisiti oggettivi riscontri, con indagini di altre autorità giudiziarie e di commissioni parlamentari21.
Al riguardo, merita una particolare attenzione la sentenza-ordinanza del giudice istruttore di Milano Guido Salvini del 18 marzo 199522, all’esito di un’inchiesta in cui sono emersi anche elementi riguardanti la strage di piazza Fontana e appunto il golpe Borghese.
In tale ordinanza, si dà ampiamente conto del contributo di un teste molto “qualificato”, il capitano Antonio Labruna23. Egli aveva ricostruito molti particolari del golpe Borghese in vari rapporti, che però erano stati manipolati e consegnati incompleti alla magistratura. Al giudice Salvini, invece, nel giugno del 1991 lo stesso Labruna consegna alcune registrazioni da cui risulta – come dire, per tabulas – che nel golpe Borghese erano coinvolti (oltre che ufficiali dell’Esercito e dei Carabinieri, funzionari di Polizia, professionisti, diplomatici, magistrati militari, esponenti dei servizi segreti, massoni tra i quali un alto numero di iscritti o ex iscritti alla loggia P2) anche uomini della mafia siciliana, in particolare alcuni che avevano il compito di uccidere il capo della Polizia, mentre il “venerabile” Licio Gelli si doveva occupare del rapimento del presidente della Repubblica.
Fin qui la sentenza-ordinanza del giudice Salvini, che indubbiamente costituisce un importante e utile documento storico. C’è però da dire che – stando alle sentenze che hanno chiuso il caso – il golpe Borghese (almeno come responsabilità penali accertate) non c’è mai stato. Questo il senso della sentenza con la quale la Corte di Cassazione il 24 marzo 1986 ha definitivamente chiuso il caso, confermando la sentenza del 27 novembre 1984 con cui la Corte di assise di appello di Roma aveva assolto, con la formula “perché il fatto non sussiste”, tutti i 46 imputati (in primo grado condannati invece a pene varianti dai dieci anni agli otto mesi di reclusione). Da notare che la Corte di assise di appello ha scagionato dall’accusa di cospirazione politica perfino gli imputati che avevano ammesso di aver preso parte all’evento, aggiungendo che tutto ciò che era successo non era che il parto di un “conciliabolo di 4 o 5 sessantenni”.
Rimane decisamente valido l’adagio latino tot capita, tot sententiae, che non significa – come vorrebbe una traduzione in modalità latino maccheronico – “tutto capita nelle sentenze”; vuol dire che tutte le sentenze vanno rispettate, anche quelle sconcertanti.
5. Peppino Impastato: un “prodigioso” depistaggio istituzionale
A conclusione del racconto di queste storie di collusione e di manipolazione della verità, facciamo un salto in avanti, alla fine degli anni ’70, per ricordare un altro caso clamoroso, caratterizzato da qualche inquietante analogia – a distanza di oltre tre decenni – con Portella della Ginestra. L’uccisione di Peppino Impastato.
Il fatto Nella notte tra l’8 e il 9 maggio 1978 a Cinisi, sulla costa palermitana, un ordigno esplosivo uccide un giovane militante della formazione politica di estrema sinistra Democrazia proletaria, Giuseppe (Peppino) Impastato. La sua “colpa” è quella di aver condotto (pur provenendo da una famiglia mafiosa) una incessante attività di denunzia del sistema di potere democristiano, dei suoi rapporti con la mafia e delle malefatte dei mafiosi. In particolare usava l’arma dell’ironia, sbeffeggiando i boss della zona e soprattutto Gaetano Badalamenti (don Tano, da Peppino abitualmente irriso con l’appellativo “Tano seduto”). Ciò dai microfoni di una libera radio locale (Radio Aut), nella rubrica “Onda pazza” da lui condotta. Da notare che all’epoca Radio Aut era l’unica che si poteva sentire a Cinisi, “regno” incontrastato del potentissimo Badalamenti24.
Il corpo di Impastato viene rinvenuto alle ore 1,40 del 9 maggio 1978 sui binari della ferrovia in località Feudo di Cinisi, dilaniato da un’esplosione che lo ha ridotto a brandelli, sparsi nella campagna circostante per un raggio di circa trecento metri. Il delitto, avvenuto in piena notte, passa quasi inosservato25, poiché proprio in quelle ore viene ritrovato (in via Caetani a Roma) il corpo senza vita del presidente della Democrazia cristiana Aldo Moro, ucciso dalle Brigate rosse.
Nel corso delle indagini vengono interrogati dai Carabinieri diversi compagni di partito di Impastato. Tutti esprimono il convincimento che egli sia stato ucciso a causa delle ripetute denunce contro la mafia locale, e che gli autori dell’omicidio abbiano poi creato ad arte la mise en scène di un presunto attentato terroristico allo scopo di depistare le indagini.
Il depistaggio Di tutt’altro avviso i responsabili dell’Arma dei Carabinieri, che accreditano fin da subito la tesi di un Impastato autore e vittima di un attentato terroristico, non prendendo in nessuna considerazione la pista mafiosa. Appena un giorno dopo, riferendo – con rapporto del 10 maggio 1978 – alla Procura della Repubblica di Palermo, il comandante del reparto operativo del gruppo Carabinieri di Palermo, maggiore Antonio Subranni, accredita l’ipotesi che Impastato, dopo essere uscito dalla sede di Radio Aut verso le 20,15 dell’8 maggio, “avesse progettato ed attuato l’attentato dinamitardo alla linea ferrata in maniera da legare il ricordo della sua morte ad un fatto eclatante”.
Vent’anni per far emergere la verità Occorrono oltre vent’anni perché nei tribunali e in Parlamento si faccia luce sulle vere cause della morte del giovane siciliano.
Il 6 dicembre 2000 la Commissione parlamentare antimafia approva una relazione che ricostruisce il contesto storico del “caso Impastato”, mettendo in luce le convergenze tra rappresentanti delle istituzioni e mafiosi. La relazione parla proprio di “depistaggio”26, sottolineando che l’omicidio fu, allora, un “impaccio” di cui qualcuno voleva liberarsi immediatamente catalogandolo come suicidio o infortunio di un terrorista, “al di là di ogni palmare evidenza”. E aggiunge: “La linea scelta nell’accertamento delle cause e degli autori dell’assassinio è il frutto di un atto positivo di volontà, di una precisa scelta. Non negligenza o inerzia, ma scelta consapevole di non vedere la sfida della mafia e lucida decisione di lasciare inesplorati il sistema e i poteri criminali di quel territorio”.
Una verità che traspariva chiaramente fin dall’immediatezza delle indagini avviate in quel 9 maggio di quarant’anni fa. A lungo sostenuta dalla madre di Peppino, Felicia, dal fratello Giovanni, dai compagni del Centro Impastato, che si adoperarono in ogni modo per farla accertare e conoscere, senza mai arrendersi alle false piste investigative che volevano dipingere l’Impastato come un terrorista e un suicida.
Va anche ricordato che le conclusioni della Commissione giungono dopo i risultati delle nuove indagini disposte nell’aprile del 1996 dalla Procura di Palermo del dopo stragi, sulla base delle dichiarazioni di un pentito, Salvatore Palazzolo27, il quale indica in Gaetano Badalamenti28 il mandante dell’omicidio assieme al suo vice Vito Palazzolo. Nel novembre del 1997 viene emesso un ordine di cattura per Badalamenti, incriminato come mandante del delitto. Il 5 marzo 2001 la Corte di assise di Palermo riconosce Palazzolo colpevole e lo condanna a trent’anni di reclusione. L’11 aprile 2002 anche Badalamenti viene riconosciuto colpevole e condannato all’ergastolo.
Così giustizia, almeno in parte, è stata fatta, anche se ancora oggi resta irrisolto il fronte del depistaggio. Al riguardo sono stati indagati per favoreggiamento Antonio Subranni29 e per falso i sottufficiali dei Carabinieri che all’epoca condussero la perquisizione a casa Impastato. Alla fine però – su richiesta della stessa Procura – il Gip del Tribunale di Palermo ha dovuto disporre l’archiviazione nei confronti dei militari, essendo scaduti per i reati contestati i termini di prescrizione30.
Resta il fatto che la morte di Peppino Impastato rappresenta un capitolo dell’elenco – tristemente lungo e buio – che segna la storia della nostra Repubblica da Portella della Ginestra fino alle stragi “fasciste” e a quelle mafiose del 1992-93.
6. Gli anni ’70 e ’80
Negli anni ’70 e ’80 le “relazioni esterne” di Cosa nostra in vasti settori del mondo economico e politico si estendono in tal misura da determinare quasi un’organica compenetrazione: in altri termini, un’autentica “alleanza”.
Fonti investigativo-giudiziarie diverse convergono nell’evidenziare la crescita di una “imprenditoria mafiosa”, in particolare nei settori dell’edilizia e degli appalti pubblici. Settori che Cosa nostra utilizza anche come strumento privilegiato per il riciclaggio dei proventi di altre attività illecite (in particolare, traffico di sostanze stupefacenti ed estorsioni); e nei quali riesce a creare condizioni molto prossime a un regime di tipo monopolistico.
Sono soprattutto gli appalti pubblici ad assumere un’importanza strategica per l’organizzazione mafiosa. In questo comparto viene a determinarsi una sorta di “duopolio”, in cui l’illecito mercato viene sottoposto al controllo integrale e verticistico di due soggetti forti: Cosa nostra e i “comitati di affari”31, gli uni e gli altri aventi spesso i medesimi referenti politici e amministrativi, percettori delle tangenti. I rapporti tra questi due soggetti “forti” sono mutevoli e diversificati: a volte di coesistenza, a volte di contingente alleanza, a volte di subordinazione dei “comitati” a Cosa nostra. Così, l’organizzazione mafiosa persegue il consolidamento della sua potenza economica e nel contempo si propone di instaurare proficue “relazioni” con importanti espressioni dell’imprenditoria, della finanza, della pubblica amministrazione e della politica. In quest’ultimo caso, relazioni fondamentalmente basate sullo “scambio” fra il sostegno elettorale fornito dall’organizzazione e i molteplici favori che il politico (di concerto con gli altri soggetti “esterni” interessati) può a sua volta offrire.
La “merce di scambio” non è il denaro, ma un preciso impegno nell’agevolazione per la concessione di finanziamenti, contributi, appalti pubblici, commesse, licenze, posti di lavoro e quant’altro possa contribuire non soltanto a fare arricchire i singoli membri, ma anche a potenziare l’organizzazione criminosa nel suo complesso. Ciò mediante attività volte: ad attivare iniziative di copertura, idonee a giustificare i proventi delle altre attività illecite; ad agevolare le operazioni di riciclaggio; a far crescere il “potere contrattuale” dell’organizzazione, consentendole di raggiungere una gestione monopolistica di determinati settori economici; in ultima analisi, ad accrescere e consolidare – appunto – il proprio potere nella società, mediante la strumentalizzazione a suo favore della più ampia possibile “rete” di terminali nelle cosiddette aree di sottogoverno influenzabili dal potere politico (enti locali, aziende pubbliche, banche, istituzioni sanitarie ecc.).
Massima dunque è l’estensione che negli anni ’70 raggiunge il rapporto di compenetrazione illecita fra Cosa nostra e alcuni settori politico-amministrativi. Per indicare la complessità e la gravità del fenomeno il generale Carlo Alberto Dalla Chiesa (neoprefetto di Palermo) parlerà, in un colloquio con Giovanni Spadolini cui abbiamo già accennato, di “una specie di poli-partito della mafia”.
È in questo poli-partito che i mafiosi costruiscono a tavolino le carriere e le fortune di decine e decine di esponenti politici (alcuni dei quali essi stessi “uomini d’onore”, altri a completa disposizione dell’organizzazione); dettano legge nelle sezioni di partito; controllano il tesseramento; partecipano in prima persona alla selezione del personale politico-amministrativo; gestiscono con i loro referenti politici le alleanze correntizie e influenzano l’esito dei congressi provinciali, regionali e nazionali.
L’esistenza di questo poli-partito della mafia è una delle verità più significative emerse dal processo di Palermo nei confronti del senatore Andreotti, laddove si ricostruiscono le posizioni dei cugini Antonino e Ignazio Salvo, dell’onorevole Salvo Lima, di Vito Ciancimino e di Michele Sindona32. Personaggi sui quali è opportuno soffermarsi proprio per il ruolo centrale rivestito nel poli-partito.
7. Il poli-partito in azione
Gli esattori: i cugini Salvo Antonino e Ignazio Salvo, originari di Salemi, nel Trapanese, accumulando ricchezze immense grazie a privilegi e complicità di dimensioni stratosferiche, dominano e soffocano la Sicilia. Massoni e “uomini d’onore”, sono l’emblema della “borghesia mafiosa”. Negli anni ’60 e ’70 figurano tra i primi contribuenti siciliani.
Basano la loro fortuna sulla riscossione delle imposte dirette e indirette, attività che la regione siciliana delegava a società private. Grazie ad appoggi politici e mafiosi, già nel ’59 si assicurano l’appalto per la riscossione del 40% delle imposte siciliane. Merita notare che mentre nel resto d’Italia tale attività fruttava circa il 3% dei proventi, per i Salvo la percentuale era addirittura del 10%. Ed è proprio in forza di questi eccezionali e spropositati àggi (ma anche grazie all’accaparramento quasi monopolistico dei sostanziosi contributi – specie europei – per l’agricoltura e altre attività) che i Salvo costruiscono il loro “impero”. Con una sapiente sinergia di potere politico, corruzione e violenza mafiosa: una miscela micidiale, che ha costituito il propellente del poli-partito, del sistema di potere politico-mafioso.
I cugini Salvo sono entrambi fra gli imputati del maxiprocesso istruito dal pool di cui facevano parte Falcone e Borsellino. Nino muore prima della conclusione del procedimento. Ignazio subisce una condanna per associazione mafiosa a sette anni di carcere (ridotti a tre in appello). Su ordine di Salvatore Riina verrà poi ucciso il 17 settembre 1992 (un’altra vittima, dopo Salvo Lima, del “tradimento” delle aspettative dei boss circa un esito favorevole del maxi).
Secondo le risultanze del processo di Palermo su Andreotti, i cugini Salvo rappresentano nel periodo storico in esame un essenziale nodo di congiunzione tra Cosa nostra e la vita politica siciliana. Organicamente inseriti nell’organizzazione mafiosa, in un primo tempo vicini ai massimi esponenti dello schieramento moderato e successivamente al vertice della fazione dei Corleonesi, i cugini Salvo – in funzione dei loro interessi – realizzano una complessa ed efficace strategia di condizionamento dei partiti politici e delle istituzioni in Sicilia, assicurando appoggio finanziario ed elettorale a diverse componenti della Democrazia cristiana della regione, con speciale predilezione per la corrente andreottiana.
Con ruvida ma realistica espressione, Giacomo Mancini, teste all’udienza del processo Andreotti, sentenziò che i cugini Salvo “comandavano la Sicilia” e “lo sapevano anche a Torino chi erano”. Chissà cosa avrebbe aggiunto, se avesse saputo che i cugini Salvo risultano addirittura coinvolti nella preparazione dell’omicidio di Rocco Chinnici (il “capo” di Falcone e Borsellino)33.
Il capo locale: Salvo Lima Altra figura rilevantissima è quella di Salvo Lima, ex fanfaniano, che via via si impone come leader in Sicilia della corrente andreottiana (che proprio grazie al cospicuo “pacchetto” di voti dell’isola riesce ad acquistare rilievo nazionale). Nel 1958 diviene sindaco di Palermo. Più volte deputato e sottosegretario, nel 1979 è eletto europarlamentare democristiano. Sospettato dalla Procura di essere il referente politico di Cosa nostra, verrà assassinato il 12 marzo 1992. A determinare l’omicidio, con tutta probabilità, il mancato adempimento della promessa di far assolvere dalla Cassazione i boss imputati nel maxiprocesso.
Nel processo Andreotti risulta che l’onorevole Lima, sia prima sia dopo la sua adesione alla corrente andreottiana, aveva una stabile collaborazione con Cosa nostra. Fin dal periodo in cui è sindaco di Palermo instaura rapporti con mafiosi di “rango”: Tommaso Buscetta, Stefano Bontate, Michele (“il papa”) e Salvatore Greco; infine con i Corleonesi di Totò Riina per il tramite dei cugini Salvo, cui era legato da un solido rapporto di amicizia personale.
Un intenso “contubernio” con l’organizzazione mafiosa gli assicura sostegno elettorale in cambio di molti favori, elargiti attraverso illecite condotte di condizionamento dell’operato della pubblica amministrazione. Con il suo ingresso nella corrente andreottiana, Lima opera a vantaggio dell’associazione mafiosa attraverso il controllo, la spartizione e la gestione degli appalti pubblici banditi dalla provincia di Palermo.
Proprio attraverso questo sistema di illecito controllo degli appalti si realizza una significativa interazione fra Cosa nostra e la corrente andreottiana, “attivamente cooperanti nella realizzazione di un accordo criminoso che assicura loro ingenti disponibilità finanziarie”. La traduzione in cifra operativa (assai redditizia per tutte le parti in causa) del poli-partito come intuito da Dalla Chiesa e dimostrato dal processo Andreotti. Quanto a Lima, la sua “scheda” sarebbe gravemente incompleta se non ricordassimo anche in questa sede34 un episodio in cui impudenza e protervia si inseguono. Ci riferiamo all’invito che Lima osò rivolgere al consigliere Rocco Chinnici perché desistesse dalle sue indagini sui Cavalieri del lavoro di Catania. Chinnici ovviamente disattese l’invito. Fu poi trucidato da un’autobomba mafiosa e nella preparazione della strage furono coinvolti i cugini Salvo, buoni amici di Lima.
Il corleonese nelle mani dei Corleonesi: Vito Ciancimino Un altro capitolo particolarmente significativo del poli-partito è quello dell’accordo tra Lima e uno storico, conclamato rappresentante politico degli interessi mafiosi: Vito Ciancimino.
Ciancimino inizia la sua carriera politica nella Dc siciliana nel 1948. Nel 1956 viene eletto consigliere comunale di Palermo, e dal ’59 (sindaco Lima) al ’64 diventa il potentissimo assessore ai Lavori pubblici. In un periodo di selvaggia trasformazione della città, con l’aumento incontrollato delle aree edificabili, svolge un ruolo di primissimo piano nel “sacco di Palermo”. Delle 4.000 licenze edilizie rilasciate in quel quinquennio, 2.500 finiscono nelle mani di tre pensionati senza legame alcuno con l’edilizia, prestanomi delle cosche mafiose. Nel 1970 Ciancimino viene eletto sindaco. Nel 1983, in occasione del congresso regionale di Agrigento della Democrazia cristiana, il segretario nazionale Ciriaco De Mita esprime la necessità di allontanarlo dal partito e per questo non gli viene rinnovata la tessera. Malgrado ciò e nonostante le collusioni emerse nel corso degli anni, Ciancimino riesce a instaurare un solido rapporto con la corrente di Andreotti, sfociato in un formale inserimento nel suo gruppo politico.
Questo rapporto di “collaborazione” inizia nel 1976 quando, su richiesta di Ciancimino, viene organizzato un incontro con lui a Roma cui sono presenti Andreotti, Lima e l’onorevole Mario D’Acquisto (altro leader della corrente andreottiana in Sicilia, che lo ha riferito in Tribunale). Nel corso della riunione, Andreotti presta il suo assenso all’intesa raggiunta tra Lima e Ciancimino. Lo scopo dell’operazione è quello di assicurare agli andreottiani la maggioranza all’interno del comitato provinciale di Palermo della Dc.
Dopo questo suo primo incontro con Andreotti, Ciancimino riceve dall’imprenditore romano Gaetano Caltagirone – amico personale di Andreotti – due assegni dell’importo di 20 milioni di lire ciascuno, da destinare al pagamento delle quote relative al “pacchetto di tessere” gestito da Ciancimino (il fatto fu accertato da Giovanni Falcone in un processo contro lo stesso Ciancimino; ed è perfettamente in linea con la prassi consolidata secondo cui, all’interno della Dc siciliana, le quote relative al tesseramento degli iscritti venivano pagate dai vertici politici del partito).
Nel 1979 Piersanti Mattarella (come abbiamo visto, ucciso dalla mafia nel gennaio 1980) chiede al segretario nazionale del partito – onorevole Benigno Zaccagnini – il commissariamento del comitato provinciale di Palermo della Dc, anche a causa del rilevante ruolo politico acquisito da Ciancimino. Tuttavia, all’inizio del 1980 il gruppo di Ciancimino si inserisce formalmente nella corrente andreottiana. Ciancimino stesso partecipa al congresso nazionale del partito, svoltosi a Roma nel febbraio 1980, come delegato del gruppo che fa riferimento all’onorevole Lima.
Fra alterne vicende, l’intesa dura almeno fino al 1983, quando – in occasione del congresso regionale di Agrigento della Dc – con l’assenso di Andreotti viene stipulato un accordo tattico, riguardante la confluenza verso la corrente andreottiana dei voti congressuali di cui Ciancimino può disporre. In questo congresso, quindi, Lima appoggia la proposta (poi respinta per l’opposizione di Sergio Mattarella) di formare una lista unitaria, nella quale sarebbero state incluse tutte le correnti (compreso il gruppo di Ciancimino, che così avrebbe potuto essere rappresentato nel comitato regionale). Intanto, Ciancimino riesce a fare eleggere alcuni componenti del suo gruppo come delegati al congresso nazionale della Dc, dove essi votano per la corrente andreottiana.
In questo contesto (come emerge dal processo Andreotti) il poli-partito della mafia si sostanzia in un inestricabile intreccio delle relazioni tra esponenti politici e mafiosi, per effetto del rapporto di stabile collaborazione instaurato con l’organizzazione criminale sia da Ciancimino sia da Lima. Ciò significa che l’esistenza del poli-partito è non solo verità (ancorché pretestuosamente negata), ma verità che le risultanze del processo Andreotti dilatano in misura impressionante, registrando la tendenza a raccattare nel circuito mafia-politica (senza neppure fingere di tapparsi il naso) chiunque possa portare consensi, non importa come. Per i disonesti, anche i voti, come i soldi, non hanno odore.
Da ultimo, va ricordato che Ciancimino il 3 novembre 1984 viene arrestato nella sua abitazione di Palermo, con l’accusa di associazione a delinquere di tipo mafioso e di esportazione illegale di capitali all’estero. Il mandato di cattura è firmato dal consigliere istruttore Antonino Caponnetto e dai giudici Giovanni Falcone, Leonardo Guarnotta e Paolo Borsellino, sulla base delle dichiarazioni rese a Falcone da Tommaso Buscetta (che lo definisce “organico” alla cosca dei Corleonesi) e delle conseguenti indagini svolte anche negli Stati Uniti e in Canada. Condannato dal Tribunale di Palermo (nel 1992) a dieci anni di reclusione per associazione mafiosa aggravata e corruzione – con sentenza che verrà confermata dalla Cassazione –, Ciancimino morirà il 19 novembre del 2002 a Roma, dove scontava la condanna agli arresti domiciliari35.
Il bancarottiere: Michele Sindona Un altro tassello che il processo Andreotti fornisce per il disvelamento della verità del poli-partito della mafia riguarda il finanziere Michele Sindona. Una storia esemplare, la sua: partito da Patti (Messina) senza una lira, diventa nel corso degli anni ’60 uno dei più aggressivi banchieri del mondo. Nel 1973 ottiene il premio di “uomo dell’anno” dalle mani dell’ambasciatore americano a Roma John Volpe, in virtù del peso economico delle società ricollegabili al suo gruppo negli Stati Uniti. Dove è tutta una gara a incensarlo come “uno dei più geniali uomini d’affari del mondo” (“Fortune”), “personaggio leggendario dell’alta finanza” (“Forbes”), “il più geniale finanziere italiano del dopoguerra” (“Businessweek”). In realtà, la forza di Sindona sta nel sapersi destreggiare in un ambiente in cui gli affari della mafia e della finanza borderline si incrociano con la più spregiudicata politica anticomunista del dopoguerra. Uno spazio dove bilanci e denaro possono facilmente diventare giochi di prestigio. Tant’è vero che dal processo Andreotti emerge come Sindona fosse collegato con la mafia italo-americana e svolgesse attività di riciclaggio nell’interesse dei massimi esponenti dello schieramento “moderato” di Cosa nostra, facente capo a Stefano Bontate e Salvatore Inzerillo. Si tratta naturalmente di giochi molto pericolosi.
Già nel 1974 inizia il declino di Sindona, con il fallimento della Franklin National Bank da lui controllata. Da allora, è un convulso susseguirsi di tentativi d’ogni genere per non finire schiacciato sotto il peso del crack e delle conseguenti condanne negli Stati Uniti e in Italia. Sindona arriva al punto di organizzare un suo finto sequestro in Sicilia – con l’aiuto di Bontate e Inzerillo – da parte di un inesistente gruppo terroristico, denominato “Comitato proletario eversivo per una vita migliore”36. Scopo della messinscena, durata tre mesi, è inviare messaggi ricattatori a politici ex alleati, affinché salvassero il suo impero economico e il denaro della mafia che gestiva e riciclava.
In effetti, anche al netto degli obiettivi del sequestro, i tentativi di salvare Sindona si sprecano. Il processo Andreotti ricostruisce una impressionante sequenza di pressioni per favorire gli interessi del finanziere, sebbene già perseguito dall’autorità giudiziaria italiana che aveva emesso nei suoi confronti, fin dal 24 ottobre 1974, un ordine di cattura per il reato di bancarotta fraudolenta. In questa sequenza si distinguono esponenti di primo piano della finanza (come Mario Barone37), della massoneria (a partire dal venerabile maestro Licio Gelli) e della politica italiana: fra gli altri il senatore Gaetano Stammati (titolare, in quel periodo, del ministero dei Lavori pubblici e inserito nella loggia P2); l’onorevole Franco Evangelisti (allora sottosegretario alla presidenza del Consiglio nel governo Andreotti); e lo stesso Andreotti, protagonista di “un continuativo interessamento” in favore degli interessi di Sindona, “proprio in un periodo in cui egli ricopriva importantissime cariche governative”.
Le pressioni nel 1979 arrivarono a profanare la Banca d’Italia quando diviene evidente che il governatore Paolo Baffi e il vicedirettore generale Mario Sarcinelli, invece di “dare una mano”, si sono messi in testa di fare il loro dovere opponendosi ai tentativi di salvare Sindona elaborati dall’ambigua e sgradevole cerchia dei suoi amici. I vertici della Banca davano perciò fastidio e meritavano una lezione, che si scatenò ad opera di due magistrati romani (il pubblico ministero Luciano Infelisi e il giudice istruttore Antonio Alibrandi). Costoro, in base ad accuse che si riveleranno poi del tutto insussistenti, spedirono Sarcinelli in galera e risparmiarono quest’onta a Baffi solo per la sua età avanzata. Fu un esercizio del potere giudiziario che altri magistrati definiranno poi “distorto e iniquo”, emblematico di quel Palazzo di Giustizia – la Procura di Roma – che non per caso veniva chiamato “porto delle nebbie”.
L’“eroe borghese”, avvocato Giorgio Ambrosoli, commissario liquidatore della Banca Privata Italiana, sarà addirittura assassinato da un killer38. La conclusione dei giudici di Palermo è questa: “se gli interessi del Sindona non prevalsero, ciò dipese, in larga misura, dal senso del dovere, dall’onestà e dal coraggio dell’avvocato Ambrosoli, il quale fu ucciso, su mandato del Sindona, proprio a causa della sua ferma opposizione ai progetti di salvataggio elaborati dall’entourage del finanziere siciliano, a favore dei quali, invece, si mobilitarono il senatore Andreotti, taluni altri esponenti politici, ambienti mafiosi e rappresentanti della loggia massonica P2”.
Condannato come mandante dell’omicidio Ambrosoli, Sindona muore il 22 marzo 1986 nel supercarcere di Voghera, avvelenato da una tazzina di caffè al cianuro.
In estrema sintesi, la vicenda Sindona ci proietta ai massimi livelli del poli-partito della mafia, dove gli intrecci si fanno più torbidi e velenosi. Ancora una volta dal processo Andreotti emerge la “verità” dell’esistenza di questo tentacolare poli-partito. Una risposta eloquente alle domande che abbiamo posto nell’Introduzione di questo libro in ordine al ruolo della mafia come entità politica nella storia d’Italia.
8. 1979-80: gli incroci di un biennio
A questo punto possiamo provare a mettere alcuni fatti in sequenza:
– Sindona ricicla il denaro sporco della mafia palermitana in società finanziarie e immobiliari estere, per un circuito di “investitori” che comprende il mafioso americano John Gambino, Stefano Bontate, Salvatore (Totuccio) Inzerillo e Rosario Spatola39;
– Sindona viene salutato come “salvatore della lira” da Giulio Andreotti;
– Andreotti si spende in ogni modo per salvare il bancarottiere Sindona dal crack finanziario e dalla giustizia italiana, nonostante l’opposizione di Giorgio Ambrosoli;
– nel marzo 1979 un provvedimento che di giudiziario ha soltanto una torva parvenza colpisce i vertici della Banca d’Italia (Baffi e Sarcinelli), “colpevoli” di non assecondare il salvataggio di Sindona;
– Andreotti si inserisce indebitamente (con spregiudicato cinismo) nella turpe vicenda di Sarcinelli, scrivendo e incontrando il giudice che lo aveva incarcerato40;
– tra la primavera e l’estate del 1979 Andreotti, accompagnato dai cugini Salvo e da Salvo Lima, incontra una prima volta (in una riserva di caccia in una località della Sicilia orientale) Bontate e altri, per discutere dei “problemi” causati alla mafia dall’onesto Piersanti Mattarella;
– l’11 luglio 1979 viene ucciso Ambrosoli; l’omicidio è preceduto da telefonate minacciose in cui si parla anche di Andreotti; l’ultima telefonata la fa un massone parente stretto di Bontate, Giacomo Vitale;
– nell’agosto 1979 si verifica il finto sequestro di Sindona, che viene protetto e “gestito” da una rete di massoni e mafiosi facente capo a Bontate e a Inzerillo; quando Sindona si fa sparare a una gamba, è presente Gambino;
– il 6 gennaio 1980 viene ucciso Piersanti Mattarella;
– nella primavera del 1980 Andreotti incontra in Sicilia, per la seconda volta, Bontate e altri boss. Questa volta c’è anche Inzerillo (l’incontro avviene in una villetta di suo zio alla periferia di Palermo). Andreotti chiede conto del brutale omicidio di Mattarella; da Bontate riceve una dura risposta, una tumpulata (ceffone)41.
La sequenza, francamente, è impressionante42. Per cui c’è solo da scegliere: si tratta di strade che si incrociano per coincidenze ripetute? Oppure si può intravedere una rete vischiosa di rapporti? In altre parole, tutto si tiene (o no)?
9. Gli omicidi politico-mafiosi
Ma facciamo un ulteriore passo avanti nella nostra ricostruzione: per definire meglio il quadro d’insieme è giocoforza ricordare anche che nel periodo storico compreso fra gli anni ’70 e ’80 chiunque abbia tentato di contrastare l’inestricabile intreccio di interessi economico-politici che fanno capo al poli-partito è stato intimidito o ucciso dalla tracotante ferocia mafiosa.
In funzione della conservazione dello status quo (i suoi privilegi e il suo potere), Cosa nostra non esita a realizzare una spaventosa sequenza di omicidi nei confronti di politici, magistrati, funzionari di Polizia, ufficiali dei Carabinieri, giornalisti, uomini della società civile.
Nel quadro di questa sanguinaria opera di “normalizzazione” (volta a costituire una egemonia totalizzante) cadono sotto il piombo dei sicari mafiosi il procuratore della Repubblica di Palermo Pietro Scaglione (Palermo, 5 maggio 1971), il colonnello dei Carabinieri Giuseppe Russo (Corleone, 20 agosto 1977), il giornalista e militante di democrazia proletaria Giuseppe Impastato (Cinisi, 9 maggio 1978), il giornalista Mario Francese (Palermo, 26 gennaio 1979), il segretario provinciale della Democrazia cristiana Michele Reina (Palermo, 9 marzo 1979), il dirigente della Squadra mobile di Palermo Boris Giuliano (Palermo, 21 luglio 1979), il giudice Cesare Terranova e il maresciallo Lenin Mancuso (Palermo, 25 settembre 1979), il presidente della regione siciliana Piersanti Mattarella (Palermo, 6 gennaio 1980), il capitano dei Carabinieri Emanuele Basile (Monreale, 4 maggio 1980), il procuratore della Repubblica di Palermo Gaetano Costa (Palermo, 6 agosto 1980), il segretario regionale del Partito comunista italiano Pio La Torre e il suo collaboratore Rosario Di Salvo (Palermo, 30 aprile 1982), Paolo Giaccone, ordinario di medicina legale all’università di Palermo (Palermo, 11 agosto 1982), il generale Carlo Alberto Dalla Chiesa (Palermo, 3 settembre 1982), Rocco Chinnici, consigliere istruttore del Tribunale di Palermo (Palermo, 29 luglio 1983), Ninni Cassarà, vicedirigente della Squadra mobile di Palermo (Palermo, 6 agosto 1985), Alberto Giacomelli, magistrato in pensione (Locogrande-Trapani, 14 settembre 1988)43, Antonino Saetta, presidente della Corte di assise di appello di Palermo (strada Agrigento-Caltanissetta, 25 settembre 1988)44, Libero Grassi, imprenditore (Palermo, 29 agosto 1991)45.
Mai, in nessun Paese al mondo, vi è stata una simile ecatombe. Una decapitazione così sistematica e feroce di tutti i vertici istituzionali. Mai.
La sequenza raggiunge uno dei suoi punti culminanti nella strage di via Carini del 3 settembre 1982, in cui viene ucciso, insieme alla moglie Emanuela Setti Carraro e all’agente di scorta Domenico Russo, il generale-prefetto Carlo Alberto Dalla Chiesa.
Quello stesso Dalla Chiesa che – come registrano le carte del processo Andreotti – prima di assumere l’incarico di prefetto di Palermo, nel corso di un colloquio con il ministro dell’Interno Virginio Rognoni, aveva discusso con lui delle collusioni tra mafia e ambienti politico-economici. Gli aveva preannunziato che avrebbe “toccato” anche esponenti della Dc e gli aveva espresso la propria preoccupazione per il fatto che si sarebbe dovuto scontrare con ambienti politici: facendo esplicito riferimento alla corrente andreottiana e fanfaniana, e menzionando specificamente i nomi di Vito Ciancimino, Giovanni Gioia e Salvo Lima.
Quello stesso Dalla Chiesa che già nell’aprile 1982 aveva portato all’attenzione del senatore Andreotti il problema dei rapporti esistenti tra la corrente andreottiana siciliana e l’organizzazione mafiosa.
Quello stesso Dalla Chiesa che nel suo diario46, in data 30 aprile 1982, lo stesso giorno dell’omicidio di Pio La Torre, poco prima di recarsi a Palermo per ricoprire il nuovo incarico di prefetto scriveva: “L’Italia è stata scossa47 specie alla vigilia del Congresso di una Dc che su Palermo vive con l’espressione peggiore del suo attivismo mafioso, oltre che di potere politico [...]. Mi sono trovato cioè al centro di una pubblica opinione che ad ampio raggio mi ha dato l’ossigeno della sua stima e di uno Stato che affida la tranquillità della sua esistenza non già alla volontà di combattere e debellare la mafia ed una politica mafiosa, ma allo sfruttamento del mio nome per tacitare l’irritazione dei partiti; che poi la mia opera (possa) divenire utile, tutto è lasciato al mio entusiasmo di sempre, pronti a buttarmi al vento non appena determinati interessi saranno o dovranno essere toccati o compressi”.
Come è stato ben osservato48, l’assassinio di Carlo Alberto Dalla Chiesa, a prescindere da altre possibili valutazioni, contiene degli aspetti che trascendono la tradizionale (e troppo spesso puramente retorica) chiave di lettura della volontà di colpire le istituzioni attraverso uno dei suoi più autorevoli esponenti.
Il generale è un rappresentante di spicco degli apparati di sicurezza dello Stato; la sua “vulnerabilità”, in quest’ottica, appare inspiegabile per molti rilevanti profili. Al punto da legittimare anche la supposizione di una sorta di ritiro delle sue credenziali, di un repentino precipitare della situazione che si conclude con la perdita del proprio status. La scelta della strage di via Carini, perciò, potrebbe leggersi come un’azione – per quanto compiuta da killer di Cosa nostra – troppo “politica” per non segnare un “salto di qualità” nella storia delle mafie italiane. Una declinazione di quel poli-partito della mafia che Dalla Chiesa aveva percepito e avrebbe voluto combattere.
Proprio questo “ritiro delle credenziali” è il fatto drammatico compreso dallo stesso Dalla Chiesa, che lo denunciò nella famosa intervista – che abbiamo ricordato nell’Introduzione – rilasciata a Giorgio Bocca meno di un mese prima della sua morte.
Nelle risposte a Bocca il generale più volte ritorna sul mancato adempimento delle promesse del governo circa i poteri necessari per combattere la mafia: “Beh, sono di certo nella storia italiana il primo generale dei Carabinieri che ha detto chiaro e netto al governo: una prefettura come prefettura, anche se di prima classe, non mi interessa. Mi interessa la lotta contro la Mafia, mi possono interessare i mezzi e i poteri per vincerla nell’interesse dello Stato”. E alla domanda del giornalista sugli “impegni” assunti dal governo nel Consiglio dei ministri del 2 aprile 1982, risponde: “Non mi risulta che questi impegni siano stati ancora codificati”. Poi Bocca chiede: “Se non ottiene l’investitura formale che farà? Rinuncerà alla missione?”. Risposta: “Vedremo a settembre. Sono venuto qui per dirigere la lotta alla Mafia, non per discutere di competenze e di precedenze. Ma non mi faccia dire di più”.
Raggelante, infine – quasi una profezia per sé stesso –, l’analisi del generale sull’omicidio di Piersanti Mattarella: “Ho fatto ricerche su questo fatto nuovo: la Mafia che uccide i potenti, che alza il mirino ai signori del ‘palazzo’. Credo di aver capito la nuova regola del gioco: si uccide il potente quando avviene questa combinazione fatale, è diventato troppo pericoloso ma si può uccidere perché è isolato”.
Come a dire che il poli-partito della mafia, pur di accumulare sempre più soldi e potere, quel tanto che lo Stato sta cercando di fare con una mano, con l’altra prova a impedirlo (e purtroppo ha i mezzi per riuscirci).
1 Direttamente con il comandante, colonnello Ugo Luca.
2 Il democristiano Bernardo Mattarella, il monarchico Tommaso Leone Marchesano e il principe Giovanni Alliata di Montereale: tutti assolti dalla Corte di appello di Palermo nel processo sul loro presunto ruolo nella strage. Le accuse di Pisciotta si indirizzano anche al ministro Scelba, chiamato in causa su due versanti: la strage di Portella e l’omicidio di Giuliano.
3 Per questo avvelenamento vengono processati il padre Salvatore, detenuto nella stessa cella, un agente di custodia e come mandante Filippo Riolo (a quel tempo capo della famiglia mafiosa di Piana dei Greci), tutti poi assolti in Corte di appello per insufficienza di prove.
4 Tra cui Benedetto Minasola (di San Giuseppe Jato) e Domenico Albano (di Borgetto).
5 Vincenzo Rimi (morto ad Alcamo nel 1975), pastore in gioventù, negli anni ’40 divenne il capo della famiglia mafiosa di Alcamo (Trapani). Fu alleato del boss Gaetano Badalamenti. Per rafforzare l’alleanza il figlio Filippo divenne cognato di Badalamenti, avendo sposato la sorella della moglie.
6 Il caso più noto è quello di Giuseppe Genco Russo, sindaco e “rappresentante” della famiglia mafiosa di Mussomeli (Caltanissetta). Nato il 26 gennaio 1893 a Mussomeli e quivi morto il 18 marzo 1976, soprannominato “Zu Peppi Jencu”, era un mafioso di primo livello con eccellenti agganci politici. Nel 1954, alla morte di Calogero Vizzini, la pubblicistica italiana dell’epoca lo considerò il “capo dei capi”.
7 Frank Coppola, noto come “Frank tre dita”, nasce nel 1899 a Partinico (Palermo) e muore il 26 aprile 1982 ad Aprilia. Fin dal 1919 inizia a collezionare gravi precedenti ed è colpito più volte da mandato di cattura. Nei primi anni ’30, per sottrarsi a un provvedimento di Polizia ritenuto imminente, parte per gli Stati Uniti. Qui viene catalogato come trafficante internazionale di stupefacenti, schedato dall’Fbi e dal Narcotics Bureau e menzionato nel rapporto del senatore John Little McClellan come esponente di spicco delle famiglie mafiose italo-americane, trafficante internazionale di stupefacenti e presunto sicario. Espulso due volte dagli Stati Uniti e dal Messico, rientra definitivamente in Italia nel 1950.
8 Nel 1965 Vigneri riuscì a ottenere il visto per andare a interrogare personalmente il pentito di Cosa nostra americana Joe Valachi e visionare la documentazione riservata in possesso dell’Fbi. Rientrato in Italia con le sentenze dei tribunali americani e le relazioni dell’Fbi che provavano un coinvolgimento di Cosa nostra nei traffici d’oltreoceano, nonostante questa importante documentazione non riuscì a sviluppare le indagini, perché le sue iniziative furono boicottate e accantonate come mere “americanate”. Mentre negli Stati Uniti Cosa nostra finiva alla sbarra, in Italia si continuava a far finta di nulla.
9 Salvatore Greco “Cicchiteddu” e Salvatore La Barbera. Quest’ultimo (morto nel 1963) era in quel periodo, insieme al fratello Angelo, capo della famiglia mafiosa di Palermo Centro. Era anche stato componente della prima Commissione di Cosa nostra (istituita nel 1958), come capo del mandamento che comprendeva le famiglie di Borgo Vecchio, Porta Nuova e Palermo Centro.
10 Greco si era avvalso della collaborazione degli esponenti di vertice dell’organizzazione, non solo della provincia di Palermo (Stefano Bontate e Bernardo Diana, rispettivamente capo e vicecapo della famiglia di Santa Maria di Gesù), ma anche delle province di Trapani (Antonio Minore) e Caltanissetta (Giuseppe Di Cristina, capo della famiglia di Riesi).
11 Mauro De Mauro (nato a Foggia il 6 settembre 1921 e scomparso a Palermo il 16 settembre 1970) è stato un giornalista rapito da Cosa nostra e mai più ritrovato. Nel corso di numerose e complesse indagini, furono vagliate varie ipotesi sulle ragioni della sua sparizione, tra le quali quella relativa all’inchiesta sulla morte, secondo lui dovuta a omicidio e non a incidente, di Enrico Mattei, una trama che si è intrecciata con altre vicende di mafia e politica quali il golpe Borghese. Nessuno dei processi svolti si è concluso con la condanna degli imputati.
12 Diventato procuratore capo di Palermo nel 1962, Pietro Scaglione inquisì Salvo Lima, Vito Ciancimino e altri politici locali e nazionali. Secondo la testimonianza del giornalista Mario Francese, ucciso nel 1979, Pietro Scaglione era stato “convinto assertore che la mafia aveva origini politiche e che i mafiosi di maggior rilievo bisognava snidarli nelle pubbliche amministrazioni”.
13 Angelo Nicosia (nato a Montemaggiore Belsito il 15 novembre 1926 e morto a Roma il 3 agosto 1991) è stato un noto esponente del Movimento sociale italiano (Msi). Deputato alla Camera per sei legislature (dal 1953 al 1979) e componente della Commissione parlamentare antimafia dal 1963 al 1976, fu ferito nel 1970 a Palermo in un attentato mafioso.
14 Junio Valerio Borghese (nato ad Artena il 6 giugno 1906 e morto a Cadice il 26 agosto 1974) è stato un militare e politico italiano, membro della principesca famiglia Borghese. Ufficiale della Marina durante la seconda guerra mondiale, dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943 aderisce alla Repubblica sociale italiana. Presidente del Msi dal 1951 al 1953, il 13 settembre 1968 fonda il Fronte nazionale, movimento politico di estrema destra.
15 Vedi interrogatori resi al giudice istruttore di Palermo il 4 dicembre 1984 e il 1° febbraio 1988; audizione innanzi alla Commissione parlamentare antimafia del 16 novembre 1992; interrogatorio reso all’udienza del processo Andreotti il 9 gennaio 1996; interrogatorio reso all’udienza del processo Pecorelli il 9 settembre 1996.
16 Vedi interrogatori resi al giudice istruttore di Palermo il 24 giugno 1987 e il 13 ottobre 1987; interrogatorio reso all’udienza del processo Andreotti il 17 settembre 1996.
17 Vincenzo e Filippo Rimi furono condannati all’ergastolo, in primo grado e in appello, per gli omicidi di Giovanni Giangreco, ucciso nel 1960 a Villabate, e di Salvatore Lupo Reale, ucciso a Palermo il 30 gennaio 1962. Quest’ultimo, figlio di Serafina Battaglia, era stato assassinato perché aveva progettato di vendicarsi dei Rimi, che riteneva colpevoli dell’omicidio del padre, espulso da Cosa nostra. La Battaglia fu la prima donna che testimoniò contro un boss mafioso. Le condanne furono inflitte dalla Corte di assise e dalla Corte di assise di appello di Perugia (ove il processo era stato trasferito, da Palermo, per “legittima suspicione”). La Corte di Cassazione annullò la sentenza di Perugia rinviando il giudizio alla Corte di Roma, che il 13 febbraio 1979 assolse l’imputato per insufficienza di prove. Si rammenti peraltro che, nel momento in cui Borghese offriva la revisione, i due Rimi risultavano condannati all’ergastolo anche in appello.
18 Si tratta del processo per il quale vi sono fondate ragioni per ritenere che vi sia stato un incontro personale tra Gaetano Badalamenti e Giulio Andreotti. In proposito, nel processo Andreotti, la Corte di Cassazione rileva testualmente che la Corte di appello “ha ritenuto indubitabile che, sfrondate delle parti inficiate dalle incertezze, le dichiarazioni di Buscetta attestino comunque che egli ebbe ad apprendere dai più importanti capi dello schieramento moderato di Cosa nostra – Bontate e Badalamenti – che costoro avevano intrattenuto rapporti, quanto meno indiretti, con Andreotti e che in una occasione, in relazione al processo Rimi, lo stesso Badalamenti avesse personalmente incontrato l’imputato in compagnia del proprio cognato, Filippo Rimi, e di uno dei cugini Salvo” (Cassazione, seconda sezione penale, sentenza n. 49691/2004 del 28 dicembre 2004, p. 193).
19 Secondo quanto riferito a Buscetta (che in questo caso non precisa la fonte) il tentativo insurrezionale era stato bloccato in extremis e rimandato a nuova data, senza poi farne più nulla, perché in quel giorno o in quel periodo c’era una flotta russa nel Mediterraneo e “agli americani questo non piaceva” (udienza processo Andreotti del 19 gennaio 1996). Da segnalare che la recente disponibilità di documentazione inedita da parte statunitense ha rivelato che il dipartimento di Stato, già tra il 7 agosto e il 1° settembre 1970, grazie all’attività dell’ambasciatore a Roma Graham Martin, fu informato degli intendimenti golpisti del principe Borghese (così Miguel Gotor, L’Italia nel Novecento, Einaudi, 2019, p. 249).
20 Udienza del 17 settembre 1996.
21 Vedi in particolare le audizioni di Calderone (11 novembre 1992) e di Buscetta (16 novembre 1992) innanzi alla Commissione parlamentare antimafia presieduta dall’onorevole Luciano Violante; nonché la proposta di relazione depositata il 12 dicembre 1995 dal presidente della Commissione stragi, senatore Giovanni Pellegrino, circa il terrorismo, le stragi e il contesto storico-politico.
22 Emessa nel procedimento contro Nico Azzi e altri 23 soggetti, esponenti dell’estremismo di destra appartenenti ai gruppi di Ordine nuovo e La Fenice, imputati dei reati di banda armata e di associazione sovversiva.
23 Dall’Arma dei Carabinieri era transitato nel Servizio informazioni difesa (Sid), ove aveva coordinato il Nucleo operativo diretto (Nod), alle dipendenze del capo del “Reparto D” Gianadelio Maletti.
24 Nato a Cinisi (in provincia di Palermo) il 14 settembre 1923 e morto in carcere ad Ayer (Usa) il 29 aprile 2004, capo della famiglia mafiosa del suo paese di origine, Gaetano Badalamenti ha presieduto la Commissione provinciale di Palermo di Cosa nostra dal 1974 al 1978. Nel 1987 fu condannato negli Usa a quarantacinque anni di reclusione in una prigione federale per essere stato uno dei leader della cosiddetta “Pizza connection”, un traffico di droga del valore di 1,65 miliardi di dollari che, dal 1975 al 1984, aveva utilizzato pizzerie come punto di distribuzione.
25 La figura di Peppino Impastato è poi diventata assai popolare – soprattutto presso i giovani – grazie al film di Marco Tullio Giordana I cento passi. Ormai virale, ad esempio, è la frase di Peppino “la mafia è una montagna di merda”.
26 Di “depistaggio”, come di fatto assodato, si era già parlato nella sentenza-ordinanza del consigliere istruttore di Palermo Antonino Caponnetto del 19 maggio 1984, che aveva chiuso il caso riconoscendo la matrice mafiosa del delitto, attribuito però a ignoti.
27 Che si arricchiscono poi del prezioso contributo fornito da altri collaboratori di “rango”, tra cui Gaspare Mutolo, Antonino Calderone e Francesco Di Carlo.
28 Furono proprio i due autori di questo libro a recarsi negli Usa per interrogarlo nel carcere in cui era detenuto.
29 Subranni figura fra gli imputati del processo sulla trattativa Stato-mafia, al quale si rinvia (vedi infra, cap. 6).
30 Nel decreto di archiviazione il Gip, Walter Turturici, non manca tuttavia di rilevare che le prime indagini dei carabinieri sull’omicidio di Peppino Impastato furono caratterizzate da un “contesto di gravi omissioni ed evidenti anomalie investigative”, e che “la pista mafiosa venne aprioristicamente, incomprensibilmente, ingiustificatamente e frettolosamente esclusa”. Così Salvo Palazzolo, in un articolo dal titolo Peppino Impastato giustizia negata per i depistaggi di Stato, pubblicato sul quotidiano “la Repubblica” l’11 settembre 2018.
31 Gruppi di potere trasversali, costituiti da imprenditori, esponenti politici, pubblici funzionari, che si formano allo scopo di intercettare e gestire a proprio profitto risorse, in particolare fondi pubblici. Sul tema, vedi Antonio La Spina e Guido Lo Forte, I costi dell’illegalità, in “Rivista economica del Mezzogiorno”, XX, 2006, 3-4, pp. 509-570; nonché Rocco Sciarrone, Mafie vecchie, mafie nuove. Radicamento ed espansione, Donzelli, 1998.
32 Le considerazioni e citazioni contenute nel testo si ritrovano tutte nelle carte processuali.
33 La grave circostanza è emersa sia nel processo Andreotti, sia nel processo svoltosi a Caltanissetta per l’autobomba mafiosa che uccise Chinnici. Va inoltre sottolineato anche in questa sede che, secondo il racconto di Francesco Marino Mannoia, entrambi i cugini Salvo, insieme all’onorevole Salvo Lima, erano presenti ai due incontri che Andreotti ebbe con Stefano Bontate e altri capimafia prima e dopo l’omicidio di Piersanti Mattarella.
34 Vedi supra, cap. 1.
35 Per altri dati relativi a Ciancimino, si rinvia al cap. 6 relativo alla trattativa Stato-mafia.
36 Allo scopo di rendere più credibile il rapimento, in una villa di Torretta (paesino nei pressi di Palermo) messagli a disposizione dal boss Rosario Spatola, Sindona addirittura si fa ferire a una gamba con un colpo di pistola sparatogli, su sua richiesta, dal medico massone Joseph Miceli Crimi con l’assistenza del mafioso John Gambino.
37 Il dottor Mario Barone – dopo essere stato nominato, nel marzo 1974, terzo amministratore delegato del Banco di Roma con l’appoggio del senatore Andreotti – firmò un prestito dell’importo di 100 milioni di dollari a Sindona, in un periodo nel quale le sue banche si trovavano in una situazione di difficoltà, attraverso il Banco di Roma-Nassau. All’interno del Banco di Roma sostenne gli interessi di Sindona e si occupò degli iniziali progetti di salvataggio della Banca Privata Italiana.
38 Ambrosoli ricevette alcune telefonate (con intimidazioni e insulti) nelle quali si faceva anche il nome di Andreotti. L’autore delle telefonate anonime era il massone Giacomo Vitale, cognato del boss mafioso Stefano Bontate.
39 Le transazioni finanziarie che riguardavano il riciclaggio avvenivano nella Finabank di Ginevra (in cui la Banca Privata Finanziaria di Sindona aveva una partecipazione di controllo) e nell’Amincor Bank di Zurigo, la quale ufficialmente non era riconducibile a Sindona.
40 Per un più completo resoconto della vicenda, vedi Giuliano Turone, Italia occulta, cit., pp. 172 sgg.
41 Come già ricordato, questa ricostruzione (che si basa sulla testimonianza di Francesco Marino Mannoia, ritenuta attendibile nel processo Andreotti fino alla sentenza definitiva della Cassazione) ha trovato recentemente un formidabile riscontro in una intercettazione ambientale del 17 gennaio 2019, per la quale rinviamo al cap. 1, nota 18.
42 Ma non sarebbe completa se non ricordassimo anche che anni dopo l’omicidio, nel 2010, intervistato da Giovanni Minoli nel programma televisivo “La storia siamo noi”, Andreotti simpaticamente disse che in sostanza Ambrosoli se l’era cercata...
43 Nel 1985 aveva firmato un rilevante provvedimento di sequestro di beni di Gaetano Riina, fratello del boss Salvatore Riina.
44 Saetta venne ucciso, insieme al figlio Stefano, per l’intransigenza dimostrata nella conduzione dei processi per la strage Chinnici e per l’omicidio Basile (vedi supra, cap. 1).
45 In questo terrificante elenco di omicidi abbiamo inserito anche Paolo Giaccone e Libero Grassi perché è di tutta evidenza l’obiettivo di Cosa nostra di piegare con la violenza estrema al proprio volere, insieme agli altri, due settori anch’essi nevralgici per la sua “politica”: quello delle perizie medico-legali e quello della riscossione del “pizzo”. Cosa nostra non può tollerare il rifiuto di perizie “compiacenti” (come invece aveva osato Paolo Giaccone), né forme di ribellione al “pizzo” che Libero Grassi aveva praticato e propagandato anche pubblicamente.
46 Il “diario” del generale-prefetto è un drammatico documento consegnato dal figlio Nando ai giudici che indagavano sul massacro di via Isidoro Carini. Un’agenda del 1981 annotata dal generale fino al 30 aprile 1982, nella quale egli registrava gli avvenimenti quotidiani nella forma di un immaginario dialogo con la defunta prima moglie, Doretta. Proprio per la sua natura, intima e riservata, il documento si deve ritenere di particolare attendibilità. Al contrario di quanto sostenne il senatore Andreotti, il quale nel suo interrogatorio alla Procura di Palermo del 14 dicembre 1993 non esitò a contraddire la precisa testimonianza postuma del generale, interpretandola quasi come una fantasticheria notturna: “Non posso che ribadire quanto ho già detto, e ritengo che la natura stessa del diario, che aveva la forma di un immaginario colloquio con la moglie defunta, potesse indurre il Generale a non annotare con assoluta precisione i suoi ricordi così come avrebbe fatto in atti formali o destinati ad usi ufficiali. Ebbi modo di incontrare il Generale Dalla Chiesa dopo il 5.4.1982 una o due volte; in tali circostanze, egli non mi accennò a resistenze alla sua attività provenienti da esponenti politici della mia corrente in Sicilia”.
47 Il riferimento è ovviamente all’omicidio dell’onorevole Pio La Torre.
48 Fabio Armao, Il sistema mafia, cit., p. 203.