Prologo
Il telescopio –
L’asteroide K666
– Origini e télos del mondo – Simposio 2.0
A turno ci fa avvicinare l’occhio al telescopio, un riflettore Space Eye 33 motorizzato in ascensione retta e declinazione, dotato di montatura con cannocchiale polare, 4.300 mm di focale, capace di sviluppare 330 ingrandimenti, implementabili mediante una lente di Barlow.
Se la fine del mondo si materializzasse in un punto preciso, quel punto sarebbe esattamente lì, dice. Sette anni fa l’avevo predetto e ho visto giusto. Un’abominevole crepa si è aperta nell’ordine perfetto dell’universo, scherza. Un bolide composto di gas e silicati di ferro e magnesio che si sta disfacendo sotto i nostri occhi, mentre si dirige a folle velocità verso di noi. È come guardare l’universo che si contrae e muore. Non la sua morte termica. No, al contrario.
Allude all’asteroide K666, il cui passaggio è annunciato per le due di questa notte, minuto più minuto meno. Sono previste forti turbolenze nell’atmosfera terrestre. Ci sarà una collisione oppure la Terra verrà schivata di un nonnulla? Non è chiaro. Alcuni sono dell’idea che il semplice contatto con l’atmosfera causerà cataclismi a catena, inverni da impatto, ma nessuna morte termica. Probabilmente non succederà nulla. Il K666 – che qualcuno ha ribattezzato Poppi, dal dio egizio Apophis, “il caos”, “il distruttore”, nemesi di Ra, il serpente che dimora nelle oscurità permanenti della Duat e ogni notte tenta d’impedire il sorgere del sole – ha un diametro di diciassette chilometri e pesa ventiquattromila miliardi di tonnellate. L’area più interessata dagli sconvolgimenti potrebbe essere quella compresa tra il Venezuela e il Perù, oppure tra la Germania e la Russia. Secondo le ultime stime potrebbe anche riguardare l’Oceano Pacifico, tra la California e le Hawaii. Ma, vista l’incertezza delle previsioni, quel bestione potrebbe perfino cadere sulle nostre teste.
Mentre guardiamo attraverso il telescopio, sbalorditi dall’enormità dell’asteroide, dal nitore dei dettagli, dalla sua estrema vicinanza alla Terra, mentre ci prendiamo una sbornia di stelle, Tomas ci parla di mappe celesti, di grandi spire, della ricerca del punto zero, degli istanti iniziali della vita organica. È uno che pensa in proporzioni cosmiche, il prototipo del semi-autodidatta dotato di conoscenze tanto vaste quanto caotiche, la cui visione rasenta forse la follia, ma una follia dai risvolti pratici, e decisamente remunerativa. Blue Box, la società che ha fondato diciotto anni fa col fratello Ricardo, dopo aver interrotto gli studi di ingegneria, sviluppa avveniristiche soluzioni wireless che operano sfruttando in modo nuovo le onde radio a bassa potenza, la radiazione infrarossa e i sistemi laser di terza generazione. Più di una volta gli ho sentito sostenere che baratterebbe la sua ricchezza – stimata in quaranta milioni di euro – per una serata con Socrate. O con Gesù. Non sa decidersi. Ma non bisogna credere a tutto ciò che dice. Il suo è uno spiritualismo a parole. Nei fatti tutta la sua mistica si riduce a una questione di marketing. La verità è che gli piace assumere pose ieratiche. Specie dopo l’incidente di otto anni fa, avvenuto mentre tentava di decollare dall’aeroporto militare di Grosseto con il Cessna 150. Riportò fratture facciali e temporanei vuoti di memoria. Da quel momento i suoi interessi hanno subito una brusca sterzata. Ha ripreso a studiare e ha iniziato a interessarsi a questioni sospese tra fisica e metafisica. Quasi una nuova vita.
Nei modelli che trattano la nascita del nostro universo, dice in tono sacerdotale, c’è una visione d’insieme più consonante coi miti antichi della creazione che con il positivismo radicale. Oggi non è più in voga, chiosa, l’ipotesi dello stato stazionario, che prevede la creazione a getto continuo di nuova materia. Nessuno crede più a un mondo fisico nato da un’energia oscura o dal niente. Troppo fanciullesco. Nessuno si arrischia più a parlare di circolarità, pensiero di pensiero, modelli spinoziani. Il cosmo è emerso da una grande esplosione quattordici miliardi di anni fa, quando l’entropia era al minimo. Ne abbiamo le prove. La radiazione cosmica di fondo, la freccia del tempo e le concrezioni di materia che attraverso minuscole fluttuazioni hanno dato origine a nuove galassie sono le tracce lasciate da questo inizio. I modelli di creazione continua non sono che una comoda scappatoia, dice. Si rifanno a un sogno ancestrale di eternità. A miti come quelli usciti dalla fantasia di Mary Shelley. Nella fisica del Big Bang, con il possibile passaggio verso mondi alternativi attraverso buchi neri, gallerie gravitazionali, cunicoli spaziotemporali, la nozione del tempo torna a essere quella lineare. Domandarsi cosa c’era prima dei nanosecondi iniziali del Big Bang è privo di senso. C’era il nulla. E il nulla esclude la temporalità. Tuttavia nessuno può assicurarci che il Big Bang non sia semplicemente la fase intermedia di un processo più ampio e che spazio e tempo non esistessero già prima. Anche se per ora non riusciamo a tradurre nel linguaggio matematico ciò che è accaduto durante la particella iniziale di tempo, l’astrofisica degli ultimi anni si è dedicata anima e corpo allo studio dei primi vagiti del nostro universo. La storia della creazione può essere raccontata nei minimi dettagli. Tutti gli stadi, dalla nube protostellare al plasma primordiale, dal livello subatomico agli atomi, alle molecole inorganiche, alla cellula. Sappiamo che quando l’universo aveva un minuto di vita era paragonabile a un immane reattore nucleare in cui protoni e neutroni si fondevano in nuclei di elio e di altri elementi leggeri; che l’universo era opaco e i fotoni rimbalzavano come palline da flipper contro gli elettroni liberi. Ma a un certo punto la temperatura si abbassò in modo da intrappolare gli elettroni legandoli ai nuclei. Grazie a questa ricombinazione l’universo divenne trasparente. Nel cuore di questa narrazione l’evoluzione della vita organica è un episodio recente, si affretta ad aggiungere con un risolino compiaciuto infilando un dito nel naso e pescando una caccola che appiccica con noncuranza a una gamba dei calzoni. La cellula rappresenta una semplice tappa evolutiva. Siamo l’ultimo nanosecondo nell’evoluzione della materia. La mente e la carne in cui il brodo primordiale si è tramutato. La materia bruta che diventa la respirazione polmonare, la circolazione sanguigna, il pensiero speculativo. La nostra prodigiosa complessità mentale, la nostra esuberante vitalità. Il nostro slancio verso l’autodistruzione. Il pensiero è vivo, circola da milioni di anni. Ma ora si sta spegnendo, sono gli ultimi bagliori. La coscienza è quasi esaurita. Si ritorna alla materia inorganica. Vogliamo tornare a essere la materia inerte che eravamo un tempo, dei gas fluttuanti, degli aggregati di minerali. Lontani dalla tortuosità descrittiva delle neuroscienze, dal caos tecnologico, dal brusio dei flussi di informazioni. Forme di vita sempre più rudimentali, sempre più vicine alla soglia dell’inorganico, vengono scoperte o teorizzate. Lo studio del Dna ci riconduce agli albori della vitalità germinale. La possibilità di creare in laboratorio materiale genetico capace di rigenerarsi è ormai razionalmente concepibile… Non così! Il rapporto focale non va manipolato!, esclama, redarguendo un maldestro approccio al telescopio… Non c’è religione senza cosmogonia, riprende. Ogni religione non è che una risposta mitica alle domande: Perché siamo circondati da oggetti dalla struttura ordinata e non da un caos informe? Perché c’è qualcosa e non il nulla? La nostra incapacità di concepire ciò che non ha un inizio né una fine è una nostra tara genetica, aggiunge con un sospiro estraendo un’altra caccola e riservandole la sorte della precedente. Tuttavia qualcosa alla radice della nostra consapevolezza continua a chiedere che cosa ne è dell’ora che ha preceduto il Big Bang. Gli algoritmi del computer ci parlano di un universo dal tempo circolare, un tempo senza inizio. Gli astrofisici discettano di modelli nei quali occupiamo un semplice spicchio di un multiverso più vasto, connotato da un’entropia a crescita indefinita. L’intelletto umano però si ribella. Teologi e metafisici vedono nell’equivalenza tra Dio e l’atto di creazione una camicia di forza imposta alla libertà divina. Egli non può non creare. Un Dio impotente o nolente, che rifiutasse il fiat, sarebbe una contraddizione in termini. Non vi è dubbio che il patrimonio di conoscenze accumulato dal sapere scientifico tralascia di raccontare l’intera storia. Per dirla con Wittgenstein: noi sentiamo che, anche una volta che tutte le possibili domande scientifiche avranno avuto risposta, i nostri problemi vitali non saranno ancora neppure sfiorati. L’intuizione che esista una verità più profonda, più buia, è ciò che conferisce alla nostra esistenza il retrogusto amaro che conosciamo. Siamo condannati a una sete inestinguibile, ossessionati dall’idea del ricongiungimento con un padre che non abbiamo mai conosciuto. Animali che chiedono senza tregua: che cosa c’è là fuori?
Fa una breve pausa. Deve aver esaurito le caccole.
Tra i suoi appunti, riprende, un famoso astronomo ha lasciato questa annotazione: la vista del cielo stellato mi fa venire voglia di farla finita, a malapena lo tollero ridotto in simboli matematici… È questo il fossato che separa l’uomo dalla scienza?
A poca distanza dal telescopio è allestita una stazione meteorologica amatoriale che ci mostra compiaciuto mentre si dedica alla pulizia dell’orecchio destro con l’unghia del mignolo. Un complesso sistema di apparecchiature composto da un Pc multifunzionale Asus; una consolle di comando con una serie di display in sequenza, in grado di fornire la rappresentazione grafica delle informazioni raccolte grazie a un datalogger integrato capace di immagazzinare fino a tremilatrecento stringhe di dati; una coppia di barometri opportunamente dislocati per la misurazione in e out; un anemometro a coppette con cella solare, posto all’estremità di un’antenna sporgente che ci indica dalla terrazza; un pluviometro a vaschetta basculante con risoluzione 2 mm infisso al muro, collocato un paio di spanne più giù; e infine, quasi a contatto con il suolo, un termo-igrometro a schermo solare ventilato h24, sorretto da un palo.
Malgrado gli anni gli strumenti sono perfettamente funzionanti, dice occupandosi dell’altro orecchio. Vuole darcene una dimostrazione.
Mentre iniziano a circolare gli aperitivi (personalmente opto per un Rum Cooler senza lime con cubetti di ghiaccio fluorescenti), spiega come effettuare il rilevamento dei dati, leggere gli strumenti, stabilire la temperatura minima e massima, interna ed esterna; come effettuare la visualizzazione del punto di rugiada, rilevare l’andamento della pressione atmosferica, l’umidità relativa, l’indice di calore, la quantità delle precipitazioni, la direzione e l’intensità dei venti; ci offre un saggio di come si ottiene la rilevazione del fattore di raffreddamento da vento, della temperatura di condensazione; ci indica il sensore di avviso allarmi temporaleschi fissato a un perno conficcato nel muro esterno, e ci mostra come il computer elabori grazie a sofisticati algoritmi le tendenze meteorologiche giornaliere, il trend previsionale settimanale in costante aggiornamento. Mentre osserviamo i barometri si alza una folata di vento e il cielo si oscura. Gli istogrammi si impennano. Illustrandoci il funzionamento dei vari apparecchi spiega che il controllo su quegli strumenti lo fa sentire in condizione di padroneggiare le forze della natura, di riconoscervi un ordine superiore.
Gli osservo la giacca: sulle spalle, una desolante distesa di scaglie di forfora. È un vero disastro.
Restiamo per qualche minuto incantati dal rapido succedersi degli istogrammi e delle altre visualizzazioni grafiche, secondo per secondo, bit dopo bit, come se quella fosse la musica silenziosa degli angeli, il canto accecante delle stelle. Fuori l’aria torna di colpo ferma. Una repentina schiarita. Ma nemmeno cinque minuti dopo, uno scroscio di pioggia. Il pluviometro, all’esterno, ne cattura alcuni centimetri trasmettendo subito i dati. Poi il cielo torna a oscurarsi, questa volta definitivamente, e il rilevatore del barografo riflette immediatamente i dati in un istogramma che scende in picchiata verticale. Non sono nemmeno le sette. Pessime avvisaglie.
Spiega che da lì, da quella postazione, quando fino a un paio di anni prima era solito trascorrervi le serate, si sentiva come su un ponte di comando, percepiva di avere accesso ai capricci del tempo, ai disegni del cosmo, ai racemi del destino. Questo universo apparentemente fatto di umori, dice, è dopotutto trascrivibile in cifre digitali interpretabili e classificabili. Una calma sovrana, tutta mentale, presiede alla trama degli eventi.
A osservarli con attenzione, quei gingilli formano una bizzarra creatura. Con le sue antenne, le sue protuberanze e giunture inossidabili, i suoi schermi, la stazione meteorologica, che lui chiama familiarmente “Boogy”, sembra una divinità umbratile e sinistra.
Con una mano scuote via qualche granello di forfora. Deve essersi accorto che lo fissavo proprio in quel punto.
Ci troviamo in cima alla villa, in una vasta mansarda rettangolare con una parete di vetro scorrevole a est, una portafinestra che dà su una terrazza cinta da una balaustra in pietra naturale sul lato opposto, una collezione di Rothko ai muri, sagome umanoidi di Lodola in plexiglass fluorescente qua e là, poltrone e divani Bauhaus dai colori accesi nei punti strategici, un paio di tavolini trasformabili, uno scrittoio a ribalta addossato a un muro, un televisore al plasma appeso a un travicello, un tappeto écru al centro e una monumentale libreria angolare in teak zeppa di volumi sistemati alla rinfusa. Nel salone minimal al piano di sotto il catering ha già predisposto ogni cosa per la cena a buffet. La casa sorge in solitudine su una scogliera a ferro di cavallo. La protegge una recinzione. Scendendo di poco lungo la strada, si trova un belvedere dal quale si scorge un pezzetto di arenile, più in basso, deserto di fronte al mare color fango. Proseguendo s’incontra un gruppo di case di villeggiatura sparpagliate sui fianchi di una collina. In tutto una ventina di villette in pietra a vista immerse nel verde, alcune con piscina e campo da tennis.
Scommetto che Leo è di altre vedute, esclama Tomas. Questo è Leo, dice indicando un umanoide di terza generazione che si fa largo tra le esclamazioni di stupore. È alto poco più di un metro, costruito con elementi elettromeccanici in lega e polimeri siliconici in grado di simulare muscoli artificiali.
Naturalmente Leo non ha una vera interiorità, precisa Tomas annusandosi le dita. Non si prova nulla a essere Leo. Lì dentro non c’è proprio nessuno… Come tutti i robot della sua generazione, Leo si esprime seguendo un copione prestabilito, non pensa davvero a ciò che dice. Però dice. È stato a zonzo per lo spazio: ne ha apprese di cose! Immaginate di venire catapultati per diciassette anni tra le stelle a caccia di sogni impossibili, di segnali, e catturare pensieri, intercettare menti, forse anche non umane. L’ho acquistato a un’asta dell’ente spaziale pagandolo un occhio. Lo vendevano perché non funziona più tanto bene. Ma è uno spasso. Eh, Leo?
Nessuna risposta, a parte un flebile bip.
Ehi, Leo, che ci racconti? So che non ti sei perso una parola di ciò che dicevo… Leo è un interceptor, un catturatore di memi, idee, e roba simile. Li capta anche a distanze considerevoli. Per questo è prezioso. La difficoltà sta nel porgli le domande giuste. Bisogna saperlo prendere. Ma se c’è qualcuno che può dirci se c’è vita nel cosmo, questo è lui. Se c’è chi può dirci qualcosa riguardo all’esistenza di Dio, anche. Eh, mio bel robottino?
Ancora nessuna risposta.
Che ti piglia?
A quel punto Leo si illumina tutto, risplendendo come un albero natalizio, e comincia a buttare fuori una sfilza di parole, come un rotolo, in un tono indistinguibile da quello di un essere umano, non fosse per un riverbero, un fruscio di fondo.
I re di cavallo, lo sentiamo dire distintamente, e i neutroni, sarabande, tutti bombardati. Non vorrei. Potrei. Ipertrofismo e due mani segnate, parare, tirare e azzerare, poveretti, annullamenti, forse carezze, annullamenti, pugni e caviale, finire di capire…
Tomas gli dà un colpetto sulla sommità. Sveglia… Come vi dicevo Leo ha qualche difetto, è tornato dall’ultimo viaggio un po’ impallato. Per questo l’ente spaziale se ne è disfatto. Il suo è un disturbo che colpisce anche gli esseri umani: afasia di Broca. Ogni tanto perde il controllo e va resettato. Altre volte basta filtrare ciò che dice, l’80 per cento è buono, il resto va buttato. Vero, Leo?
Stellare e baciare, e camminare, la via Aurelia, e guardare a destra e un dente, senza mangiare gli occhi, passeggiare, una mela, sa di azoto, passeggiature, forse un ibrido, le zebre sono queste, motorini e i fari spenti…
Tomas gli sferra un calcio e Leo traballa.
Chi ne soffre è convinto di formulare frasi di senso compiuto. Eppure Leo è la mente più brillante del pianeta. Ne sa più di chiunque altro, credetemi.
Il robot ruota su se stesso, si stabilizza, poi riprende a parlare. Questa volta restiamo a bocca aperta.
Con tutto il rispetto, dice, quelle teorie, zzz, sono superate. Attualmente la frontiera più avanzata concerne una nuova forma di vita allo studio. Il gene, fino a ieri l’entità replicante primaria sul nostro pianeta, è già obsoleto o comunque marginale. Non è stato necessario andare su mondi lontani per trovare un’insospettabile forma di vita in rapida evoluzione, destinata a soppiantare quella umana, bzz, bzz. Parlo di un nuovo replicatore venuto alla luce sulla Terra. L’abbiamo sotto gli occhi. È ancora in una fase aurorale, ma il suo processo avanza a una velocità sconosciuta ai geni. È il meme, un aggregato di molecole culturali costituite da combinazioni variabili di atomi concettuali. Esempi di memi sono, zzz, zz, le religioni, gli slogan, le mode, le tecniche di produzione, le melodie, le battute di spirito, le scoperte scientifiche. I memi si propagano da un cervello all’altro per semplice imitazione. Se qualcuno si imbatte in una buona idea la nutre, la diffonde. Se l’idea attecchisce, in breve si trasmette da un cervello all’altro obbedendo alle leggi dell’evoluzione. Darwin detta ancora legge, flop flop. L’origine dei memi coincide con la nascita dell’Homo sapiens, con il costituirsi di abitudini comunicative. Parlo delle idee; di idee come quella di ruota, computer, relatività, calcio, cubismo, Santo Graal, Coca-Cola, Facebook. Vista da questa angolazione, zzz, la relazione tra uomini non è che un modo in cui un database crea un altro database. E gli esseri umani nient’altro che luoghi in cui i memi prosperano. La loro duplicazione non avviene necessariamente per il bene della specie umana, drrr. Il fine ultimo è la duplicazione stessa. Un meme può ordinare all’organismo ospitante di gettarsi sotto un treno, se può servire alla sua affermazione. Il meme del suicidio può dilagare, come nel caso del martirio, spingendo innumerevoli esseri umani a morire per una causa. Anche gli oggetti sono memi. Un’automobile non trasporta solo il suo carico, ma anche l’idea di un peculiare mezzo di trasporto, pot pot. L’esistenza di un meme dipende dalla sua realizzazione fisica in qualche mezzo. L’idea di giustizia si realizza nei tribunali – o dovrebbe; quella di melodia nella musica – si spera. Se tutte le sue realizzazioni fisiche – ad esempio tutte le melodie – vengono distrutte, quel meme si estingue. Ma potrebbe riapparire in seguito, tut tut. Il destino dei memi dipende dal processo selettivo che opera sui veicoli fisici che li supportano. Siamo attorniati dai memi e dai loro veicoli come d’estate da mosche e zanzare. Ma essi hanno una particolarità: sono visibili solo dalla specie umana. Un meme può evolversi in un certo modo solo se è vantaggioso per se stesso. Generalmente sono i memi buoni a risultare i più fecondi, ma accade anche che siano le idee cattive a prendere il sopravvento, zzz. I memi si diffondono come un contagio, replicandosi a ritmo vertiginoso. Pensate al meme del consumismo. Saltano da un mezzo all’altro come le pulci di cane in cane, ed è impossibile arrestarne la diffusione. Sono potenzialmente immortali, a patto di potersi replicare senza sosta. Ma senza l’uomo sono lettera morta. Per potersi riprodurre devono trascorrere una fase pupale in una mente. Ogni mente può contenere un numero limitato di memi. Pertanto vi è una spietata competizione. Le menti umane non sono che un prodotto dei memi. Le differenze nei talenti individuali dipendono dal lavorio incessante dei memi penetrati nei cervelli, bzz. I memi giocano un ruolo cruciale nel determinare la personalità di un individuo. Lavorano imperterriti, da millenni, per potenziare il cervello umano. Forse alcuni di loro coltivano un folle piano di conquista: condurre la specie umana alla soglia dell’estinzione e impossessarsi del pianeta, bip. Solo a un numero ristretto di individui selezionati verrà consentito di sopravvivere, per la prosperità dei memi dominanti. A partire dal cervello i memi hanno creato la mente, che a sua volta ha dato origine al sé. La coscienza umana è un pullulare di memi, bzz bzzz. Il linguaggio, le parole ne costituiscono i veicoli privilegiati, i corpi visibili. Frotte di memi, trasportate dal linguaggio, ma anche da immagini e strutture di dati, affluiscono in ogni cervello, trasformando la materia bruta in qualcosa di prodigiosamente complesso. Gli esseri umani sono posseduti dai memi senza saperlo. Talvolta si sorprendono a formulare a voce alta pensieri che non sapevano di avere. A chi non è capitato di pronunciare le parole “ti amo” e un istante dopo pensare: Mio dio, cosa ho detto!… Risicare, di ciò che è brucitato, come è dirimpetto, e impedire che voli… divertico… coli… prendermi malanni, surriscaldati… miraggi…
Tomas lo afferra scuotendolo con vigore.
…Uno dei più insidiosi, riprende Leo, è il meme della teoria del complotto… Una chiave di rosicatura farebbe due, salto uno, punto… bip bip… Qualcuno ricorderà la vicenda culminata con l’impeachment del presidente Sánchez che da tempo tentava di far approvare un pacchetto di leggi restrittive della libertà personale. La ragione addotta era l’esistenza di un fantomatico “Piano strategico numero 10” messo a punto dai cinesi per impadronirsi del mondo. Il piano, nome in codice “Paralisi”, consisteva a suo dire in un’operazione capillare di condizionamento psicologico volta a “paralizzare” la volontà americana di resistere. Arte, scienza, istruzione, mezzi di informazione, economia, leggi, medicina, esercito, religione, mafia: tutto sotto scacco. Bip. Il governo americano aveva ora la possibilità di tacciare di “paralisi” ogni oppositore interno. La cosa funzionò. Per un po’. Impossibile dimostrare che il Piano strategico numero 10 non esisteva. Quando gli veniva chiesto di fornire le prove, Sánchez si limitava a rispondere che non ce n’erano, ma che proprio questo dimostrava che il piano era in atto. Tutti i centri nevralgici del paese, incluso il sistema di informazione, sembravano sul punto di cadere sotto i colpi del Piano numero 10… Ma a qualcuno venne un sospetto. Durante una conferenza stampa, un giornalista del “Post” obiettò: Signor presidente, forse ha ragione, siamo sotto attacco dei cinesi. Ma se è così, come fa a sapere di questo piano? Come ne siete venuti a conoscenza? Chi ci garantisce che lei stesso non sia stato “paralizzato”? Chi ci assicura che i cinesi non si siano infiltrati nella Casa Bianca “paralizzando” lei e tutto il suo staff, e non vi stiano usando per seminare il panico e farci perdere fiducia nelle istituzioni del nostro paese? Dove avete preso le informazioni? Per come la vedo io, c’è un solo posto al mondo: la Cina… Tut, tut, al presidente crollò la mascella. Fine di una carriera politica. Fu l’inizio di una crisi profonda per l’America… Rip, rip, rip…
Mai sentite tante assurdità, osserva alle mie spalle il teutonico vocione della professoressa Gruber, nota per le maniere sbrigative e una certa brutalità. Dal suo giunonico corpo si irradia un odore di legno di garofano e tuberosa che ricorda quello degli insetticidi.
Tutt’altro, ribatte Tomas. Il meme della teoria del complotto è potentissimo, controlla da sempre gran parte delle società segrete: Pitagorici, Massoni, Illuminati, Templari, Rosa Croce, Priorato di Sion, Ku Klux Klan, Majestic 12…
Dimentica la Confraternita del Teschio e delle Ossa, lo interrompe l’avvocato Bonera. Quel branco di fanatici di Yale che si fanno anche chiamare Cavalieri di Eulogia o Ordine della Morte, con un patrimonio netto di cinque milioni di dollari. Senza contare che sono proprietari di un’intera isola, per quanto piccola: la Deer Island, sul Saint Lawrence, al confine tra Canada e Stati Uniti. Un paio di anni fa sono stato da quelle parti. Una banda di debosciati capace di prodezze come trafugare i resti di Geronimo e impossessarsi del teschio di Pancho Villa… e dalla quale, per giunta, vengono reclutati i quadri dirigenti del paese e i vertici dell’intelligence…
…È un martello, una fila di martello, continua Leo. Un martello, caduto, uno caduto, martello. Bonelli, è un bonelli, non veramente un bonelli, due bonelli che trattengono una freccia, no, non una freccia, due bonelli che corrono a mangiare una cameriera di giorno, e due mele, di servizio, non ora…
Aspettate un attimo. Tomas si allontana e poco dopo torna con una valigetta degli attrezzi. Lo vediamo armeggiare attorno a Leo.
Ecco, dice, ora dovrebbe essere a posto per almeno ventiquattr’ore.
La nostra comitiva non è meno surreale del Piano strategico numero 10. E non solo a causa di Leo. In attesa del passaggio dell’asteroide tra poco ci dedicheremo a un gioco in voga da qualche tempo, dopo la precoce sfioritura del Telefono rovente. Un nuovo trastullo conosciuto come Simposio 2.0. A turno, ciascuno dei presenti prenderà la parola e svolgerà un tema, racconterà una storia, si lancerà in un’invettiva, in un monologo, qualunque cosa travalichi il semplice pettegolezzo. Ogni intervento dovrà durare almeno quindici minuti. Di più, volendo: non meno. Alla fine si procederà alla proclamazione del vincitore. Il premio? Venticinquemila euro (fiscalmente detraibili) stanziati dalla Blue Box. Leo parlerà per primo: si è impegnato a fornire la prova ultimativa dell’esistenza di Dio. Anni fa, durante un soggiorno in alta quota al seguito di una spedizione scientifica, gli è accaduto di captare gli ultimi giorni di vita dello scrittore Roberto Bibiano (di fede dummettiana), scomparso tra i ghiacci mentre lavorava al suo ultimo libro, La prova finale, trasmesso al suo editore via etere la sera prima di scomparire e uscito postumo. Il libro è incompleto. Ma pare che Leo sia entrato in possesso dei tasselli mancanti. Ha catturato migliaia di immagini mentali di Bibiano, pensieri, appunti, annotazioni, pagine di diario che hanno fatto da sfondo al libro, oltre a passi mancanti nella versione edita. Naturalmente Leo non gareggia per denaro, non saprebbe che farsene… Per parte mia, reduce dalla spaesante lettura di un saggio del filosofo ebreo Vladimir Jankélévitch che fa della morte un tema da operetta, traccerò una piccola summa del sonno eterno, discettando dell’immortalità dell’anima, dispensando balsami, lenitivi e panacee universali. L’avvocato Bonera (che tutti continuano a chiamare così, anche se non esercita più, da quando nove anni fa è entrato in possesso di una sostanziosa eredità, in parte dissipata, e grazie a un agghiacciante pamphlet sul sistema carcerario nazionale si è trasformato in un popolare volto televisivo) ci parlerà dello splendore dei supplizi e delle pene, introducendoci, da studioso di Michel Foucault quale si vanta di essere, nell’umbratile mondo dei bagni penali e, se possibile, nel vivo del concetto stesso di giustizia. La professoressa Gruber, cresciuta alla scuola relativista di Sean Carroll, ci sconcerterà con una serie di aporie sul tempo, riferendoci di alcuni esperimenti condotti dalla sua équipe nei laboratori di fisica delle particelle del Cern. Eva Keller, un metro e settantasei per cinquantaquattro chili di splendore carnale, passerà in rassegna le più recenti tecniche di bondage: legature, corsetti, cappucci, bavagli, mummification, suspension, deprivazione sensoriale. Tomas farà da moderatore. Sua moglie Bree, Bruno De Santis, direttore del giornale per cui lavoro, e la sua nuova chiassosa compagna, da spettatori. Tra un intervento e l’altro daremo un’occhiata al sasso volante, passando in rassegna articoli e notizie che lo riguardano.
Un esile cameriere con gli occhi a mandorla si avvicina alla padrona di casa e le mormora qualcosa.
È tutto pronto. Possiamo trasferirci nel salone dei ricevimenti, fa segno lei con la mano lunga e sottile, le unghie smaltate di nero glitter. Ha i capelli paglierini, tagliati corti, e la pelle bianca come se non avesse mai visto il sole. Una specie di raro uccello polare. Indossa un tubino antracite che la fa sembrare ancora più magra. Viene dall’Olanda, ha poco più di trent’anni, ex campionessa di pattinaggio artistico. Vi anticipo che la cena è a base di specialità vietnamite, aggiunge. Avremo: banh xeo, una crêpe farcita di fagioli e carne di maiale; pho, zuppetta di tagliolini, preparata con manzo, pollo e pesce, condita con erbe aromatiche e chiodi di garofano; hu tieu xao thit bo, un pasticcio di manzo e fagioli lessati servito con riso; e infine che, una specie di budino di fagioli bianchi, mais e patate dolci, simile al pudding, servito con ghiaccio tritato e una colata di latte di cocco. Il tutto accompagnato da nuoc cham, una tetra salsa piccante ricavata dalla fermentazione del pesce in salamoia, e da ruou ran, vino di serpente, un distillato di riso nel quale è stato immerso un colubro sottaceto dalle proprietà medicamentose.
Una volta terminata la cena, aggiunge Tomas, volent verba, le parole si alzino in volo…
Dimenticavo, s’inserisce nuovamente Bree. La frutta verrà servita più tardi in questa sala… E, per chi ancora non lo sapesse, io e Tomas aspettiamo un bambino. Un maschietto.
Mater semper certa est, pater numquam, scherza Tomas.