Capitolo 2

De fine vitae

Il mio racconto – Piccola summa della morte
– In morte veritas

“È giunta, ormai, l’ora di andare, io a morire, voi a vivere. Chi di noi vada a miglior sorte, nessuno lo sa, tranne il dio”

Platone, Apologia di Socrate

“La morte non è niente. Sono solamente passato dall’altra parte: è come se fossi nascosto nella stanza accanto”

Agostino d’Ippona

Siamo noi che facciamo essere la morte ciò che è.

Il numero dei morti dopo l’ultima era glaciale supera quello dei vivi. Siamo un pianeta di morti. E chi non è morto lo diventerà presto. Non fate quelle facce.

La quantità delle anime che affollano l’aldilà stupisce perfino Dante durante il suo viaggio ultraterreno:

E dietro le venìa sì lunga tratta

di gente, ch’i’ non averei creduto

che morte tanta n’avesse disfatta.

Ma anche i morti dopotutto hanno un loro modo di essere vivi. Il generale Kuntz, sul fronte occidentale, ha decimato più sottufficiali da morto che da vivo, in forza di una disposizione trovata sul suo tavolino da campo dopo che una granata lo aveva fatto saltare in aria. Il signor Marx e il signor Nietzsche hanno prodotto più sconquassi una volta defunti di quanto non abbiano fatto in vita. Senza contare che nel 2013 un leader politico svizzero è stato capace di vincere le elezioni dall’oltretomba.

Come spiegare questa apparente violazione delle leggi di natura? Con una parola: fanatismo. Più sottilmente, potremmo parlare di una forma di resistenza postuma, di ostinazione a non scomparire, di rifiuto a farsi da parte una volta per tutte, insomma con la forma più tenace di persistenza che si possa sperimentare: la persistenza delle idee. Dei memi, direbbe Leo. In particolare delle idee che hanno un cattivo sapore. Fa-na-ti-smo: una parola che nella storia ha fatto rotolare più di una testa, spedito all’altro mondo più di un riottoso. In ciascun uomo sonnecchia un profeta e quando si risveglia c’è un po’ più di male nel mondo: parole sante, caro Cioran. E chi ama indebitamente un dio, lo sappiamo, è votato allo spargimento di sangue. Ma perché preoccuparsi tanto? Dopotutto la morte non è che il prezzo da pagare perché lo Spirito avanzi: il sacrificio individuale è necessario alla piena realizzazione dell’universale. Di più: è la morte a dissipare l’illusoria cesura tra individuale e universale.

John Donne avverte:

Nessun uomo è un’isola, intero in se stesso;

ogni uomo è un pezzo del continente,

una parte della Terra.

Ma che cos’è la morte? Non smetto di chiedermelo da quando, poco più che ventenne, mi trovai al cospetto di quella grande tavola di Brueghel che ne celebra i fasti. Ma forse la verità è che ne sono sempre stato ossessionato – benché essere ossessionati dalla morte equivalga a essere ossessionati dalla vita. A undici anni presi la broncopolmonite e per poco non ci lasciai le penne. Nel delirio della febbre mi ero persuaso che mio padre volesse sbarazzarsi di me. Non facevo che pensare alla storia di Bloody Mary, letta su un vecchio libro del “Reader’s Digest”. Parlava di una ragazza di dodici anni, di nome Mary Stewart, che viveva in una cittadina degli Stati Uniti e che un giorno si ammalò di tifo. Il padre, che faceva il medico, per toglierla di mezzo disse a tutti che era morta, anche se era solo addormentata. La seppellirono. Sconvolta dal dolore, la madre le aveva legato uno spago al polso, collegato a un campanello appeso alla porta di casa, in modo da poterla sentire se si fosse “risvegliata”. Ma il padre somministrò alla moglie della morfina, in modo che non potesse udire i disperati scampanellii della ragazzina. La mattina seguente trovarono la campanella per terra: si precipitarono a disseppellire il cadavere, ma stavolta Mary era morta sul serio, assiderata, con le mani imbrattate di sangue e le unghie spezzate nel tentativo di sollevare il coperchio della bara.

In ogni caso, dopo quella visita al Prado feci il pieno di danse macabre, ovunque ne trovassi; mi accostai alle opere dei maestri che l’avevano rappresentata con maggior acume. Indagai le altre arti, la letteratura, la filosofia, le scienze umane, la religione, limitati aspetti della medicina, in particolare di quella legale. Al principio i miei studi avevano preso una piega macabra; poi, a poco a poco, riuscii a incanalarmi in una direzione più ragionevole. Nell’ambiente accademico mi guadagnai la fama di tanatologo. Il giornale universitario mi commissionò un paio di articoli sul tema. Quando iniziai a collaborare con la carta stampata, per qualche tempo non feci che occuparmi di morte: cronaca nera, necrologi, coccodrilli, questioni etiche, antropologiche, casi di eutanasia, di prelievi di organi. Ma la verità è che, per quanto mi applicassi, non ne venivo a capo, anche se facevo di tutto per nasconderlo. Voler capire la morte è pretenzioso. Nonostante gli sforzi essa resta inaccessibile: mille volte più scivolosa di una saponetta bagnata, infinitamente più sfuggente di una pallina di mercurio, il più segreto dei segreti. Certo, la medicina legale ha fornito i criteri per definirla in modo inequivocabile, identificandola con la cessazione irreversibile delle funzioni dell’encefalo. Ma si tratta di arbitrii, semplificazioni, visioni parziali. Molti credono di sapere di che si tratta, sono certi di possederne una nozione chiara e distinta. Ma è evidente che non hanno riflettuto a dovere. Se lo avessero fatto, si sarebbero resi conto di quanto sia impossibile non solo comprendere, ma perfino pensare la morte.

La morte non è pensabile né prima né dopo né durante. Questo è il guaio. Prima, perché come dicono gli epicurei quando ci siamo noi non c’è lei. Dopo, perché quando c’è lei non ci siamo noi. Durante, perché quell’attimo non può essere afferrato. Un battito di ciglia, uno schiocco delle dita e siamo morti. E comunque una simile prospettiva assumerebbe i contorni di una “filosofia della soglia”. Chi si è trovato seduto accanto a un uomo che sta per morire sa che quel momento non ha nulla di spaventoso né di penoso. È soltanto la naturale cessazione del funzionamento del corpo. Una lavatrice che finito il lavaggio si spegne. Una stella cadente che brilla per qualche istante prima di sparire nella notte infinita. Quello della morte è un pensiero senza oggetto perché la morte è qualcosa che non possiamo conoscere né sperimentare. È il misterioso vicino della porta accanto che non si fa mai trovare in casa. Si muore solo per gli altri. L’uno vive la morte dell’altro come l’altro muore la vita del primo, sibilava Eraclito l’Oscuro. Vita e morte sono orologi fuori sincrono. La morte è un sole che non si riesce a fissare. Quando si tenta di parlare della morte, o ci si ritrova a parlare di altro o ci si accorge di non avere nulla da dire; oppure si finisce per pensare alla propria morte senza morire sul serio, e di conseguenza per pensare alla vita. La morte è il nulla che distrugge il pensiero, scriveva Schelling. Immaginare la totalità della nostra esistenza è già difficile. Immaginare il suo totale annientamento lo è di più. Se la morte è il nulla, pensando alla morte pensiamo al nulla e riguardo al nulla non c’è materia alla quale aggrappare i pensieri. Qualcuno ha scritto: la morte è l’a-priori del pensiero che invano tenta di farne un proprio oggetto. Nemmeno l’occhio vede la luce, ma soltanto gli oggetti illuminati. Allo stesso modo, quando si pensa alla morte, si finisce per pensare a degli esseri mortali, ossia viventi. La morte non è un evento della vita, scriveva Wittgenstein; la morte non si vive. Aggiungeva Spinoza: l’uomo libero a nulla pensa meno che alla morte, e la sua sapienza è meditazione non sulla morte ma sulla vita.

Quello della morte pare un problema fatto per non essere nemmeno posto, figuriamoci risolto. Per sfuggire al pensiero ossessivo della morte l’uomo si distrae con ogni genere di futilità. Coloro che giudicano poco ragionevole trascorrere l’intera giornata a correre dietro a una lepre che non si vorrebbe aver comperato, avverte Pascal, non capiscono nulla della natura umana: quella lepre non ci impedisce certo la vista della morte, ma la distrazione della caccia sì. Non potendo pensare la morte, ci restano poche alternative: o girarvi intorno o pensare al suo rovescio, ossia alla vita. Non a caso l’uomo ha sviluppato un’arte raffinata: quella di vedere una cosa dove non c’è. L’uomo superficiale, si dice, pensa solo a ciò che vede. Ma l’uomo profondo, vedendo i presenti, non può fare a meno di pensare agli assenti. La morte viene ricercata nelle profondità della vita. Dietro il rigoglio della carne si nasconde la miseria dello scheletro. Dietro il sorriso sciolto e spensierato della giovinezza, il ghigno del cadavere decomposto. La morte è nascosta all’interno della vita e la rosicchia a poco a poco. Il teschio nascosto sotto la pelle è ciò che ci angoscia. Il ghigno sinistro dello scheletro è una parodia del riso. La bellezza del corpo si limita alla pelle, scriveva Oddone di Cluny nel X secolo.

La morte improvvisa, che semina il panico a un ricevimento mondano, è la più sconveniente tra le gaffe. È più indecente stramazzare a terra in mezzo a un salone pieno di gente elegante che avere l’alito cattivo o quintali di forfora.

La morte è il posto rimasto vuoto una volta scacciata l’esistenza. È occupato questo posto? Non più. La morte è la vita svuotata dell’essere. Un’immortalità a rovescio.

Richard Feynman, premio Nobel per la Fisica, riferisce di una donna che comincia a sospettare che il marito voglia ucciderla e un bel giorno non gli permette di entrare in casa. Ogni tentativo dell’uomo non è che la dimostrazione delle sue cattive intenzioni. L’amico mandato per farla ragionare viene preso per un killer. L’intervento pacificatore dei vicini non serve che a peggiorare la situazione. Nemmeno l’arrivo della polizia è sufficiente a tranquillizzarla: la donna ricorda all’improvviso che il marito ha delle conoscenze al dipartimento di giustizia. Guarda fuori della finestra: i vicini la stanno senza dubbio spiando col binocolo per conto del marito! A pensarci bene, l’intera città potrebbe essere passata dalla parte del marito: perché no, dopotutto egli è una personalità da quelle parti. L’avvocato a cui si è rivolta aveva difeso anni prima un collega di suo marito. Il dottore che sta tentando di convincerla a ricoverarsi è ovviamente dalla parte del marito. Non le viene in mente nemmeno per un attimo che è impossibile che l’intera cittadinanza abbia accettato di prendere parte a un simile complotto ai suoi danni: perché diavolo dovrebbero farlo? È al di fuori di ogni logica. Ma come spiegarlo a chi ha smarrito del tutto la logica?

Non conosciamo la fine di questa storia ma possiamo immaginarla: sentendosi perduta, la donna si strappa dalle braccia del medico e si butta dalla finestra. Finirebbe per ottenere ciò da cui sperava di fuggire, ossia la morte, se non si trattasse della finestra del piano terra, un metro e mezzo di dislivello, non di più.

Eppure, ricorda Jankélévitch, esiste un aspetto pubblico della morte che ce la mostra in “abiti borghesi”, depotenziata: nei municipi, l’anagrafe mortuaria è un ufficio come altri, una sezione dello stato civile, proprio come l’ufficio delle nascite e quello dei matrimoni. Le pompe funebri sono un servizio pubblico non diverso dalla manutenzione della rete stradale, dalle mense scolastiche, dall’erogazione di energia elettrica. Nei bilanci comunali non si fa distinzione tra le spese riservate alle scuole e quelle destinate ai cimiteri. L’ufficio demografico registra i decessi e le nascite come dati statistici. Quando muore un funzionario pubblico, si ha a che fare non solo con la morte di un individuo ma anche con un evento amministrativo che innesca nomine, trasferimenti, promozioni. La notifica di un decesso nel gergo ospedaliero diventa “gestione della cattiva notizia”; la morte calata nel quotidiano non sopravvive all’incalzare della vita. Essa è, lo sappiamo, un destino comune a tutte le creature. Non è mai accaduto che un “mortale” sia scampato alla morte. Almeno fino a oggi. Eppure coltiviamo la speranza segreta che a noi possa non accadere, che all’ultimo saremo risparmiati. So che morirò ma non lo credo, ha scritto Jacques Madaule. Questa speranza trova un incauto incoraggiamento nell’indeterminatezza della data. Chissà, forse la morte si dimenticherà di me. Nel frattempo si sarà scoperta una nuova cura, un elisir di lunga vita, un farmaco capace di arrestare il processo d’invecchiamento. Il fatto che, generazione dopo generazione, miliardi di uomini e donne siano nati e poi defunti sembra non bastare a convincerci dell’ineluttabilità della morte. Il fatto che qualcuno in qualche luogo lontano muoia non dimostra nulla. Vedremo, quando toccherà a me. Ci capita una curiosa avventura, ha osservato Pierre Chaunu: oggigiorno sembriamo aver dimenticato che si deve morire. Per un verso la nostra morte ci sembra inimmaginabile. Per un altro niente è altrettanto vicino. Un nonnulla ci separa da essa. Morire può costituire una tentazione. Una certa pressione sul grilletto e i grandi segreti dell’aldilà cesserebbero di essere tali. Basta un niente, un piccolo gesto, una bolla d’aria in un’arteria, un inciampo del cuore, perché scocchi l’ora. La morte è sempre alla porta. E quando decide di entrare a nulla valgono inferriate, catenacci, sistemi di allarme, strategiche fughe dalla porta sul retro. Avete presente quando il postino si presenta con quelle orribili buste verdi? Beh, non c’è nulla che possa fermarlo. Se non vi trova, lascia l’avviso. Chi assicura di essere pronto a riceverla, mente. Non siamo mai pronti a morire. Ci prepariamo a essere sorpresi dalla cosa meno sorprendente del mondo. La scomparsa di un familiare ci rivela all’improvviso che la morte non riguarda solamente gli altri. Colpiti da una grave malattia, comprendiamo di colpo di essere mortali. L’uomo è smarrito quando si trova tutto a un tratto al cospetto di un avvenire che non era fatto per avvenire, osserva Jankélévitch. L’idea che la fine del mondo, oggetto di tante speculazioni, sia fissata per un giorno preciso, che questa sera sia l’ultima della nostra vita, ci toglie il fiato. Quando arriva, la morte lo fa sempre per la prima volta, obbligandoci ad allestire in fretta e furia la nostra dipartita. Perché la nostra morte è sempre prematura. Non crediamo mai di poter morire sul serio. Quando l’indeterminatezza della morte si concretizza in una data precisa, la disperazione s’impossessa di noi. È il caso dei condannati al patibolo. Tutti gli uomini sono mortali. Io sono un uomo. Ma non ne segue che debba morire giovedì prossimo. Ne segue semplicemente che morirò prima o poi. Preferibilmente poi. Realizzare che dobbiamo morire non è frutto di un ragionamento ma di un pensiero istantaneo, vertiginoso. Da allontanare il più in fretta possibile. Il modo migliore per tenere a distanza la morte è dedicarsi alla vita. Alle sue pretese. Finché la tua carta di credito avrà capienza, la morte può attendere.

La morte non è niente, scriveva Epitteto facendo eco a Epicuro. Nascita e morte sono un’illusione, avvisava Parmenide. Come potrebbe ciò che è non essere più? E ciò che non è cominciare a essere? Eppure un semplice graffio in un dito cambia per me l’ordine dell’universo: se non mi ancorassi alla ragione, ammetteva Seneca, sarei portato a preferire la morte dell’intera umanità a quel graffio. Un granello nel mio occhio scolora le cose, avvelena tutti gli eventi della giornata. Eppure per gli altri non è che un granello di polvere in più in un occhio qualunque. La mia morte è la fine di tutto, della storia, dell’universo intero. La fine del mio tempo vitale è per me la tragedia suprema, mentre la morte altrui non è che un incidente tra i più comuni. Viceversa, la mia morte per l’universo non è che un’inezia. La sedia lasciata vuota è subito occupata. Domattina in ufficio non si parlerà che della mia morte, ma il giorno seguente tutto riprenderà come prima. Noi moriamo ma la riunione va avanti, nostra moglie ci sostituirà, i nostri figli torneranno alle loro occupazioni. Il mondo va avanti uguale a prima, come se io non fossi mai esistito. La mia morte o quella di un altro, a uno sguardo imparziale, sono equivalenti. Quando i bambini non vedono più il nonno e domandano perché, fa notare Philippe Ariès, si sentono rispondere che è partito per un paese lontano o che riposa in un bel giardino dove cresce il caprifoglio. Non sono più i bambini a nascere sotto un cavolo ma i morti a scomparire tra i fiori.

Vale a consolarci del nulla insignificante che siamo l’idea che forse un giorno, dopo morti, risorgeremo? Molte religioni e miti antichi parlano di resurrezione.

Platone ha un’idea precisa dell’immortalità e della resurrezione dei morti. Nell’aldilà, ci assicura, si trovano le anime di coloro che vissero sulla Terra, le quali, di nuovo, torneranno quassù, rigenerandosi dai morti. Se le cose stanno così, prosegue Platone, se è dai defunti che nascono i vivi, come non ammettere che le nostre anime vivano nell’oltretomba? Non è possibile, osserva, che rinascano se non esistessero. Basterebbe questo a provare la loro esistenza, a dimostrare che i vivi non hanno altra origine se non dai morti. E dunque nessuna paura della morte deve affliggerci, perché dopo morti risorgeremo. La morte segue inesorabilmente alla vita, ma anche la vita nasce dalla morte. Non c’è l’una senza l’altra, due cose in una. Se così non fosse, conclude, se cioè ogni cosa che ha vita morisse e, una volta morta, rimanesse in quello stato, senza mai più rivivere, non vi sarebbe, necessariamente, soltanto morte e più nessuna forma di vita? Anche ammettendo che i vivi nascano non dai morti ma da altri esseri e poi muoiano: come si potrebbe evitare che tutte le cose siano consumate dalla morte?

Ma discorsi simili hanno perduto il potere di rassicurarci. E comunque per Platone morire è solo un addormentarsi di grado più elevato. Nulla di cui preoccuparsi. A pensarci bene, che cosa è l’immortalità se non una sequenza incessante di morti? Il segreto dell’immortalità è dunque la mortalità?

Per chi vuole conoscere in anticipo il proprio destino, oggigiorno è disponibile il death test, un esame diagnostico che, mediante un laser puntato su specifiche cellule, è in grado di quantificare lo stato di salute, prevedere malattie gravi e stabilire con un margine di errore trascurabile la data della morte. Volete tentare?

Alcuni muoiono in modo stupido, o per cause banali. Talete e Virgilio morirono per un’insolazione. Eraclito fu sbranato dai propri cani: non lo riconobbero dopo un bagno nel letame di mucca che, secondo il suo medico, avrebbe dovuto guarirlo dai dolori di stomaco. Empedocle si gettò nel cratere dell’Etna per dimostrare di essere immortale. Il vulcano, si racconta, avrebbe restituito solo i suoi calzari. Eschilo fu colpito in testa da una tartaruga lasciata cadere da un’aquila in volo. Sofocle si strozzò con un acino d’uva. Crisippo morì per il troppo ridere alla vista del proprio asino – cui aveva dato da bere del vino non miscelato – che tentava di arrampicarsi su un albero di fichi. Federico Barbarossa cadde da cavallo mentre attraversava un fiume in Cilicia e a causa del peso dell’armatura morì affogato in meno di un metro d’acqua. Carlo VIII di Francia entrò in coma nel Castello di Amboise due ore dopo aver battuto la testa contro un architrave mentre giocava al jeu de paume. Ladislao I, re di Napoli, morì avvelenato dopo un rapporto sessuale con una delle sue amanti: il padre geloso aveva spalmato sull’organo genitale della figlia un veleno facendole credere si trattasse di un elisir d’amore. Tycho Brahe preferì lasciarsi scoppiare la vescica piuttosto che mancare di rispetto al re di Danimarca abbandonando il banchetto al quale il monarca lo aveva invitato. Alessandro Manzoni finì i suoi giorni dopo aver battuto la testa su uno scalino all’uscita della chiesa di San Fedele a Milano. Giacomo Leopardi, goloso di dolci, passò a miglior vita in seguito a un’indigestione di confetti di Sulmona, regalatigli dalla sorella di Ranieri, anche se il referto ufficiale parlò di idropisia polmonare. Jan Potocki, in preda alla depressione, staccò una fragola d’argento che adornava una teiera e, limandola giorno dopo giorno, ne fece una sfera. Quando raggiunse le dimensioni adatte, fece benedire la sfera, dopodiché la utilizzò come pallottola per porre fine ai suoi giorni. Pierre Curie morì a Parigi tentando di attraversare la strada sotto una pioggia torrenziale: scivolò a causa del fango e fu investito da una carrozza sotto gli occhi atterriti della moglie. Il compositore russo Aleksandr Nikolaević Skrjabin spirò a causa di una ferita che si era prodotto radendosi. Isadora Duncan fu strangolata dalla propria sciarpa le cui frange si erano impigliate nelle ruote della Bugatti sulla quale era appena salita, salutando gli amici con una frase che rimarrà famosa: “Addio, amici, vado verso la gloria!” Jimi Hendrix morì a soli ventisette anni soffocato nel proprio vomito. Federico Fellini strozzato da un pezzo di mozzarella che gli ostruì la trachea causando danni irreparabili al cervello.

Altri sembrano particolarmente refrattari alla morte. Rasputin fu avvelenato con il cianuro durante una cena a casa di Jusupov, ma dato che resisteva al potente veleno i congiurati decisero di sparargli. Il primo colpo lo colse a un fianco. Rasputin si rialzò. Fu raggiunto da un altro colpo alla schiena. Mentre veniva trascinato nel cortile fu finito con un colpo in fronte, sparato da un agente dei servizi segreti britannici. Il suo cadavere fu gettato nella Neva, riaffiorando il giorno dopo. Secondo l’autopsia, non presentava tracce di avvelenamento. Essendo stata riscontrata acqua nei polmoni, fu chiaro che, nonostante il veleno e le pallottole, Rasputin era stato gettato nell’acqua ancora vivo. Per sicurezza, qualche tempo dopo il suo corpo venne dissotterrato e bruciato.

Spesso la morte appare disturbante. Prendete gli animali imbalsamati, nei quali essa si è raggelata in un istante che ha fermato il tempo. Oggi si imbalsama di tutto. La tassidermia è un’arte ben retribuita e battuta alle principali aste. Susan Murray è una delle più famose imbalsamatrici. Le sue opere vengono vendute a cifre da capogiro, fino a centoventimila euro. Tra i suoi lavori più famosi, un telefono dalla cui cornetta escono testoline di uccelli; una piccola volpe in una coppa di cristallo su cui pende un lampadario a gocce; un topo in una scatola di vetro; scheletri umani in perfetto stato.

Per una repentina associazione di idee questi animali imbalsamati mi fanno tornare alla mente una “certa enciclopedia cinese” menzionata da Borges in un suo scritto (e ripresa da Foucault in un celebre saggio), nella quale si legge che gli animali si dividono in: a) appartenenti all’imperatore, b) imbalsamati, c) addomesticati, d) maialini da latte, e) sirene, f) favolosi, g) cani in libertà, h) inclusi nella presente classificazione, i) che si agitano follemente, j) innumerevoli, k) disegnati con un pennello finissimo di peli di cammello, l) et caetera, m) che fanno l’amore, n) che da lontano sembrano mosche.

Nello stupore di questa tassonomia, osserva Foucault, ciò che balza alla mente è il limite nostro, l’impossibilità di pensare tutto questo.

Ecco dunque un altro pensiero impensabile.

Siamo proprio sicuri che la morte non sia uno sbaglio del creatore? Che non avesse in testa ben altro?

Benché ogni malattia possa sfociare nella morte, essa non è di per sé una malattia. Si muore di tetano, non si muore di morte. Quantunque non sia quel tipo di preoccupazioni che pesano coscientemente sul nostro avvenire, sui nostri progetti, nondimeno essa è la fonte nascosta di tutte le nostre preoccupazioni e inquietudini, qualcosa che sta sempre sullo sfondo. Perché sei triste? Perché prima o poi dovrò morire. Le seccature in ufficio, le tasse, gli acciacchi dell’età, i tradimenti coniugali, le preoccupazioni per i figli sono in realtà un rimedio contro la paura di morire. Efficaci palliativi che servono a dirottare l’attenzione, dando un altro nome, ben definito, all’angoscia diffusa. Le preoccupazioni concrete ci vengono in soccorso distogliendoci dal pensiero della morte.

L’angoscia si acuisce di fronte all’instabilità di ciò che abbiamo conquistato, al carattere provvisorio della buona sorte. La morte incombe sul lontano orizzonte impedendo agli uomini di fare sul serio, di concepire progetti troppo vasti. A causa sua nessuna gioia è perfetta, nessuna felicità resiste a lungo ai morsi della sventura, ogni piacere nasconde un sottile disgusto.

Fintanto che siamo in vita nessun segno tangibile ci proviene dall’aldilà, né lascia presagire l’esistenza di un altro mondo. Inutile cercare quaggiù tracce dell’aldilà. Eppure, la vita non fa che parlarci della morte. Di qualunque argomento si tratti, in un certo senso si tratta della morte. Parlare del futuro significa alludere alla morte. Parlare del dolore è riferirsi alla morte. Parlare del tempo equivale a parlare della morte. La morte è acquattata dietro ogni pensiero, ogni azione. È ciò che rimane una volta grattata via la superficie, quando ci decidiamo a chiamare le cose con il loro nome. Ciò che resta è il terrore. È questo che con la frenesia delle nostre esistenze vogliamo esorcizzare. Anni trascorsi a sguazzare beati, e l’unica cosa che sappiamo davvero è che non vivremo per sempre.

Bergson si affanna a spiegarci perché pare che in punto di morte l’intera vita ci scorra davanti come in un film vertiginoso. La mente, sostiene, passa in rassegna tutto ciò che vi abbiamo archiviato, in cerca di qualcosa che possa salvarci dalla fine imminente. Ma la spiegazione non persuade. Vita e morte sono una cosa sola. Ciò su cui la morte non incombe non è vita. Solo nel suo onnipresente cono d’ombra ogni cosa acquista senso. Pensate che tragedia se i nostri nemici fossero immortali!

Se tutto ciò non bastasse a consolarci, non c’è che un rimedio. Se un nemico non puoi sconfiggerlo, alleati con lui. Non rimane dunque che innamorarsi della morte, farsela amica, compagna di vita: solo così smetterà di atterrirci. Abituiamoci a tenerla accanto come una pantera al guinzaglio, in modo che, vinta a poco a poco la reciproca diffidenza, nasca una familiarità. Vivere di morte, morire di vita, ringhiava Eraclito. Resta ancora una domanda: non è che a furia di parlare della morte ce la vedremo di colpo spuntare davanti? Facciamo le corna.

Voglio raccontarvi una fiaba con cui mia nonna mi terrorizzava da piccolo – solo in età adulta seppi che era di Andersen. Faceva più o meno così.

Una madre siede al capezzale del figlio morente. Bussano alla porta. È un vecchio avvolto in una logora coperta di lana, infreddolito. Fuori nevica. Lo fa entrare e mette sulla stufa della birra da offrire al vecchio mentre lui culla il bambino. Poi gli siede accanto, guarda il bambino malato che respira a fatica e gli solleva una manina. Credi che lo perderò?, domanda. Il vecchio fa un cenno molto strano che può significare sì o no. La madre abbassa lo sguardo e le lacrime le scorrono lungo il viso. Sono giorni che non chiude occhio. Si assopisce. Al risveglio il vecchio se n’è andato e il figlio è scomparso. La donna si precipita fuori di casa chiamando a gran voce il bambino. Incontra una donna che le dice: La Morte è stata a casa tua, l’ho vista uscire di corsa col tuo bambino; va più veloce del vento e non riporta mai quello che ha preso. Dimmi da che parte è andata!, implora la madre. Prima che te lo dica devi cantare per me tutte le canzoni che hai cantato al tuo bambino. Lo farò, risponde la madre, ma non mi fermare ora, devo raggiungerli, devo trovare mio figlio! Ma la donna rimane muta e immobile. Alla madre non resta che accontentarla. Alla fine, la donna le dice: Vai a destra e inoltrati nel buio bosco di abeti, lì ho visto dirigersi la Morte col tuo bambino. Ma una volta nel bosco la madre si perde. Vede un rovo spoglio, dai cui rami pendono soltanto ghiaccioli. Hai visto passare la Morte e il mio bambino? Sì, fa lui, ma non ti dirò da che parte sono andati se non mi riscalderai. Sto morendo di freddo e sono tutto gelato! Lei lo stringe forte al petto. Le spine le penetrano nella carne e dal sangue gocciolato spuntano tante foglioline verdi. Rianimatosi, il rovo le indica la direzione. La madre giunge a un grande lago. Il lago non è gelato al punto da poterla reggere, ma neppure tanto basso da poter essere attraversato a guado. Allora si china per berne tutta l’acqua. No, è impossibile!, le dice il lago. Cerchiamo invece di metterci d’accordo. Io colleziono perle e i tuoi occhi sono le perle più lucenti che abbia mai visto. Se piangerai tanto da farli cadere dentro di me, ti porterò sull’altra riva, alla grande serra dove la Morte abita e coltiva alberi e piante. Così la madre piange finché gli occhi non le cadono nel lago trasformandosi in perle. Il lago allora la solleva deponendola sull’altra riva. Dove posso trovare la Morte?, chiede la madre. Qui non è ancora arrivata, risponde una vecchia che fa la guardia alla serra. Come hai fatto ad arrivare fin qui, chi ti ha aiutato? Il Signore!, risponde la madre. Egli è misericordioso, devi esserlo anche tu: dove posso trovare il mio bambino? Io non lo conosco, risponde la donna, e tu non ci vedi! Molti fiori e molte piante sono appassiti questa notte e la Morte arriverà presto per trapiantarli. Tu sai che ogni essere umano ha il suo albero della vita o il suo fiore, a seconda di come ciascuno è fatto. Apparentemente queste sono come le altre piante della natura, ma hanno un cuore che batte. Anche il cuore dei bambini batte. Ascoltali! Forse saprai riconoscere quello di tuo figlio. Che cosa mi dài, se ti dico che altro devi fare? Non ho nulla da darti, dice la madre afflitta, ma per te andrei in capo al mondo! Non serve che tu vada così lontano. Mi puoi dare i tuoi lunghi capelli neri. Avrai i miei capelli bianchi in cambio. È sempre qualcosa! Se non desideri altro, risponde la madre, te li do con gioia! E così fa. Entrano nella serra, dove fiori e piante crescono mescolati in modo strano. Ogni albero e ogni fiore ha il suo nome e ognuno rappresenta una vita umana, una persona ancora in vita, in Cina, in Groenlandia, in tutto il pianeta. Ci sono grandi piante in vasi molto piccoli, che soffocano e pare stiano per spezzare il vaso. E piccoli fiori insignificanti piantati nella terra, circondati dal muschio, ben custoditi e curati. La madre si china sulle piante più piccole. Ascolta il loro cuore che batte, e tra milioni crede di riconoscere quello del suo bambino. È questo!, grida, e tende la mano verso un piccolo croco azzurro, debolmente piegato da un lato. Non toccarlo!, grida la vecchia, mettiti qui e quando la Morte arriverà, e sarà qui tra poco, impediscile di estirpare la pianta minacciando di strappare tutti gli altri fiori. Avrà paura, perché ne risponde davanti al Signore, e nessuno può sradicarli senza il suo permesso. Improvvisamente soffia un’aria gelida e la madre capisce che la Morte sta arrivando. Come hai fatto ad arrivare fin qui?, le chiede. Come hai potuto precedermi? Sono una madre!, risponde lei. La Morte tende la sua lunga mano verso quel fiorellino delicato, ma lei allunga le proprie per proteggerlo. Allora la Morte soffia su di loro, e le mani della madre ricadono inerti. Tu non puoi nulla contro di me!, dice la Morte. Ma lo può il Signore!, risponde la madre. Io faccio ciò che Lui vuole!, replica la Morte. Io sono il suo giardiniere! Colgo tutte le sue piante e i suoi fiori e li ripianto nel grande giardino del paradiso, in una terra sconosciuta. Rendimi mio figlio!, supplica la madre piangendo, e improvvisamente afferra due bei fiori che si trovano lì vicino e grida alla Morte: Strapperò tutti i tuoi fiori! Sono disperata! Non toccarli!, dice la Morte. Dichiari di essere infelice e ora vuoi rendere un’altra madre altrettanto infelice? Un’altra madre?, chiede la povera donna, lasciando immediatamente i due fiori. Ecco i tuoi occhi, li ho ripescati dal lago, dice la Morte, splendevano lucentissimi, ma non sapevo che fossero tuoi. Riprendili, ora vedrai meglio di prima; guarda nel pozzo profondo qui vicino: io chiamerò per nome i due fiori che volevi strappare, così potrai vedere il loro futuro, la loro vita di uomini; guarda quello che volevi turbare e distruggere. La madre guarda nel pozzo; è una gioia osservare come uno dei fiori diventi una benedizione per il mondo, e quanta gioia e felicità si spanda intorno a lui. Poi guarda la vita dell’altro fiore, solo dolore e miseria, orrore e infelicità. Entrambi sono volontà di Dio!, commenta la Morte. Quale dei due è quello dell’infelicità e quale quello della benedizione?, chiede la madre. Non te lo dico, risponde la Morte, ma sappi che uno dei due fiori è quello di tuo figlio; hai visto il destino di tuo figlio, il suo futuro. La madre grida di terrore: Quale dei due era mio figlio? Dimmelo! Salva l’innocente! Salva mio figlio da tutta quella miseria! Portalo via, piuttosto! Non ti capisco, dice la Morte, vuoi riavere tuo figlio oppure devo portarlo nel paese sconosciuto? La madre si getta in ginocchio e, torcendosi le mani, prega il Signore. Poi, vinta dallo sconforto, piega il capo in grembo, mentre la Morte se ne va col bambino in quel paese sconosciuto.

Ora sapete a cosa mi riferisco quando parlo di rapporto morboso con la morte. Credo che tutto sia partito da lì.

Ma bando alle tristezze. Propongo un brindisi. Per rimanere in tema, ho fatto preparare dei Bloody Mary. Per chi non lo sapesse, vodka, succo di pomodoro, tabasco, cren, sedano, sale, pepe nero e succo di limone. Forse ho dimenticato qualche ingrediente, ma non importa. Prego, servite a ciascuno la sua coppa… Nessuno si tiri indietro: mi offenderei, ehm, a morte… Questo cocktail è parte integrante del mio intervento, non potete rifiutarvi, è il regolamento… Qualcuno conosce la storia del Bloody Mary?… Nessuno?… Pare che a inventarlo sia stato George Jessel, un vecchio attore di Broadway, nel 1939… Quanto al nome, qualcuno lo associa a Maria I d’Inghilterra, divenuta regina dopo la morte del fratello Edoardo VI, la cui crudeltà e il cui fanatismo religioso le valsero l’appellativo di Bloody Mary, Maria la Sanguinaria. Avrà fatto mettere al rogo quasi un migliaio di cristiani. Protestanti, s’intende. Altri vi vedono un richiamo alla leggenda di Bloody Mary, una strega che veniva evocata dai contadini del Sussex per farsi predire il futuro. Si riteneva apparisse in uno specchio ogniqualvolta il suo nome veniva invocato ripetutamente, secondo un preciso rituale. Una volta apparsa, c’erano due possibilità: o ti prediceva sette anni di futuro o finivi in coma quattro giorni e il quinto tiravi le cuoia…

Bravi, così, fino in fondo… Niente male questo Bloody Mary! E ora la sorpresina finale… Ta-daaa! Che ve ne pare?… Sappiate che questa pillolina ha qualcosa di prodigioso. Ne avrete sentito parlare. È la famosa C3/12. Esatto. Proprio lei, la pillolina al cortisolo 3 cha cancella la paura della morte, erigendo un firewall ematico in specifiche aree dell’amigdala… Non è ancora sul mercato, ma potete credermi se vi dico che ha superato tutti i test e ottenuto il nullaosta ministeriale. Manca solo il suo lancio nei canali distributivi… Chi me l’ha data? Permettete, è un piccolo segreto. Ne ho un’intera confezione, dodici pillole. Ne potete avere una gratis; per quantità maggiori, accetto prenotazioni; ma costa cara… Avvocato, non sia fifone… Io l’ho già provata, funziona a meraviglia… No, tutt’altro effetto rispetto al Sirenill… Provare per credere… Fatevi avanti, una per ciascuno, un sorso d’acqua e via… Così, piano, piano… Inizialmente fa un effetto soporifero, ma dura poco… Ecco, una a lei, una a te… E ora giù, in un sol colpo… Bravi, così… Mettetevi a sedere comodi, o vi farete male, può causare qualche giramento di testa al principio… Farà effetto in una quindicina di secondi… Meno quattordici, tredici, dodici, undici… Ehi, Tomas, quel tuo robot è di nuovo inceppato. Pare un disco incantato… Non lo si può spegnere per un momento? Dacci un po’ di tregua, santo cielo… Grazie tante… Quattro, tre, due, uno…