Capitolo 3

Panopticon

Il racconto dell’avvocato Rocco Bonera – Incubi, supplizi e pene – Trasparenze – Acta est fabula

“La legge è uguale per tutti. Ma per alcuni è più uguale che per altri”

George Orwell, La fattoria degli animali

“Mi hanno condannato innocente!? Avreste preferito che morissi colpevole?”

Platone, Apologia di Socrate

Ehm, è l’ora. Vengono a prendermi. Mi faccio il segno della croce.

Dopo avermi ammanettato, mi trascinano nel cortile e mi fanno salire a spintoni su un pickup. Alla guida c’è un prete dall’aria giovanile, un po’ dandy. Sono nudo, a parte un camicione bianco griffato che lascia scoperto il pube, le gambe e le braccia tatuate, la testa rasata per tenere lontani i pidocchi.

Scuserete se mi servo un goccetto, ehm… È stato un tribunale federale a condannarmi al patibolo. Il condannato sia tanagliato al seno, alle braccia, alle cosce, recita la sentenza. Su queste sia versata una miscela di propano e benzene. La sua mano destra, che impugnerà la motosega con cui ha commesso il parricidio, sia bruciata con fuoco di zolfo. Fatto questo, verrà tirato e smembrato da, uhm, quattro automobili, e le sue membra arse, ridotte in cenere, e le ceneri disperse.

Parricidio. Ma se mio padre era una belva. Un ubriacone. Un violento. Dio mi è testimone, la fine che ha fatto se l’è meritata. Quella povera donna di mia madre ha avuto la sua vendetta.

Appena fuori, una folla urlante si accalca attorno al pickup. Il servizio di scorta si apre a stento un varco con le minacce e a suon di scariche elettriche. Reggo una torcia a fiamma simulata che mi è stata ficcata in mano a forza. Raggiunta piazza degli Angeli, davanti alla cattedrale dei Beati Apostoli, ecco il patibolo sul quale, ehm, vengo issato a forza di strattoni e motteggi. Insegne luminose al plasma pagate dagli sponsor a ogni angolo.

Viene acceso lo zolfo, ma il fuoco è così debole che la mia pelle ne viene appena scalfita. Il dolore però è lancinante. Un aiutante del boia afferra le tenaglie di acciaio e mi agguanta la gamba destra, poi le braccia, il petto. Nonostante la muscolatura ben sviluppata, l’impresa gli riesce a stento. Deve tentare più volte negli stessi punti prima di riuscire a strappare pezzi di carne, torcendo a più non posso. E dove strappa si forma una piaga della grandezza di una moneta da due euro.

In tutto questo, non una bestemmia. Ehm, mi limito a scagliare in aria orribili grida invocando la pietà del Signore. Al mio fianco, il prete non mi lascia un momento, accarezzandomi, mormorando parole di conforto… Davvero eccellente, questo scotch…

Dopo ogni tentativo, senza smettere di urlare, alzo un poco la testa e mi guardo attonito. L’aiutante del boia, con un mestolo, attinge dalla marmitta un po’ di quella mistura bollente e ne cosparge le piaghe. I paraurti posteriori delle quattro Mustang Cobra, sulle cui fiancate spiccano le scritte degli sponsor, vengono assicurati con robuste catene al gancio delle tenaglie.

Il cancelliere si avvicina per domandarmi se ho qualcosa da dire. Faccio di no con la testa. Torno a rivolgere occhiate al mio corpo martoriato, quasi con curiosità. Quando le Mustang iniziano a tirare, il dolore si fa intollerabile. Stringo forte occhi e pugni. Il prete si fa sotto e mi parlotta all’orecchio invitandomi a sgravarmi di ogni peccato. Chiedo più volte di baciare il crocifisso. Rombando, le Mustang danno uno strappo violento. La scena si ripete più volte. Il mio corpo oppone una strenua resistenza, quasi fosse di acciaio. A un segnale convenuto i piloti pestano il piede sulla tavoletta, facendo girare il motore al massimo, portando le catene in tensione. Dopo una serie di tentativi a vuoto, scendono dalle automobili e, tenuto un conciliabolo, si risolvono per una nuova strategia. Invertendo la direzione di marcia, le Mustang collegate alle braccia iniziano a tirare verso la testa, mentre quelle delle cosce puntano in direzione delle braccia, il che produce l’effetto di rompermi le giunture con uno schiocco. Malgrado ciò il mio corpo rimane intatto. Nel frattempo non smetto di godermi la scena come se fossi uscito dal mio corpo. Vengono aggiunte altre due vetture, accanto a quelle incatenate alle cosce. Ma nemmeno in quel modo se ne viene a capo. Allora il boia si rivolge desolato al cancelliere e domanda se desidera che io sia tagliato a pezzi con le tenaglie. Il cancelliere insiste perché si prosegua con le automobili. Nuove sgassate, ulteriori affondi sul pedale dell’acceleratore, finché da una delle Mustang si stacca il gancio e la vettura finisce contro un idrante che inizia a zampillare. Immediata sostituzione. Si va avanti. È il turno del confessore, che mi sussurra all’orecchio parole che non comprendo. La cosa strana è che sia ancora vivo. Chiedo di essere benedetto e baciato in fronte. Il prete non mostra più alcun interesse per me, allora il cancelliere lo scansa e si avvicina per baciarmi. Io stesso cerco di rincuorare i miei aguzzini pregandoli di insistere, fare in fretta. Imploro il prete di pregare per la mia anima alla prima messa. Mi fissa inebetito. Dopo un altro paio di tentativi con le Mustang, il boia e i suoi aiutanti estraggono grossi coltelli e mi segano via le cosce dal tronco. Vinta ogni resistenza, le automobili incatenate alle cosce partono in tromba trascinandole via come ciocchi di legno. Vista la buona riuscita, i coltelli si mettono al lavoro anche sulle braccia, le spalle, le ascelle. In breve anche quelle se ne vanno a zonzo trainate dalle catene.

Il prete si avvicina titubante per l’estrema unzione, ma il boia gli fa notare che sono morto. Secondo il racconto di alcuni testimoni non smetto di agitarmi, in preda a convulsioni. La mia mascella inferiore continua a muoversi su e giù, quasi provassi a parlare. Uno degli aiutanti del boia confida la sua impressione a un cronista: Quando quello che restava del suo corpo è stato preso e gettato nel fuoco, era ancora vivo.

In seguito, anche le membra sparpagliate vengono liberate dalle catene e buttate nella pira dove già il tronco e la testa ardono.

In ossequio alla sentenza, l’intero mio corpo viene ridotto in cenere e la cenere gettata nel fiume che scorre poco distante. L’ultimo brandello rinvenuto nella brace finisce di consumarsi a tarda notte.

L’indomani, sul prato dove è stato appiccato il fuoco, viene trovato un cane randagio steso a dormire. Si tenta di cacciarlo più volte ma quello ostinatamente ritorna. Dove altro potrebbe trovare un simile tepore?

È un po’ che ho di questi incubi. Ehm, mi imbottiscono di tranquillanti ma non basta. Alcune notti fa ho sognato un’altra città, un altro patibolo. Mentre il boia cerca di trascinarmi sulle assi, faccio una resistenza del diavolo, puntellandomi con i piedi sui gradini. Quello mi copre il volto con un cappuccio assestandomi una ginocchiata allo stomaco. La folla inizia a vociare prendendolo a sassate e legnate. Egli apre una botola in cima alle scale, mi getta di sotto e mi salta addosso schiacciandomi con tutto il peso, mentre sua moglie mi tira per i piedi da sotto la forca. La pioggia di sassi aumenta e il boia e sua moglie si danno alla fuga. Lui incespica sui gradini. In un attimo la folla è su di lui, lo assale seppellendolo sotto i colpi. Viene trascinato al fiume, affogato e il suo corpo abbandonato alla corrente. La moglie, tramortita dalle bastonate, viene ricoverata nel reparto di rianimazione dell’ospedale. Nel frattempo alcuni forestieri salgono sul patibolo e recidono la corda restituendomi la libertà. La folla inferocita fa a pezzi ogni cosa, la scala, il patibolo, le transenne. La forca viene gettata nel fiume.

Il Panopticon è la soluzione, dice il direttore senza smettere di scrutarmi nelle pupille, muovendo leggermente la testa a destra e a sinistra come se cercasse di intrappolare il mio sguardo. Una disciplina universale, perpetua, l’occhio del sorvegliante, del padrone, dell’insegnante, del capofamiglia che, come l’occhio di Dio, si posa incessante su detenuti, operai, studenti, figli, su ogni essere che respira. Ma questo non è che un sogno. L’utopia di un’architettura occhiuta, che permetta di sorvegliare invisibilmente, instancabilmente. Telecamere dappertutto. Occhi elettronici, semoventi. Edifici trasparenti. Vetri a pellicole riflettenti. Una rete capillare di dispositivi di controllo. Spiare, misurare, schedare, addestrare, sanzionare, rendere docili e utili. Ma è dalle prigioni che bisogna cominciare. Qui abbiamo mano libera. Non servono permessi, nessun iter tassativo, nessuna reprimenda. Nessuna opinione pubblica in grado di ficcare il naso. Possiamo agire in piena libertà, in ossequio unicamente alla scienza, alle esigenze della sperimentazione. Ho proposto al Presidente un progetto di prigione panottica che ispiri l’intero programma architettonico del sistema carcerario nazionale. Il passo successivo sarà una città panottica, un’intera nazione che traduca in materiale edificabile il sogno di una società disciplinare globale. Normalizzazione, efficienza: che belle parole! Che buon profumo, emanano! Una sorveglianza senza pecche, una macchina rigeneratrice di virtù, un luogo di esposizione permanente. Dove tutti si sorvegliano a vicenda.

Fa una pausa per accendersi un toscanello. Aspira e manda fuori precisi anelli di fumo grigiognolo, come se si fosse esercitato fin da ragazzo.

Da settimane questa specie di farsa va avanti. Il direttore mi ha preso in simpatia. Così dice. Ma credo lo faccia per sadismo. Ha capito che sono una cavia perfetta per i suoi giochetti. Ha bisogno di qualcuno in grado di comprendere ma impossibilitato a ribattere, di un paio di orecchie nelle quali riversare il liquame delle sue idee. La cosa è cominciata quando ha saputo delle mie assidue richieste di prestito alla biblioteca penitenziaria, quando gli hanno riferito che non faccio che leggere mistici cristiani, Ildegarda di Bingen, Meister Eckhart, Teresa d’Avila, Giovanni della Croce. Deve avere frainteso. Tutti i pomeriggi, a orari variabili, mi fa condurre nel suo studio e, dopo avermi fatto ammanettare alla sedia, dà libero sfogo ai suoi sogni degenerati. Per lui sono come una spugna. E lui un alcolizzato all’ultimo stadio con il disperato bisogno di un fegato nuovo.

Due metri per quattro: le misure della mia cella. Una branda, un tavolino, una seggiola. Niente tv. Un lavandino con portasciugamani e uno specchio ovale crepato a metà. Una turca. Nient’altro. La luce di una lampadina pendente mi permette di leggere con fatica e sciupio degli occhi. Pareti alte e nude. Un vetro riflettente occupa per intero il lato rivolto verso l’interno. Una costruzione circolare, sormontata da una cupola, celle disposte su quattro piani, orientate in direzione della torre di guardia: è tutto il mio orizzonte. Rare passeggiate solitarie nel cortile. Frugali pasti in gruppi di non più di dieci detenuti. Divieto di parola. Docce settimanali. Quattro ore di lavoro manuale al giorno in laboratori progettati per limitare il contatto umano.

Che dicevo?, riprende il direttore terminato un breve colloquio telefonico. Ah, sì. Più la sorveglianza sarà precisa e agevole meno sarà necessario ricorrere alla forza, ricercare nella solidità e impenetrabilità della costruzione la garanzia contro i tentativi di evasione e le comunicazioni tra detenuti. La sorveglianza, continua, sarà perfetta se da una postazione centrale il secondino, senza mai spostarsi, potrà vedere senza essere visto non solo l’ingresso delle celle, ma anche il loro interno. E perfino tutti i sorveglianti ai piani. Qui siamo ai primi passi. Con il Panopticon vero e proprio il sogno di vedere da un’unica prospettiva tutti i prigionieri nelle loro celle e i guardiani nelle gallerie di sorveglianza troverà piena attuazione.

La sua voce è di una tale monotonia da far sorgere il dubbio: uomo o automa?

Io stesso, come forse saprà, ho composto un trattatello sul Panopticon, a prosecuzione del più illustre lavoro di Bentham, con una dozzina di tavole illustrate.

Il direttore apre un cassetto, si china per frugarvi dentro e quando si risolleva lo vedo stringere uno specchio e un paio di forbicine con le quali inizia a tagliuzzarsi i peli che gli spuntano dalle narici.

Immagini una costruzione ad anello simile a questa ma interamente vitrea, prosegue con voce modulata sul ritmo basculante dei tagliuzzamenti. Torre centrale, celle, refettorio, parlatorio, infermeria, cortili, lavanderie, laboratori, servigi igienici. Tutto trasparente. Il vetro riflettente consentirà di vedere dentro le celle senza essere visti, scrutare ogni cosa dalla torre di guardia senza essere scrutati. Ogni cella, lungo l’anello, sarà visibile anche dall’esterno del carcere ma in modo unidirezionale. Un proficuo incubo, per il prigioniero. Un sobrio paradiso, per i sorveglianti. Ma del resto tutti sono sorveglianti. I visitatori, le coppiette che passeggiano lungo i viali perimetrali esterni al penitenziario. Perfino un ragazzino sarebbe in grado di sventare un tentativo di evasione con un semplice Sms dallo smartphone. Il dilagare della delazione, dentro e fuori. La società perfetta è quella dove tutti sorvegliano tutti.

Dopo aver catturato con la mano una mosca e averla sbatacchiata fino a intontirla, riprende: La torre di guardia resta il perno della vigilanza, ma i punti di osservazione si moltiplicano all’infinito. E poi telecamere ovunque, finissimi strumenti di ascolto. Un dosato gioco di luci e ombre consentirà di sorvegliare senza interruzione le piccole sagome dei prigionieri nelle celle. Il dispositivo panottico permette di captare quello che accade, ogni più piccolo gesto, ogni respiro del detenuto, ventiquattr’ore su ventiquattro. La trappola consiste in questa incessante, fatale visibilità. Il gioco dei vetri riflettenti fa il resto, impedendo a ciascun detenuto di entrare in contatto con gli altri. Si è visti ma non si vede. Si è uditi ma non si ode. Nessun pericolo di complotto, di sommossa, di evasione, né progetti di nuovi crimini, né nefaste influenze reciproche. Non importa che il detenuto sia costantemente scrutato, ma che pensi di esserlo. Il potere deve essere invisibile, inverificabile. La sua perfezione renderà inutile la continuità del suo esercizio. Il detenuto non potrà mai sapere se in quel preciso momento è effettivamente spiato. Su questi principi funziona il dispositivo panottico. Un museo permanente della natura umana. Nelle prigioni conosceremo l’uomo per come è effettivamente…

Le sue parole hanno un suono orribile. E poi Bentham, ehm, un uomo che da morto ha preteso di essere imbalsamato… Mi sforzo di non lasciar trasparire i miei pensieri. Una reazione è quello che si attende.

…L’aspetto più sorprendente è che un’unica guardia basterà per tutto il penitenziario. Teoricamente sarebbe possibile tenerlo in pugno anche in assenza di un corpo di sorveglianza. Ciò che conta è instillare nel condannato il pensiero costante di correre il rischio di essere sorpreso. Bisogna agitare la sua coscienza inquieta, costringerlo alla buona condotta, alla calma, alla pacificazione…

Ho sognato che mi affacciavo da una finestra del refettorio. Dall’altra parte della strada c’era un carcere uguale a questo. Da un ballatoio qualcuno mi guardava. Quel qualcuno ero io. La cosa mi ha gettato nel panico. Mi sono svegliato con il respiro affannato e un dolore alla nuca. Un intorpidimento alle mani.

Ho qui il suo saggio, caro K666, riattacca il direttore. L’ho letto e riletto. Lo stile è ideologico. Le idee appartengono a vecchi retaggi. Eppure lei è un uomo intelligente. Ma in questo modo spreca le sue energie.

Comincia a leggere passi del mio libro, che deve aver sottolineato, saltando da una pagina all’altra, col risultato di produrre l’effetto di gelide formule astratte senza punti di contatto con la realtà. Un vero maestro nel travisamento.

Io rifiuto la prigione perché non riconosco la superiorità morale di chi sta fuori, dei giudici, dei sorveglianti.

La carcerazione non è che uno strumento del dominio di gruppi sociali su altri gruppi sociali, di chi ha su chi non ha, di chi è garantito su chi non lo è affatto.

La prigione è una trappola borghese.

Il rifiuto della legge è prima di tutto il rifiuto dei gruppi di interesse che la emanano e difendono conformemente al proprio tornaconto.

I suoi occhi, dietro occhiali dalle lenti progressive, si muovono appena. Ogni tanto un lampo li attraversa. Qualcosa di sinistro.

La vostra è la legge di chi ha tutto contro quella di chi non ha nulla.

Le prigioni servono a rendere gli individui utili e mansueti.

Sono le prigioni a produrre i criminali.

I potenti siedono sempre sul banco dei giudici, gli altri su quello degli imputati.

La legge è fatta per alcuni contro altri.

Si contano più uomini liberi in prigione che fuori.

Ci sono più criminali fuori che dentro, è un dato statistico.

Solo gli uomini si ribellano alle leggi, gli altri non sono uomini.

L’educazione è una gabbia.

Libertà e disordine vanno naturalmente a braccetto.

L’indisciplina è un diritto inalienabile dell’uomo libero.

Senza la delinquenza avremmo migliaia di poliziotti e giudici disoccupati.

La delinquenza serve all’illegalismo dei gruppi dominanti. La criminalità serve al consolidamento del potere.

Qualcosa di buono c’è. Come vede, so essere duttile, chiosa con un risolino. Ma quello che non capisce è che c’è molto di più in gioco. L’emancipazione, la morale: vecchie paranoie, frustrazioni di un’era trascorsa. Lei ha i paraocchi. Io stesso sono contro le prigioni di vecchio stampo, le suddivisioni tradizionali del mondo. Non più inferriate, catene, pesanti serrature, ma la geometria semplice ed economica del Panopticon, la leggerezza dell’incorporeo. Una perpetua vittoria che elude lo scontro fisico ed è ottenuta giocando sempre d’anticipo. Un immane serraglio del re dove l’uomo ha sostituito l’animale. Un avanzato laboratorio del potere. Una macchina per studiare il criminale, fare esperienze, modificare i comportamenti, addestrare e recuperare gli individui. Per provare differenti punizioni sui detenuti, in cerca della pena più efficace. Dalla torre centrale, volendo, il direttore potrà spiare i suoi impiegati, i secondini, gli infermieri, i medici, gli istitutori, il cappellano; studiarne le mosse, giudicarli, correggere la loro condotta, imporre nuovi metodi. Un ispettore ministeriale potrà farsi un’idea di tutto l’andamento del carcere con un solo sguardo.

Mi scruta come in attesa di un’obiezione.

Non è tutto, riprende. Per ogni prigioniero si terrà un registro elettronico, allocato nel server, sul quale si annoterà ogni cosa: abitudini, miglioramenti, peggioramenti. Tutto il personale darà il suo contributo. Si tratterà di individuare il miglior trattamento specifico da applicare a ognuno. La biografia di ciascun detenuto diventerà il libro da comodino del direttore, di ogni secondino. Si alza e si avvicina a uno scaffale della sua biblioteca monomaniacale e ne estrae un volume ponderoso, dal quale soffia via un leggero strato di polvere.

Come dicevo, il modello panottico può essere esteso a ogni ambito della società, con telecamere nascoste o palesi e opportuni dispositivi architettonici. La società che immaginiamo sarà un edificio trasparente dove l’esercizio del potere verrà vagliato dall’intera collettività. Il panottismo, osservava Bentham, sarà capace di riformare la morale, preservare la salute, rinvigorire l’industria, diffondere l’istruzione, alleggerire le cariche pubbliche, ripartire le responsabilità, ridurre la corruzione, stabilizzare l’economia… Una società disseminata di sguardi: indiscreti, dirà qualcuno, ma io non lo credo. Se siamo puliti, perché dovremmo nasconderci? Le prigioni siano solide, ma sappiano anche essere lievi. I detenuti siano raddrizzati ma non spezzati. La tecnica punitiva abbia mano leggera ma inflessibile. Il castigo sia inesorabile ma compassionevole.

Si versa dell’acqua in un bicchiere e beve avidamente. Non pensa a offrirmene. Poi preme un tasto sul desk e mi fa condurre via.

So cosa pensa, dice pulendosi le lenti degli occhiali. Ma sbaglia. È mia ferma convinzione che un criminale sia tale anche prima del crimine, perfino al di fuori del crimine.

Si è fatto radere la barba. Il che gli conferisce un aspetto se possibile ancora più sinistro, mettendo allo scoperto diversi sfregi, probabilmente dovuti a un coltello, su entrambe le guancie.

Il professor Ferrus, continua, esimio criminologo di cui forse avrà sentito parlare, ci offre un mirabile esempio di classificazione criminale, una vera tavola periodica del delitto, una minuziosa illustrazione della civiltà dei malfattori, con i loro riti e la loro sintassi. La delinquenza inquadrata e classificata come devianza psichica, esaminata in termini di sindrome morbosa, anomalia patologica.

Qualcuno bussa alla porta.

Sì, che c’è?

Una guardia fa capolino.

Ci sono alcune signore del patronato. Chiedono di vederla.

Di che patronato?

Non saprei.

E non domanda? Quando sono a colloquio con i prigionieri non intendo essere disturbato. Dite che attendano. O ripassino. Le vedrò tra un’ora esatta… Dov’ero rimasto… Incrocia le mani sotto il mento e si morde lievemente le labbra. Ah, sì. In base a tale classificazione, dicevo, tre sono i tipi. Il primo è il delinquente dotato d’intelligenza superiore alla media, scaltro e perverso, con naturali tendenze criminali, una predisposizione genetica al delitto, guidato da una logica nefasta, da una morale distorta. Per costui si rende necessario l’isolamento in perpetuum. Quando entra in contatto con altri gli va posta una sottile maschera di tela metallica sul volto, sul genere di quelle usate dagli schermidori. Questi soggetti sono irrecuperabili, mi creda. Non arrivo al punto d’invocare per loro la pena di morte ma ci vado vicino… La seconda categoria è costituita dai pigri, dai viziosi, dagli abbruttiti passivi, da coloro che si lasciano spingere nelle braccia del male per indolenza, vigliaccheria. Con loro ci vuole il pugno di ferro: isolamento notturno, lavoro di gruppo, permesso di fare conversazione ma a voce alta, letture in comune, seguite da interrogazioni soggette a ricompense; bastone e carota, ecco la ricetta del professor Ferrus… Infine i criminali affetti da imbecillità cronica. Totalmente inetti, essi scivolano verso il male per pura idiozia a causa della loro congenita deficienza mentale e incapacità sociale. È opportuno che vivano in comune, ma in gruppi poco numerosi, osserva Ferrus, pungolati da occupazioni collettive e sottoposti a rigida sorveglianza; è quanto si può fare per loro. Ahimè, nel loro caso ogni iniziativa è tempo buttato… In definitiva i criminali, considerati nel loro insieme, con la loro piccola anima, non sono altro che degenerati. Non mi si dica che la prigione fabbrica delinquenti. È la natura a fabbricarne per conto suo in abbondanza. Criminali si nasce. Non vi è rimedio. A chi sostiene che la delinquenza è la vendetta della prigione contro la giustizia rispondo nel più perentorio dei modi: la prigione è il castigo più democratico che si possa concepire; rappresenta la pena delle società civilizzate, la più immediata e progredita tra le punizioni. Tutti conosciamo gli inconvenienti delle prigioni, quanto siano pericolose, ma nessuno vede con cos’altro sostituirle…

Si ode di nuovo bussare alla porta. Con collera trattenuta grida di entrare.

Un altro secondino, quello che di solito vigila al mio piano, entra con circospezione.

Spero abbia un motivo valido per questo ennesimo disturbo.

Quello fa una smorfia, come per dire che non comprende l’allusione.

Avrei bisogno di parlarle in privato, dice.

Il direttore pare pensarci su un attimo poi si avvicina alla finestra e lo invita a seguirlo.

La guardia obbedisce e gli sussurra alcune parole all’orecchio. La reazione del direttore è subitanea. Diviene prima paonazzo e poi nero come bitume. Si gira sui tacchi e viene verso di me colmo di collera. Si ferma a pochi passi, mi fissa come se mi prendesse mentalmente le misure per la bara, poi esplode:

Lei!, grida.

Lo guardo attonito.

Ha tentato di comunicare con il suo vicino di cella. Sta organizzando un’evasione!

Come le viene in mente. È fuori strada, le assicuro, obietto senza convinzione.

Gli occhi del direttore sono due pezzi di ghiaccio. Mi scavano nell’animo. Scava pure, penso, non troverai nulla.

Crede di potermi prendere per i fondelli? Lo appureremo. Portatelo via!

Quella notte ho sognato l’infinito punitivo: gli occhi trafitti da due stiletti, rinchiuso in una gabbia di ferro appesa alla facciata di un palazzo signorile, completamente nudo, stretto alla vita da una cintura di ferro che mi rende difficile il respiro, tenuto in quello stato fino alla fine dei miei giorni, a pane e acqua.

Due giorni di assoluto isolamento, poi vengo condotto di nuovo al suo cospetto.

Si mostra pacificato. Mi offre un whisky.

Sa, trovo che abbiamo un certo numero di punti in comune. Possiamo essere alleati, se lo vogliamo. Ne trarrà giovamento la convivenza forzata. Il profitto punitivo crescerà. L’organizzazione, la disciplina, l’economia. Vede, nelle prigioni ci si deve far carico di tutti gli aspetti del detenuto: l’addestramento fisico, l’attitudine al lavoro, la condotta quotidiana, la disposizione morale. Non è facile. Si richiede una certa sagacia. E poi autocontrollo, larghezza di vedute. Tutto va regolato, previsto, rigidamente disciplinato. Per ogni infrazione, anche minima, si deve prevedere una punizione specifica. La nostra azione sull’individuo deve essere ininterrotta, la disciplina incessante, il potere sui detenuti totale, i meccanismi interni di repressione e castigo inflessibili. Dentro la prigione deve regnare una disciplina umorale. I sorveglianti devono poter agire in base al capriccio. Il prigioniero, perennemente tormentato dall’idea di sbagliare, non deve poter prevedere cosa ci si aspetta da lui. La violenza e il dispotismo dei guardiani siano gratuiti e assoluti, e così il loro arbitrio, in modo che vigano i privilegi del luogo chiuso. I detenuti rispettino la regola del silenzio, scriveva Charles Lucas nel 1838, non possano parlare che ai sorveglianti, col loro permesso e a bassa voce… Così il prigioniero amerà il suo guardiano, aggiungeva Abel Blouet qualche anno dopo, perché questi è dolce e compassionevole: i muri sono terribili, ma l’uomo è buono… Mi creda, è la strada giusta. Il lavoro, alternandosi al pasto, dovrà accompagnare il detenuto fino alla preghiera della sera facendo dell’uomo scostante un individuo modello, ligio al dovere, febbrilmente attivo. In prigione il governo dispone della libertà del detenuto, di tutto il suo tempo; la potenza educativa che la detenzione può sprigionare è immane: giorno dopo giorno, anno dopo anno, se necessario per l’intero arco dell’esistenza, tutto dovrà essere vagliato, corretto, piegato al volere dell’autorità; ogni gesto, ogni attività, ogni parola, ogni pensiero. Perfino i movimenti del corpo dovranno essere regolati e disciplinati, i passi nei tragitti che conducono dalla cella al refettorio, dal laboratorio all’infermeria. Perfino nei momenti di riposo dovrà essere prescritto come riposare, in quale postura; una disciplina ferrea che prenda possesso dell’uomo per intero, di tutte le sue facoltà fisiche e morali. Sottomissione assoluta. Ai detenuti vanno inculcate abitudini di ordine e obbedienza, si deve renderli attivi e diligenti, da pigri e indisciplinati che erano… Nella regolare attività, nei lavori manuali, si trova il rimedio contro gli scarti dell’immaginazione, osservava il buon Danjou nel 1821; quando il corpo si muove e lo spirito si applica a un oggetto determinato, le idee importune si allontanano, la calma rinasce nell’anima… E dunque, rispetto delle gerarchie, lavoro obbligatorio, isolamento. Nella solitudine il rimorso li assalirà, li tormenterà; il detenuto s’inoltrerà nello sconfinato spazio della propria coscienza e atterrito inizierà un percorso di redenzione… Costretti a imparare le buone maniere, a coltivare abitudini sane, scriveva Karl Joseph Anton Mittermaier nel 1836, i prigionieri si incammineranno sulla via della riabilitazione, impareranno sotto la minaccia del bastone e dell’isolamento a considerare la legge come un sacro precetto la cui violazione genera un male giusto e legittimo… Già, peccato che i soggetti peggiori si dimostrino sempre i più svegli e attivi, gli operai più abili…

Non sono nemmeno le otto del mattino quando un secondino mi comunica che il direttore desidera vedermi. Immediatamente.

L’uomo che mi riceve sembra un altro. Qualcosa in lui è cambiato. Non saprei dire cosa. Forse più sereno, rilassato. Ma è un mutamento superficiale, che forse serve a nascondere il suo vero stato d’animo. Si accende un toscanello e mi fissa per alcuni secondi nelle palle degli occhi prima di decidersi a parlare.

Mi scuso per l’ora. Ho da comunicarle una pessima notizia. La sua sentenza è arrivata e aggrava di parecchio la sua posizione.

I suoi occhi lampeggiano dietro le lenti infernali degli occhiali.

Mi duole dirglielo ma… stanza 999… Acta est fabula, la commedia è finita, sospirò l’imperatore Augusto… Peccato, tra noi stava nascendo un’intesa.

Lo fisso con aria indifferente. La verità è che sono senza parole. Ho il cuore in fondo alla gola, come se lo avessi appena masticato. Mi tremano le gambe, mi scappa la pipì. Una chiazza si allarga sulla patta dei calzoni. Stanza 999. Nessuno è mai tornato da lì. Nessuno sa cosa vi accada.

Due giganti dal volto angelico, capelli biondi e fluenti, mi afferrano per le braccia trascinandomi sui graticci. Il mio ventre viene aperto e gli intestini strappati fuori in fretta affinché abbia il tempo di vedere con i miei occhi che vengono gettati nel fuoco, prima che gli occhi stessi mi vengano cavati e buttati al seguito degli intestini, la testa mozzata, il corpo smembrato…

Ma tutto questo non è reale. Solo un altro delirio notturno. La realtà è ben diversa. Non più ruote che girano per giorni, gogne alle quali restare esposti fino al sopraggiungere della morte, sotto una raffica di insulti, sputi, escrementi. Ora c’è la stanza 999.

Vengono a prendermi. 999. Che razza di numero. Il diavolo capovolto. Dev’essere quello il senso.

Mi trascinano per un susseguirsi di corridoi dove non sono mai stato. Lungo il percorso sono disseminate guardie armate che mi osservano immobili. Poi una porta bianca. Sopra non c’è la targhetta che mi aspettavo di trovare, con scritto “999”. Un odore di cibi cucinati senza perizia mi raggiunge le narici. La porta si apre, vengo fatto entrare con gentilezza ostentata. Un salone con sfarzosi lampadari pendenti. Una musica di sottofondo. Forse Bach. Una tavola apparecchiata per due. Seduto a capo tavola, il direttore mi sorride.

Prego. Ceneremo assieme, dice affabilmente.

Vengo invitato a sedere all’altro capo del tavolo e ammanettato alla sedia.

Le racconterò una storia, dice. Una mattina un uomo viene arrestato senza sapere il perché. O meglio, lo sa ma sulle prime non si accorge del nesso che c’è tra il suo arresto e l’inchiesta che sta conducendo. È sulle tracce di un sanguinario assassino. Uno che sevizia i bambini e poi li uccide seppellendoli nel giardino. L’inchiesta ha un nome. Orco nero. Così si legge nel dossier della polizia. Finalmente l’uomo fiuta una pista. È convinto sia quella giusta. Solo che l’assassino è una persona influente. Un amico del Presidente. Senza contare che è il direttore del più importante penitenziario del paese… mi segue? Allora nasconde in un luogo sicuro le prove. In una cassetta di sicurezza. E consegna la chiave alla moglie. Sentendosi più tranquillo decide di parlare col direttore del giornale per cui lavora. Vuole pubblicare ogni cosa, prima possibile. Ma non sa che il direttore è amico intimo dell’assassino. E così… La storia non ha un lieto fine per il nostro uomo… All’assassino non resta che un problema. Impossessarsi degli incartamenti. Ma la chiave della cassetta ce l’ha la moglie del nostro sfortunato eroe… Potrebbe sbarazzarsi di lei dopo essersi fatto consegnare la chiave. Ma c’è un altro problema. La donna ha due figli, due ragazzini di sette e undici anni. Maschio e femmina. Bisognerà togliere di mezzo anche loro. È più sicuro. Hanno assistito all’uccisione della madre… Qui finisce la nostra storia. Il resto lo può immaginare…

Mentre parlava, un odore dolciastro, nauseabondo usciva dalla sua bocca. A poco a poco hanno preso a fischiarmi le orecchie, è stato come se alla sua voce fosse stata applicata una sordina; la testa si è messa a vorticare, il campo visivo si è ridotto al minimo. Qualcuno deve avere abbassato le luci. Ma forse è successo solo dentro la mia testa. Mi sono aggrappato al bordo del tavolo, per non cadere. Gli occhi lucidi.

Sarà affamato. Quattro giorni di digiuno e isolamento lasciano i segni. Cominciamo con un bollito, ha detto con un sorriso compassato, alzando il coperchio più grande.

Stavo di nuovo sognando? Era davvero la testa di mia moglie quella che vedevo nel vassoio? La vista mi si è annebbiata quasi del tutto, le pareti hanno cominciato a roteare, i lampadari a oscillare, il pavimento è sembrato volersi aprire sotto di me.

E qui cosa abbiamo?, ha detto divertito, sollevando i due coperchi più piccoli.

Due deliziosi agnellini arrosto…

E ora, se permettete, avrei bisogno del bagno. Chi mi sa dire da che parte si trova?