Epilogo

Finis mundi

L’impatto con l’asteroide
– Danse macabre e danse romantique
– Uomo/Dio

“E mi figuro di essere in fondo al cimitero, ed entrando nelle bare mi metto al posto di quelli che passeranno qui la loro prima notte”

Jules Laforgue

A un certo punto Tomas ha ricevuto un Sms. Il suo volto si è oscurato. Sulle prime deve aver sperato si trattasse di Ricardo. Ma ho avuto l’impressione che attendesse anche un’altra chiamata, un segnale convenuto. Ha interrotto bruscamente la professoressa Gruber (davanti al cui monologo più di un occhio aveva calato le saracinesche), ha lanciato un’occhiata carica di tensione verso la parete di vetro e ha acceso la tv al plasma, aprendo contemporaneamente sei finestre sintonizzate sui principali notiziari. Era tutto un parlare concitato dell’asteroide. Si capiva ben poco. Ma quel poco era allarmante. Ho sbirciato l’orologio: l’una e ventiquattro. Quando, qualche istante dopo, Tomas ha fatto per dirigersi come in trance verso il telescopio, era tardi. Non c’era più bisogno di telescopi. L’asteroide ci spiava dalla finestra occupandola per intero. Aveva assunto proporzioni gigantesche. Era così vicino che sembrava di poterlo toccare allungando una mano. Una penetrante luce verde invadeva la sala colorando ogni cosa.

Tomas ha fatto un balzo indietro cacciando un grido animalesco.

Siamo rimasti immobili, senza fiatare. Lui compreso. Passava lo sguardo da uno all’altro con un’espressione così desolata che avrei voluto abbracciarlo. Era evidente che l’effetto del Sirenill sul suo organismo si stava esaurendo. Si è toccato la fronte esaminando poi le dita della mano.

Abbiamo udito un trapestio di passi frettolosi provenire dalla rampa delle scale. Due uomini di statura imponente sono piombati nella sala, armi in pugno. Indossavano passamontagna mimetici.

Come erano entrati? Che fine avevano fatto i camerieri? E il mio malese?

Svelti, tuti contro muro. Butate a terra portafogli e sfilate gioelli, ha intimato uno di loro con un accento caucasico – almeno credo. Non fateci incassare.

Se fate bravi non perderemo tempo a legarvi e bavagliarvi, ha detto l’altro.

Li abbiamo guardati increduli. Ho trovato la cosa non priva di un lato umoristico. Possibile non sapessero cosa stava per accadere?

Abbiamo obbedito, ma senza fretta. La cosa ha finito per indispettirli.

Più svelti, ci ha intimato il primo. O vi faccio asagiare questa. E ha agitato la pistola nella nostra direzione.

In pochi minuti sul pavimento si è accumulata una fortuna. Tomas ha sempre con sé non meno di cinquemila euro, tenuti da un fermaglio. Uno dei rapinatori si è cavato da sotto la giacca un sacco di tela e ha iniziato a riempirlo. Ogni tanto sollevava lo sguardo lanciando occhiate periscopiche alla sala. Evidentemente il segno inconfondibile di Rothko e di Lodola non gli diceva nulla. Sono stato tentato di dargli un’imbeccata.

Anche chiavi di vostre auto, prego, ha gridato l’altro.

Abbiamo eseguito. A un certo punto Tomas è sembrato sul punto di tentare una reazione ma un’occhiataccia di sua moglie lo ha stoppato.

Tu, cosa avere lì?, ha detto quello col sacco, guardandomi a muso brutto.

Dici a me?

No fare furbo. Togli rologio.

Si è avvicinato e mi ha sferrato un calcio appena sopra l’inguine piegandomi in due. Mi ha sfilato il Breitling con brutalità.

All’improvviso il suono assordante di sirene in avvicinamento, di clacson provenienti dal reticolo di strade tutt’attorno, poco più giù. Un baccano del diavolo.

Per un attimo ho pensato: Vengono ad arrestarmi.

Ringrasiare che abiamo fretta e non vi chiediamo di aprire casaforte, ha detto quello col sacco.

Ci avresti trovato solo le ragnatele, ho pensato trattenendo un sorrisetto.

Nell’istante in cui i due si davano alla fuga si è scatenato l’inferno. Prima una forte scossa. Li ho sentiti rotolare per le scale come scatoloni gettati con incuria nel mezzo di un trasloco. Centinaia di gabbiani e alzavole hanno cominciato a vorticare nel cielo, affollandosi alle finestre, picchiando disperatamente contro i vetri. La casa tremava. Sono uscito in terrazza e ho guardato giù. A causa di una frana la mia auto (con a bordo il mio socio che tentava la fuga) stava precipitando per la scarpata portandosi via i suoi segreti. Sono stato ricco solo per qualche ora, mi sono detto.

Sono rientrato in casa. Restava ben poco da fare. Mi sono buttato sul divano, ho inghiottito l’intero contenuto del tubetto di Sirenill e ho atteso. Sereno. Quasi felice. Le ultime immagini che conservo sono De Santis e la sua amante che fuggono verso la terrazza; Tomas genuflesso, disperatamente avvinghiato alle ginocchia della moglie, un orecchio posato sul suo ventre; la testa e un avambraccio dell’avvocato Bonera che sporgono da sotto la mastodontica libreria che alla prima scossa si è staccata dalle pareti rovinandogli addosso; Leo in preda all’afasia che va in pezzi, lapidato da una pioggia di sassi; e un immane occhio (forse l’occhio di Dio?) che ci scruta dalla finestra. Di Eva e della Gruber nessuna traccia.

Il mio cellulare ha iniziato a trillare; ho fatto solo in tempo a scorgere il nome “Emma” sul display. Nient’altro.

Come alcuni ricorderanno, Il dottor Stranamore, film di Stanley Kubrick del 1964, si chiude con una serie di esplosioni atomiche a catena che spazzano via ogni forma di vita sul pianeta. Il sogno di ogni misantropo radicale. Mentre la Terra salta gioiosamente per aria, We’ll meet again, nostalgica canzone d’amore in voga negli anni ’40, fa da colonna sonora alla lunga teoria di funghi atomici e nubi radioattive che si sprigionano a ogni angolo del globo. Gli ultimi rantoli di vita organica sono osservati dal sole che fa capolino sullo sfondo. Un sole che non per questo ha smesso di sorgere. Ci ritroveremo, non so dove, non so quando, sotto il sole, canta Vera Lynn. Ho sempre pensato alla fine del mondo come a un evento non privo di grazia, uno spettacolo terminale eccitante e commovente al tempo stesso: lo stesso sogno che deve avere avuto Kubrick. Chi non ricorda le immagini dell’abbattimento delle Torri gemelle? Chi ha potuto cancellare dalla memoria quel groviglio di meraviglia, ammirazione e sgomento?

Così ho sempre immaginato la fine del mondo, dopo la visione di quel memorabile film. E così deve essere andata, su per giù, anche nel nostro caso. Chi può dirlo.

Un attimo prima eravamo lì che con i nostri discorsi mandavamo avanti brandelli di, ehm, civiltà, e un attimo dopo andava in scena l’annichilimento di quella stessa, ehm, civiltà. A Tomas e ai suoi informatori (chiunque fossero) non doveva essere sfuggito che l’asteroide nascondeva dietro di sé, nella sua orbita più recondita, un pullulare di altri corpi celesti, piccoli satelliti dall’immane potenza distruttiva. Una vera gragnola di colpi si è abbattuta su di noi. In poche ore tutto era finito. Immagino un fumo denso e cupo che si alza dal suolo spogliato di ogni forma vitale. Un freddo glaciale che avvolge la crosta terrestre. Un silenzio assordante. E l’occhio imperturbabile di Dio che, come un faro puntato, passa in rassegna le macerie.

Qualcuno si domanderà: ma se la Terra non esiste più e io non ci sono più, come ho potuto raccontare questa storia? Forse la verità è che da qualche parte ci sono ancora. L’uomo non sparirà mai. Cambierà aspetto. Natura. Ma ci sarà sempre, da qualche parte. Lassù. A trasformare l’ordine in disordine. Perché una cosa è certa: finché ci sarà spazio per Dio, continuerà a essercene anche per l’uomo. E viceversa. Uomo e Dio: due nomi, una sola cosa. Un solo meme, avrebbe detto Leo.