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Filosofia della natura
E così, a metà del mio diciottesimo anno, non avendo affatto disimparato a scrivere [ vedi la mia firma nella fig. 12] dall’umiliante conclusione della mia istruzione scolastica – quando ne avevo soltanto dodici – cominciai la mia educazione secondaria in una lingua in cui «non davanti ai bambini» era l’unica espressione che riuscissi a ricordare. Allo stesso tempo, mio padre mi chiese quale tipo di carriera volessi fare, e io decisi che mi sarebbe piaciuto diventare un giornalista. Mi allettava l’idea di essere mandato in luoghi esotici per parlare di eventi emozionanti. Il fatto curioso è che non mi passò mai per la testa che magari sarebbe sorto qualche problema linguistico.
Mio padre, astutamente, mi rispose che per lui sarebbe andata bene qualunque cosa, purché prima prendessi una laurea. Per prima cosa bisognava ottenere lo School Certificate, ovvero il certificato scolastico rilasciato dalla commissione d’esame congiunta delle Università del Nord che mi avrebbe consentito di accedere a un ateneo entro la fine dell’anno accademico. Non sarebbe stato possibile conseguirlo attraverso il normale sistema scolastico, anche se anch’io ero un’anomalia, dal punto di vista educativo, e magari avrei potuto ottenere l’ammissione.
La porta posteriore dalla quale mio padre riuscì a farmi passare fu uno squallido college con indirizzo commerciale, che offriva per lo più una formazione nel campo della stenografia, oltre a corsi intensivi per studenti che in precedenza non erano riusciti a rimediare il certificato scolastico. Con una o due eccezioni (altri relitti ambulanti dopo il trambusto portato dagli anni di guerra), i miei compagni non erano le stelle più brillanti del firmamento scolastico, ma gli insegnanti apprezzavano molto la mia maturità e il mio entusiasmo. Mi resi conto di quanto dovessi apparire esotico ai miei nuovi amici, quando uno di loro – un ragazzo del Lancashire che aveva circa due anni meno di me – osservò quanto dovesse essere stato difficile, per me, imparare a mangiare con la forchetta e il coltello!
Uno degli effetti del mio fascino straniero fu che ricevevo spesso inviti a feste nei fine settimana dalle tante ragazze che erano nella mia classe. Mio padre doveva essersi allarmato, se è vero che la sua reazione fu lasciarmi con discrezione un preservativo sulla mensola del caminetto, con la sommessa indicazione che non era «ancora pronto per diventare nonno». Per inciso, quello fu l’unico frammento di educazione sessuale che ricevetti da lui in tutta la mia vita. Aveva giustamente immaginato che non sarei stato in grado di comprare una cosa del genere, ma si era del tutto sbagliato nel supporre che ne avrei avuto bisogno. A quel tempo, a causa dei miei limitati contatti negli anni della guerra, ero molto timido, impacciato dal punto di vista sociale e portato ad arrossire con grande facilità. Mi ci vollero diversi mesi, prima di smettere di guardare le ragazze come creature di un’altra dimensione.
Vorrei poter dire che lavorai duro: sarebbe qualcosa di cui andar fieri. Ma non sarebbe la verità. Ero stato privato dell’apprendimento per così tanti anni che incameravo qualunque informazione interessante come un suolo riarso assorbe il primo acquazzone. Facevo una cosa che desideravo profondamente, e non la facevo solo per passare gli esami, ma per iniziare a colmare un pozzo senza fondo di curiosità che era rimasto frustrato per troppi anni. Elaborai una bizzarra teoria, per cui la mia mancanza d’istruzione, stranamente, poteva essersi rivelata un vantaggio, perché la voglia di imparare non mi passava mai. Ecco la prova: nonostante mi mancasse metà del primo trimestre e avessi il peso aggiuntivo di dover imparare la lingua, ottenni lo School Certificate con lode dopo appena sedici settimane di lezioni effettive, in tutte le materie scientifiche, in letteratura inglese, in matematica pura e applicata e, cosa non certo sorprendente, in tedesco. Ottenni poi buoni risultati in tutto il resto, compresa la lingua inglese.
Forse dovrei fare qui cenno alle insidie del considerare le commedie di Shakespeare come materiali per l’apprendimento dell’inglese da parte degli stranieri: solo facendo caso alla reazione di chi ci ascolta, infatti, ci si renderà conto che, per esempio, «bontà divina» è un’esclamazione passata di moda, o che «miserabili canaglie» si è, alquanto illogicamente peraltro, evoluto in «bastardi». L’eccezione più sorprendente ai miei brillanti risultati all’esame fu una misera sufficienza in ceco, lingua che parlavo fluentemente. Secondo mio padre, fu una vendetta dell’esaminatore, anch’egli proveniente dalla Cecoslovacchia, che detestava l’idea di dover rientrare in patria a breve.
Sulla base di questa esperienza, sono arrivato alla conclusione che non rendiamo un gran servizio ai nostri figli costringendoli a iniziare la loro istruzione quando sono ancora troppo piccoli. C’è il rischio che almeno qualcuno veda frustrato il proprio desiderio di studio e di apprendimento. Tutti noi, all’inizio, abbiamo un’innata curiosità e sete di sapere, ma penso che questa possa venire soffocata, se facciamo sentire i bambini costretti a coltivarle. Nel momento in cui trasmettiamo loro il messaggio che l’istruzione, che implica ore di noiosi compiti a casa, è fondamentale per coltivare le loro future carriere, a cui noi siamo legittimamente interessati, la gioia di imparare può andare perduta per sempre.
Se è vero che nessuno dimentica un insegnante stimolante, dev’essere perché ce ne sono pochi. Prima della laurea, ne conobbi soltanto uno. Successe grazie a una svista di mio padre, o magari per la sua – peraltro irragionevole – fiducia nelle mie capacità. Immagino che desiderasse che studiassi chimica, e sospetto che fosse motivato in parte dal desiderio che seguissi le sue orme, e in parte dall’ambizione che, a tempo debito, mi spossassi con la figlia del presidente dell’ ICI 11* o di qualche altro barone dell’industria chimica. Segue qui la storia di come fallii da entrambi i punti di vista, e infine divenni un fisico. La chimica, e in particolare la chimica organica, negli anni Cinquanta dipendeva moltissimo dall’avere buona memoria, mentre io fin dall’inizio preferii di gran lunga capire piuttosto che memorizzare, anche in considerazione delle amnesie che avevo sviluppato durante periodi che non volevo riportare a galla dal mio subconscio.
La svista di mio padre fu quella di iscrivermi sia a Matematica che a Matematica applicata – una materia più del necessario, per ottenere lo School Certificate (un surplus ulteriormente incrementato dalle mie due lingue straniere). Quando emerse che il mio scalcinato college a indirizzo commerciale non aveva nessun docente in grado di insegnare la matematica applicata, mio padre mi iscrisse ad alcune lezioni serali extra presso quello che allora si chiamava Bolton Technical College. E lì rimasi affascinato da un giovane professore di matematica che capiva e amava veramente la sua materia. In tasca teneva lapis tanto appuntiti da sembrare spilli, e riusciva a disegnare dei cerchi perfetti a mano libera. La matematica, la meccanica, l’idrostatica e le proprietà della materia, spiegate da lui, apparivano sempre così logiche ed evidenti che non c’era mai bisogno di ricordare nulla.
Non mi ero ancora imbattuto nell’algebra o nei numeri negativi, ma nel giro di poco tempo cominciai a divertirmici. Ricordo una volta in cui rimasi intrigato dal problema di quante strade potessero costruirsi tra un numero arbitrario di città.
Avendone ricavato un’equazione, fui sorpreso nell’osservare che il numero di vie rimaneva positivo per alcuni numeri negativi di città; inoltre, ci poteva essere una strada collegata a meno una città. Il grande merito del mio insegnante, non lo dimenticherò mai, fu di non mettersi a ridere quando gli chiesi che potesse mai significare una cosa simile; anzi, prendeva sul serio i miei giochi!
Tutto questo portò a una svolta nella mia vita. Qui c’era un mondo di calma e profondità infinite, del tutto separato dal tumulto delle emozioni umane, in cui era possibile portare alla luce verità profonde sulla natura partendo da semplici esperimenti e calcoli matematici. Questo mondo offriva uno scenario illimitato di enigmi cosmici… un mondo di logica e bellezza, dove le emozioni e le sofferenze umane erano, per fortuna, del tutto irrilevanti.
Forse uno avrebbe perfino potuto guadagnarsi da vivere, sia pur modestamente, cercando di risolvere rompicapi predisposti da un’autorità suprema, quasi un’attività religiosa. Quanto a me, avevo trovato la mia via di salvezza dagli sconvolgimenti della mia infanzia.
Con il mio inesistente retroterra educativo, non potevo essere ammesso subito agli studi universitari. Inoltre, credo che il governo, dopo la guerra, avesse anche imposto una quota obbligatoria di personale proveniente dalle forze armate, negli atenei. Per fortuna, la London University allora adottava una politica illuminata per conseguire lauree a distanza, e i corsi presso istituzioni minori potevano essere riconosciuti per prendere un titolo presso l’ateneo. Mi iscrissi come studente esterno al South West Essex Technical College di Walthamstow, per conseguire prima il Bachelor of Science 12*, e quindi, un anno dopo, quello specialistico in Fisica. Passato il primo anno, e dopo essere stato interrogato dal suo Comitato educativo a Chelmsford, il Consiglio della contea dell’Essex mi concesse un’importante borsa di studio per il mio mantenimento.
Nello stesso periodo, mio padre aveva rotto con la Manchester Oil Refinery, per questioni inerenti a certi diritti di brevetto, credo, e divenne chimico responsabile di una neonata compagnia di Harlow. Qui creò un nuovo laboratorio in una zona industriale, con l’obiettivo di realizzare prodotti nel campo della chimica degli alimenti e degli adesivi. Quando c’era tempo, ero libero di armeggiare nel nuovissimo laboratorio. Il titolare della società acquistò la Rowneybury House nella vicina Sawbridgeworth e concesse a mio padre un villino, che in precedenza doveva essere stato il cottage del portiere, dove avremmo potuto abitare.
Per organizzare tutto questo ci volle moltissimo tempo, e intanto io e mio padre ci trasferimmo spesso da una pensione all’altra, nelle zone di Woodford e Wanstead.
Ogni giorno lavorativo dovevo spostarmi per raggiungere il college, ma in compenso fu allora che scoprimmo lo splendore della foresta di Epping, per le nostre passeggiate dei fine settimana, che generalmente duravano tutto il giorno. Partivamo la mattina con dei panini e camminavamo fino al tramonto, ripristinando un amatissimo rituale della mia infanzia.
Lui non si stancava mai di sentirmi parlare delle nuove cose che scoprivo nello studio della fisica, e trascorrevo molte ore a condividere con lui emozionanti percezioni: per esempio, come si potessero misurare le distanze con la risoluzione della lunghezza d’onda incredibilmente minima della luce, semplicemente tramite l’ausilio di qualche pezzo di vetro e dell’interferometria. O ancora, gli stupefacenti voli pindarici impliciti nelle teorie della relatività e dei quanti, che divergevano completamente dall’esperienza quotidiana e gettavano luce sui princìpi fondamentali del nostro universo. Mio padre ascoltava sempre con sincero interesse e con un po’ di rammarico, per essersi perso tutto questo, quand’era giovane. In quale altro campo dell’attività umana si è assistito a una simile esplosione di conoscenza nell’arco di una sola generazione?
Dal punto di vista sociale, poi, c’erano dei vantaggi inaspettati a frequentare il South West Essex Technical College. Tra gli studenti, quelli dediti alle materie scientifiche erano una minoranza. Il nostro corso specialistico di Fisica era seguito da sette universitari (di cui solo due vennero promossi, e quell’anno eravamo considerati un gruppo particolarmente promettente).
Incontrai una splendida ragazza che studiava inglese, francese e geografia, con cui avrei trascorso quasi sessant’anni della mia vita, avendo insieme a lei tre figli adorabili, finché non morì, due anni dopo le nostre nozze d’oro.
Dopo che la conobbi, ci furono meno escursioni del fine settimana e più passeggiate postprandiali, con mio padre. Jill gli piaceva abbastanza, credo… del resto, il contrario sarebbe stato impossibile. Ai suoi occhi, aveva solo un grosso difetto: non era certo la figlia del presidente dell’ICI e, quanto più si prolungava la nostra relazione, tanto più lui temeva che perdessi un’opportunità simile. Così non divenni un chimico (anche se studiai chimica fino al conseguimento del Bachelor of Science) e non trovai moglie nelle alte sfere dell’industria chimica.
Mi ci volle un po’ di tempo per rendermi conto, con un certo stupore, che sono veramente in pochi a vedere il mondo come me; la maggior parte degli altri si accontentano di usare telefoni, orologi, radio, computer, senza il benché minimo bisogno di sapere come funzionano. Non che io voglia fare proseliti, da questo punto di vista. Infatti, quando poi sono diventato un accademico, ho sempre rifiutato di incoraggiare gli studenti che venivano a chiedermi se dovessero restare all’università per fare ricerca. Dicevo loro che ciò significava avere pochi soldi e rimandare la scelta di farsi una famiglia. E che, se avevano bisogno di chiedermelo, allora avrebbero fatto bene a non seguire quella strada.
Venivo da una casa piena di musica e poesia, e per molti anni continuai a scrivere versi per mio padre, il giorno del suo compleanno. E amo ancora l’arte, ma solo per il mio piacere, e da spettatore. C’è una differenza enorme tra le arti e le scienze. In campo scientifico, non è necessario essere dei geni per aggiungere dei frammenti piccoli ma pur sempre utili alla conoscenza universale e partecipare allo splendore della comprensione globale: da qui deriva la verità intuitiva che, stando sulle spalle dei giganti, si può arrivare a vedere più lontano di loro.
Scoprii come questo non fosse solo un luogo comune mentre ripassavo in vista del mio esame di Fisica. Poiché non potevo affidarmi alla memoria per ricordare le implicazioni matematiche della fisica teorica – una parte molto importante dei nostri esami – chiudevo sempre i libri e cercavo di dedurle dai princìpi generali. Questa operazione aveva tre possibili risultati. Il più delle volte mi bloccavo… dopodiché mi giungeva in soccorso, come un’indelebile rivelazione, l’approccio elegante di questo o quel “gigante”. A volte avevo la soddisfazione di giungere da solo alla stessa conclusione. Molto raramente, me ne uscivo con un procedimento alternativo: era una specie di trionfo per uno studente non ancora laureato.
Tutti questi risultati, peraltro, mi davano una grande soddisfazione ed erano indimenticabili (il che, dopotutto, era lo scopo di tale esercizio).
Così divenni un fisico, e la ragione principale fu la travolgente grandiosità delle rivelazioni che quella materia sapeva offrire, che facevano sembrare tutto il resto una cosa banale, in confronto. Anche se magari non era possibile essere sempre all’avanguardia, si poteva comunque seguire e capire. Quale poesia poteva paragonarsi all’incanto del comprendere di essere fatti di polvere di stelle, veri e propri figli dell’universo? Quale altra materia riesce a mettere insieme logica, filosofia, poesia e religione? Per prendere a prestito le parole di Kip Thorn, «lo straordinario potere della mente umana – sia pur a singhiozzo e tra vicoli ciechi e balzi intuitivi – di sciogliere le complessità del nostro universo e di rivelare la suprema semplicità, l’eleganza e la gloriosa bellezza delle leggi fondamentali che lo governano».
Mio padre morì all’età di novant’anni. Aveva partecipato alle cerimonie della Royal Society legate sia alla mia affiliazione come docente del college, sia, in seguito, al conferimento della medaglia Rumford. E credo che queste e altre simili occasioni lo aiutarono a riconciliarsi con l’idea che io avessi scelto di studiare fisica, invece di chimica. Nei suoi ultimi anni, vivevamo su due lati opposti di Richmond Park, e nel fine settimana potevo andare a trovarlo in bicicletta. Camminavamo nel parco, che è pieno di vecchie querce. Sono stato fortunato, ad avere mio padre vicino a me per tanta parte della mia vita.